La relazione con l’Altro: L’Abramo di Levinas e il Socrate di Arendt

Introduzione

Come pensare l’alterità, la relazione con l’altro? Tra le possibili risposte date a questo interrogativo, la prospettiva di Levinas e Arendt converge sostanzialmente su due punti: anzitutto che la relazione con l’altro è costitutiva della mia identità e di conseguenza che il disconoscimento dell’altro determina una realtà totalizzante. Questa realtà totalizzante rappresenta per Arendt la negazione della politica, per Levinas la negazione dell’etica. La proposta di Levinas e di Arendt, seppur nelle radicali differenze che caratterizzano i due pensatori, si incrociano anche in un altro punto fondamentale: la modalità conoscitiva del pensiero occidentale ha avuto spesso come premessa la cancellazione dell’alterità e della contingenza. La tendenza principale nel pensiero occidentale è stata quella di sviluppare una filosofia dell’identico, incentrata sul principio di identità e che pensa l’altro sempre a partire da sé, considerandolo un mero prolungamento dell’io, annullandone pertanto la sua unicità. Seguendo questa strada, l’io perde anche sé stesso: non riconoscendo l’unicità dell’altro, non comprende nemmeno sé stesso.

In particolare, secondo Levinas, la difficoltà di pensare la relazione con l’altro deriva da una certa impostazione tipica della filosofia di matrice greca, ed è l’eroe omerico Ulisse che ne impersonifica l’atteggiamento generale. L’atteggiamento di Ulisse descritto da Levinas è molto vicino a quello di Colombo esposto da Tzvetan Todorov nei confronti dei popoli indigeni del Nuovo Mondo. Levinas si rivolge alla tradizione ebraica per trovare un paradigma differente, rintracciando al suo interno molteplici esempi in grado di porre in primo piano il primato dell’etica sull’ontologia e della responsabilità sulla conoscenza astratta.

Seguendo altri percorsi rispetto a quelli scelti da Levinas, Hannah Arendt arriva a una conclusione simile: sono le relazioni tra gli uomini il fondamento del pensiero. Al centro del discorso di Arendt c’è la politica, la sua dicibilità, la necessità di dire il chi. Il chi è visibile solo agli altri, è il risultato di ciò che facciamo e diciamo di fronte ad altri. Possiamo affermare che dipendiamo dagli altri per stabilire chi siamo: desideriamo ricevere dagli altri questo chi. Per essere detto, questo chi non può essere ridotto ad un’astrazione filosofica. Questo chi può essere avvinato al concetto di volto presente in Levinas. Il volto dell’altro è la rivelazione di una trascendenza. L’altro si presenta e si impone per forza propria. Nell’epifania del volto scopro che il mondo è mio, nella misura in cui lo posso condividere con l’altro.

Secondo Arendt «l’abisso tra filosofia e politica si apre storicamente con il processo e la condanna di Socrate».1 Da questa condanna «l’ostilità tra filosofia e politica, a malapena velata da una filosofia politica, è stata la maledizione dell’arte di governo occidentale come della tradizione occidentale della filosofia fin da quando gli uomini di azione e gli uomini di pensiero hanno separato le loro strade, cioè fin dalla morte di Socrate».2 Interrogando la riflessione sulla figura di Ulisse sviluppata da Levinas e la riflessione sul pensiero socratico elaborata da Arendt, vedremo che solamente restituendo valore e dignità alla relazione con l’altro, ossia con una alterità irriducibile ma costitutiva della mia stessa identità, possiamo andare oltre quella modalità di violenza e prevaricazione che ha caratterizzato buona parte della storia occidentale.

Ulisse ed Abramo nel pensiero di Levinas: tra relazione e negazione dell’Altro

Ulisse e Abramo rappresentano nel pensiero di Emmanuel Levinas3 figure paradigmatiche di due modi diversi di intendere la relazione con l’altro. Entrambi sono i protagonisti di un viaggio, di una partenza. Ma se da una parte – come vedremo – è il ritorno a caratterizzare il viaggio di Ulisse, Abramo trova nel cammino verso una terra sconosciuta il senso del suo andare. In Abramo non vi è nessun nostos, nessun ritorno circolare al punto di partenza.

Ulisse agli occhi di Levinas è soprattutto l’eroe del ritorno a Itaca. L’eroe dal multiforme ingegno – come scrive Levinas nella prefazione a Totalità e Infinito – «desidera soltanto di tornare a casa sua».4 Il senso del suo viaggio sta in ciò che ha lasciato e in ciò che lo attende: la moglie Penelope, il figlio Telemaco, il cane Argo. Ulisse è la rappresentazione dell’identificazione del Medesimo nell’Io. In questa identificazione, il corpo, la casa, il lavoro e il possesso, non sono dati empirici e contingenti bensì sono «le articolazioni di questa struttura. L’identificazione non è il vuoto di una tautologia, né un’opposizione dialettica all’Altro, ma il concreto dell’egoismo».5 Ogni incontro, ogni scoperta dell’eroe omerico sono vissuti alla luce di un’identità fissa che deve essere sempre riconfermata e che porta a ridurre l’altro a sé.

Da qui la radice dell’azione violenta, della guerra. Ulisse, infatti, è espressione dell’esigenza tutta umana di incorporare a sé tutti gli elementi quali il cielo, la natura, le cose, e poi gli uomini stessi. L’azione violenta, per Levinas, è precisamente quella in cui ci si rapporta agli altri come se si fosse soli, ignorando il volto dell’altro, evitandone lo sguardo. L’azione violenta «non consiste nel trovarsi in rapporto con l’Altro, al contrario è esattamente quella in cui si è come se si fosse soli».6 La guerra consta primariamente in un atteggiamento dell’agente nei confronti del suo avversario. Nella lotta non avvicino l’avversario guardandolo in faccia, ma «mi scaglio ciecamente contro di essa».7 La guerra non è quindi lo scontro tra due agenti, ma il tentativo di una delle due parti di imporsi sull’altro. Ed Ulisse cercando solo una conferma alla propria identità, che deve essere riconfermata e mai messa in discussione, rappresenta la violenza della negazione della presenza dell’altro. Idealmente possiamo affermare che Cristoforo Colombo sia anch’esso definibile un novello Ulisse. Come scrive Tzvetan Todorov: «Egli sa in anticipo ciò che troverà; l’esperienza concreta non viene interrogata – secondo certe regole prestabilite – per la ricerca della verità, ma serve ad illustrare una verità che si possiede già prima».8 Il desiderio di ritorno di Ulisse e di Colombo più che un desiderio devono essere visti come un bisogno. Il desiderio, infatti, non è bisogno. Scrive Levinas:

L’analisi abituale del desiderio non potrebbe aver ragione di questa sua singolare pretesa. Alla base del desiderio comunemente interpretato starebbe il bisogno; il desiderio contrassegnerebbe un essere indigente e incompleto e decaduto dalla sua grandezza passata. Coinciderebbe con la coscienza di ciò che è stato perduto. Sarebbe essenzialmente nostalgia, male del ritorno.9

Il bisogno si apre su un mondo che è per me – che ritorna in sé. Il bisogno è il ritorno, l’ansia dell’Io per sé, l’egoismo, la forma originaria dell’identificazione, l’assimilazione del mondo. È un continuo muoversi in avanti mossi dal bisogno di tornare indietro. Indietro verso la patria, verso un’Itaca fisica e interiore. Il desiderio invece è quel movimento che Ulisse non può e non riesce a compiere. Il suo movimento è centripeto ha origine dalla casa per farvi ritorno, «l’avventura vissuta nel mondo è soltanto un caso accidentale capitato sulla strada del ritorno».10 Parallelamente, l’atteggiamento di Colombo nei confronti della nuova cultura che incontra è «nella migliore delle ipotesi, quello del collezionista di curiosità, e non si accompagna mai a un tentativo di comprensione».11

Il desiderio si definisce invece attraverso l’analisi dell’alterità verso la quale il desiderio si volge. È una partenza senza ritorno: «Il Desiderio non coincide con un bisogno insoddisfatto, si situa al di là della soddisfazione e dell’insoddisfazione».12 Nel desiderio, l’Io si dirige verso gli Altri, in modo da scongiurare la totale identificazione dell’Io con sé stesso, identificazione di cui il bisogno non è che la nostalgia, la coscienza del bisogno è l’anticipazione. Levinas inoltre afferma che «l’evasione è anche il bisogno di uscire da sé stessi, cioè di spezzare il più radicale incatenamento, il più irresistibile, il fatto che l’io è sé stesso».13 E dunque, che cos’è il desiderio degli altri: appetito o generosità? Levinas afferma che il desiderabile non sazia mai il mio desiderio:

Al di fuori della fame che può essere soddisfatta, della sete che può essere estinta e dei sensi che possono essere appagati, la metafisica desidera l’Altro al di là delle soddisfazioni, […] questo non significa che il desiderio posso fare a meno degli atti. Solo che questi atti non sono né consumazione, né carezza, né liturgia.14

È questo il desiderio: è ardere di tutt’altro fuoco del bisogno che, saziato, si spegne. Ulisse non è bruciato da questo desiderio, ma è comandato solo dal bisogno di tornare al punto di partenza. Ulisse non è in grado di desiderare: «Il desiderio metafisico non aspira al ritorno, perché è il desiderio di un paese nel quale non siamo mai nati. Di un paese straniero ad ogni natura, che non è stato la nostra patria e nel quale non ci trasferiremo mai».15 Per Levinas il viaggio d’Ulisse rappresenta l’immagine stessa della filosofia occidentale. L’ideale del pensiero occidentale, a parere di Levinas, è l’integrazione di ogni cosa all’interno dell’Immanenza del sapere totale. Ulisse, in quanto emblema della civiltà greca, incarna proprio quest’incedere della filosofia occidentale: «un andare e un perenne ritornare su sé stessa».16

La filosofia occidentale è stata per lo più un’ontologia: una riduzione dell’Altro al Medesimo […]. Questo primato del Medesimo ha costituito la lezione di Socrate. Non ricevere nulla da Altri se non ciò che è in me, come se, da sempre, io possedessi ciò che mi viene dal di fuori […]. La conoscenza è il dispiegarsi di questa identità.17

La filosofia occidentale per Levinas si esprime soprattutto nel tentativo di ridurre l’alterità all’identità. Pertanto, seguendo questa via, la filosofia occidentale addomestica ogni alterità, in un processo di astrazione che “isola” ogni particolarità per fare emergere una forma pura. L’idea di alterità di Levinas, intesa come ineguaglianza tra me e l’altro, si costruisce su un divenire originario che ha come propria caratteristica la transizione da me all’altro. All’opposto, la filosofia concepita come movimento di ritorno nostalgico «non ci apre altro che il racconto di un’avventura personale, di un’anima privata, che ritorna incessantemente su di sé, anche quando sembra fuggire sé stessa».18

Per la tradizione filosofica «i conflitti tra il Medesimo e l’Altro si risolvono con la teoria nella quale l’Altro si riduce al Medesimo».19 Ciò che sfugge da questa prospettiva è che l’alterità dell’Altro è anteriore ad ogni iniziativa del Medesimo. L’Altro è lo straniero che sconvolge l’essere presso di sé che è il Medesimo, perché è ciò su cui io non posso potere. Il non accettare questa impotenza spinge verso una relazione di possesso. Il possesso è la forma per eccellenza nella quale l’Altro diventa il medesimo, in un tentativo di appropriazione. In questo movimento di identificazione tra io e Medesimo, l’altro si annulla. Ed è proprio all’interno di questo movimento che si cela la radice della violenza e della brutalità – come abbiamo messo in evidenza. Troviamo una riflessione simile anche in Todorov. Tutta la storia della scoperta dell’America è caratterizzata dal fatto che l’alterità umana è, al tempo stesso, misconosciuta e rifiutata. Colombo «non riesce a percepire l’altro, e gli impone i propri valori».20

Alla figura di Ulisse, con tutti i significati messi in evidenza, Levinas oppone Abramo. Nel cammino di Abramo non c’è ritorno. «Lechà! Va!» – (Genesi, 12, 1) –, gli comanda Dio. Il cammino di Abramo dal sé all’altro, senza ritorno, segna per Levinas una via alternativa nella filosofia. È la via verso l’infinito dell’altro, che è infinitamente altro perché oltrepassa sempre la sfera del sé. Nell’idea dell’infinito si conserva l’esteriorità non appropriabile dell’altro. Con questo gesto così radicale Levinas pone il volto dell’altro al centro della scena filosofica. Abramo con il suo deciso «eccomi», lascia Ur dei Caldei per mai più tornarvi. Abramo risponde a una chiamata, a una voce che lo invita ad andare verso una terra che non conosce, una terra solo promessa, sempre un passo al di là di qualsiasi Itaca. Il viaggio di Abramo è un viaggio nel deserto; quell’infinito che circonda, tra la sabbia e le dune mosse dal vento, quell’infinito dell’alterità sempre eccedente l’io. Abramo è segnato dal desiderio dell’altro e dell’altrove, in un viaggio che non aspira al ritorno perché è il desiderio di un paese mai visto, «un paese nel quale non siamo mai nati».21

La contrapposizione non potrebbe essere più esplicita: «Al mito di Ulisse che ritorna ad Itaca vorremmo contrapporre la storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora sconosciuta e che proibisce al suo servo di ricondurre perfino suo figlio a quel punto di partenza».22 L’esperienza di Abramo è l’esperienza dell’assolutamente altro, è uno spaesamento che non si lascia ridurre, né logicamente né dialetticamente, al mondo che ci è familiare. L’odissea di tutte le filosofie greche e moderne è sostituita quindi dallo spaesamento di Abramo che lascia l’intimità della sua casa per un altrove ignoto. Il viaggio di Abramo non coinciderà mai con il punto di partenza, come accade in Ulisse. L’esodo23 da sé stessi verso la scoperta dell’altro non può avere il volto di Ulisse ma quello di Abramo. L’esodo da sé stessi verso la scoperta dell’altro si profila come l’unica strada in grado di scardinare il totalitarismo sopraffattore annidato nella storia occidentale. L’etica dell’alterità è rifiuto di violare con le proprie categorie il mistero dell’altro, è accettare la priorità dell’altro, è riconoscere il primato dell’etica sull’ontologia: alterità significa pertanto il primato della responsabilità.

Possiamo infine provare a confrontare le figure di Abramo e Ulisse. Ulisse ripone fiducia solo in sé stesso, non si trascende, ritorna sempre dentro di sé, la sua patria. Abramo è metafora dell’uomo che esce da sé per ascoltare e ubbidire a quella voce che lo invita a trascendersi, conducendolo nella totale alterità di una terra sconosciuta. Ulisse rappresenta un mondo popolato solo dal Medesimo. In questo mondo le cose sono solo oggetto di godimento da trasformare in base alle proprie necessità. Il mondo così inteso presenta un’alterità solo relativa al Medesimo, che può assimilarlo e trasformarlo sempre e solo per assimilarlo meglio. Questo mondo finisce per coincidere interamente con il Medesimo: è il contenuto del godimento del Medesimo. In Abramo, al contrario, l’apparizione dell’Altro coincide con l’ascolto della voce. Accogliere l’Altro significa accoglierne la parola, una parola che ci consente di condividere un mondo e una casa che non è più solo nostra. L’Altro è lo straniero, ma non tanto perché di un altro posto, ma perché su di lui non posso potere. Sfugge alla mia presa per un fatto essenziale, non è interamente nel mio luogo. L’Altro non è un altro-Medesimo, non è un’altra autocoscienza che si oppone alla mia autocoscienza. L’Altro, assolutamente altro – Altri – non limita la libertà del Medesimo. Chiamandola alla responsabilità, la instaura e la giustifica. Ed è questo l’Altro che Ulisse non incontrerà mai ma che soprattutto non desidera incontrare. La relazione etica è una relazione con l’altro in quanto tale e non relazione con l’altro già ridotto al medesimo, a ciò che si “apparenta” al mio. Levinas sostiene il primato dell’etica intesa come la vera metafisica. La metafisica viene concepita, infatti, come desiderio e come viaggio: «Il desiderio metafisico tende verso una cosa totalmente altra, verso l’assolutamente altro».24 Quando in presenza di Altri dico «Eccomi» (come fa Abramo) questo eccomi è il luogo attraverso cui l’Infinito entra nel linguaggio. L’evento di tale eccomi testimonia che c’è qualcosa oltre il Medesimo.

Arendt e la necessità di ripartire da Socrate

La ripresa e valorizzazione della figura di Socrate permette a Hannah Arendt di ricomporre quella frattura che fin dall’inizio aveva caratterizzato il suo pensiero: in Socrate la sfera dell’interiorità si apre all’azione collettiva. Il due in uno, l’uno in due, rappresenta questo continuo dialogo tra interiorità e esteriorità, in una pluralità originaria per l’identità dell’individuo. Connesso a questa nuova prospettiva, nel testo Socrate,25 è il sentimento di amicizia, contraddistinta dal dialogo su cose che stanno «tra» gli amici,26 su ciò che hanno in comune. Per il semplice fatto di discuterne, quel qualcosa che sta tra loro diviene ancora più comune. L’obiettivo di Socrate, nella riflessione di Arendt, era quello di fare «dei cittadini ateniesi degli amici»,27 perché solo il dialogo nell’amicizia è in grado di unire i cittadini in una polis. L’amicizia è alla base di un processo di «uguagliamento»28 che non significa un farsi identico degli amici, ma indica un farsi uguali in un mondo comune, realizzando in questo modo una comunità di pari. Fondamento dell’amicizia è il dialogo veritiero, grazie al quale ogni amico può comprendere la verità insita nel discorso dell’altro. La relazione io-tu in un contesto di amicizia permette di comprendere come e in quale modalità appare il mondo all’altro. Questa propensione di vedere il mondo dal punto di vista dell’altro è la forma principale della saggezza politica.

Arendt evidenzia che la rivoluzione principale compiuta da Socrate sia stata la scoperta del «due-in-uno».29 Secondo Socrate il dialogo veritiero deriva dall’«essere d’accordo con sé stesso»,30 e quindi nel non contraddirsi e nel non dire cose contraddittorie. Tuttavia, la contraddizione è sempre possibile perché ognuno di noi, «essendo uno» dialoga con sé stesso come se fosse due. Anche se vivessi isolato e in solitudine questo «altro irriducibile» esisterebbe ugualmente, perché dovrei pur sempre stare con me stesso, e «non c’è luogo in cui questo “io-con-me-stesso” si mostri così chiaramente come si mostra nel puro pensiero, che è sempre un dialogo tra i due che io sono».31 Il dialogo silenzioso del pensiero tra noi e noi, non solo ci conduce verso la conoscenza di noi stessi, dei nostri pensieri e delle nostre azioni, ma ci permette anche di avere un’autentica relazione con gli altri grazie al dialogo e alla costruzione di una verità comune. Non è possibile concepire un’altra natura dell’umano pensare che non sia dialogica. Pensare significa, sempre e comunque, dialogare: con sé stessi e con altri. Per questa ragione Arendt afferma che la pluralità è il dato originario della condizione umana, perché esisterà sempre un altro irriducibile in me stesso, quell’altro di cui Ulisse aveva terrore e che cercava di rendere medesimo. Dunque, io sono «due-in-uno», nel senso in cui Aristotele definisce l’amico come un altro sé stesso. La vita insieme agli altri inizia con la vita insieme a sé stessi.

Nel saggio critico di Adriana Cavarero in aggiunta al testo di Arendt,32 è sottolineata la socratica «invenzione della coscienza, intesa da Arendt come tribunale interno dell’io che, facendosi due-in-uno, si interroga e dà conto a sé stesso di sé»33 e che pertanto non si rivolge né all’esterno, né al trascendente. Secondo Cavarero questa riflessione colloca Arendt nel gruppo degli smantellatori della metafisica platonica. La critica di Arendt pone in risalto la figura di un Socrate ancora più umano, non interpretato in chiave storica ma in contrapposizione alla tradizione inaugurata da Platone. Un Socrate che vive e opera nella polis, fra i suoi concittadini, che è sempre nella piazza e non si chiude mai in una sorta di Accademia. Arendt interpreta il personaggio di Socrate come l’occasione perduta della filosofia occidentale e ne fa una figura in netto contrasto con Platone, perché non crede alla presunta verità, alla tirannia del vero, non crede all’Uno di Parmenide. Cavarero, tuttavia, prende in un certo modo le difese di Platone di fronte alle accuse di Arendt osservando che

accanto al noein come puro theorein troviamo notoriamente nell’opera platonica una definizione del pensare come dialogare fra sé e sé che, pur conservando il carattere insonoro della meraviglia, non è assimilabile allo statuto straniante e immobile del thaumazein.34

Tuttavia, Arendt attribuisce questo significato del pensare a Socrate e non a Platone. Arendt invita a «Ripensare l’umanità, contro Platone in compagnia di Socrate […] per liberarsi dalla perniciosità delle categorie metafisiche, e, esponendosi alla realtà per darne conto, ricominciare».35 Il Socrate così delineato da Arendt parla dell’essere uno, di non perdere l’armonia con sé stesso36 sottintendendo la necessità dell’altro perché nulla che sia identico a sé stesso potrà trovare mai un’armonia con sé stesso: occorrono sempre almeno due note per produrre un suono armonioso. Quando appaio e gli altri mi vedono, sono uno: altrimenti sarei irriconoscibile. E finché io sto insieme con gli altri, appena cosciente di me stesso, sono come appaio agli altri. Nondimeno, il fatto curioso è che in un certo senso sono-per-me-stesso, benché propriamente non possa dirsi che appaio a me stesso; e questo indica come il socratico «essere uno» non sia così non problematico come sembra. Io non sono solo per-gli altri, bensì anche per-me, e in quest’ultimo caso, è evidente, io non sono soltanto uno. Nella mia Unità si è insinuata una differenza.37 E questo io – l’io-sono-io – fa esperienza della differenza nell’identità precisamente quando si rapporta non alle cose che appaiono, ma solamente a sé stesso.38 L’attualizzazione specificatamente umana della coscienza come dialogo di pensiero fra me e me stesso suggerisce che differenza e alterità, costituiscono anche le condizioni stesse per l’esistenza dell’io mentale dell’uomo: tale io esiste realmente solo nella dualità.

L’atteggiamento di Ulisse descritto da Levinas, o quello di Colombo esaminato da Todorov, non rientrano in questo contesto. Non solo negano l’altro in quanto tale, ma non permettono la possibilità stessa di un fare politico o etico, perché negando l’altro, negano lo spazio politico stesso. La saggezza politica per Arendt consiste nella capacità di comunicare con gli altri, per rendere evidente l’essere-in-comune del mondo. La perdita del senso di amicizia tra cittadini è il prologo di uno stato assoluto e totalitario. La questione inedita posta dal totalitarismo riguarda il processo di spersonalizzazione dell’individuo che diventa o parte della massa indistinta o un deportato identico a qualsiasi altro nell’universo concentrazionario. In questa realtà totalitaria si smarrisce il senso dell’amicizia, non si distingue più l’amico dal nemico, essendo negata la possibilità di un dialogo veritiero con l’altro. Il crollo personale e morale di cui il totalitarismo è contrassegno, riguarda il vuoto di relazioni, di vincoli sociali, di quell’amore di cui l’amicizia è sinonimo. Socrate, infatti, sottolinea Arendt, è «esperto di amore»39 e tale competenza lo guida, tra l’altro, nella scelta dei suoi compagni ed amici. Desiderando ciò che non ha, l’amore stabilisce una relazione con ciò che non è presente. La ricerca stessa del pensiero è una sorta di amore desiderante,40 gli oggetti del pensiero non possono essere se non cose degne d’amore. Un desiderio che unisce la riflessione di Arendt a quella di Levinas. Il male e la bruttezza sono esclusi quasi per definizione dall’interesse del pensiero. Socrate ritiene che nessuno possa fare il male volontariamente perché il male consiste in un’assenza, in qualcosa che non è. Solo le persone ispirate dall’eros, dall’amore per la sapienza, per la bellezza e per la giustizia, sono capaci di pensiero e degne di fiducia. Arendt sottolinea che proprio per questa ragione nel Gorgia Platone fa dire a Socrate che è meglio subire un torto che commetterlo, perché è sempre possibile restare amici della vittima. Chi vorrebbe essere amico di un assassino?41 E come scrive Simona Forti nell’altro saggio che correda il testo di Socrate:

Ritornare a Socrate […] è una scelta filosofica inattuale, e per questo coraggiosa, che mira a riappropriarsi delle parole di cui la metafisica si è servita per ridefinirne radicalmente il significato. […] il daimon socratico è il nome per poter dire ciò che nel soggetto oppone costantemente una resistenza, ciò che fa attrito con la forza ovvia delle circostanze: dalle ingiunzioni autoritarie della politica al ricatto della violenza, dalla pressione unilaterale delle cose all’imperiosità volontà di vita. In una parola, è il nome della possibilità, del potere di ciascuno di resistere a un altro potere.42

L’esperienza del totalitarismo è l’esperienza del venir meno della relazione e della capacità di intendersi, si commette il male per ignoranza del bene e per mancanza del desiderio di dialogo con l’altro. La pluralità di cui parla Hannah Arendt non ha quindi la forma di una comunità o di un gruppo, ma si basa essenzialmente sulla relazione amicale. Solo l’umanità creata dall’amicizia si adatta veramente a una piena e responsabile partecipazione al mondo. Nel suo senso più completo, essa pone domande politiche e assicura il dialogo tra gli uomini. Scrive Arendt:

Se vogliamo usare la terminologia di Aristotele per comprendere meglio quella di Socrate […] possiamo citare quella parte dell’Etica Nicomachea in cui Aristotele spiega che una comunità non è composta di per sé da uguali ma, al contrario da persone differenti e diseguali.43

L’amicizia e l’ostilità rappresentano di fatto per Arendt non sentimenti privati ma questioni politiche. In questo contesto la pluralità che Arendt esige, non si identifica con un gruppo chiuso ma è possibilità di relazione e aperture all’altro. In breve, l’amico riveste un ruolo centrale: se la politica è, infatti, per Arendt, relazione44 si potrebbe aggiungere che è relazione amicale. Ciò che Socrate ha scoperto è l’esperienza paradigmatica dell’amicizia,45 non dell’io. Socrate rappresenta il modello per i due ambiti principali dell’attività umana, agire e pensare, connessi dalla categoria di pluralità. Socrate fa filosofia in mezzo ai suoi cittadini, dialogando con loro. Inoltre, Socrate scopre che l’attività del pensare consiste nel dialogo dell’anima con sé stessa, attività che testimonia, come visto, la pluralità umana.

Tuttavia, secondo Cavarero l’accostamento «fra la pluralità dell’agire politico e la dualità del pensiero interiore risulta un po’ forzoso»46 e questa difficoltà, continua Cavarero, deriva proprio dalle premesse del pensiero arendtiano, che fa fatica a trovare la quadra della relazione tra azione e pensiero. Il problema è che sembrano coinvolti due piani differenti, quello ontologico, dato dalla condizione plurale che concerne l’azione, e quello duale del pensiero del due-in-uno; quindi, dell’io che si interroga e si risponde. Questa difficoltà deriva dall’impegno arendtiano di fondare la scienza politica nel regno della pluralità, in senso realistico e non metafisico. Un’umanità reale, effettiva e non una sua idealizzazione, astratta, meramente pensata. Nonostante questa difficoltà, nella sua analisi di Socrate, Arendt cerca di dispiegare la voce dall’amicizia fuori dal suo originale spazio privato per collocarla così in uno spazio pubblico. La vita pubblica può appropriarsi di una pratica privata caratterizzata dal dialogo e dalla pluralità.

Da questa disamina delle posizioni di Arendt e Levinas, non possiamo non accennare, a mo’ di conclusione, ad un altro punto in comune tra i due pensatori. Se per Arendt lo spazio pubblico si distingue dallo spazio privato e personale e non coincide nemmeno con il pianeta o con la natura, esso non collima perfettamente nemmeno con lo spazio politico. Lo spazio pubblico appare ogniqualvolta gli esseri umani dialogano o agiscono insieme, e per questo precede ogni forma di organizzazione politica e sociale. D’altro canto è il potere politico stesso che permette allo spazio pubblico, lo spazio in comune tra gli uomini, di conservarsi e mantenersi. Analogamente, Levinas sostiene che la libertà non è realizzabile all’infuori delle istituzioni politiche e sociali, che sono le uniche porte di accesso ad un mondo libero:

La libertà non si realizza al di fuori delle istituzioni sociali e politiche che aprono l’accesso all’aria fresca necessaria al suo sviluppo, al suo respiro e persino, forse, alla sua generazione spontanea. La libertà apolitica va intesa come un’illusione dovuta al fatto che, in realtà, i suoi partigiani o coloro che ne beneficiano, appartengono ad uno stadio avanzato dell’evoluzione politica. Una esistenza libera e cioè una libertà che non sia velleitaria, presuppone una certa organizzazione della natura e della società.[TI, pp. 246-247.]

Il mondo diventa mondo comune quando ognuno riconosce che è lo stesso mondo che si manifesta in modo diverso a tutti, opponendosi così a una tradizione che ha privilegiato il potere dell’uno sui molti e del monologo sul dialogo, come sottolineato anche da Levinas. Secondo Arendt, fu proprio la distinzione tra i pochi e i molti ad essere la causa della svalutazione della politica da parte della filosofia. Tornare a Socrate significa quindi recuperare una visione in grado di mantenere, senza sussumerle, le voci molteplici che si riuniscono nell’agorà. L’umanità salvata del nostro essere-persone, si decide in questo incontro con l’altro, inteso nel senso dell’altra cosa, sia in quello della persona dell’altro.


  1. H. Arendt, Socrate, Raffaello Cortina, Milano 2015, p. 25. ↩︎

  2. H. Arendt, On Revolution, Viking, New York 1963, p. 318, nota I, trad. it., Sulla Rivoluzione, Edizione di Comunità, Torino 1999, p. 251, nota I. ↩︎

  3. Per un approfondimento al pensiero di Emmanuel Levinas rimando a Salomon Malke, Leggere Levinas, trad. it. di E. Baccarini, Queriniana, Brescia 1986; al saggio di G. Ferretti, Emmanuel Levinas, in Il pensiero ebraico nel Novecento, A. Fabris (a cura di), Carocci, Roma 2015, pp. 218-237; all’introduzione di E. Baccarini, L’Altro im-presentabile. Amore e/o giustizia, in E. Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, Jaca Book, Milano 2016, pp. 9-25, ↩︎

  4. E. Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 2016, p. 25. D’ora in poi indicato con TI. ↩︎

  5. TI, p. 36. ↩︎

  6. E. Levinas, Libertà e comandamento, Schibboleth, Roma 2014, p. 22 ↩︎

  7. Ivi, p. 23. ↩︎

  8. T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’“altro”, Einaudi, Torino 2014, p. 20. ↩︎

  9. TI, p. 31. ↩︎

  10. TI, p. 181. ↩︎

  11. T. Todorov, La conquista dell’America, cit., p. 43. ↩︎

  12. TI, p. 184. ↩︎

  13. E. Levinas, Dell’evasione, Elitropia, Reggio Emilia 1984, p. 73. ↩︎

  14. TI, pp. 31-32. ↩︎

  15. TI, p. 32. ↩︎

  16. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, il Melangolo, Genova 2009, p. 65. ↩︎

  17. TI, p. 41. ↩︎

  18. E. Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, Jaca Book, Milano 2016. p. 40. ↩︎

  19. TI, p. 45. ↩︎

  20. Todorov, La conquista dell’America, cit., p. 61. ↩︎

  21. TI, p. 32. ↩︎

  22. E. Levinas, La traccia dell’Altro, Tullio Pironti, Napoli 1979, p. 30. ↩︎

  23. Cfr. S. Petrosino, La verità nomade. Introduzione a Emmanuel Levinas, Jaka Book, 2018. ↩︎

  24. TI, p. 31. ↩︎

  25. Cfr. H. Arendt, Socrate, cit. ↩︎

  26. Ivi, p. 36 ↩︎

  27. Ivi, p. 37. ↩︎

  28. Ivi, p. 38. ↩︎

  29. Ivi, p. 40. ↩︎

  30. Ivi, p. 41. ↩︎

  31. Ivi, p. 42. ↩︎

  32. A. Cavarero, Il Socrate di Hannah Arendt, in H. Arendt, Socrate, Raffaello Cortina, Milano 2015, pp. 73-98. ↩︎

  33. A. Cavarero, cit., p. 75. ↩︎

  34. A. Cavarero, cit., p. 91. ↩︎

  35. A. Cavarero, cit., p. 98. ↩︎

  36. Cfr. H.Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 2009, p. 277. ↩︎

  37. Cfr. Ivi, p. 277. ↩︎

  38. Cfr. Ivi, p. 282. ↩︎

  39. Ivi, pp. 272 e ss. ↩︎

  40. Cfr. Ibidem↩︎

  41. Cfr. Ivi, p. 283. ↩︎

  42. S. Forti, Letture socratiche. Arendt, Foucault, Patocka, in H. Arendt, Socrate, Raffaello Cortina, Milano 2015, pp. 99-123. ↩︎

  43. H. Arendt, Socrate, cit., pp. 36-37. ↩︎

  44. Cfr. H. Arendt, The Human Condition, University of Chicago, Chicago 1958, trad. it. Vita activa (1964), Bompiani, Milano 2004. ↩︎

  45. H. Arendt,La vita della mente, cit., p. 284. ↩︎

  46. A. Cavarero, cit., p. 94. ↩︎