Il possibile “realismo” di Merleau-Ponty e la valenza metafisica del suo anti-idealismo

1. Introduzione

Il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty (MP) ha segnato un momento davvero cruciale della riflessione susseguita alla fenomenologia husserliana. Ma la sua opera si pone però anche sulla scia dell’ontologia heideggeriana, e ciò sia direttamente sia anche per mezzo del suo confronto con la visione di Jean-Paul Sartre. Più generalmente però il suo pensiero si pone nel bel mezzo di un processo di progressiva transizione dalle ultime fasi dell’idealismo europeo fino a quella complessiva visione filosofica che oggi si è attestata sulle posizioni di un realismo ormai davvero spinto agli estremi1. Quest’ultima visione deve essere considerata «realista» nel senso specifico di una resa del filosofo all’ammissione che l’essere (mondo) è solo caos, puro evento ed infine manifestazione di un radicale «altro» rispetto all’identico (o soggetto). In sintesi si tratta della Vita ammessa nella sua totale “ineffabilità” (“Unaussprechlichkeit”)2. È stato sottolineato che in tale percorso sia l’idealismo (centralità dell’uomo e della persona) che il realismo (centralità della cosa) sono stati superati in valore e senso dalla rilevanza conoscitiva attribuita ormai alla sola realtà mondana; colta così nella sua unità, totalità e vincolante valenza ontologica. Questa insomma va considerata la nuova ontologia, ed anche la nuova metafisica – visto che i principali protagonisti della svolta realista della filosofia (Bergson, Simmel, Wittgenstein, Lévinas, Marion, Derrida e Deleuze), religiosi o meno che essi siano, attribuiscono comunque al proprio pensiero il carattere di una riflessione metafisica.

Ed in tal modo è avvenuto comunque un superamento totale del ruolo, senso e valore prima affidati alle «singolarità» ontiche in generale (gli «enti» che si delineano nell’«essere») – soggettive o oggettive che fossero. E queste singolarità sono poi ciò che vedremo MP identificare come le entità «positive» concepite in genere dall’idealismo. Tuttavia la prevalenza ormai concessa ad una totalità ontologica caotico-vitale, a-personale ed a-singolare, il mondo, o anche l’«essere» stesso – colto come un vertiginoso Trascendente collocato nella più piena immanenza –, può essere in un certo senso intesa proprio come un realismo. E ciò principalmente nel senso di un’ontologia immanentista (radicalmente avversa a qualunque forma di trascendentismo), la cui forma è quella di una Totalità mondana, in cui ogni ente nasce ed è irrimediabilmente immerso, ma senza che ciò configuri alcun senso ed alcun ordine razionale. È per tale motivo che – in base a quanto poi andremo esponendo – noi riteniamo che anche quella di MP possa essere considerata una visione realistica; più precisamente nel senso della da lui affermata prevalenza assoluta del «visibile» sull’«invisibile». In ogni caso, quale continuatore critico dell’opera di Husserl3, il pensatore francese può essere altrettanto considerato il sostenitore di un certo perdurante «idealismo» pur nel contesto del tendenziale realismo da lui sostenuto.

È sulla verifica di tale ipotesi che incentreremo la nostra indagine testuale. Tuttavia, prima di addentrarci nell’analisi dei punti più significativi della visione di MP – nel contesto dello sviluppo filosofico appena accennato –, crediamo che si debba tentare di dare un volto storico più preciso al realismo andatosi progressivamente affermando in filosofia. Ebbene, si tratta di una riflessione che sembra essersi ormai districata anche dai limiti di quell’universo di pensiero che intanto già era andato sovrapponendosi all’idealismo fenomenologico ed all’ontologia esistenzialista. Cosa che è avvenuta con la straordinaria fioritura della filosofia analitica, del linguaggio e della mente – tutte filosofie radicalmente critiche4. In esse infatti era prevalsa una sostanziale posizione critica, che svuotava l’intera filosofia (segnatamente quella idealistica, ma coinvolgendo anche quella realistica) dell’effettiva realtà degli enti interiori da essa contemplati, e considerati poi anche punti di riferimento fondamentali per la conoscenza ed il pensiero dell’essere. La scure della demolizione trovava comunque il suo effetto più decisivo nella presupposizione che in verità tali enti non sussistono se non nel contesto delle regole puramente intrinseche che governano qualunque attività mentale; e specificamente in relazione alla loro dimensione espressiva (linguaggio e quindi proposizione). E bisogna dire che a questo genere di critica si riallaccia non poco anche lo stesso MP. In ogni caso si è trattato in qualche modo con ciò di una sorta di seconda riforma di tipo kantiano, condotta sulla totalità del pensiero filosofico. La conseguenza di tale operazione è stata infatti una vera e propria demolizione di quelle che fino a quel momento erano state le stesse (mai consapevoli, tematizzate, enunciate ed ammesse), regole del gioco più intime ed essenziali della filosofia. Veniva insomma affermato che la filosofia – nel perenne oscillare storico delle contrapposte visioni (con il quali ci si aspettava intanto il progresso del sapere) – aveva di fatto solo del tutto inconsapevolmente «giocato». L’esigenza che così emergeva in modo molto prepotente era insomma quella di una radicale ed ultimativa demolizione dell’intero edificio della filosofia come disciplina e come metodo. Ed anche di questa esigenza MP sembra farsi portatore.

Ma l’effetto ultimo di tale complessiva azione veniva ad essere di fatto l’esautoramento di qualunque forma (anche solo larvata) di idealismo, a favore di un realismo ben più pieno ed unilaterale di quello usuale in filosofia. Esso voleva insomma ormai essere un realismo assoluto ed incondizionato, ossia non più concepibile come mero alter ego dell’idealismo. Ecco che allora, da tale punto di vista, l’inconsapevole gioco della filosofia appariva essere stato condotto in primo luogo proprio dall’idealismo. Il nuovo realismo tentava quindi sostanzialmente di sottrarre l’essere alla costante presa esercitata su di esso proprio da parte della filosofia colta in questo suo dominante atteggiamento idealista. Ed il nucleo stesso del gioco appariva quindi essere consistito in una presa di posizione, in forza della quale si ammetteva universalmente (ed in modo dogmatico) che il pensiero – che intanto però solo si trastullava con sé stesso (entro le naturali regole che lo governano) –, potesse costituire addirittura l’essere nella sua più autentica pienezza (la “res cogitans”). Ed inoltre, come tale, potesse anche letteralmente forgiare in sé stesso gli enti pieni (intelligibili) la cui esistenza invece il mondo esteriore non poteva in alcun modo vantare.

Pertanto il realismo costituitosi dopo la demolizione di questa posizione, costituisce una visione che in primo luogo mira a restituire all’essere immanente (quale Vita e Mondo) la sua più totale ed inalienabile pienezza ontologica. Ed è evidente che tale aspettativa oltrepassa decisamente tutte le pur continue tarature tendenzialmente realiste delle ambizioni del soggetto (a fronte del vincolo dell’«esperienza»), che nell’intera filosofia moderna erano continuamente avvenute. Paradigmatica è quella di Kant, che condiziona il mondo soggettivo all’esperienza5. Ma lo è anche quella di Husserl, che rinsalda l’atto di coscienza a quell’oggetto intenzionale, in forza della quale l’idealismo ambisce ad essere realista. Il realismo si riassumerebbe qui, allora, nell’aspirazione a puntare direttamente alle cose intese quali “fenomeni” e non più invece come enti (“zur Sache selbst”).

Ebbene, di tutto questo, però, l’estremamente attuale realismo filosofico ha evidenziato chiaramente l’inconsistenza. E vedremo che MP si adopera egli stesso non poco in questo senso. Pertanto ciò che scaturisce da questo complessivo movimento di pensiero è un essere immanente, mondano e corporeo-materiale, sul quale il soggetto non può vantare più in alcun modo il benché minimo diritto. Né il realismo tradizionale ha alcun diritto di ritagliare in esso delle «cose» sensibili, attribuendo poi proprio ad esse la valenza di fondamentale «essere». Ma non a caso, entro la critica, ciò comporta anche un’erosione del diritto di progenitura della filosofia nella conoscenza, in un atto critico che sembra anch’esso già giunto al suo compimento. Anche se paradossalmente è la Filosofia come disciplina a farsene protagonista. È infatti la presa di posizione filosofica stessa, ciò che viene posto ormai radicalmente in discussione rispetto alla questione dell’essere e del mondo. Come poi vedremo presso lo stesso MP, nulla viene più in alcun modo “posto”, ma viene invece solo sperimentato. E ciò avviene peraltro senza che nessuna delle proiezioni pensanti della filosofia abbia più alcun valore nel definire il piano ontico della conoscenza, cioè il pieno mondo. Di conseguenza con ciò lo stesso concetto di «essere» subisce un drastico ridimensionamento; e così l’ontologia assume una veste del tutto nuova. Pertanto, ciò che così abbiamo davanti nel conoscere, è ormai un oggetto di esperienza sul quale alcun elemento interiore ha la minima presa nel senso della «costituzione». Meno che mai al modo statuito da Kant rispetto all’esperienza. E l’elemento centrale e fondamentale della natura ed essenza di tale oggetto è quello che esso semplicemente ci contiene come enti pensanti. Non si tratta quindi più affatto dell’oggetto così come concepito dal tradizionale realismo – esso infatti restava fuori di noi, ossia sotto i nostri sensi. Ma inoltre nell’attuale realismo estremo, l’oggetto ci contiene in una maniera che non ci distingue più in alcun modo dagli altri enti, viventi o inanimati che essi siano.

In termini gnoseologici l’azione così portata a termine è dunque quella di una radicale de-antropologizzazione dell’ontologia. E pertanto è inevitabile che l’estremismo del realismo in tal modo affermato consista nel fatto che ormai il piano di azione conoscitiva della Filosofia coincide pienamente con quello della più avanzata Scienza naturale. Il loro oggetto di indagine è insomma esattamente identico. È cioè null’altro che la Natura, concepita ormai come un radicale Assoluto.

E, dato che essa è stata ormai svincolata dall’aspirazione ordinante ed elevante che da sempre la filosofia aveva voluto esercitare su di essa – prima di ammetterla a proprio oggetto di conoscenza – la Natura si presenta ormai nella sua dimensione immediata e quindi selvaggia (Vita e Caos).

Ossia si presenta come un Caos che non ammette più alcuna riduzione prima di poter essere ammesso ad essere conosciuto. Esso infatti esige di essere conosciuto proprio così com’è.

Non a caso anche la più avanzata Scienza naturale (fisica e matematica ultra-atomiche, unitamente alla connessa cosmologia) ha ultimamente deposto qualunque aspirazione alla usuale razionalizzazione matematica del proprio oggetto di conoscenza. La matematica si è fatta ormai asintotica e contemplativa.

Ma qualcos’altro crediamo si debba comunque ancora dire di alcune specifiche prese di posizione dell’estremo realismo filosofico di cui stiamo parlando. Innanzitutto va posto in evidenza un suo incontestabile merito, e cioè quello di aver portato a compimento un vasto e composito movimento di reazione all’ultimo idealismo filosofico, quello fenomenologico – nelle figure di pensatori come Heidegger, Scheler6, parte della scuola husserliana7 (con tra gli altri Edith Stein) –, che si mosse più o meno intorno a questioni critiche come quelle del «mondo fuori di noi», del «solipsismo» ecc. L’assetto dato da Husserl all’antica aspirazione idealistica cartesiana era stato di certo estremamente avanzato (specie nel contemplare un oggetto intenzionale costantemente presente alla coscienza per mezzo dell’intermediazione del corpo, e con il configurarsi in tal modo di un idealismo realista). E tuttavia restava l’ostacolo insormontabile della riduzione fenomenologica (quale metodo imprescindibile), di tutto quanto era mondano e reale, all’Io puro. E ciò permetteva un realismo solo nei termini molto relativi e ristretti posti dal «qoad nos» – io colgo, come soggetto, effettivamente un ente reale da me indipendente, ma solo nella misura in cui esso è ormai immanente alla coscienza nella sua forma intelligibilizzata. Tale problema attendeva insomma ancora una soluzione. Ed essa si è presentata effettivamente solo nel realismo estremamente spinto che si è progressivamente delineato dopo il tramonto dell’idealismo. Ciò significa allora che non vi poteva essere una vera soluzione al problema che non fosse davvero estremistica; e non riaffermasse quindi che l’indipendenza dell’oggetto dal soggetto (del mondo dallo spirito, e dell’essere dalla conoscenza) è da considerare effettivamente letterale ed assoluta. Ossia essa è assolutamente ovvia e scontata proprio come appare anche all’uomo comune – da sempre sconcertato dalla fondamentalità assunta dall’idea che l’essere sia fondato nel pensare (cogito).

Ci sembra che l’estremismo del più recente realismo consista proprio nel far suo, senza più la minima inibizione, anche questo ingenuo punto di vista. E lo riscontreremo anche in MP.

In altre parole il «mondo fuori di noi» è esattamente come esso si presenta nel pieno dell’ingenuità naturalistica; e in fondo anche in quella che Husserl definisce come l’ingenuità dello scienziato della Natura8.

Proprio per questo ultimo aspetto accade pertanto che sembra ormai decisamente caduta quella barriera tra filosofia e scienza della Natura, che – come ci fa notare Rorty9 – aveva come suo nucleo il concetto di “mente”. Concetto che però non sarebbe assolutamente più ammissibile entro il moderno realismo filosofico-scientifico – il quale riconosce invece solo un cervello. Infatti, idealistica o realistica (empirismo sensista) che la filosofia sia stata, essa aveva comunque anteposto la rappresentazione (con la connessa percezione sensibile) alla cosa presa così com’è nel contesto dell’essere mondano e naturale. Proprio Rorty statuisce pertanto il definitivo collasso del concetto di mente (con tutto l’idealismo da esso comportato), e quindi la cessazione di qualunque condizionamento da esso esercitato sulla conoscenza delle cose. Ed ecco allora che – dopo che la filosofia analitica aveva reso disponibile una vera e propria topologia della cognizione (coinvolta come specifico «linguaggio» nel pieno del logos filosofico), ancorando ad essa come base elementare qualunque argomentazione (inchiodata così alle leggi della logica più ancora che presso Aristotele) – è emersa una dottrina cognitiva che vuole esplorare la mente senza più alcuna barriera tra dimensione filosofica e scientifico-naturale. Assistiamo così al curioso fenomeno di scienziati empiristi della mente che, dopo essersi dedicati ad un sufficiente numero di esplorazioni sperimentali del loro oggetto (nelle quali hanno costantemente ritrovato nella filosofia della mente il fedele corrispettivo dei dati da loro evidenziati), si sentono nel pieno diritto di dichiararsi «filosofi». E questo ci sembra poi il lato più deteriore del realismo di cui stiamo parlando. Questo sviluppo della filosofia sembra insomma configurare esattamente quello scenario che Platone aveva cercato di scongiurare, sbarrando il passo ai sofisti quali cinici professionisti e tecnici del pensiero. Ma la filosofia ormai completamente equiparatasi alla scienza cognitiva, non è ormai altro che questo, ossia è pura tecnica del pensiero. Ed in tal modo essa concorre all’inevitabile risvolto di quello che è carattere negativo della scienza moderna – come messo in luce da Hans Jonas10 –, e cioè l’inscindibile legame esistente tra “pensare” (o “sapere”) e “fare”; ossia la continuità imprescindibile della pura teoresi scientifica con la sua applicazione tecnologica.

E così, con l’attuale deriva iper-realistica, noi assistiamo alla seconda grande debàcle della filosofia – in relazione ai dettami platonici –, ossia il suo rovinoso franare nell’utilitarismo. Per essere comunque più concreti ciò significa insomma che ormai la filosofia ambisce a concorrere con la scienza nella progettazione dell’intelligenza artificiale, e quindi si ritiene di fatto direttamente coinvolta nella tecnologia robotica e della generazione poco a poco di umanoidi artificiali. Questo però potrà accadere solo al prezzo della perdita totale della sua vera identità.

Non crediamo che si possa comprendere il vero senso del realismo filosofico attualmente all’opera se non si tiene conto di questi fattori. Per un verso, infatti, esso potrebbe apparire come il vero e proprio benvenuto ritorno della filosofia ad una ragionevolezza e ad un’umiltà che effettivamente non erano mai state sue. Ma in verità si tratta molto più di un suo tracollo rovinoso. In quanto esso cade in una situazione nella quale invece più che mai sarebbe stato necessario un contro-bilanciamento dell’ormai esplosiva autorità della scienza empirico-tecnologica da parte dell’autorità di una filosofia salda e indipendente. Non a caso Jonas11 ha auspicato addirittura una sorta di «governo di filosofi» da mettere a capo degli organismi politici deputati al controllo dell’attività scientifica. Ed è più che chiaro che non si può trattare assolutamente dei filosofi che sono protagonisti del realismo appena descritto.

Va comunque considerato che nel contesto del realismo appena descritto sussiste comunque ancora un’esplicita ontologia (in senso tradizionale) che per alcuni sui aspetti è anche addirittura un’onto-metafisica (Lévinas, Marion) e perfino anche un’onto-teologia (Hart, Falque, Henri, Janicaud)12. Sta di fatto però che essa vuole essere una metafisica proprio in quanto si dichiara più o meno radicalmente anti-idealista. E quindi suona abbastanza strano il suo richiamarsi (in alcune sue voci) proprio alla «riduzione fenomenologica» husserliana. Sebbene comunque nei fatti essa si mantenga più che altro nella scia dell’ontologia heideggeriana13. Qui comunque gli elementi distintivi del realismo ultra-moderno (Caos, Vita, Altro, Evento) assumono addirittura la forma di un Assoluto divino che si presenta a noi solo e soltanto sul piano della più radicale immanenza.

E così l’unica davvero decisivo elemento che differenzia quest’altro volto dell’unico realismo moderno dall’altro suo volto (quello analitico-cognitivista e critico), appare essere il forte interesse che esso conserva per l’etica. Laddove essa dall’altro lato è invece presente (quando lo è) solo in maniera estremamente pragmatistica ed anche riduzionista.

2. Il realismo di Merleau Ponty

Su questa base possiamo ora rivolgerci all’analisi dei principali aspetti di quello che può essere considerato il realismo di MP. E per questo ci riferiremo ad un suo testo in particolare, e cioè Il visibile e l’invisibile; opera che il pensatore scrisse poco prima della sua precoce morte. Già il titolo ci mostra chiaramente che per MP l’essere va ormai fatto coincidere solo con il visibile, ed affatto invece con l’invisibile. Questa riflessione, insomma, può essere considerata la constatazione del fatto che, con in crollo definitivo dell’idealismo, non è più in alcun modo possibile pensare ad un essere «invisibile», ossia l’essere ideale o intellettivo o intelligibile. Gran parte dell’argomentazione del pensatore è infatti rivolta non a caso ad avvalorare (specie sulla base di Sartre) la totale equivalenza tra il soggetto conoscente ed il “Nulla”. In ogni caso saremo condotti qui inevitabilmente anche al cospetto della presa di posizione critica del pensatore nei confronti dell’idealismo in generale ed ancora più di quello di stampo fenomenologico-husserliano. Cosa di cui la letteratura prende atto in modo chiaro – e peraltro (Siegel) come specifica critica alla soggettualità^[14]. Per tali motivi la trattazione che faremo di questi temi costituirà una presa in considerazione delle linee più generali della visione di MP (così come ricavabile dal testo da noi studiato). Nella sezione successiva ci addentreremo poi nell’analisi di aspetti più specifici.

2.1. Idealismo, realismo, e idealismo realista

Bisogna anticipare che il pensatore dice in modo estremamente che il suo è non è un realismo, così come non è nemmeno un idealismo14. Non lo è per il semplice fatto che entrambe le alternative per lui si pongono solo quando prima viene teorizzata una distanza tra soggetto ed essere, che invece non sussiste affatto. Non vi è infatti né una coscienza(soggetto) che costituisca il mondo, né un mondo (cosa) che costituisca la coscienza. Vi è invece solo e soltanto un soggetto che, colto nell’atto di percepire, non può che trovarsi totalmente immerso nell’essere mondano. Cosa che avviene in maniera esclusivamente corporeo-sensibile (percezione), laddove poi le prospettive generate da questa posizione costituiscono anche lo spazio orizzontale dell’essere (connotato spazio-temporalmente); e senza alcuna pretesa di averlo in tal modo prodotto al modo della «costituzione» idealistica. L’essere resta infatti come ovvio substrato di tale presenza attiva, senza essa nulla cambi nella sua giustificazione ontologica.

La parte del testo alla quale con ciò ci riferiamo è quella in cui MP viene effettivamente al dunque della sua complessiva esposizione, e ci dice peraltro proprio qui come debba essere intesa la posizione della filosofia nei confronti della “fede percettiva” (che qui vediamo chiaramente all’opera). Ebbene, in che senso possiamo parlare qui di realismo, dato che il pensatore stesso rigetta tale inquadramento della sua visione? Non possiamo certo farlo nel senso classico (che MP identifica molto chiaramente), ma possiamo farlo nel senso di un realismo estremo che ha la capacità di risolvere in sé qualunque tradizionale dicotomia idealismo-realismo. Gardner (vedi note 52 e 57) ci fa non a caso notare che la dottrina dell’inter-soggettività di MP (vedi dopo) si pone proprio al di fuori di qualunque possibile opposizione tra idealismo e realismo. L’insorgere di un essere condiviso con gli altri è quindi qualcosa che non avviene per il concorrere né delle rappresentazioni soggettuali né delle percezioni dei singoli oggetti.

In tale realismo estremo, in verità, ciò che viene a decadere è l’-ismo stesso. Dato che esso sta chiaramente per una presa di posizione unilaterale nel contesto di uno stile di pensiero che, come abbiamo visto, colloca idealismo e realismo ai due estremi di una stessa complessiva aspettativa; e cioè quella che prevede l’atto onto-costitutivo (da parte del soggetto o dell’oggetto). Si potrebbe dunque dire che il realismo qui ipotizzabile è quello che in realtà cancella totalmente qualunque presupposto di un realismo unilaterale. Esso è infatti estremo proprio in quanto lascia emergere il Reale in tutta la sua pienezza incondizionata di campo in cui ogni esperienza viene accolta. Ed entro il quale, quindi, qualunque atto costitutivo (qualunque direzione esso abbia) è ingiustificato in quanto del tutto illusorio. Qui insomma viene sancita l’assoluta primarietà di quell’essere “installati nel mondo”, dal quale è impossibile non partire ogni volta che ci si pone il problema dell’essere e del mondo stesso. Si può pertanto parlare di realismo nel senso di una presa di posizione filosofica entro la quale risulta impossibile che qualunque -ismo venga a ridurre l’intensità con la quale noi avvertiamo incontrovertibile realisticità di qualunque discorso circa l’essere e il mondo. La dimensione che qui domina è insomma solo e soltanto quella del più ovvio ed elementare «in».

MP è comunque ancora più esplicito nel controbattere la possibilità che in filosofia si possa ancora ricorrere ad un approccio idealista. E crediamo valga la pena di prendere in considerazione i luoghi del testo in cui ciò diviene più chiaro. L’appena menzionato essere “installati nel mondo” implica per lui innanzitutto l’esautoramento obbligatorio e totale di qualunque atteggiamento teoretico15. Il primo infatti, ossia l’immersione nel mondo, viene sempre prima del secondo.

E ciò rende qualunque presenza trascendente del tutto irrilevante rispetto alla presenza reale ed effettiva nel mondo da parte del soggetto. MP dice che si tratta con ciò di una “certezza ingenua del mondo” che è dotata di una forza naturale troppo grande per poter venire esautorata da qualunque “tesi”. Ecco allora che le cose decisamente si rovesciano rispetto alla prospettiva idealistica: – l’intelligibile ha ora la sua radice nel mondo, ed è pertanto del tutto impensabile che la sua onticità sia così paradigmatica da essere perfino costitutiva. In tale assetto la posizione idealistica resta in qualche modo comunque conservata – venendo incarnata dal soggetto vedente immerso nel mondo –, ma solo sul piano orizzontale del mondo, ed inoltre senza alcuna ambizione di prodursi in un atto davvero costituente16. Si potrebbe dire insomma che con MP l’idealismo realista trova la sua veste più autentica. Il che rivela poi quanto esso fosse inautentico allorquando ancora concepito nella mera dimensione verticale. Il pensatore descrive dunque la costellazione più veridica come un’”apertura iniziale” al mondo nella quale cessa del tutto l’occultamento del mondo stesso, che invece sempre sussiste quando si concepisce il soggetto al modo di un effettivo «positivo» (ossia come un’effettiva onticità); ed al quale si concede poi anche il privilegio di un atto costituente verticale. E così la pienezza dell’essere si mostra nella sua effettività solo quale «svelamento» di ciò che però sempre già sussiste prima del soggetto; ossia il mondo che lo attende come luogo per un conoscere che è sempre prima di tutto un esistere. Di nuovo qui vediamo emergere i tratti di un sostanziale esistenzialismo. Ma vi è qui anche un primo affondo di MP nel tentare di definire la secondarietà ineluttabile della posizione filosofica. Essa infatti, proprio in quanto “riflessione” (e non percezione), se ne sta appena dietro lo scenario primario or ora illustrato. È esattamente per questo che essa può aspirare a concepire la cosa ideale (cogitatum o noema) come indipendente dalla ben più primaria ed effettiva cosa percepita, in quanto la prima costituirebbe di fatto la seconda (in ente intelligibile). Ecco allora che l’attitudine media irrinunciabile della filosofia, la riflessione, non configura un vero vedere e sentire, ma invece appena un “puro pensiero di vedere e sentire”. È insomma la sanzione della chiara illusorietà dell’approccio idealistico come carattere distintivo del filosofare.

Proprio nel contesto di tali precisazioni possiamo però ritrovare i termini di un idealismo che comunque continua a sussistere (in una certa misura) nello scenario appena delineato17.

E diremmo che l’elemento che ne contraddistingue in modo inconfondibile la presenza è proprio l’atto di percezione. Esso infatti in qualche modo sta addirittura per l’atto di costituzione; ma non senza la previa immersione nel mondo che lo presuppone. In questo senso insomma il mondo nasce effettivamente con l’atto di percezione del soggetto vedente intanto immerso in esso. E, se questo spiazza qualunque idealismo incentrato nella rigorosa separazione tra soggetto ed oggetto (quello che delinea un soggetto quale interiorità), nello stesso tempo non avvalora affatto il contrario, e cioè il dominio assoluto di un’oggettività cosale, la quale prevede un oggetto tutto esteriore (e così all’inverso totalmente estrinseco rispetto al soggetto). Ebbene tale ultima posizione filosofica è quella che per MP sta alla base della scienza empirica – ossessionata com’essa è dall’«oggettività scientifica». Da quest’ultima il pensatore prende pertanto chiaramente le distanze. E questo viene sottolineato in letteratura (Gardner) come un aspetto che può anche differenziare la natura precisa del suo realismo (vedi note 52 e 57). La sua visione non è infatti in alcun modo realista, laddove essa pone chiaramente posizione contro l’empirismo quale fondamentale “realismo” ed insieme “naturalismo”. Ma ciò non significa affatto che egli assuma una posizione anti-scientifica. E ciò non avviene semplicemente perché tale posizione stessa comporta per lui l’idealismo nella forma del porre un soggetto del tutto irrecuperabile alla Natura (lo “spettatore assoluto”). MP non ci parla quindi né di un soggettivismo né di un oggettivismo. Semmai, invece, egli si sforza di ricondurre entrambi in uno scenario in cui ciò che predomina è l’inscindibile commistione e reciprocità «in-mondana» tra soggetto ed oggetto. E tale possibilità ruota ancora una volta intorno al ruolo conoscitivo fondamentale da lui attribuito alla percezione. Ecco che il mondo (l’oggetto percepito) è sempre implicato dal e nel soggetto conoscente-percipiente (il soggetto che pone le condizioni funzionali), invece di essere separato da esso. Così come il soggetto è sempre implicato dal e nel mondo percepito, senza alcuna separazione tra di essi. Ne consegue che non vi è alcuna immanenza dell’oggetto nel mondo di coscienza («oggetto di coscienza»), così come non sussiste affatto la via verticale – afferente al soggetto, ma dal soggetto di fatto proiettivamente generata (intenzione) – che rechi a tale risultato. Vi è invece sempre solo un mondo percepito, nel senso di conosciuto entro una realtà che è sempre solo corporale e mondana. È proprio qui che in MP inizia a delinearsi il ruolo fondamentale affidato alla “carne” quale aspetto fondamentale del mondo oltre che dell’uomo. Il persistente idealismo del quale abbiamo parlato si pone quindi attraverso la costatazione che il mondo non è dato senza un corpo percipiente-conoscente immerso in esso (affatto un soggetto verticalmente separato dal mondo).

E ciò riproduce i termini dell’idealistico «quoad nos». Il mondo dunque sempre solo in-clude il soggetto, invece di subirlo come proprio fondante presupporlo. Ed è così che il pensatore concepisce la “fede percettiva” (quale ineluttabile immersione nel mondo), come quel tratto indelebile di una condizione umana che non si lascia in alcun modo scindere tra l’atteggiamento del filosofo e quello dell’uomo comune o anche dello scienziato. La condizione del primo si segrega quindi meramente nei termini di una collocazione disciplinare-professionale, ed affatto invece in maniera davvero ontologica. Quando infatti tale dimensione ontologica viene chiamata in causa – per definire qualunque entità o posizione che prescinda dalla primaria immersione nel mondo –, allora per MP viene fatalmente a mancare un effettivo «essere». E qui di nuovo egli – pur senza ambire ad essere anti-scientifico – richiama la scienza al rispetto della regola secondo la quale, così come non può esistere un “soggetto assoluto”, allo stesso modo non può esistere alcuno “spettatore assoluto” degli eventi mondani da conoscere (ossia la psiche arbitra dello scienziato).

Discutendo molto ampiamente le relazioni sussistenti tra filosofia negativa (oppure filosofia della negazione, basata sul fondamentale atto di “neg-intuizione”) e filosofia positiva (o “riflessiva”)18, MP ci fa poi intendere tutta l’inconsistenza dell’idealismo, nel senso specifico che l’auto-consapevolezza del soggetto non può in alcun modo stare all’origine di un mondo; e ciò nemmeno quando essa si coordina con l’auto-consapevolezza di un «altro» in veste di soggetto (inter-soggettività). Entrambi sono infatti dei totalmente isolati “ipse” – alieni l’uno all’altro –, che non risultano legati assolutamente da alcunché di soggettivo (solipsismo). E così ogni soggetto non conosce null’altro che un suo mondo privato. L’altro insomma è per me appena un “testimone” del mondo, ossia una reiterazione soggettiva di quella stessa mia consapevolezza del tutto incapace di mettere davvero capo ad un mondo. Dunque, se la presenza dell’altro è (come è) cruciale nel sussistere di un mondo – di fronte al quale poi l’ipse si trova –, ciò avviene solo sul piano della presenza corporea del soggetto. L’altro, infatti, facendo da limite al mio corpo, mi informa di essere un soggetto per mezzo del mondo che solo in tal modo noi condividiamo (“intermondo”) – e così fa di me “carne”, ossia un elemento del mondo. E del resto quel soggetto che è in sé un totale nulla di essere (filosofia negativa) non potrebbe mai consistere onticamente in assenza di tale decisivo apporto. Ancora una volta è dunque solo l’immersione nel mondo l’elemento decisivo per l’insorgere di una dimensione ontologica. Non lo è invece affatto la concomitanza di soggetti conoscenti – che in Husserl19 condividono la stessa rappresentazione di un solo mondo universale. Il fattore decisivo è quindi solo l’”abitare” allo stesso modo il mondo da parte dei diversi soggetti.

E qui risulta evidente come MP rigetti completamente l’unico vero appiglio che nell’idealismo husserliano esiste per il configurarsi nel suo pensiero di un’effettiva ontologia.

Ma in relazione a questo MP sottolinea con forza il ruolo anti-idealista svolto anche da quella filosofia negativa della quale pure egli mette in luce la stretta relazione di dipendenza dalla filosofia riflessiva20. Infatti la dichiarazione della totale nullità ontica del soggetto pone soprattutto un totale Nulla di fronte ad un totale Essere. E quindi non lascia alcuno spazio alla possibilità che il soggetto possa farsi punto di partenza per un’autentica visione ontologica. Infatti, anche quando nell’idealismo si configura un “pensiero dell’essere”, esso (quale pensiero) è nei fatti sempre ben lungi dalla vera postulazione di un essere. Ma le appena fatte precisazioni circa l’intersoggettività – essendo esse stesse in relazione con l’assunto di fondo della filosofia negativa – lasciano emergere una totalità del mondo che permette effettivamente il sussistere di un pieno ed incondizionato concetto di essere. E qui – come poi il pensatore illustrerà ancora più a fondo discutendo la necessità imprescindibile di una visione dialettica21 – il continuo alternarsi tra Nulla ed Essere appare di importanza fondamentale. Infatti qualunque “questo” (determinato) non è in fondo altro che un qualcosa di negativo (una macchia scotomica) che interrompe la continuità dell’Essere. Si può dire allora che l’Essere sussiste pienamente solo quando esso va a ricoprire lo spazio negativo (Nulla), dopo che quest’ultimo si è ritirato. La ben nota questione del «perché qualcosa e non nulla» è da intendere pertanto in maniera sostanzialmente dialettica – dato che in verità i due termini («qualcosa» e «nulla») non sono affatto alternativi, ma sono invece alternanti nel senso di una sempre tendenziale simultaneità ciclica (nella nostra visione vi è ora l’uno, ora l’altro). In altre parole quell’Io (o soggetto) che è un totale nulla, deve il suo esistere come determinato («essere») solo e soltanto all’Essere che esso intanto non è affatto. E tutto ciò avviene proprio entro la totalità del mondo che abbiamo poc’anzi visto emergere. Ci sembra che proprio qui possa essere misurata la giustificazione dell’ambizione di questo pensiero a configurare un’ontologia. Qui infatti – proprio sulla base dell’esautoramento dell’idealismo – emerge di fatto quel concetto di Essere come «Fondamento» dell’esser-ci, che Edith Stein22 aveva lasciato emergere nel suo pensiero nell’allontanarsi dalla Fenomenologia.

Tutto ciò significa allora che il concetto di «costituzione» può essere salvato solo se lo si intende nel senso che l’Essere costituisce quella visibilità del Nulla – il determinato che svela sé stesso solo come nulla nella compagine dell’essere –, che altrimenti (in forza della presenza del solo soggetto) non vi sarebbe affatto. L’impiego del paradigma costituito dalla fisiologia della visione è qui evidente – questa serie di fenomeni infatti è intuitivamente chiarissimo se si pensa alla funzionalità della retina. È infatti essa stessa l’essere e la totalità del mondo entro i quali si staglia in negativo l’oggetto visto.

È evidente dunque che in tal modo svanisce totalmente dall’orizzonte filosofico un qualcosa come l’«ontologia della coscienza». E qui crediamo che stia uno dei momenti maggiori di demolizione dell’idealismo da parte di MP. Infatti il soggetto – nella sua essenza ontica di interiorità – è talmente un nulla, e pertanto dipende talmente disperatamente dall’Essere (esteriore), che non è nemmeno pensabile concepire un’ontologia della coscienza, nella quale poi addirittura risiederebbe la più piena onticità. Ma in tal modo viene totalmente smantellato anche il così naturale delinearsi dell’opposizione in valore tra una questione epistemologica ed una questione ontologica – come essa si presenta di solito entro un idealismo davvero aggressivo. Inoltre, dato che il pensatore ci mostra anche qui come la filosofia negativa abbia il potere di riassorbire di fatto totalmente in sé quella positiva (o riflessiva) – sorpassando decisamente qualunque “pensiero della positività” (insufficiente per definizione), e rappresentando così tanto l’Essere quanto il Nulla –, è evidente che, anche così, viene a mancare totalmente la giustificazione dell’opposizione tra idealismo e realismo. La filosofia della negatività è infatti capace di rappresentare entrambi, e peraltro sia dialetticamente che simultaneamente. Ora però, sebbene in ultima analisi, MP non faccia affatto sua la filosofia negativa, si può assumere in base a questo che la sua visione configura un realismo solo nella misura in cui in essa incide in maniera davvero decisiva proprio l’inestricabile connessione tra Essere e Nulla, e ciò entro la postulazione di un concetto di essere non più condizionato da alcun idealismo.

Inoltre il pensatore ci fa riflettere anche su un altro dei momenti fondamentali dell’idealismo posto di fronte all’ente con l’ambizione di ritrovare nell’interiorità del soggetto l’onticità noematica che più lo rappresenta come “questo”. Si tratta di ciò che MP ci indica nell’affermazione: – “c’è qui una cosa, ecco qualcuno”. In base a quanto visto prima infatti (filosofia negativa), ciò non può avvenire se prima il soggetto non si è sottomesso ad una radicale auto-negazione, ossia se esso non si è prima auto-dissolto per lasciare emergere per davvero un essere (sia pure determinato). E ciò è quanto il pensatore individua come uno degli atti più intensi della filosofia negativa, ossia la “negazione della negazione” (ovvero l’atto di negazione di quel Nulla che già è il soggetto). Viene quindi il sospetto che il concetto husserliano di «intenzione» riveli sotto di sé proprio questa serie di evidenze – l’ente conoscibile che resterebbe sempre sulla linea di mira dell’Io cosciente-conoscente (ossia ai margini della coscienza anche non vigile) appare essere tutt’altro che costituito dalla coscienza stessa. Esso infatti è «già lì» solo quando intanto il soggetto non c’è più. In altre parole – proprio come obiettato ad Husserl da parte di Scheler – la cosa nella sua pienezza emerge solo quando la sua esistenza non è in alcun modo condizionata dal soggetto cosciente. È dunque la coscienza ad avere bisogno dell’onticità della cosa, e non viceversa. Pertanto, non è la presenza della coscienza (ontologia di coscienza) ciò che conta, ma è invece semmai la sua assenza. Ecco che allora la fenomenologia della conoscenza intenzionale appare essere solo successiva, e non invece antecedente e fondante.

Ma tutto ciò emerge in maniera ancora più chiara quando si prende in considerazione nuovamente il ruolo conoscitivo affidato da MP alla visione23. E proprio qui si può dire che egli supera anche la prospettiva della filosofia negativa. In linea con quest’ultima, infatti, si può ben dire che il vedere (qualcosa, o un “questo”, o anche un “così com’è”) è un “nullificare” entro il contesto dell’essere pieno (ossia è riproduzione in esso di una singolarità soggettuale, o determinato). E tuttavia sta di fatto che, entro il relativo atto percettivo, il vedente (che è poi anche il soggetto conoscente) ed il visto sono una sola cosa. Ma il fatto fondamentale di tale fusione è che essa – nel contesto delle “prospettive” insorgenti nel campo visivo – ricostituisce uno spazio ontologico (Essere) nel quale l’atto del vedente non può assolutamente mettere capo ad una nullificazione. E ciò sovverte sia i termini della filosofia negativa sia quelli della filosofia positiva, o riflessiva. Perché qui non vi è alcun nulla soggettuale fatalmente separato da quell’Essere che è il suo radicale opposto ontico.

Né vi è nemmeno un soggetto onticamente positivo egualmente separato dall’Essere in quanto sempre ad esso contrapposto. In tal modo allora la presa di posizione anti-idealista di MP è chiarissima. E ciò in quanto le due prese di posizione illustrare si muovono entrambe con conseguenze idealistiche.

Infine nel contesto della riflessione sulla visione, il pensatore pone in evidenza un ulteriore insufficienza dell’idealismo fenomenologico, e precisamente quello che sta in relazione alla sua ambizione di costituire un idealismo realista24. Egli fa qui infatti diretto riferimento al famoso motto ed imperativo categorico diffusosi nella scuola husserliana su sollecitazione del maestro: – “zur Sache selbst!”. E ciò ci riporta poi inevitabilmente di nuovo al concetto di intenzionalità.

Infatti, ciò che l’idealismo per MP non riesce ad ammettere, è che il soggetto (o Io) non può “andare alle cose” senza dover poi naufragare; ossia senza incorrere in una vera e propria “catastrofe ontologica”. Esso cioè non può mai evitare di diventare una “cosa vista” – ma ciò annienta di fatto la sua aspettativa di partenza. E ciò avviene semplicemente perché esso si muove secondo la falsariga di una visione “pura”, e non invece della visione tout court. Ciò che pertanto per il nostro pensatore avviene in realtà – quando il soggetto si muove verso le cose –, è che esso esce completamente da sé stesso. Ed è esattamente in seguito a tale annientamento che si delinea quindi quell’inter-mondo nel quale sussistono poi due elementi estremamente caratteristici: – 1) la fondamentale “promiscuità” di corpi e spiriti, nel contesto di un totale “molteplice”; 2) una relazione tra il vedente e le cose che è molto più “palpazione” che non invece pensiero. E ciò pertanto vanifica nuovamente (come del tutto inconsistente) qualunque pensiero dell’essere. Laddove poi l’essere stesso si presenta unitario del tutto di per sé – cioè senza alcun apporto costitutivo del soggetto – nella forma di un molteplice trasversale la cui fenomenologia si riassume nel suo «essere visibile».

Infine possiamo ritrovare una vera e propria definizione del realismo laddove il pensatore stringe il nodo della sua riflessione intorno alla questione critica stessa della filosofia25. Il nucleo di tale realismo si rivela infatti consistere in una sorta di immanentismo esistenzialista, il cui assunto principale è la negazione al pensiero (e quindi alla filosofia) di qualunque primarietà e previetà onto-costitutiva. E per questo esso afferma che l’esistere pre-esiste a qualunque sforzo di risolvere ultimativamente il problema del mondo in termini conoscitivi – accingendosi così ad una sua definizione per mezzo dell’ultimativa soluzione di tutte le “incognite” che esso contiene e comporta. Ecco che allora il “mondo” (o anche l’”universo” dei filosofi) è appena il luogo in cui noi siamo “gettati” prima ancora di qualunque nostro atto di pensiero. Ma per questo esso è anche un alieno per definizione. E quindi è qualcosa che il pensiero può rispettare solo nel «lasciarlo essere». E ciò ci riporta (per inciso) ad uno straordinario orizzonte di riflessione metafisico-religiosa (però certamente lontano dagli interessi di MP) di cui è stata testimone Simone Weil26. Non a caso diversi momenti della riflessione del pensatore su questo tema si lasciano ricondurre a questi termini27. Ecco che l’essere nella sua pienezza è per il nostro pensatore un “essere effettivo”, ossia fattico – dunque è l’esistenza stessa. Però solo la percezione (e non, invece, il pensiero) lo lascia essere così come esso è e come solo esso può essere. Ed in tal modo si delinea una “protensione” verso il mondo come l’unico atteggiamento che sia possibile avere verso di esso.

L’immanentismo esistenzialista, nel quale si risolve il realismo di MP, si lascia pertanto tradurre nella necessaria postulazione di un’obbligatoria immersione totale nel mondo, al cui vincolo nessuno si può sottrarre – meno che mai il filosofo. E ciò significa che il mondo è un del tutto naturale infinito di conoscenza, entro il quale è del tutto fisiologico che alcuna incognita risulterà mai esaurita. Si può pertanto presumere che, a causa della totale immersione nel mondo da parte dell’ente soggettivo conoscente-percipiente, qualunque esperienza di conoscenza ricomincia di fatto daccapo non appena l’atto del vissuto percipiente riprende. E tutto ciò fa dunque sì che la filosofia possa e debba sì interrogare costantemente proprio la “fede percettiva”. Ma senza mai sperare di ottenere davvero una risposta. Il che comporta poi che non vi è, né vi può essere, alcuna coscienza costituente le cose. Ciò che vi è, è semmai solo la presenza del conoscente-percipiente nel pieno della dimensione spazio-temporale, entro la quale il suo atto è sempre solo e soltanto “misurante”. Tutto ciò che, insomma, l’uomo fa in questo mondo è orientarsi costantemente e indefessamente entro le coordinate spazio-temporali.

Ebbene, è proprio qui che MP, nel confutare ogni possibile idealismo (specie nel concetto di «costituzione»), non manca di confutare con ciò anche il realismo. Quest’ultimo infatti – quando non viene concepito in maniera davvero integrale (come avviene invece nell’immanentismo esistenzialista di MP) – non fa altro che esprimere l’aspettativa opposta rispetto a quella idealista. Ossia pretende che le cose o oggetti costituiscano il soggetto o spirito. Ecco allora che, entro un realismo davvero estremo, l’adequatio rei ac intellectus non sussiste né in un senso né nell’altro.

Si può quindi parlare a tale proposito di un nuovo realismo superante il tradizionale realismo – appunto un iper-realismo –, principalmente nel senso che esso statuisce il fatto che la realtà incontestabile dell’essere (e perfino il suo stesso concetto) si riassume negli atti elementari dell’ente percipiente. Ecco quindi che una davvero piena definizione dell’essere può essere concepita solo e soltanto operativamente, e cioè al di fuori di qualunque traccia di pensiero. È evidente che ciò mette chiaramente allo scoperto l’assimilazione della visione ontologica di MP a quella heideggeriana28 – quale negazione di ogni concetto astratto di essere. Nel suo caso quindi il realismo estremo può essere ammesso anche in quanto assimilabile in gran parte proprio alla radicale riforma heideggeriana dell’ontologia – nella quale già sussiste una fortissima presa di posizione anti-idealistica.

3. Aspetti specifici della visione di Merleau-Ponty

La disamina molto generale che abbiamo appena svolto (in relazione alla questione dell’idealismo e realismo nel pensiero di MP) ha visto trattati inevitabilmente anche aspetti specifici. Ora però, proprio su questa base, vi è lo spazio per poter trattare questi ultimi molto più da vicino.

Il nostro esame di tali aspetti resterà però comunque in primo luogo nei limiti della verifica dell’ipotesi secondo la quale il pensiero di MP possa essere considerato equiparabile al realismo. Proprio per questo rinunceremo qui a trattare di altri aspetti rispetto ai quali il pensatore entra in conflitto con la visione husserliana (concetti di senso, significazione ed intuizione essenziale, posizione rispetto allo psicologismo, ruolo della percezione rispetto alla molteplicità di aspetti della cosa, e corpo come agente percipiente posto a contatto con il mondo, discorso circa la verità, valore della matematizzazione galileiana del mondo). Ci limiteremo pertanto solo a segnalare i luoghi del testo in cui tali aspetti vengono trattati (entro il testo da noi preso in considerazione)29.

3.1. L’epochè e il mondo. Ingenuità e atteggiamento teoretico

Nel trattare questo tema, il pensatore introduce di fatto la sua intera riflessione30. Ed è peraltro anche costretto a farlo, dovendo inevitabilmente puntare al nucleo stesso di quella sua critica all’idealismo fenomenologico che deve in qualche modo porre in questione anche la giustificazione della filosofia come conoscenza fondamentale. In questo percorso egli parte quindi ovviamente dalla “fede percettiva”; ossia quella vera e propria “fede nel mondo” contro la quale la fenomenologia husserliana aveva preso posizione deplorando molto direttamente l’ingenuità naturale a favore del pregio incontestabile dell’«atteggiamento teoretico». Laddove poi – riprendendo in primo luogo Cartesio –, Husserl vedeva la garanzia di quest’ultimo solo nella scrupolosa messa in atto del metodo dell’”epochè” (o riduzione fenomenologica). A tale complessivo proposito MP non manca affatto di prendere atto del fatto che l’epochè – quale revoca della fede ingenua nel mondo (propria dell’uomo comune e dello scienziato naturale) – è imprescindibile per quella filosofia la quale non può non puntare alla messa allo scoperto del “cos’è?” delle cose. Eppure, se è certo che la fede nel mondo non è in sé giustificabile filosoficamente, è anche altrettanto certo che essa sussiste pienamente nell’atto primario con il quale noi uomini (nessuno escluso) prendiamo contatto con il mondo – e cioè la percezione, ossia più specificamente la visione. Si tratta insomma di un vero e proprio fondamentale «vivere percettivo». Tale esperienza non può quindi in alcun modo venire sostituita dalla conoscenza del “vero in sé”. E questa costatazione fa inevitabilmente della filosofia una sovrastruttura di fatto. Ma ciò comporta anche perfino il paradosso che lo stesso “in-sé”, del quale va costantemente in cerca la filosofia, costituisce in definitiva un’ingenuità non minore di quella naturale (fede indiscussa nel mondo). Ciò che in tal modo viene messo allo scoperto è pertanto quello che è da sempre il punto più debole dell’idealismo, ossia la sua aspettativa di fatto che, con il nostro chiudere gli occhi, il mondo scompare31. Ebbene, il vizio di fondo di tale presunzione sta nel fatto che essa trascura totalmente la fondamentalità dell’esperienza effettiva, ossia quella che si svolge nello stato di veglia. In quest’ultima infatti non sussiste alcuna forma di “immaginazione”, dato che i punti di riferimento oggettivi e vincolanti del mondo nel quale intanto ci troviamo la escludono recisamente. Solo nel sogno, dunque, vi è un vero spazio per l’immaginazione. E ciò implica che solo in esso noi effettivamente facciamo a meno di quella certezza del mondo che è allora solo e soltanto esperienziale. La questione (di ascendenza berkeleyana) posta dall’idealismo si rivela pertanto del tutto mal posta. Essa infatti elegge del tutto arbitrariamente il soggetto a elemento dirimente di un’esperienza nella quale esso è in realtà del tutto secondario. Orbene, dice MP, a questo punto la presa di posizione idealistica (quella della filosofia “riflessiva”) ricalca allora perfettamente la fenomenologia del sogno; ed esattamente in quanto solo essa può davvero dichiarare di potere e dovere fare a meno della certezza del mondo. Insomma essa dichiara così di fatto di prestare piena fede all’immaginazione. Ecco allora che, solo nel contesto del relativo stato di essere e conoscenza (il sogno), noi possiamo davvero affermare che non abbiamo alcuna certezza del mondo. Ovvero nulla in questo stato può dimostrarci che siamo stati un tempo per davvero nel luogo della piena ed autentica esperienza (percettiva) del mondo. MP tiene comunque a precisare che, in base a tali considerazioni, non si è assolutamente autorizzati a identificare l’idealismo con il pirronismo (scetticismo verso i sensi). L’aspirazione primaria di tale presa di posizione non è infatti per nulla quest’ultima. Ma è invece semmai quella di porre nella coscienza (o interiorità) la più autentica esperienza del mondo. E ciò poggia poi sul disinteresse di fatto dell’idealismo stesso per l’effettiva (o meno) “esistenza” del mondo. Esso invece si occupa in primo luogo del “senso” del mondo. Ed esattamente per questo esso mira a delucidare ultimativamente solo il “cos’è?” delle cose – l’essenza effettiva, e non l’esistenza effettiva. Il “problema del mondo” si risolve insomma (in questi termini) nella sua verità, e non invece nella sua effettiva esistenza. Di nuovo emerge insomma come dirimente il solo «quoad nos». È dunque solo a questo che punta in effetti l’epochè! Sta di fatto però che anche così resta il problema di discernere se la cosa (una volta colta nella sua verità) sussiste solo per noi («quoad nos»), o invece sussiste solo oggettivamente. In quest’ultimo caso infatti essa, per l’idealismo, non è davvero sicuramente (rigorosamente) conoscibile. Ed il sussistere di tale questione risospinge, dunque, nuovamente la presa di posizione idealistica (ed anche in una certa misura tipicamente filosofica) entro i limiti di quell’ingenuità che abbiamo costatato prima.

Si ripropone insomma così di fatto l’esistenza o meno del mondo, in relazione a sua volta al suo effettivo sussistere quanto chiudiamo gli occhi. Ebbene, sta di fatto allora che, solo l’ammissione dell’indiscutibile legittimità delle fede nel mondo (sul piano della percezione specie visiva) appare davvero in grado di evitare tale difficoltà – come abbiamo prima constatato. Ed allora da tutto questo si può concluder (come ci lascia capire MP) che la postulazione del “senso” del mondo ha di certo la sua piena giustificazione sul piano filosofico. Ma non la ha affatto sul piano di quell’esperienza, che è autentica solo e soltanto quando avviene nel contesto di una piena immersione nel mondo. E ciò lascia emergere pertanto nuovamente la mera sovra-strutturalità della filosofia, e quindi anche la sua secondarietà nella conoscenza del mondo.

Ma in tal modo abbiamo di nuovo la chiara misura della valenza realista del pensiero di MP.

Infatti lo smantellamento dei capisaldi stessi della presa di posizione metodologica dell’idealismo (qui quello fenomenologico) non fa altro che lasciare emergere l’assoluta primarietà e antecedenza ontologica del reale esperienziale (mondo) rispetto all’onticità ed azione dell’ideale.

Da ciò possiamo dunque arguire che il nostro pensatore rivendica un’epochè che è incentrata sulla pura esperienza del mondo – includente perfino la capacità di rivelare il “cos’è?” della cosa –, sebbene essa si ponga totalmente al di fuori di una ricerca circa le essenze; ossia quegli “in-sé” e rappresentazioni che Husserl ritiene coglibili solo nel contesto dell’”intuizione essenziale”.

Per essere più chiari, tutto ciò avviene nel contesto di una fenomenologia entro la quale MP conserva almeno una certa quota di idealismo. Con la visione infatti il corpo resta costantemente in intimissima correlazione con la cosa vista. E peraltro ciò avviene nel contesto di un atto davvero totalizzante, ossia abbracciante l’intero essere insieme alla singola cosa. Non a caso la pienezza dell’atto visivo sta nella visione binoculare e quindi nel coglimento di diverse cose contemporaneamente – cosa che quindi configura uno spazio totale di essere nel quale ogni cosa conserva il suo posto in forza del senso che la pone in relazione alle altre cose. E ciò non può non implicare in qualche modo anche l’essenza. Inoltre, poi, l’intima correlazione corporea del vedente con le varie singolarità ontiche del campo visivo fa anche sì che qualunque ente così colto costituisca sempre un “mio”, ossia qualcosa di privato, che ha un senso solo per me. E ciò lascia allora che il coglimento delle essenze avvenga anche su un piano decisamente condizionato esistenzialisticamente.

Ed ecco che, con la sostituzione dell’«intellezione» dell’essenza da parte di un ben più primario e rilevante «vissuto», noi ci troviamo nuovamente al cospetto di un davvero radicale realismo. Ciò nel senso che il mondo nella sua pienezza di esperibile non viene considerato più in alcun modo tale in quanto «pensabile», ma invece solo in quanto corporalmente «vivibile». E ciò configura un realismo ancora una volta dal sapore decisamente esistenzialista. Il che però significa che la filosofia di MP si distacca non poco dal concomitante scenario storico del realismo, a causa dell’accento da essa ancora posto sulla questione etica dell’essere – qui colta nella sua dimensione decisamente sentimentale.

Infine – come poi vedremo discutendo anche il concetto di «costituzione» –, la discussione critica dell’epochè si ricollega al realismo anche per un altro aspetto; implicato dal fatto che il percepire appare essere a MP l’unico modo di stare davvero al mondo, e cioè quello affatto “riflessivo32.

Il fatto è insomma che per lui la percezione non accompagna affatto la riflessione, così come la riflessione non accompagna affatto la percezione. Ma ciò avviene soprattutto perché, quando invece davvero la riflessione accompagna la percezione – come avviene nel contesto delle aspettative proprie della «costituzione» idealistica –, la percezione stessa non è mai piena.

Ecco allora che la riflessione mantiene la sua giustificazione (quale epochè) solo sul piano filosofico. Ma in questo caso, a causa della fatale distanza che si viene a stabilire tra soggetto ed oggetto, avverrà semmai una «traduzione» (intelligibilizzante) del mondo; e non invece una sua effettiva conoscenza. E va notato che la messa in discussione di tale razionalizzazione idealistica dell’essere tende a venire vista (Moutinho) come uno degli aspetti più anti-metafisici del pensiero dei MB (vedi note 52 e 57). Pertanto, come abbiamo appena constatato (a proposito dell’intima relazione tra vedente e visto), per MP la percezione assume la dignità non solo di una piena conoscenza, ma anche di una conoscenza davvero fondamentale. In sua assenza vi sarà infatti non a caso quel “dubbio” sistematico che inevitabilmente svaluta il “c’è” del mondo. E qui non occorre affatto spendere parole per constatare che tale presa di posizione è inconfondibilmente realista.

Anzi ancora una volta lo è in termini fortemente esistenzialisti. Dato che (nella forma di un siffatto dubbio) il classico idealismo filosofico si pone di fatto (in quanto primario logos) come resistenza tenace a quella che viene giudicata come la totale inesistenza del mondo quando esso non sia stato ancora idealizzato. Non a caso è per MP solo entro l’idealismo che si pone per davvero la questione della possibile “illusione” costituita dal mondo. Laddove invece, entro l’ontologia da lui contemplata (e sorretta esclusivamente dalla percezione), l’illusione è del tutto legittima. Anche perché essa si alterna del tutto fisiologicamente con la del tutto certa disillusione successiva.

Abbiamo già preso atto (a proposito dell’obiezione rivolta alla definizione pensante del mondo e dell’essere) della più ultimativa definizione del realismo attribuibile a MP. Ed abbiamo visto come essa superi il realismo tradizionale, inquadrandosi così in un immanentismo esistenzialista.

Ma, in linea con gli insegnamenti della filosofia negativa, questa serie di obiezioni iper-realiste (al ruolo onto-costituente del pensiero) investe fortemente il soggetto stesso33. E ciò a causa del fatto che esso, anche quando si riconosce come un nulla, continua comunque fatalmente a definirsi come una cosa pensata. Invece, dice MP, il nulla soggettivo è esattamente ciò che meno che mai dovrebbe essere pensato. Pensato, invece, può essere semmai solo un mondo – sebbene nella consapevolezza dei limiti da attribuire al pensiero nel proprio pretendere di oggettivare. Accade allora che la “cosa” (entità concepita di per sé sempre in maniera idealistica), non appena viene pensata, rientra (ossia viene riassorbita) immediatamente nel “mondo”. Quest’ultimo è pertanto il solo essere davvero assoluto. E tale affermazione assoluta è pertanto ancora una volta possibile solo entro una visione in cui si parte dal presupposto che l’esistenza è davvero tutto.

È dunque semmai solo ad essa che tutto va ridotto, e non invece al soggetto. Eccoci pertanto nuovamente al cospetto di una possibile definizione globale del realismo di MP. Esso non prevede infatti nemmeno un essere assoluto, ma invece prevede l’estinzione totale dello stesso concetto di essere (così come quello di “cosa”, e di qualunque oggetto pensato), a vantaggio di quello di mondo nella sua assolutezza incondizionata. Qui abbiamo insomma un mondo che, con il suo soverchiante esistere (antecedente a qualunque atto soggettivo) schiaccia e rende superfluo ogni pensare. Ecco allora che, come dice MP, noi ci troviamo al cospetto di un “in-mondismo”, soltanto in forza del quale si può parlare di un «realismo». E ciò è quanto finora avevamo definito come «immanentismo esistenzialista».

Ancora una volta è qui evidente la sua radice heideggeriana – dato che il fondamentale in-abitare il mondo sembra equivalere fortemente all’essere concepito solo come «esser-ci». Ecco allora che, entro l’ontologia di MP, non vi è spazio per alcun genere di “questo” (o “cosa”) – che ha sempre l’aspetto di una “massa” (delimitata dal soggetto positivo, oppure schiacciante il soggetto come nulla). Ma vi è invece solo e soltanto un “nelle cose”. Che è poi assolutamente fondamentale e vincolante.

Va da sé che, per questa serie di motivi, MP confuta recisamente il «quoad nos» idealista. Tuttavia però egli afferma nel mentre comunque una sorta di «quoad nos» iper-realista ed esistenzialista34 – secondo il quale il mondo semmai include il soggetto, invece di appena presupporlo come proprio agente conoscente-significante. In altre parole continua ad essere ancora sostenibile che il mondo esiste in effetti solo per il soggetto che lo conosce. Ma ciò è sostenibile soltanto a patto che quest’ultimo non si sottragga a quell’immersione nel mondo, in assenza della quale tra i due termini non può davvero sussistere alcuna vera relazione. Ecco allora che la giustificazione del mondo in forza del soggetto conoscente rientra nella ben più fondamentale giustificazione del soggetto da parte del mondo. E tutto ciò avviene perché, secondo MP, di fatto il corpo stesso funge da soggetto nel contesto dell’immersione nel mondo. Proprio per questo la valenza soggettuale del corpo esclude pertanto anche quella sua concezione puramente oggettuale (singolarità enticistica) che si ritrova tanto nel realismo classico (empirista-sensista) quanto anche nell’empirismo scientifico-naturale. Ed è dunque a questo che si riallaccia quella critica di MP a quest’ultimo, che si incentra nella negazione di qualunque valore condizionante al concetto di «oggettività» (quale garanzia metodologica di correttezza conoscitiva). Anche in questo senso il realismo di MP si distacca non poco dallo scenario storico-filosofico che all’inizio abbiamo delineato.

Naturalmente, però, non siamo nemmeno autorizzati ad estendere troppo in senso idealistico la valenza soggettuale qui conferita al corpo. Essa resta infatti pur sempre secondaria all’obbligo del soggetto di comparire come intimamente connesso con l’oggetto. E ciò avviene pertanto su quel piano orizzontale che corrisponde poi al mondo come contenente («in-mondanità»). È evidente allora che, se il realismo di MP si sottrae all’idealismo (come separazione verticale tra soggetto ed oggetto), ancor più esso si sottrae a quella radicale metafisica religiosa idealistica (trascendentista e verticalista)35, nella quale la prospettiva verticale della separazione viene prolungata fino ad un supremo Soggetto onto-costituente. Ed in essa si può di certo ritrovare una concezione davvero estrema del «quoad nos» idealistico.

Nel sistema filosofico di MP, dunque, i termini del «quoad nos» si pongono nel senso che il mondo è sempre implicato dal soggetto nel mentre il soggetto è sempre implicato dal mondo. Il mondo cioè non è dato («non esiste», nel senso che esso non è ragionevolmente pensabile) senza un soggetto percipiente immerso in esso. Il mondo non è dato senza un corpo percipiente-conoscente immerso in esso. È dunque naturale che, come avviene per la giustificazione ultimativa del realismo di MP, anche il suo discorso critico circa l’epochè (quale obbligatoria messa tra parentesi del mondo ingenuo-naturalistico) si ricolleghi ad una sua severissima critica alla filosofia tradizionale ed anche al ruolo da essa attribuita al filosofo36. Ciò che il pensatore contesta nello spirito dell’epochè è insomma che debba essere il mondo a “comparire davanti” alla filosofia ed al filosofo, invece che l’inverso. E questo è per lui il negare l’ovvietà del mondo per far prevalere invece le “ragioni” sorreggenti il mondo stesso – “pensare che c’è un mondo”, invece di costatare semplicemente ed umilmente un mondo. Questa è effettivamente una delle maggiori colpe dell’idealismo.

Ma è infine sempre ai margini della sua critica all’epochè ed all’invocazione di un obbligatorio atteggiamento teoretico, che MP ci offre una definizione dell’essere che si presta molto bene a definire il suo realismo37. Il discorso verte qui su uno dei foci di attenzione più centrali dell’intera filosofia, ossia l’assioma parmenideo secondo il quale “l’essere è, il nulla non è”. E il nostro pensatore discute questo assioma riconducendolo criticamente alla già commentata necessità di concepire solo simultaneamente i due opposti, Essere e Nulla (in relazione poi alla relazione da stabilire tra filosofia negativa e filosofia positiva). Ma il problema centrale consiste per lui sempre nella posizione filosofica di tipo idealista. La quale si dedica costantemente ad un “pensiero dell’essere” che, per definizione, nel mentre pretende di identificare qualcosa di positivo (essere) in maniera pensante, in realtà poi si produce sempre appena in un vano ed improduttivo “sorvolo” dell’essere. Ma per lui perfino la stessa filosofia della negatività si produce sempre in un fatale sorvolo. Anch’essa infatti concepisce in fondo una sostanziale divisione tra soggetto (pensiero) e oggetto (vita-visione), che poi viene colta solo in un atto totalizzante il quale è sempre fatalmente di pensiero. Ecco allora che – riferendoci ancora una volta allo scenario storico-filosofico del realismo, e precisamente a quello di un esistenzialismo sempre tendenzialmente nichilista (heideggeriano e soprattutto sartriano) –, quello che in MP è senz’altro un esistenzialismo, si distacca comunque senz’altro anche dal sostanziale nichilismo del relativo realismo (per quanto esso ne prenda debitamente atto). E così proprio qui il pensatore ci fornisce una delle sue più chiare definizione di essere, e cioè quella affermante che non esiste alcun “è”, ma invece solo un “c’è”. I termini di tale concezione sono scopertamente heideggeriani, ma comunque il resto della visione di MP (da noi finora sufficientemente illustrata) mostra l’intendimento molto specifico che il pensatore ebbe dell’«esser-ci».

In ogni caso, nel constatare l’insufficienza sia della filosofia positiva (idealistica e riflessiva) che di quella negativa – in quanto entrambe statuiscono un’irrecuperabile distanza tra soggetto (Nulla) e oggetto o mondo (Essere)38 –, MP prende atto della dovuta archiviazione di qualunque epochè ed atteggiamento teoretico (con la relativa denuncia dell’ingenuità mondanista), nel contesto della dovuta archiviazione della presa di posizione filosofica in toto. E ciò avviene nel senso specifico che, per poter permettere l’effettivo emergere di una concezione (senz’altro però anche filosofica) dell’essere, la filosofia del pensiero deve definitivamente allentare la sua presa su di essa. Insomma in alcun modo la filosofia deve partire dal pensiero e indagare il pensiero. Ed ecco che, in questo suo atteggiamento decisamente anti-filosofico), il realismo di MP rientra di nuovo senz’altro nello scenario storico-filosofico in cui esso è insorto. Tuttavia39 bisogna anche constatare che MP concede alla stessa filosofia negativa la capacità di archiviare qualunque condanna dell’atteggiamento naturale-ingenuo e qualunque appello all’atteggiamento teoretico come fondamento della conoscenza del mondo. Essa infatti, nel negare radicalmente l’onticità del soggetto, fa sì che si possa e si debba concepire solo e soltanto l’integrazione tra la presa d’atto dell’Essere (percezione) e quella del Nulla (impercezione). E ciò avviene perché questi elementi sono sempre interrelati come soggetto e oggetto. Su questa base, quindi, già nel contesto della filosofia negativa, inizia a non esservi più bisogno di alcun pensiero del mondo (sempre proveniente dal punto di vista del soggetto). E ciò perché esso resta sempre solo nulla. Basta quindi anche qui già pienamente la presa d’atto dell’evidenza del mondo.

In sintesi, insomma – nel discutere così tanti aspetti connessi con l’epochè, l’ingenuità naturalistica e l’atteggiamento teoretico – MP proclama di fatto la fine della filosofia come pensiero del mondo.

Ed anche in questo senso la sua visione si pone come un realismo.

3.2. L’inter-soggettività

Abbiamo già toccato molte volte questo tema. Ed è risultato evidente quanto criticamente MP si ponga al riguardo. Innanzitutto egli sembra infatti negare l’inter-soggettività a vantaggio di un mondo la cui percezione è sempre solo e soltanto privata. Tuttavia, come abbiamo visto, in quanto orizzonte di un’assolutamente comune immersione, il mondo conserva comunque la sua valenza inter-soggettiva. Ciò può essere affermato, e con la sola precisazione che per il nostro pensatore il soggetto è sempre anche un oggetto del mondo quale corpo percettivamente interrelato inestricabilmente con gli enti percepiti.

L’immanenza (come “abitare il mondo”) inevitabile per il soggetto (il “sapere di sé” per eccellenza) – così come ne parla MP40 – fa sì che il soggetto stesso non sia nulla senza stare in relazione con l’essere assoluto al quale esso per natura si contrappone (e senza nemmeno poter sperare di approssimarglisi se si limita a restare appena ciò che è). Ciò che però in tal modo si dissolve è per il nostro pensatore l’”identità” così tipicamente concepita dall’idealismo. La verità è dunque che io sono solo un “ciò che è”, e non invece un’identità. Ma ciò implica anche un’inter-soggettività persino maggiore, in quanto evidentemente promossa proprio dalla postulazione di un pieno essere (assolutamente condizionante ed affatto condizionato dal soggetto). Qui l’oggettività mondano-cosale cresce, infatti, in quanto la cosa è ancora più autonoma quando essa viene concepita da tutti, ossia dagli altri (oggettivamente conosciuta), e non invece solo da me (soggettivamente conosciuta). Colui che per me è «l’altro», guarda sempre solo le mie cose e non all’essere oggettivo (ossia ha una visione privata degli enti come la mia), ma le rende comunque più oggettive. Esse si presentano pertanto a noi nella loro pienezza di “così come sono”.

Questa è insomma la cosa da me vista attraverso gli occhi dell’altro. In tal modo, allora, si configura quella che MP definisce come una “seconda apertura all’essere”, ovvero quella che avviene sulla falsariga del «per me». E ciò avviene peraltro anche nuovamente in linea con le istanze della filosofia negativa. Perché l’altro stesso mi ricorda che io quale oggetto (“ipse”) non sono in realtà nulla. L’aspetto fondamentale è pertanto che l’altro non è fattore di inter-soggettività in quanto soggetto (come invece avviene in Husserl), ma solo in quanto anche la sua presenza conferma la preponderanza ontologica del mondo. E questo significa che per MP tutta l’indagine fenomenologica husserliana (e della sua scuola)41 sui contenuti psicologico-funzionali e sentimentali dell’inter-soggettività (“empatia”o “entropatia”) non hanno alcun significato fondamentale. Il mondo oggettivo non è infatti per nulla il tessuto prodotto dall’interrelarsi psico-sentimentale empatico dei soggetti.

E ciò implica per il pensatore un disinnesco molto deciso del sorvolo (qui implicato) a vantaggio di un necessario abbassamento del pensare l’essere in termini inter-soggettivi42. In tale contesto, infatti, va anche ammesso che l’altro non è in fondo nemmeno una vera cosa. Né allo stesso modo è da considerare oggettivamente uno “spirito” – dato che quest’ultimo sono solo io stesso esclusivamente per me stesso. L’altro dunque, dal mio punto di vista, è nei fatti solo un nulla, ossia un totale inafferrabile. Ne risulta allora che io intrattengo con esso una relazione inter-soggettiva solo perché intanto sussiste un mondo – un mondo che entrambi ci contiene in quanto in primo luogo enti-esistenti. Ecco allora che il vero substrato dell’inter-soggettività è il mondo stesso in quel suo incontestabile basilare «essere», che è in primo luogo «esistere» assolutamente incondizionato. È solo in questi termini che sussiste pertanto un universo comune. E peraltro – come qui sottolineato da MP –, così come l’inter-soggettività non riconosce alcuna dimensione ideale-soggettiva (di pensiero comune), allo stesso modo essa non riconosce nemmeno una dimensione sentimentale – nel senso di un’“essere per gli altri”. Qui insomma il pensatore denuncia ancora più esplicitamente l’inconsistenza filosofica di tutta quella dimensione psico-emozionale (implicata nell’inter-soggettività husserliana), le cui conseguenze etico-religiose sono poi evidentemente del tutto a portata di mano.

3.3. Costituzione e coscienza

Anche rispetto al concetto di «costituzione» abbiamo già rilevato diversi elementi di una presa di posizione decisamente critica. MP, infatti, svuota totalmente il concetto in quanto fin troppo idealistico, e quindi in sé solo inconsistente è illusorio.

È inevitabile che ciò comporti anche una critica estremamente radicale del concetto husserliano di «coscienza», e quindi della natura e ruolo ad esso assegnati dal pensatore tedesco. La dottrina della costituzione stessa presuppone infatti la riproduzione della cosa entro lo spazio di coscienza nella forma dell’”immanenza43 ad essa. Cosa alla quale corrisponde poi il delinearsi, al di fuori della coscienza stessa, di quell’“oggetto di coscienza” del quale (con non poche giustificazioni) Scheler aveva negato recisamente l’effettiva consistenza ontica di cosa del mondo (vedi nota 6). Tutto ciò sta comunque in relazione con quanto già abbiamo detto rispetto alla valenza di corpo-oggetto che ha il soggetto immerso nel mondo. Infatti, così come non sussiste un soggetto separato dal mondo (oggettualità) che abbia per davvero una valenza ontica positiva, allo stesso modo non è nemmeno pensabile che esista uno spazio interiore nel quale insorga la benché minima forma di onticità (oggetto immanente alla coscienza). In luogo di ciò vi è invece solo un mondo percepito nel senso di effettivamente (ossia operativamente) conosciuto entro una percezione che funge totalmente da conoscenza. E ciò avviene del tutto esteriormente alla coscienza, ossia entro una realtà che è sempre insieme corporale e mondana. Anche in questi termini si potrebbe quindi parlare di un realismo di MP. Esso si pone qui nei termini del valore primario da attribuire obbligatoriamente all’onticità esteriore rispetto a quella interiore. E in tal modo per davvero la visione del pensatore entra in conflitto con l’intera tradizione idealistica della filosofia, esattamente come avviene nel restante scenario storico-filosofico realista.

Il tema della «costituzione» si lascia poi affrontare anche per l’intermediazione di quanto abbiamo già detto a proposito delle obiezioni di MP alla presunzione idealista di ritrovare solo interiormente l’oggetto nella sua pienezza come “questo” e “qualcosa” (esperienza soggettiva del “qui c’è qualcosa”)44. Il discorso del pensatore affronta qui molto direttamente il problema della natura «spirituale» che l’idealismo attribuisce al soggetto. E quest’ultimo è strettissimamente correlato sempre alla pienezza dell’atto onto-costitutivo – come quell’atto che trascende ogni “già dato” ponendosi prima di esso. L’aspettativa è insomma davvero ambiziosa. Perché in tal modo di fatto l’interiorità si dichiara capace di generare l’esteriorità stessa. Ma è evidente che, per tutto quanto abbiamo detto, ciò risulta insostenibile dal punto di vista di un davvero estremo realismo. Solo il corpo infatti è davvero in grado di stare in relazione con un’esteriorità. E questo significa allora che il soggetto (quale spirito) è trascendente il corpo ed il mondo nel senso più negativo possibile; ossia come ciò che, mancando dell’immersione nel mondo stesso, non può in realtà vantare alcun diritto genetico sulla realtà dell’essere. Ed a tale proposito MB confuta uno degli assunti primari della dottrina husserliana del rapporto tra coscienza e corpo percipiente. Non è infatti per lui affatto la coscienza (o soggetto) a «ritrovare l’oggetto nella sua pienezza» (ricostruendolo unitariamente dentro di sé), ma è invece semmai solo il mondo a doverlo trovare. E ciò in quanto esso è addirittura il pensiero stesso, ossia il soggetto vivente. Aspetto davvero fondamentale del realismo di MP è pertanto che non è affatto necessario sostituire la riflessione con la fede percettiva. Bisogna invece solo sapere che la riflessione, pur avendo il suo valore, comunque si limita a proiettare sul mondo l’immagine che essa se ne è creata. E da ciò bisogna quindi arguire una necessità che consiste ben più nell’immersione che non nella fede percettiva stessa. Quest’ultima infatti consiste primariamente nel fatto che io percepisco (e quindi esisto) prima ancora di pensare.

In tale contesto ha quindi fondamentale importanza la globale dottrina della percezione sostenuta da MP45. In forza di quest’ultima egli parla infatti di un’“apertura” davvero assoluta al mondo,

nel senso di presenza attuale del Nulla soggettivo nell’Essere che viene da lui sempre soltanto “visto” (invece che pensato). La realtà del rapporto è espressa quindi solo dalla “prospettiva” visiva.

La quale, a sua volta, è poi sempre qualcosa che viene facendosi ad opera del soggetto; mentre non è invece mai presente prima. Quindi c’è in verità sempre solo un campo visivo; e mai invece alcun vero “qualcosa”, che sussista antecedentemente al vedere in quanto trascendente quest’ultimo (oppure quale oggetto «intenzionale»). La cosa così come intuita (e concepita) dalla coscienza costituisce pertanto l’irreale per definizione. Non è invece affatto il più reale (in quanto vero) tra gli oggetti. Peraltro la fenomenologia costitutiva più realistica (quella visiva) si compie anch’essa in una prospettiva totalmente onto-dinamica, e mai invece onto-statica. Il campo visivo quale totalità di essere si va infatti costituendo in conseguenza di ognuno di quegli atti visivi che configurano sempre un “limite”. Si tratta quindi in primo luogo di un “movimento dello sguardo”, che viene colto nel suo spostare sempre altrove il limite senza comunque mai poterlo oltrepassare. Ecco che allora la totalità dell’essere ci viene restituita dal moltiplicarsi continuo di tali prospettive; che poi vedono costantemente la loro sorgente in quel vedente, in assenza della cui presenza nessun essere per davvero sussiste. Ed eccoci di nuovo di fronte al «quoad nos» così come concepito da MP.

In questo senso la mia visione non costituisce mai affatto l’oggetto (quale «oggettivo» in relazione al suo essere pensante), ma lo costituisce solo come possibilità – non senza però un mondo che funga da contesto del complessivo vedere (in quanto luogo delle cose visibili, ossia del «visibile»).

E questo non ha nulla a che fare con quel ritrovare nel mondo ciò che prima di esso si è pensato, al quale l’idealismo affida in verità tutte le proprie aspettative. La visione come prospettiva è quindi sempre l’”interrogazione” di un mondo che però non sussiste mai in modo letteralmente oggettivo-statico (altrimenti dovrebbe essere oggettivamente pensabile prima ancora di essere esperibile), bensì si apre a noi sempre solo in quel momento. Ed eccoci allora nuovamente al cospetto di un elemento fondamentale di qualunque forma di realismo. Qui infatti il «mondo fuori di noi» sta nella sua piena autenticità e giustificazione proprio in quanto non si pone affatto come oggettività E così l’apertura al mondo si pone solo e soltanto come orizzonte mondano, quale presupposto (dinamico-funzionale ed affatto statico) delle possibili esperienze – si tratta insomma solo di una potenza («possibilità») che attende costantemente di venire portata ad atto. L’orizzonte mondano, pertanto, non comporta una dimensione che stia effettivamente oltre il soggetto (ontologia tradizionale) – la visione non respinge per davvero l’orizzonte al di là di sé stessa. Essa nasce invece solo con il soggetto (vedente) che sta intanto in essa: – “colui che vede ne è e vi è”.

Infine, quanto abbiamo già detto della dovuta rinuncia dell’idealismo (e della filosofia riflessiva ad esso inscindibilmente connessa) a qualunque concezione del mondo come incognita da sciogliere ultimativamente, comporta necessariamente anche la demolizione del concetto di coscienza quale onto-costituente46. Da ciò MP non giunge però affatto ad esautorare e revocare l’”interrogare” nel quale deve inevitabilmente consistere la filosofia. Egli afferma invece solo che la “domanda inesauribile” (che è della filosofia solo in quanto mutuata dall’uomo che si orienta nel mondo) deve essere rivolta all’essere proprio in termini di misurazione di un fondamentale esser-ci, con il quale il mondo ed il soggetto sono dati sempre insieme. Essa è inesauribile, perché la collocazione in un luogo si moltiplica sempre all’infinito (secondo le prospettive dilatantesi). L’essenziale è però che noi (con il corpo-sensi) siamo sempre “installati nel mondo”, con l’inevitabilità della misurazione che ne risulta. Ciò mette pertanto allo scoperto la “simultaneità” quale collocazione in relazione ad altre dimensioni spazio-temporali.

3.4. Essere e mondo

Dopo aver chiarito questa serie di aspetti molto specifici, dobbiamo infine porci al cospetto di due aspetti congiunti che senz’altro rappresentano anch’essi elementi dottrinari specifici; ma nello stesso tempo sono di una tale ampiezza da costringerci a tornare ad una visione di insieme del pensiero di MP. Si tratta dei temi dell’«essere» e del «mondo». Ci siamo già imbattuti in diverse definizioni molto esaurienti di tali elementi. Ma ora su di essi bisogna pervenire ad una sintesi ulteriormente chiarificante, nel fare di nuovo riferimento a diverse delle tematiche che abbiamo già toccato.

Innanzitutto abbiamo visto che una piena definizione di essere implica il concepire la simultaneità alternante tra Essere (qualcosa) e Nulla. Abbiamo visto che l’essere si sottrae a qualunque “pensiero dell’essere”, in quanto per definizione molteplice quale sostanziale visibile. E ciò sta in relazione con il fatto che esso può essere concepito solo e soltanto come «essere effettivo»47. Cosa che avviene poi nel contesto di quell’esperienza visiva che è anche letteralmente carnale. E la percezione è qui di un’importanza davvero capitale, dato che essa spazza via addirittura quelle domande che vengono lasciate aperte perfino nella così ampia e profonda sistematizzazione kantiana dell’esperienza48. Ciò significa all’ora che una cosa “in-sé” può essere in realtà concepita solo del tutto al di fuori di quel davvero autentico campo di esperienza che è la piena percezione quale conoscenza. Solo questo è infatti l’ambito dell’essere davvero effettivo. Mentre il campo in cui è ancora possibile concepire un “in-sé” è appena quello che ancora prevede un essere puro (che è però totalmente astratto). Ed esso supera così di grande lunga il confine di quel vero essere, che è invece solo corporeo-carnale. Abbiamo poi già toccato il tema di quel “sorvolo” dell’essere, che sussiste fatalmente quando l’essere non venga definito (come si dovrebbe) come un “c’è” (piuttosto che come un ”è”)49. Qui, dice MP, la logica finisce per imporsi sempre fatalmente sulla pienezza dell’esperienza. Pretendendo così di giudicare quest’ultima in base a principi come quello di non contraddizione. E questo resta comunque un “pensiero essenzialistico”, ossia perdutamente idealistico. Qui insomma avviene costantemente una secondarizzazione dell’essere pieno (presente solo nell’apertura propria della percezione) all’«essere ideale». E ciò è poi ancora più grave alla luce della filosofia negativa. Perché in tal modo di fatto un essere solo astratto, che è prodotto di un soggetto quale nulla di essere, pretende di sostituirsi a quello invece concretamente visto.

Infine abbiamo potuto constatare una precisa definizione dell’essere anche laddove MP ci presenta la fondamentale realtà costituita dalla presenza “misurante” del vedente. E con quest’ultima definizione va senz’altro di pari passo l’identificazione del mondo come l’orizzonte visivo stesso nella sua totalità onto-dinamica50. Ecco allora che tale definizione del mondo appare di fatto perfettamente coordinata con quella dell’essere. Anzi possiamo decisamente dire che la seconda rifluisce nella prima. Ed anche in tal modo abbiamo chiari davanti a noi i termini nei quali in MP si può parlare di un realismo. Esso è infatti come abbiamo visto sostanzialmente “in-mondista”, e quindi ancora una volta immanentista-esistenzialista. E solo in questi termini si è pertanto autorizzati a parlare in questo caso di un’«ontologia». In altre parole il concetto di «essere» non può assolutamente venire formulato se esso non viene ricompreso nel concetto pieno di «mondo» – quale indispensabile «luogo» delle esperienze, e quindi l’irrinunciabile «in-» per qualunque teorizzazione di presenze ed atti.

4. Conclusioni

Dopo quest’ampia disamina delle tesi ontologiche di Maurice Merleau-Ponty (condotta sulla specifica base del suo testo Il visibile e l’invisibile), diremmo che la nostra ipotesi risulta abbastanza sufficientemente provata. La visione del pensatore appare infatti poter effettivamente essere ricondotta al realismo, almeno nei limiti che tale presa di posizione filosofica è andata progressivamente assumendo, a partire dalla fine del XIX secolo fino ai giorni nostri. Bisogna qui del resto ricordare che la radicale riforma nietzschiana del pensiero occidentale si lascia essa stessa riconoscere come una delle grandi radici di questo genere di realismo. Tale riforma comportò infatti proprio la definitiva messa in soffitta dell’«ideale» (trascendente), a qualunque titolo inteso come valore. L’ontologia heideggeriana – con tutti i suoi successivi sviluppi – ha poi decisamente proseguito questo cammino. E ciò che è venuto dopo lo abbiamo già commentato nell’introduzione.

In ogni caso va anche fatto notare che la letteratura critica ha comunque preso atto della valenza realista del pensiero di MP – per quanto in essa si tenga debitamente conto (come noi stessi abbiamo sottolineato) della differenziazione da fare tra il realismo del pensatore e quello che invece tradizionalmente fa appena da contraltare allo speculare idealismo51. A tale proposito è stato peraltro sottolineato che l’idealismo husserliano si pone non poco in esplicita posizione anti-realista (almeno per la parte del realismo che converge con l’empirismo scientifico)52. Non vi è qui lo spazio per analizzare in dettaglio tale letteratura, ma comunque alcuni suoi succinti elementi vanno fatti notare. Innanzitutto viene precisato (Santos Moutinho) che il realismo tradizionale istituisce una stretta equivalenza tra l’essere e la “cosa” (singolarità ontica oggettuale) – il che è ovviamente ben lungi da quanto sostiene il pensatore. Gardner poi ci mostra come il luogo dell’esperienza identificato da MP con la percezione costituisce un “pre-objective beeing”, ossia un essere come tale non investito né dall’idealismo né dal realismo tradizionale. L’autore inoltre prende atto della decisa presa di posizione di MP contro il tradizionale realismo nella sua valenza empirista e naturalista (sia in termini filosofici che scientifici). Egli sottolinea infine che si può, nel caso di MP, parlare senz’altro di un “realismo morale” – una volta constatato che per lui la fondamentale esperienza percettiva (in quanto intima relazione con un essere “pre-oggettivo”) include perfino anche il “senso” (“meaning”). E quindi è ben lungi dall’escludere i valori. Infine va fatto rilevare (Fontes Filho) che pare MP abbia visto nell’essere quella “realtà massiccia”, in quanto “unica” e “indivisa”, che la più recente cosmologia riconosce nell’intima unione di materia, spazio e tempo. Lo stesso autore poi identifica nella critica di MP al realismo empirista la natura causalista che esso ha effettivamente sempre avuto.

Anche sulla base di queste voci del dibattito intorno al pensatore, riteniamo che sia decisamente più chiaro in che senso la sua visione possa essere intesa come realista. E soprattutto sono ben più chiari i limiti alle quali tale affermazione va assoggettata. A nostro avviso però il principale limite che tale affermazione deve riconoscere è quello che scaturisce dal particolare interesse (e relativo punto di vista), in forza del quale noi ci siamo mossi in questa indagine (pur non essendo affatto degli studiosi specialisti di questo pensatore). Il suo apporto ci sembra infatti estremamente chiarificatore di quel complessivo dibattito sul realismo, del quale a noi – quali studiosi di altri autori coinvolti in esso53 – interessa in particolar modo la dimensione storico-filosofica. Abbiamo già illustrato i termini di quest’ultima nel corso dell’introduzione. Ora va però specificata la motivazione più specifica del nostro interesse per tale questione. Ebbene, il fatto è che, proprio sul piano storico-filosofico, il valore dottrinario (anti-idealista) dell’iper-realismo filosofico-scientifico ultimamente affermatosi ci sembra venga fortemente relativizzato da un fatto che però oggi può risultare chiaro solo allo studioso di metafisica religiosa. Costui infatti sa che il radicale idealismo caratterizzante quest’ultima – specie nelle sue forme orientali, da noi indagate alla ricerca di un idealismo paradigmatico (vedi nota 36) – non è di fatto mai caduto nelle contraddizioni messe così impietosamente in luce dall’attuale realismo. Esso cioè non ha mai compromesso la possibilità di concepire anche un essere del tutto indipendente dall’azione conoscente del soggetto. Ma ovviamente pesa qui la sua postulazione di un supremo Soggetto divino-trascendente, che riassume in sé sempre Essere e Conoscenza (o Pensiero) – quale suprema realtà onto-intellettuale –, così come invece non è di certo alla portata del soggetto immanente umano. Quest’ultimo infatti, proprio come posto in luce da MP (insieme a Sartre), non vanta alcun titolo a configurare un’effettiva onticità. Assume pertanto in tal modo un senso ben più ampio il fatto che – sempre in linea con le affermazioni di questi autori – il soggetto non disponga di alcuna vera possibilità di «costituire» un essere (e ciò nemmeno in maniera metaforica).

Dunque, una volta tenuto presente il del tutto positivo giudizio di valore sull’idealismo davvero puro e paradigmatico (che scaturisce da tali considerazioni), dell’attuale iper-realismo emergerà chiaramente la natura sostanzialmente deteriore (nonostante la forza incontestabile dei suoi argomenti anti-idealisti). E tale deteriorità appare pertanto consistere nel fenomeno a nostro avviso inammissibile del totale riflusso della Filosofia entro la Scienza della Natura. Questo fenomeno però è a sua volta riconducibile proprio all’atto di divorzio dalla tradizionale metafisica religiosa sul quale l’idealismo moderno ha eretto sé stesso a paradigma di fatto della Filosofia. Ebbene, il chiaro risultato di tale atto è stato l’indebolimento della dottrina idealistica reso inevitabile dal suo allontanarsi dalle proprie autentiche radici. Che erano platonico-pitagoriche54, e come tali pertanto non poco assimilabili all’idealismo metafisico-religioso orientale. E comunque sempre Hans Jonas55 ci mostra come auspicabile non sia affatto il riflusso della Filosofia nella Scienza, ma semmai un atto di auto-critica da parte di quest’ultima, che metta fine al suo dogmatismo autarchico e le imponga il dovere di porsi il problema della sua tendenziale minacciosità e distruttività.

A nostro avviso, dunque – una volta inquadrato in tal contesto –, la straordinaria forza, il fascino, e l’incontestabile valore che ha l’iper-realismo anti-idealista di MP, ci può e deve mostrare che nemmeno così è deducibile un maggior valore in assoluto del realismo rispetto all’idealismo. Il che indica poi che quest’ultimo non è da considerare affatto archiviato. Semmai invece tutto ciò mostra piuttosto chiaramente l’urgenza che esso ritrovi le sue autentiche radici metafisiche. E per questo secondo noi non basta affatto la neo-teologia oggi dedotta dalla Fenomenologia husserliana.

Del resto, inoltre, tale urgenza è da considerare ancora maggiore se si tiene conto dell’ovvietà con la quale viene oggi accolta la tesi secondo la quale un pensiero come quello di MP configuri (insieme al pensiero degli altri autori già menzionati) l’unica metafisica oggi ancora possibile56.

È del tutto ovvio che ciò rientra in una definizione del termine «metafisica» che oggi come oggi viene universalmente accettata. E tuttavia in filosofia questo genere di definizione non ha affatto sempre dominato. E quindi riteniamo che sia tuttora lecito prendere in considerazioni anche le considerazioni che scaturiscono da tale dissonante punto di vista.


  1. Enrica Lisciani Petrini, La passione del mondo. Saggio su Merleau-Ponty, ESI, Napoli 2002; Enrica Lisciani Petrini, “Fuori dalla persona. L’impersonale in Bergson, Merleau-Ponty, Deleuze”, Daímωn, Revista Internacional de Filosofía, 55 (2012), 73-88; Heinrich von Sass, “Event-Management. Vom Ereignis und seinem theologischen Horizont”, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, 61 (1), 2015, 79-100; Markus Lipowicz, “Das Leben als das Unausprechliche ‒ oder: Simmel und Wittgenstein als Vordenker der Postmoderne”, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, 61 (1), 2015, 24-44. ↩︎

  2. Ma proprio in questo genere di visione (propria della moderna scienza tecnologica) Hans Jonas ci fa vedere l’immenso pericolo rappresentato dal totale passare in secondo piano dell’antropologia, a favore della Vita come valore puramente constatativo (ed affatto più valutativo) [Hans Jonas, Tecnica, medicina ed etica, Einaudi, Torino 1997, II, 4 p. 31-33]. ↩︎

  3. Enrica Lisciani Petrini, “Fuori dalla persona. L’impersonale in Bergson, Merleau-Ponty, Deleuze”, Daímωn, Revista Internacional de Filosofía, 55 (2012), p. 76, 80-81; Mauro Carbone, Presentazione, in: Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1993, p. 7-26. ↩︎

  4. Miguel Pérez de Laborda, “La filosofia analitica oggi”, Acta Phil, 12 (1), 2003, 137-152; Alessandro Borghini. “Possible and existent objects: David K. Lewis’s theory”, Kykeyon, 2, 2003, 67-77; Agustín Rayo, “On specifying truth-conditions”, Philosophical Review, 10 (55) 2008, 385-444; Bertrand Russell, Sintesi filosofica, La Nuova Italia, Firenze 1966. ↩︎

  5. Richard Mark Fincham, “Trascendental Idealism and the problem of external World”, J. of the History of Philosophy, 49 (2) 2011, 221-241; Andrew F. Roche, “Transcendental idealism: a proposal”, J. of the History of Philosophy, 51 (4) 2013, 589-615. ↩︎

  6. Max Scheler, Idealismo-Realismo, Editorial Nova, Buenos Aires 1962. ↩︎

  7. Marco Tedeschini, “La controversia Idealismo Realismo (1907-1931). Breve storia concettuale della contesa tra Husserl e gli allievi di Monaco e Göttingen”, Internat. J. For the History of Texts and Ideas, 2, 2014, 235-260. ↩︎

  8. Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2008. ↩︎

  9. Richard Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 2014, I, 2-6 p. 53-147, I, II, 2 p. 164-185, II, III, 1 p. 266-283, II, III, 2-3 p. 283-309, II, III, 4 p. 315-333. ↩︎

  10. Hans Jonas, Tecnica… cit., I, 1, 1-6 p. 7-19, IV p. 55-64. ↩︎

  11. Hans Jonas, Tecnica… cit., IV p. 55-58. ↩︎

  12. Tamsin Jones, ”Questions from the borders: a response to Kevin Hart’s Kingdom of God“, Sophia, 56 (1) 2017, 5-31; Markus Kneer, “Das Verhähaltnis von Phänomenologie und Theologie neu gewendet: Der Ansatz von Emmanuel Falque“, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie, 62 (2) 2015, 350-367; Shane Mackinlay, “Hermeneutic perspectives on ontology, after metaphysics has been overcome: from Levinas to Merleau-Ponty”, Sophia, 56 (1) 2017, 115-124. ↩︎

  13. Mackinlay (vedi nota 12) ritiene che Merleau-Ponty sia da associare a Gadamer entro un comune percorso di “informazione” dell’ontologia per mezzo dell’emeneutica heideggeriana; e ciò parallelamente all’opera più recente di superamento della metafisica condotta da Lévinas e Marion. ↩︎

  14. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 121-124. ↩︎

  15. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 39-41. ↩︎

  16. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 53-54. ↩︎

  17. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 45-46. ↩︎

  18. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 84-96. ↩︎

  19. Pedro MS Alves, Carlos Aurélio MoruJão (trad), Edmund Husserl, Investigações Lógicas. Segundo Volume, Parte I. Investigação para a Fenomenologia e a Teoria do Conhecimento, Centro de Filosofia da Unviversidade de Lisboa, Lisboa 2007, Voll. II, I, I, 6-11, 38-51 p. 59-71, I, III, 24-29, 83-101 p. 103-120, I, IV, 30-33, 102-108 p. 121-129. ↩︎

  20. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 105-107. ↩︎

  21. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 112-116. ↩︎

  22. Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg Basel Wien 2006 II, 7, p. 59-60; Edith Stein, Martin Heideggers Existenzphilosophie, ibd., p. 449-457 ↩︎

  23. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 99-100. ↩︎

  24. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 105-107. ↩︎

  25. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 121-124. ↩︎

  26. Miklos Vetö, La metafisica, Arianna, Casalecchio 2001 p. 51-67; Vincenzo Nuzzo, “’Decreazione’ in Simone Weil e esperienza apofatica in Edith Stein. L’esperienza di un Dio presente e ‘impotente’”, in: Prospettiva Persona, 92, 2015 p. 33-38 <http://www.prospettivapersona.it/editoriale/92/dio_impotente.pdf >; Vincenzo Nuzzo, “Edith Stein ed i filosofi del suo tempo, Weil e Nietzsche”, in: Dialeghestai, 30 Luglio 2016 https://mondodomani.org/dialegesthai/vincenzo-nuzzo-01 ↩︎

  27. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 86, 92-100, 121-124. ↩︎

  28. Non a caso Jacquet ritiene che Merleau-Ponty porti nei fatti a termine l’incarnazione del Dasein, connettendola così con la fenomenologia della “nascita” [Frédéric Jacquet, ”Naître du monde et naître au monde. Merleau-Ponty / Patočka”, Research in hermeneutics, phenomenology, and practical philosophy, 5 (1) 2013, 61-82, p. 67-68]. Nello stesso tempo Perius sottolinea che il nostro pensatore coglie nell’”ontologia del visibile” la stessa “fenomenologia dell’inapparente” che Heidegger individuò nel visibile quale essere inconsistente eppure però incontestabile [Cristiano Perius, “A definição da fenomenologia: Merleau-Ponty leitor de Husserl”, Trans/Form/Ação, 35 (1) 2012, p. 139]. Gardner infine (vedi nota 52) sottolinea in generale l’intima relazione esistente tra la visione dei due pensatori. ↩︎

  29. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 41-48, 53-56, 107. ↩︎

  30. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 31-41. ↩︎

  31. Problema filosofico recentemente categorizzato come quello dell’effettiva (o meno) “continuità” del sussistere del mondo [S. Seth Bordner, “If we stop thinking about Berkeley’s problem of continuity, will it still exist?”, J. of the History of Philosophy, 55 (2) 2017, 237-260]. ↩︎

  32. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 53-65. ↩︎

  33. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 77-78. ↩︎

  34. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 47-48. ↩︎

  35. Vincenzo Nuzzo, “Tentativo di rilettura metafisico-religiosa dell’«idealismo della coscienza» – riflessioni sugli Aforismi di Śiva”, in: I.v.a.n. Project (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2017, Vol. XX, p. 65-78; Vincenzo Nuzzo, “Esplorazione di un ipotetico idealismo «puro» entro l’idealismo vedantico”, in: https://cieloeterra.wordpress.com/2017/09/17/esplorazione-di-un-ipotetico-idealismo-puro-entro-lidealismo-vedantico/↩︎

  36. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 75-76. ↩︎

  37. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 107-112. ↩︎

  38. Essa sussiste anche nella filosofia negativa, in quanto il Nulla quale Soggetto resta in ogni caso un’entità puramente pensata ed affatto invece constatata. Qui abbiamo insomma un pensiero del Nulla che appena si sovrappone al pensiero del Pensiero. Ma non per questo lascia che l’Essere effettivamente emerga. ↩︎

  39. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 88-90. ↩︎

  40. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 79-87. ↩︎

  41. Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura, Mondadori, Milano 2008, Libro I, II, II, 38-46 p. 89-114, II, III, 47-48 p 115-119; Edith Stein, L’empatia, FrancoAngeli, Milano 2009. ↩︎

  42. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 97-104. ↩︎

  43. Edmund Husserl, Idee… cit., Voll. I, II, 38 p. 89-91, 41-43 p. 97-104. ↩︎

  44. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 53-58. ↩︎

  45. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 116-120. ↩︎

  46. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 121-124. ↩︎

  47. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 104-105. ↩︎

  48. Qui infatti sussiste il dubbio circa l’eventuale appartenenza a mondi diversi da parte della cosa apparente e della cosa in sé (si veda Roche, nota 5). Il che è possibile obiettivarlo ponendosi di fronte ai dilemmi generati dall’esperienza dell’apparenza costituita dal bastoncino spezzato che noi vediamo dopo avere immerso questo oggetto in un bicchiere d’acqua. ↩︎

  49. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 107-112. ↩︎

  50. Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 118-121. ↩︎

  51. Mauro Carbone, Presentazione, in: Maurice Merleau-Ponty, Il visibile… cit., p. 7-26; Frédéric Jacquet, ”Naître du monde et naître au monde. Merleau-Ponty / Patočka”, Research in hermeneutics, phenomenology, and practical philosophy, 5 (1) 2013, 61-82, in: www.metajournal.org; Luis Damon Santos Moutinho, “O sensível e o inteligível: Merleau-Ponty e o problema da racionalidade”, Kriterion, 45 (110) 2004, 264-293; Sebastian Gardner, “Merleau-Ponty’s transcendental theory of perception”, in: Sebastian Gardner (ed.), Sartre’s beeing and nothingness: a reader’s guide, Continuum, New York 2009, 3B p. 89-126; Osvaldo Fontes Filho, “Natureza, individuação e logos em Merleau-Ponty”, Veritas, 51 (2) 2006, 37-54. ↩︎

  52. Russel Keats, “Phenomenology and scientific realism”, in: Michael Hammond and Jane Howarth (eds), Understanding Phenomenology, Basil Blackwell, Oxford 1991, 2 p. 271-278. ↩︎

  53. Parliamo in particolare della fenomenologa husserliana Edith Stein, della quale siamo studiosi [Vincenzo Nuzzo, L’idealismo realista del pensiero di Edith Stein e suoi presupposti platonici, Tesi di Dottorato in Filosofia, Specializzazione in Fenomenologia. Universidade Velha, Lisboa 2017 (in corso di preparazione)]. Ella infatti figura insieme ad una serie di altri pensatori, quali Scheler e Heidegger (e con l’inclusione di molti discepoli di Husserl), come esponente di un pensiero molto preoccupato per le effettive possibilità di un realismo al cospetto del così deciso idealismo fenomenologico. ↩︎

  54. Vincenzo Nuzzo, Il Platone proibito e l’Idea come la più reale delle cose, Aracne, Roma 2017; Lloyd P. Gerson, “What is Platonism?”, J. of History of Philosophy, 43 (3), 2005, 253-276 (p. 256-257); Luciano Montoneri, Il problema del male nella filosofia di Platone, Victrix, Forlì 2014, IV, 1 p. 75-105, I, IV, 1-2 p. 74-119, I, IV, 3-5 p. 115-155; Raphael, Iniziazione alla filosofia di Platone, Asram Vidya, Roma 2008, p. 31-44; Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano 2014, I, I, I p. 41-46; Roger Godel, Platone a Heliopolis d’Egitto, Il Melangolo, Genova 2015. ↩︎

  55. Hans Jonas, Tecnica… cit., III p. 37-54. ↩︎

  56. Cosa sottolineata da un po’ tutti gli autori menzionati (Carbone, Jacquet, Perius, Santos Moutinho, Gardner, Fontes Filho) ed inoltre anche da altri [Fulvio Papi, “Merleau-Ponty scrittore dell’essere”, Segni e comprensione, XV (44) 2001, 32-37]. Sebbene venga anche fatto notare che vi sono altre voci le quali relativizzano non poco la dimensione effettivamente metafisica del pensiero di Merleau-Ponty [L. Zani, “Fenomenologia dell’essere in Maurice Merleau-Ponty, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 49 (5/6), 1957, 542-549; Graziella Ballanti, “L’esistenzialismo di Maurice Merleau-Ponty”, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 44 (5) 1952, 458-461; Daniela Calabrò, “Maurice Merleau-Ponty e il “Iabirinto dell’ontologia”, Chiasmi international, 1, 1999, 153-165]. Del resto abbiamo visto che Mackinlay (vedi nota 12) colloca il pensiero di Merleau-Ponty decisamente oltre l’orizzonte della metafisica storica. ↩︎