Le controindicazioni della verità. Nietzsche e la verità in senso extramorale

1. Introduzione

È l’estate del 1873 quando Nietzsche detta all’amico Carl von Gersdorff il testo Su verità e menzogna in senso extramorale. I suoi occhi vedono sempre meno e, curati con atropina, che causa una forte dilatazione della pupilla, impediscono al filosofo di scrivere o leggere. Da questo momento dovrà spesso fare affidamento su amici o conoscenti per scrivere le proprie opere e il suo incedere nel mondo si farà sempre più incerto e intollerabile, un opprimente vagare fra ombre indistinte, appartenenti a uomini di cui, sempre più spesso, saprà riconoscere l’identità solo dal suono della voce.

In questa plumbea atmosfera Nietzsche si rinchiude in maniera sempre più ermetica ed inizia a deambulare nel mondo come chi abbia vissuto a lungo rinchiuso in un sotterraneo, riparato dalla luce del sole, incapace di guardare direttamente il chiarore della realtà, o sopportare i riverberi della mondanità, e in particolar modo il peso di un’amicizia forte ed esigente come fu quella con Wagner.

Con la perdita della vista si fa più pressante l’esigenza di una ricerca della verità nelle profondità della propria anima dove, con una capacità introspettiva al di fuori del comune, sviluppata in maniera singolare per il mal funzionamento di un organo di senso, ritrova caratteristiche umane in cui molti un giorno si riconosceranno. Vi scova, allo stesso tempo, anche aspetti che appartenevano solo a lui, all’eccezionalità della sua persona, e che mai avrebbero potuto essere compresi o condivisi da chi viveva nella mediocrità di una vita che si accontentava realmente solo di ombre.

Di una vita mediocre Nietzsche ha ben chiaro di non voler accontentarsi e, fin da giovane, si domanda quale sia il senso del vivere, fra il peso delle convenzioni e gli errori indotti dall’abitudine. Nel 1862, a diciotto anni, affronta nei suoi diari temi che avrebbe sviluppato durante tutta la sua vita. Parla del dolore che accompagna la rinuncia all’indipendenza di pensiero e del destino che ci ha fatto nascere in un determinato luogo e tempo, ponendoci dinanzi a persone e situazioni che hanno schiacciato con la forza dell’abitudine le facoltà dell’anima, gettandovi così i germi di errori e deviazioni difficilmente recuperabili.1 Si riferisce a quella menzogna (in greco pséudos, in tedesco die Lüge) che accompagna l’uomo che per necessità e noia vuole vivere in società come se facesse parte di un gregge, di cui accetta le regole per spirito di sopravvivenza, scampando così al pericolo di un bellum omnium contra omnes.2 Dei suoi consanguinei accoglie il linguaggio e, con esso, la fissazione arbitraria del significato da attribuire agli oggetti, senza chiedersi se vi sia una reale corrispondenza fra designazioni e cose e se il linguaggio sia espressione adeguata della realtà.

Su tale convenzione Nietzsche si sofferma, chiedendosi quali possano essere gli effetti sull’uomo di un’esistenza che ha le sue fondamenta su un’originaria finzione e quali possano essere le conseguenze della scoperta della verità relativa alle proprie fallaci convinzioni.

Per comprendere in che consista e quali siano i possibili danni arrecati dalla verità è bene analizzare tale concetto a partire da un’opera fondamentale, l’Über Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinne,3 del 1873, uno dei primi scritti nietzschiani, che rimase inedito e che avrebbe dovuto far parte di un’opera, mai più terminata, dal titolo Il filosofo o L’ultimo filosofo, in concomitanza con l’analisi di due miti che ci aiutano a comprendere il valore e il pericolo della verità. Uno di questi è il mito della caverna, contenuto nell’opera platonica La Repubblica,4 e l’altro è il mito di Amore e Psiche, narrato da Apuleio in Le Metamorfosi.5 Va il ricordato che il mýthos, che in Omero indica la parola o il discorso e che con Platone designa il racconto intorno agli dèi, si riferisce in ambito filosofico al discorso che non richiede dimostrazione, contrapposto al lógos che può significare sia «parola» che «ragione», ossia l’argomentazione razionale vera e propria. Del mito ci si serviva per spiegare, mediante storie di uomini e dèi, le origini del mondo, la complessità di diverse concezioni filosofiche e le ragioni dell’operare umano. Se diversi filosofi greci avevano ridotto l’importanza del mito per la sua pretesa di spiegare i fenomeni reali senza una rigida dimostrazione logica, Platone ebbe il merito di riconoscerne l’ineguagliabile funzione: quella di rendere comprensibile a un pubblico, anche impreparato, i profondi misteri dell’esistenza, raccontando storie che per verosimiglianza avrebbero reso più chiari concetti troppo sofisticati e inintelligibili per l’ascoltatore medio, a volte curioso, a volte indolente.

Iniziamo dunque con il mito di Amore e Psiche, capace di farci comprendere in maniera allegorica i rischi che la verità porta con sé.

2. Il mito di Amore e Psiche. Lo svelamento della verità.

Si narra che Psiche, personificazione dell’anima, fosse la più giovane delle tre figlie di un re di cui non conosciamo l’identità. La sua avvenenza era talmente straordinaria da suscitare in chi la guardasse stupore e dubbi sulla sua natura umana, di un fascino non inferiore a quello di Venere,6 o Afrodite per i Greci, la più bella delle divinità elleniche, dea della bellezza e dell’amore, che se ne ingelosì al punto tale da chiedere a suo figlio Cupido,7 o Eros, di suscitare in lei un amore ardente per un uomo volgare, vile e mostruoso. Cupido, però, si sbagliò e scagliò una delle sue frecce contro di sé, innamorandosi così egli stesso, nonostante fosse divino, di una donna mortale dall’aspetto celeste.8 Nel frattempo i genitori di Psiche ricevettero un ordine dall’oracolo del dio Apollo,9 che intimò loro di esporla su uno scoglio dove sarebbe stata rapita da un orrido mostro. I genitori, pur fra le lacrime, dovettero obbedire, in osservanza alle leggi crudeli di quel mondo popolato da dèi, e la portarono a una rupe, così com’era stato loro ordinato. A quel punto, invece di un mostro, arrivò Zefiro, personificazione del vento di ponente, a rapirla, che la depose in un prato in cui la giovane si addormentò. Si risvegliò dopo poco e vide nel mezzo del bosco che le stava dinnanzi un palazzo dall’aspetto regale. Vi si avvicinò ed entrò attratta dal suo splendore. Qui alcune voci le sussurrarono che tutto quello era suo, e da quel momento Psiche iniziò a vivere nel palazzo. Ogni notte Cupido le faceva visita in veste di sposo e poi scappava a ogni sorgere del Sole, senza che la sua amante potesse scorgerne il volto. Psiche iniziò ad abituarsi a quella vita, fino a che Cupido non le chiese di non vedere le sorelle né di farsi convincere a svelar loro il volto del marito. Le disse che era in arrivo una minaccia, ma quella non ne volle sapere e alla fine fece strappare al marito un assenso. La previsione si rivelò corretta: giunsero le sorelle, che presto sentirono nascere in sé il tarlo dell’invidia e tramarono alle spalle della giovane per rovinare quella divina unione. Instillarono in Psiche il seme del dubbio e della malizia, convincendola che quell’essere amato che ogni notte le faceva visita altro non era che un mostro repellente e infido che le nascondeva la sua vera natura. Da quel momento il pensiero della donna si volse ossessivamente alle parole delle consanguinee e la paura e la diffidenza la vinsero. Fu così che una notte, colta dall’ansia e dal sospetto, si armò di un affilato rasoio e accese, quando Cupido si fu addormentato quieto sul suo grembo, una lampada da cui, per sventura, cadde una goccia d’olio che finì sul corpo dell’amato. Questi si svegliò di soprassalto e fuggì lontano, mentre Psiche, accortasi che non si trattava affatto di un essere mostruoso, tentava invano, in lacrime, di fermarlo.

Infuriata e disperata per la perdita subita, la giovane partì allora alla ricerca delle invidiose sorelle e, indifferente ai legami di sangue, non appena le trovò le spinse a gettarsi da un precipizio.

Nel frattempo Venere, che fino allora era rimasta all’oscuro delle peripezie del discolo figlio, venne informata da un gabbiano della relazione amorosa fra Cupido e Psiche e, infuriata, corse a rimproverarlo pesantemente. Pensò poi a un piano per punire la rivale.

Chiamò due sue insopportabili ancelle, Affanno e Tristezza, e le mandò a percuotere e torturare Psiche, che già portava in grembo il figlio di Cupido. Dopo averla presa per i capelli e malmenata lei stessa, la sottopose a quattro prove di difficile compimento. La prima consisteva nel mettere ordine in un ammasso di granaglie, nel cui compito Psiche venne aiutata dal provvidenziale aiuto di alcune laboriose formiche, che sentirono pietà per lei. La seconda prevedeva che raccogliesse il fiocco della lana d’oro di un gregge di pecore, rabbiose verso gli esseri umani, e qui ricevette i consigli di una canna parlante che le suggerì come fare. La terza imponeva che portasse alla dea l’acqua tenebrosa dello Stige, compito che portò a termine grazie all’assistenza di un’abile aquila. L’ultima richiedeva che scendesse agli Inferi ed ottenesse da Proserpina una sua crema di bellezza, e questa volta fu una torre a dirle come procedere, ma in tale prova, disgraziatamente, fallì. Di nuovo la curiosità, ma anche il narcisismo, prevalse su quest’anima semplice e recidiva che, nonostante gli avvertimenti, non seppe resistere alla tentazione di aprire il barattolo per provare un po’di quella crema e, nel farlo, cadde in un sonno infernale simile a morte.

Per fortuna, Cupido riuscì a fuggire dalla prigione dove era stata rinchiuso e finalmente venne a svegliarla da un sonno che avrebbe potuto rivelarsi eterno. Si diresse poi da Giove per chiederne la protezione, e il re di tutti gli dèi acconsentì, in cambio di qualche avventurina con qualche bella ragazza. Giove chiamò a riunione tutti gli dèi e li invitò ad acconsentire al matrimonio fra Cupido e Psiche, anche per ridurre gli ardori di quel giovane dio. Rassicurò Venere sul fatto che avrebbe fatto celebrare un matrimonio fra eguali per non recar danno al suo casato e mandò Mercurio a prendere Psiche per portarla sull’Olimpo e farle bere l’ambrosia che rende immortali, pronunciando queste parole: «Prendi, Psiche, e sii immortale. Mai Amore ripudierà il vincolo che a te lo unisce. Da oggi voi siete uniti in matrimonio per l’eternità».10 Da questo momento Psiche divenne immortale e il suo amore si fece eterno.

Di questo mito sono state date diverse letture, ad esempio in chiave psicoanalitica, come quella proposta da Erich Neumann,11 Marie-Louise von Franz12 o Paolo Boccardi Storoni,13 che leggerebbero in tale favola un conflitto fra le pulsioni dell’inconscio e la coscienza che giunge a sublimare le pulsioni per inquadrarle in un sistema in cui domini la ragione. Un’altra interpretazione è quella mistica, che ha a che fare con il culto di Iside, qui rappresentata da Venere. Le prove a cui sottostà Psiche altro non sarebbero che le cerimonie di iniziazione al culto di Iside, mentre Psiche è l’anima che, caduta dall’aldilà per l’attrazione verso una bellezza terrestre, tenta di tornare nel mondo immortale.

Mettendo da parte la lettura in chiave junghiana o quella legata ai misteri di Iside, sottolineerei qui le somiglianze fra il mito di Eros e Psiche e quello platonico della caverna, che prenderemo in considerazione tra poco. In entrambi i casi abbiamo a che fare con un disvelamento della verità.

Abbiamo visto che la curiosità umana ha spinto Psiche a voler vedere ciò che le era stato negato. Questo le ha causato diversi problemi: la fuga di Eros in un primo momento e, successivamente, un sonno all’apparenza mortale. Il tentativo di dare un volto all’amore è risultato foriero di sofferenze e conseguenze inaspettate. La domanda che ci si deve porre è dunque il motivo per cui conoscere la verità sia così pericoloso e inopportuno per un essere umano.

Nel caso in questione abbiamo a che fare con un umano che pretende di conoscere un sentimento di natura divina, l’amore, e pretende di farlo mediante un senso, la vista, appartenente a un mortale. Secondo Fedro, poeta e narratore amico di Socrate, chi è innamorato è superiore a chi è amato, perché un dio lo possiede.14 Psiche, ancora umana, non ama il marito,15 ma in ogni caso pensa di non poter amare un essere che non sia bello, e ne deve perciò conoscere l’identità. Solo il simile si conosce con il simile, secondo Empedocle. Il problema è che Psiche non si è ancora elevata a livello divino: non ama e dunque non si trova su quello stesso livello da cui è possibile scorgere il divino che sta dinanzi a lei. Dei due possibili tipi di amore, quello celeste e quello volgare, lei sta vivendo il secondo, chiamato Pandemio, il prediletto dai mediocri, che si interessano al corpo più che all’animo, e preferiscono gli esseri superficiali a quelli più profondi, perché concedono sé stessi in un fugace atto carnale che nulla pretende e niente lascia. Ciò che prova Psiche, nel momento in cui si sofferma sul corpo dell’amato, ha tutti i connotati di un amore volgare, lieto del suo temporaneo godere. Il carattere transitorio di tale affetto viene confermato dal fatto che Amore sparisce immediatamente quando Psiche lo guarda. Psiche ha voluto sapere, razionalizzare un sentimento che nulla ha di razionale, non solo perché nato per volontà divina, ma perché come ogni amore non possiede spiegazioni. In questo caso conoscere significa analizzare, sezionare ciò che deve necessariamente rimanere unitario per sopravvivere. Qui il piano dei sentimenti e delle passioni viene trasposto su quello della logica. I due livelli operano però su coordinate differenti: l’uno ha carattere personale e dipende dal soggetto che sente e prova, l’altro ha carattere impersonale e possiede leggi di tipo oggettivo. Come spiega Kant, il colore verde dei prati rientra nella sensazione oggettiva, in quanto percezione di un oggetto del senso, mentre la sua gradevolezza rientra nella sensazione soggettiva, con la quale non viene rappresentato alcun oggetto.16 Si tratta cioè di una sensazione che costituisce un sentimento (Gefühl) che non corrisponde alla conoscenza dell’oggetto medesimo. Ciò che è concesso a Psiche è dunque solo un sentire, non ancora un conoscere.

Le somiglianze con il racconto platonico della caverna riguardano lo svelamento e il grado di elevazione a cui gli uomini sono giunti. Anche in questo caso una luce diviene foriera di verità e di dolore, ed in entrambe le situazioni coloro che guardano direttamente la verità soffrono perché impreparati. Psiche potrà godere del suo amore solo dopo essere divenuta immortale, aver compreso il proprio errore, che consiste nell’aver valutato con parametri mortali ciò che è divino, e aver sofferto per esso. Similmente i prigionieri della caverna potranno vedere la luce solo dopo molta sofferenza. I due miti ci insegnano allora che è fondamentale che l’essere umano si alzi per vedere ciò che sta oltre la sua limitata visione, così come è necessario che l’uomo esca dalla caverna di ombre in cui vive per scorgere la verità, cosciente del fatto che da tale oscurità non si potrà uscire finché non si è pronti, spiritualmente e conoscitivamente. È proprio di questo che ci occuperemo nel prossimo paragrafo.

3. Il mito della caverna

Nel settimo libro di La Repubblica Socrate spiega a Glaucone, fratello minore di Platone, il mito della caverna, nel tentativo di chiarire che cosa sia la cultura (paidéian) e la sua mancanza (apaideusían).

Dobbiamo immaginarci, dice Socrate, una caverna dotata di un’apertura da cui entra la luce. In essa vivono fin dall’infanzia degli uomini, incatenati alle gambe e al collo, costretti a rimanere lì guardando soltanto in avanti, verso la parete, perché le catene non permettono loro di girare la testa. Dietro di essi c’è un muretto dietro al quale camminano delle persone che portano vasi e statue di ogni tipo e, alle spalle di questi, brilla un fuoco.

I prigionieri che vivono in quella caverna non vedono altra cosa che le ombre degli uomini dietro il muro, proiettate dalla fiamma sulla parete della caverna. Poiché non hanno mai visto altra cosa al di fuori di quelle, pensano che le ombre che vedono siano reali e che la loro voce sia l’eco che sentono su quella parete.

Immaginiamo ora, dice Socrate, cosa accadrebbe se quegli uomini fosse liberati dalle catene e dall’ignoranza. Chi venisse così liberato proverebbe dolore a muovere le proprie membra e a guardare direttamente la luce, da cui risulterebbe abbagliato. Non servirebbe a nulla dirgli che ciò che vedeva prima altro non era che apparenza mentre ora il suo sguardo è più vicino all’essere e rivolto ad oggetti reali. Non ci crederebbe affatto e gli sembrerebbe evidente che ciò che vede è molto più sfocato ed irreale di quanto vedeva prima, e perciò meno vero. Costretto a guardare verso la luce, a causa del dolore agli occhi l’antico prigioniero cercherebbe di fuggire verso ciò che vede meglio e che ritiene più vero. Anche se fosse trascinato verso la luce non riuscirebbe a scorgere neppure uno degli oggetti illuminati dal sole. Dovrebbe abituarsi lentamente e all’inizio scorgerebbe con facilità le ombre, poi le figure riflesse nell’acqua e solo alla fine vedrebbe tutto così come è in realtà. Dopo un bel po’sarebbe pronto a dare un’occhiata veloce al sole e ne capirebbe la funzione, ossia che esso è la causa di tutto ciò che i prigionieri vedevano. Sentirebbe poi pietà per i suoi compagni ma, anche se decidesse di svelare loro l’illusione in cui vivono, di liberarli e portarli al cospetto del sole, verrebbe deriso e probabilmente ucciso da chi non gli crede o non vuole credergli.17

Si conclude così il racconto del mito, a cui segue la spiegazione.

Il mondo visibile è rappresentato dalla dimora in prigione, mentre il fuoco costituisce il sole. La salita dell’uomo in superficie corrisponde all’ascesa dell’anima verso il mondo intelligibile. Aggiunge Socrate: «Ti sembra dunque strano che chi passa dagli spettacoli divini alle umane miserie si comporti goffamente e appaia ridicolo, appunto perché ancora ottenebrato e costretto, prima di essersi ben abituato a questa oscurità, a difendersi nei tribunali e altrove dalle ombre della giustizia e dalle immagini che proiettano quelle ombre, o a rifiutare l’interpretazione di tali immagini da parte di chi non ha mai contemplato l’essenza della giustizia?».18 Chi abbia scoperto la verità, che cosa sia effettivamente giusto, deve dunque fare i conti non soltanto con sé stesso, e con il dolore che provoca l’aver compreso di aver vissuto fino allora nell’errore ma deve anche confrontarsi con l’incomprensione esterna. Nessuno è disposto a credergli perché è da troppo tempo assuefatto a immagini e idee che reputa reali: la maggioranza degli esseri umani non mette neppure in discussione ciò in cui crede e considera folle chi si discosta dal sentire comune. Con la folla il sapiente cerca inizialmente di dialogare, di trasmettere ciò che sa, convinto dell’importanza e del valore della sua scoperta, ma riceve in cambio solo derisione, se non odio e disprezzo. Sembra chiedersi allora Socrate, come farà un paio di millenni dopo Nietzsche, «come trasmettere agli uomini la verità?». Platone usò il mito, Nietzsche l’aforisma, nella consapevolezza che qualsiasi verità svelata nella sua luce diretta è troppo accecante, e sta al singolo decidere se voler conoscerla. Per Platone, chi abbia raggiunto la verità non deve rimanersene isolato lassù, rifiutandosi di scendere di nuovo fra i prigionieri e di partecipare alle loro fatiche e ai loro premi. Ci sono nature, le migliori, che possono venire educate affinché comprendano e vogliano fare un giorno quell’ascesa.

Chi è assennato comprenderebbe però, aggiunge Socrate, che un essere turbato e incapace di vedere bene ha di certo subito un passaggio o dalla luce all’ombra, o dall’ombra alla luce, perché queste sono le cause dei disturbi agli occhi, e si chiederebbe da dove provenga. Con queste parole Platone ci suggerisce che ogni intimo turbamento va interpretato, e che v’è una ragione per la sensazione di smarrimento in cui sembrano trovarsi tante anime.

Se è vero dunque che scorgere la verità direttamente è doloroso e rischioso, è però possibile guardarla indirettamente, non tanto osservando le ombre ma scrutando con occhio più attento i propri simili e avvicinandosi a coloro che mostrano di averla già veduta. A tale scopo è necessario acuire la propria sensibilità e prestare attenzione nei confronti dell’altro. Non ascolta realmente, né realmente vede, colui che ricerca sempre una conferma a ciò che egli è negli occhi altrui perché pensa solo alle proprie parole e negli occhi di chi ha di fronte vede ancora sempre e solamente il riflesso narcisistico di sé stesso. La diversità non lo attrae e dell’altro accetta solo le somiglianze. Va da sé che un simile atteggiamento, preminentemente mentale, non permette di uscire dal circolo limitato delle proprie precostituite conoscenze.

La verità, ci insegnano i due miti, richiede fiducia: nei confronti dell’amore così come del sapere. In qualsiasi ambito si trovi, irrazionale o razionale, richiede apertura e un’ininterrotta capacità di mettere in questione le proprie certezze, specialmente laddove siano il risultato di un’indolente adeguarsi a convenzioni e valori comunemente ed acriticamente accettati. È su questo punto che Nietzsche ci farà riflettere, e il risultato sarà proprio ciò che Socrate aveva previsto: l’impietosa derisione della maggior parte dei suoi contemporanei, impreparati a vedere la verità e narcisisticamente convinti della propria superiorità, sopravvalutazione errata che mai li avrebbe condotti alla fama che invece raggiunse chi avevano tanto schernito. Per tal motivo nacquero e morirono incatenati, legati a pregiudizi che li rendevano tanto più sicuri quanto più mediocri. Dalla mediocrità si può però uscire e a tal fine è essenziale riflettere sulla verità.

4. La verità in senso extramorale

Quando parliamo di verità non possiamo esigerci dal parlare del filosofo, che è colui che ha la verità, («Er hat die Wahrheit»),19 e disprezza il presente e il momentaneo (der Augenblick). L’uso della parola «Augenblick» da parte di Nietzsche è molto significativo. Composta da Augen-, occhi, e -blick, da blicken, gettare uno sguardo, indica ciò che si coglie con uno sguardo fugace e che scompare troppo in fretta. Di ciò che possiede una tale brevità il filosofo non si cura, volto com’è all’immortalità (die Unsterblichkeit). Il filosofo è anche colui che non cerca l’eccitazione delle masse e l’applauso esultante, ma che percorre la strada da solo, un viaggio solitario che costituisce la sua più intima essenza.

In realtà, se leggiamo Così parlò Zarathustra, capiamo che il filosofo non può star solo tutta una vita e che il periodo di solitudine è propedeutico all’incontro con la folla. Dopo dieci anni trascorsi sui monti Zarathustra si stanca, infatti, della propria solitudine e, rivolto al Sole dice: «O grande astro, che cosa sarebbe la tua felicità se tu non avessi coloro a cui risplendi?».20 Zarathustra è tediato dal suo troppo sapere e necessita mani che a lui si protendano. L’impresa non è però facile, perché non appena egli scende fra gli uomini si accorge che non sono pronti ad ascoltare le sue parole, di cui ridono, incapaci di comprendere chi ha vissuto tanto al di fuori di schemi comunemente accettati. Poiché non sono in grado di capire chi sia il superuomo, Zarathustra decide di far capire loro chi è l’ultimo uomo, e il suo discorso inizia così: «è tempo che l’uomo si assegni la sua meta. È tempo che l’uomo pianti il seme della sua più alta speranza. Ancora è il suo terreno a ciò ricco abbastanza. Ma questo terreno diventerà un giorno povero e addomesticato, e nessun alto albero potrà più crescere in esso».21

La parola per indicare ciò che è addomesticato è zahm. Il passo continua così: «Ahimè, verrà il tempo in cui l’uomo non scaglierà più il dardo del suo desiderio al di là dell’uomo, e la corda del suo arco avrà disimparato a vibrare!».22

Ora, la docilità, l’essere addomesticato, sono condizioni proprie di chi, a seguito della ripetizione di determinati atti o espressioni, si è abituato allo stato di cose presente. Si addomestica l’uomo che accetta la realtà così com’è, seppur illusoria e priva di verità. Abituatosi alle convenzioni vigenti, l’essere umano dimentica che il linguaggio, i valori, le sicurezze di cui vive, altro non sono che invenzioni create per il quieto vivere, fissate in usi comunemente accettati per il buon vivere della società. La consuetudine ha permesso che venissero fissati i significati linguistici e le convenzioni hanno concesso agli uomini di vivere tranquillamente. Questi hanno assegnato un nome per ogni determinata cosa: hanno creato un linguaggio che permette loro di possedere una legge valida collettivamente e hanno chiamato verità la corrispondenza fra cose e designazioni linguistiche.

Cinque anni dopo Nietzsche ritorna su questo tema, asserendo che l’uomo ha creato un linguaggio perché costituisce qualcosa di solido su cui appoggiarsi per poter dominare il mondo: «l’uomo ha creduto per lungo tempo ai concetti e ai nomi delle cose come ad aeternae veritates […] nella lingua egli riteneva di possedere veramente la conoscenza del mondo. Il plasmatore del linguaggio non era così modesto da credere di dare semplicemente designazioni alle cose, egli immaginava piuttosto di esprimere con le parole la più alta sapienza sulle cose; in effetti la lingua è il primo gradino dello sforzo verso la scienza. Anche qui, è la fede nella verità trovata quella da cui sono sgorgate le più poderose sorgenti di energia. Molto più tardi — soltanto ora — agli uomini comincia a balenare l’idea di aver propagato, con la loro fede nel linguaggio, un errore mostruoso. Fortunatamente è troppo tardi perché ciò possa far regredire lo sviluppo della ragione, che si fonda appunto su quella fede».23 L’illusione di aver espresso mediante il linguaggio la verità sulle cose dunque non è stata qualcosa del tutto negativa, perché è grazie alla fiducia sul suo potere che l’uomo ha potuto sviluppare la propria ragione. La convinzione che un’affermazione sia giusta permette di costruire scienza indipendentemente dalla verità dell’affermazione stessa. La matematica, ad esempio, ha potuto costruirsi su premesse che non trovavano corrispondenza nella realtà. Ne è un esempio il fatto che non esista una linea assolutamente retta in natura. Anche su un’illusione, ci suggerisce Nietzsche, è possibile creare un intero sistema, così come nella vita di tutti i giorni solide relazioni umane funzionano perfettamente poggiandosi a false convinzioni, almeno fino a che gli interlocutori si muovono sullo stesso erroneo piano.

L’abitudine ad associare una parola a un concetto, o anche una persona a un carattere, in seguito alla ripetizione si tramuta in convinzione e, ad un livellò più alto, in verità. Ogni atto ripetuto rischia però di divenire un’assuefazione. Posti ogni giorno dinanzi ad affermazioni che non sono vere ma che vengono a più riprese presentate come tali, ci si convince della loro attendibilità ma, anche laddove non si venga convinti, si sente il naturale bisogno di crederci. I motivi sono diversi, e spaziano dalla pigrizia mentale, al carattere eccessivamente influenzabile, alla necessità di integrazione. Nel mondo odierno i mezzi di comunicazione hanno una potenza tale da convincere chiunque li ascolti a credere in ciò che affermano, come ci aveva predetto Orwell.24 La distinzione fra verità e menzogna non è d’altronde affare semplice. Ci si potrebbe chiedere quali siano i criteri con cui distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è. Sappiamo già che il fatto che un’affermazione venga ripetuta da più parti e venga condivisa dalle masse non è un criterio sufficiente per assegnarle veridicità. Ci si deve allora muovere in maniera diversa.

L’insegnamento di Zarathustra sta proprio in questo. Abbiamo a che fare con un uomo che ha vissuto isolato per un lungo periodo di tempo, durante il quale non ha subito l’influsso di nessuna mentalità estranea alla propria. Si è presentato limpido di pensiero a una folla già perfettamente inserita in un fallace sistema sociale, in cui vigono determinate leggi e convinzioni. Questa sorta di eremita possiede tuttavia un linguaggio in comune con tale folla, dato che ha vissuto per lo meno trent’anni della propria vita con essa. Il possesso da parte di tutti di questo strumento è fondamentale, perché senza di esso non esisterebbe quell’elemento comune che permette di comunicare. In quei dieci anni di isolamento, però, Zarathustra non ha usato quel mezzo con nessun altro essere umano, né ha condiviso le proprie idee, ma ha riflettuto autonomamente su ciò che egli è ed è divenuto, e su ciò che qualsiasi uomo dovrebbe divenire. È andato oltre sé stesso pur rimanendo sempre presso di sé.

Scoperto che esiste un uomo che va oltre l’uomo, l’Übermensch, ha deciso di insegnarlo ai suoi simili ma, come nella caverna platonica, si è ben presto reso conto che la verità è una conquista del tutto personale. Possiamo scoprire le vere immagini degli oggetti che conosciamo, porre l’uomo dinanzi alla luce del sole affinché la veda direttamente, ma il risultato che otterremo sarà sempre l’accecamento. La verità non può essere trasmessa direttamente ma solo per suggerimento: ogni singolo individuo deve compiere il proprio personale cammino. La verità che possediamo, ci suggerisce Nietzsche, è un’illusione creata per avere un terreno comune in cui comunicare e di cui servirci temporaneamente per poter sopravvivere fino a che ognuno non avrà compiuto la sua personale scoperta. Gli uomini si muovono a proprio agio e uniti solo nel terreno della menzogna. Il vero danno e le vere problematiche sorgono dinanzi alla verità che spaventa per il riflesso che offre a chi la guardi. Tolto il velo che copriva lo specchio dell’illusione ci sentiamo come il protagonista di Oscar Wilde che rivede la sua immagine sul quadro che ritrae le sue vere sembianze.25 Non tutti scorgeranno di sé un’immagine orripilante, ma molti non si riconosceranno, abituati come sono ad avere un’immagine distorta di ciò che sono. Eppure di un tale inganno l’uomo ha bisogno.

Racconta a questo proposito Nietzsche una favola, che narra di un astro sperduto nell’universo in cui vivevano alcuni animali intelligenti che scoprirono il conoscere (das Erkennen). Si riempirono a causa di ciò di superbia, ma la scoperta durò solo un minuto, perché quasi subito l’astro si spense e quegli animali dovettero morire. Fino ad allora avevano vissuto pieni di superbia, convinti di sapere ogni cosa, quando in realtà facevano affidamento su conoscenze fallaci. L’avevano capito così, nel momento in cui avevano scoperto il conoscere. Quando morirono maledissero allora la verità per il destino che gli aveva inflitto.

Questa è la storia che ci racconta Nietzsche, che poi ci spiega, dicendo che all’uomo toccherebbe la stessa sorte se fosse solamente un animale conoscente. La totale verità lo spingerebbe alla disperazione e all’annientamento, perché tale verità consisterebbe nella consapevolezza d’essere destinato in eterno alla non-verità. All’uomo si addice soltanto la fede nella verità raggiungibile, illusoria, a cui si avvicina pieno di fiducia. Vive dunque grazie ad un continuo venir ingannato. Fra arte e conoscenza dunque, conclude Nietzsche, è migliore l’arte, che crea e vuole la vita, mentre la conoscenza porta solamente all’annientamento.26

Con questo siamo arrivati a comprendere che cosa Nietzsche intenda per verità. Essa è il vero, ciò che viene conosciuto. Ciò che viene conosciuto non può propriamente essere vero o falso dato che il vero conoscere si muove necessariamente solo nell’ambito della verità. Un conoscere falso non può avere valore di conoscenza, e sarebbe dunque contradditorio parlare di conoscenza falsa: semplicemente non si tratta di conoscenza.

Verità e conoscenza sono dunque correlate. Un esame di ciò in cui consiste il conoscere aiuta a farci comprendere che cos’è il vero. Resta da capire quante specie di conoscere ci siano, perché se è vero che conoscenza non c’è se vi è falsità, è anche vero che l’uomo continuamente si illude di conoscere, ma a tale illusione crede, come chi procede convinto di ciò che dice, perché nella convinzione sta la forza delle sue argomentazioni.

Ci sembra però che la verità dovrebbe costituire una forza stabilizzante nella vita, e non il principio del suo annientamento, come sembra suggerirci Nietzsche. Perché allora Nietzsche parla di una verità che porta al nichilismo? Conosciamo bene la famosa affermazione nietzschiana «bisogna avere ancora il caos in sé per poter partorire una stella danzante»,27 che fa riferimento alla caratteristica più propria dell’uomo, quella del divenire. Nulla in lui è fisso: tutto in lui è cambiamento. Ora, se assumessimo come vera l’idea che l’uomo conosce la verità, dovremmo ritenere che una tale verità sia immutabile e stabile, elemento che non può cambiare per non trasformarsi nel suo contrario. Ammesso questo, l’uomo si troverebbe a vivere in un mondo con cui non ha elementi in comune e, dato che il simile si conosce con il simile, non verrebbe mai a conoscere la verità. E, in effetti, questo è ciò che accade. Della verità non conosce l’essenza, ma la sua versione edulcorata ed illusoria che gli permette di avvicinarsi ad essa senza rischio di morire. Uno scontro diretto causerebbe la morte dell’uomo. La verità, infatti, tende a rendere fisso il divenire dell’uomo, togliendogli il caos che ha dentro di sé. Questo può significare una maggiore stabilità, ma si tratta di quella stessa stabilità che l’uomo possiede nel momento estremo della morte, quando già giace disteso e immobile nel suo sepolcro. Fissare il caos significa eliminare ogni futura possibilità di creazione, perché non c’è più nient’altro da modellare per creare qualcosa di nuovo, ma tutto è già fisso, posto in un determinato scomparto, impossibilitato a trasformarsi ulteriormente.

La verità illusoria a conti fatti non è così deleteria come aveva potuto apparirci in un primo momento, perché con essa l’uomo sopravvive e sa muoversi a proprio agio.

In questo mondo, che non è mai come realmente appare, l’essere umano deve essere capace di interpretare quanto gli si pone dinnanzi, ed in questo sforzo ermeneutico sta tutta la sua volontà di verità, come Nietzsche stesso afferma: «“volontà di verità” […] è sostanzialmente arte di interpretare; a questo fine occorre ancora sempre forza interpretativa. La stessa specie d’uomo, divenuta più povera ancora di un grado, non più in possesso della capacità di interpretare, di creare immagini fittizie, costituisce il nichilista».28

Interpretare significa allora avvicinarsi alla realtà con una disposizione di apertura, così come l’esistenza ha carattere aperto, un «carattere che mette in crisi ogni concezione della verità come obiettività e come evidenza»,29 come osserva Vattimo. La sorte di colui che non sa più interpretare, ossia creare, è l’annichilimento. Ci si dirige verso il nulla ogniqualvolta ci si rifiuti di cogliere il divenire che caratterizza l’esistenza. Tentare di fissarlo in regole immutabili e in valori saldi e indiscutibili significa eliminarne il carattere più essenziale, per un bisogno di sicurezza che non trova soddisfazione nel mondo attuale così com’è.

Nietzsche aveva ben chiaro che la maggior parte degli esseri umani, la folla indiscriminata e mediocre, cercava nei suoi simili caratteristiche immutabili e immediatamente individuabili, per la paura nei confronti di tutto ciò che è diverso e non facilmente inquadrabile. Ci si ostina a cercare attributi comuni e fissi, perché risulta più semplice muoversi in un labirinto costituito da esseri umani che mai si spostano. Il loro movimento determinerebbe un cambiamento di rotta di parte di chi in quel labirinto si muove. È più facile percorrere sempre la stessa strada, vedere ciò che vedono tutti e non muoversi in continuazione come uomini ebbri in un mondo in perenne movimento.

Il merito di Nietzsche fu questo. Comprese che la verità fissa e indiscutibile costituisce per molti una certezza, ma è in realtà una menzogna, creata da chi si sente a disagio di fronte al cambiamento ed è troppo debole per continuare a spostare il suo baricentro, che è il suo punto di vista. Per secoli ci siamo affidati a valori incrollabili che hanno costituito le fondamenta della nostra religione e i pilastri del nostro comportamento, ma che hanno anche rappresentato le catene del nostro libero pensare. Nietzsche si chiede: «si può rimanere consapevolmente nella menzogna?»,30 cosciente del rischio che, una volta scoperto di vivere in essa potremmo essere sopraffatti dalla disperazione, adirati con il nostro passato e incerti nei confronti di un futuro menzognero. Ci tranquillizza però quando afferma che si può vivere per meglio conoscere e scrollarsi di dosso le catene della vita. Si può anche rinunciare a ciò che ha valore presso gli altri uomini. Parlando dell’uomo superiore, dice: «a lui deve bastare, come lo stato più desiderabile, quel sollevarsi libero e senza paura al di sopra degli uomini, costumi, leggi e tradizionali valutazioni delle cose».31 Colui che sa in che specie di mondo vive si muove su un piano diverso da colui che vive soddisfatto e incurante della falsità del proprio mondo. Coglie il carattere illusorio della realtà e continua a cercare. Sa che viviamo in un’illusione per questioni di sopravvivenza, ma non prende per vero tutto ciò che gli viene trasmesso come inconfutabilmente tale. Dell’esistenza sa cogliere tutto il carattere di apertura e vi si muove con agilità, fluido come deve essere chi sa realmente vivere, mai rigido come chi vive di certezze e pregiudizi che, nella loro fissità, gli permettono di non scuotere troppo l’edificio pericolante della propria vita.

Nietzsche ci avverte dunque dei rischi della verità e ci fa comprendere che soltanto l’uomo superiore è in grado di avvicinarsi ad essa, dopo un lungo periodo di ricerca, che l’ha portato a comprendere che la verità di questo mondo è normalmente la non-verità, in cui la maggioranza vive agevolmente, un agevolezza tale da portare l’individuo mediocre a non farsi domande sulla sua esistenza. Arrivare ad essa è un processo doloroso e graduale, il cui risultato finale è una conoscenza che deve essere trasmessa con attenzione, solo a chi sia in grado di riceverla. Certo sta al singolo decidere se seguire il branco accettando le convenzioni fisse, vincolanti per tutti, o scegliere di staccare quella catena e iniziare a guardare oltre le ombre, per uscire dai limiti della caverna, rassicurante come tutte le cose a cui ci si abitua e limitante per la sua ristrettezza. In conclusione, Nietzsche non elimina un mondo a favore dell’altro, ma li mantiene entrambi, quello della verità e quello della non-verità, consapevole del fatto che la maggioranza degli esseri umani necessita di menzogne per vivere, ma un’altra minoranza, grazie al suo sforzo, necessita conoscere, ed è questa a permettere il progresso dell’umanità.


  1. F. Nietzsche, La mia vita, tr. M. Carpitella, Milano, Adelphi, 2003, p. 113. ↩︎

  2. T. Hobbes, Leviatano, tr. A. Lupoli, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 101. ↩︎

  3. F. Nietzsche, Su verità e menzogna, tr. F. Tomatis, Milano, Bompiani, 2006. ↩︎

  4. Platone, La Repubblica, a cura di G. Lozza, Milano, Mondadori, 1990. ↩︎

  5. Apuleio, Le Metamorfosi, tr. C. Annaratone, Milano, BUR, 1997. ↩︎

  6. Venere, o Afrodite per i Greci, è la dea dell’amore e della bellezza, figlia di Zeus e Dione, nata dalla schiuma del mare presso l’isola di Cipro. È moglie di Vulcano, ma spesso gli preferisce Marte, che viene a volte rappresentato come suo secondo marito. ↩︎

  7. Cupido è il nome romano di Eros, detto anche Amore. Figlio di Venere e Marte, era raffigurato come un bellissimo fanciullo alato che, a detta di Apuleio, armato di saette infocate, girava di notte per le dimore altrui seminando zizzania tra gli sposi. ↩︎

  8. Il mito di Amore e Psiche conosce diverse varianti. Secondo alcuni scrittori Cupido si sarebbe innamorato di Psiche scagliandosi contro una delle proprie frecce. Secondo Apuleio, invece, non è chiaro come ciò avvenga. Disobbedendo all’ordine della madre, invece di far innamorare quella splendida donna di un essere orripilante, si accosta egli stesso con lei. Dalle parole di Venere, infuriata con lui, capiamo che Cupido era un dio giovane, irresponsabile, scapestrato, che si divertiva a far innamorare persino Marte, l’amante della madre, di tante giovani ragazze. Non stupisce allora che disobbedisse alla madre senza alcun problema, e che abbia dunque deciso di prendere per sé Psiche, anche senza l’ausilio di una freccia. Di fatto Apuleio racconta solamente che, dopo aver fatto portare Psiche nei pressi di un palazzo, la notte arriva per divenire suo sposo. ↩︎

  9. Apollo è figlio di Zeus e Latona. È fratello di Artemide, o Diana. Dio della luce e dell’intelligenza, è protettore delle arti ed è dotato di capacità profetiche. Per tale motivo numerosi erano i suoi santuari, dove la gente si presentava a chiedere responsi. ↩︎

  10. Apuleio, Le Metamorfosi, cit., p. 369. ↩︎

  11. E. Neumann, Amore e Psiche. Un’interpretazione nella psicologia del profondo, a cura di V. Tamaro, Roma, Astrolabio, 1989. ↩︎

  12. M.L. von Franz, L’asino d’oro, Torino, Boringhieri, 1985. ↩︎

  13. P. Boccardi Storoni, Cupido e Psiche tra mito e fiaba, Palermo, Sellerio, 1984. ↩︎

  14. Platone, Il Convito, tr. N. Marzano, Milano, Garzanti, 1981, p. 196. ↩︎

  15. Psiche si innamorerà di Cupido solo dopo averne scorto l’aspetto ed essersi punta per errore con una delle sue frecce. ↩︎

  16. I. Kant, Critica della capacità di giudizio, a cura di L. Amoroso, Milano, BUR, 1995, pp. 157-159. ↩︎

  17. C’è qui un chiaro riferimento al destino di Socrate, ucciso dagli ateniesi. ↩︎

  18. Platone, p. 545. ↩︎

  19. F. Nietzsche, Su verità e menzogna, cit., p. 62. ↩︎

  20. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, tr. S. Giametta, Milano, BUR, 1994, p. 25. ↩︎

  21. Ibid., p. 32. ↩︎

  22. Idem. ↩︎

  23. F. Nietzsche, Umano, troppo umano, tr. M. Ulivieri, Roma, Newton Compton editori, 1979, pp. 46-47. ↩︎

  24. G. Orwell, 1984, tr. G. Baldini, Milano, Mondadori, 1950. ↩︎

  25. O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, in Romanzi e racconti, a cura di A. Camerino, Roma, Gherardo Casini editore, 1958, pp. 9-193. ↩︎

  26. F. Nietzsche, Sul pathos della verità, in Su verità e menzogna, op. cit., pp. 71-75. ↩︎

  27. F. Nietzsche, Zarathustra, cit., p. 32. ↩︎

  28. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, vol. VIII, t.2, fr. 9 [60]. Viene qui utilizzata l’edizione italiana a cura di G. Colli e M. Montinari, Opere di Friedrich Nietzsche, Adelphi, Milano 1964. Il numero romano indica il volume, quello arabo il tomo. ↩︎

  29. G. Vattimo, Dialogo con Nietzsche. Saggi 1961-2000, Milano, Garzanti, 2000, p. 84. ↩︎

  30. F. Nietzsche, Umano, troppo umano, cit., p. 64. ↩︎

  31. Ibid., p. 65. ↩︎