Giovanni Cucci, Abitare lo spazio della fragilità. Oltre la cultura dell’homo infirmus, Ancora, Milano 2014
L’ultimo volume di Giovanni Cucci si sofferma a considerare, in primis, l’importanza di recuperare «la domanda sapienziale» che attraversa l’intera esistenza umana. A partire da questa prospettiva è infatti rilevata l’urgenza, nell’odierno contesto culturale, di ripensare non solo una piattaforma di valori condivisi, ma anche modelli concreti che consentano di orientarsi nelle nostre società complesse (cfr. p. 15). L’A. in questo volume raccoglie, dunque, la sfida della complessità, muovendosi su diversi registri disciplinari e lasciando interagire in un dialogo fecondo psicologia, filosofia e spiritualità.
Nel primo capitolo il testo ci immerge in un’analisi della cultura terapeutica, una cultura che ha preso piede, si sottolinea, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso. Di questa analisi intendiamo sottolineare due punti cardine: il primo riguarda l’invasività dell’approccio «terapeutico» in tutti gli ambiti della realtà umana. I diversi aspetti della vita, sia nella sua dimensione sociale sia in quella individuale, sono stati progressivamente pervasi dalla centralità che ha assunto la salute psichica «intesa come sinonimo di benessere e felicità» (p. 19). L’immagine di un individuo debole di fronte alle difficoltà della vita, la preponderante attenzione sui bisogni individuali, la scomparsa di una chiara linea di demarcazione tra il pubblico e il privato, hanno ingenerato significative conseguenze quali ad esempio la manipolazione della comunicazione, finalizzata ad un risalto sempre maggiore dell’impatto emotivo suscitato. Questo è particolarmente visibile nella vita politica, dove, cita l’A., «l’ostentazione dei problemi affettivi è ampiamente in grado di bilanciare la povertà dei contenuti, la dubbia moralità e l’incapacità di governare» (p. 24). È interessante osservare che lo sviluppo di tale visione conduce, da un lato, alla teorizzazione di un «io minimo» e, dall’altro, all’impotenza appresa (a questo riguardo sono citati nel testo rispettivamente C. Larch e M. Seligman).
La seconda questione che ci sembra importante considerare costituisce il punto di snodo tra l’approccio psicologico e quello filosofico. Si tratta, infatti, di cogliere il modello antropologico di fondo che la cultura terapeutica presuppone. Pertanto, nel secondo capitolo, si pone l’accento in maniera particolare sul passaggio, avvenuto in epoca moderna, da un piano, quello dei contenuti e della comunicazione mediante dimostrazione, all’altro, quello della persuasione, in modo speciale in ambito etico-politico. A caratterizzare quest’ultima modalità comunicativa è la superficialità su decisioni anche gravi, la manipolazione di massa (ne sono un esempio i totalitarismi del XX secolo) e il conseguente innesco di meccanismi di non ritorno, che spesso invadono importanti ambiti decisionali. L’A. sottolinea l’urgenza di rivedere il modello cartesiano e l’affermarsi di un paradigma di riferimento come quello della «salute mentale», che l’occidente esporta e impone in tutto il mondo (cfr. pp. 52-53). I presupposti della cultura terapeutica possono essere allora riconsiderati in un’ottica filosofica: attraverso le riflessioni del filosofo scozzese A. MacIntyre, è sviluppata un’attenta analisi della modernità e degli assunti di base che le società occidentali assumono in maniera acritica. In riferimento al testo Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, sono indicati alcuni tratti peculiari della modernità, primo fra tutti una «ingenua fiducia nella ragione», che trova nello stesso termine illuminismo una sottesa e quasi scontata superiorità rispetto all’epoca precedente (cfr. pp. 64-65). A tale atteggiamento si affianca una filosofia sganciata dalla «storia empirica» e che riflette una visione astratta e impersonale del reale. Gli autori citati (Weber, James, Diderot, Goethe, Kierkegaard, ecc.), che hanno in maniera significativa segnato questo passaggio, descrivono nelle loro opere una progressiva spaccatura interiore del soggetto (cfr. p. 67).
Alcune categorie che l’A. individua, mantenendo come sfondo delle sue riflessioni lo studio di MacIntyre, aiutano a focalizzare l’attenzione sui processi culturali che hanno formato la nuova visione del mondo dell’età moderna. Un esempio sono le «parole magiche» della modernità — diritti, protesta e autonomia — le figure emblematiche divenute in certo qual modo modelli di riferimento — l’esteta, il manager, il terapeuta — e quello che può essere considerato il manifesto della modernità, il romanzo. L’esito cui questo processo conduce è la frantumazione del soggetto e il «fallimento di un sogno»: i tentativi di una fondazione filosofica (ci si riferisce a Hume, Bacone e Cartesio) ne sono il segno e l’espressione.
I dati, inizialmente rilevati in ordine ad un’analisi psicologica, sono, nel testo, oggetto di una riflessione critica di carattere filosofico sui presupposti antropologici e ideologici della modernità. Seguendo ancora MacIntyre, è indicato un approccio all’esistenza mediante il recupero di tre elementi fondamentali della tradizione aristotelico-tomista: la nozione di pratica, la concezione riflessiva del filosofare, il riferimento alla tradizione. In questo contesto non sono semplicemente messi in rilievo gli elementi ancora fecondi di una prospettiva non sempre attentamente considerata, ma anche i limiti entro cui essa può essere assunta.
L’A. formula, allora, una proposta che si incentra sulla possibilità di recuperare l’aspetto sapienziale della vita, sia attraverso l’interrogativo posto nel titolo del V capitolo, «Che cosa significa educare? », sia rileggendo il testo biblico come un dono culturale che l’occidente non può eludere o mettere da parte (p. 130).
A conclusione del testo, sono esplicitate alcune parole chiave della Bibbia, volte a restituire l’immagine di un Dio che dialoga con l’uomo e affronta i suoi interrogativi più profondi. La capacità di dare senso a ciò che accade emerge accanto alla dimensione religiosa ed è, al contempo, capacità sapienziale (p. 128). Si tratta allora di ritrovare, dopo aver intrapreso il lungo viaggio della vita, la verità di se stessi (cfr. p. 151), che proprio il riconoscimento del limite e della costitutiva realtà creaturale che ci caratterizza può dischiudere, perché ci consente di abitare lo spazio della nostra fragilità.