Note attorno ad alcune aporie del concetto moderno di democrazia

Democrazia antica e democrazia moderna

Il concetto di democrazia sembrerebbe possedere un valore universale, un concetto, non solo condivisibile da tutti ma che viene usato spesso, in una sua pretesa purezza, come arma polemica nello scontro tra le parti politiche. In estrema sintesi, tra le maggiori questioni essenziali che nella contemporaneità vengono alla luce rispetto a ciò che chiamiamo democrazia vi sono, elencate in forma non assolutamente esaustiva, le seguenti: la sempre più emergente personalizzazione del potere politico nella figura del leader. Una personalizzazione che emerge di fronte alla crisi radicale delle forme di mediazione tra la vita politica delle istituzioni e i singoli cittadini tipiche della tradizione occidentale, quali il regime parlamentare, i partiti, i sindacati e le associazioni civili. Una situazione complessiva, inoltre, nella quale si va drammaticamente e radicalmente approfondendo la diseguaglianza economica trai i ceti sociali. Si tratta, infine, di un quadro di crisi generale al quale si accompagna, inevitabilmente, una totale carenza di una classe dirigente all’altezza della gestione di tale complessità. Credo, a riguardo, allora, che non sia del tutto inutile, ad una riflessione critico-politica sul presente, cercare di ripensare la genealogia e le origini stesse del concetto di democrazia. Ci limiteremo naturalmente a mettere in rilievo, nei limiti circoscritti dalle nostre osservazioni, solo alcuni aspetti essenziali della questione, cercando di mostrare alcuni tratti della genesi storica del concetto moderno di democrazia, a nostro giudizio cruciali, nella sostanziale distanza e differenza di tale concetto rispetto all’antichità.1

Rispetto al termine di democrazia, se ci riferiamo alle sue origini greche, si possono rintracciare idee ed opinioni profondamente diverse e in netta discontinuità con quello attuale. La parola democrazia possedeva nell’antichità greca anche un significato negativo e, come nel caso dell’opposizione oligarchica nell’Atene dell’età periclea, veniva usata dai ceti elevati per definire lo scontro sociale generato dallo strapotere (kratos) dei non possidenti (demos) sui rimanenti cittadini della Polis.2 Per Platone era una forma degenerata di governo in cui prevaleva l’interesse della moltitudine destinato a trasformarsi in tirannide distruggendo così il Nomos, quell’ordine politico, nel cui rispetto deve essere governata la polis nelle parti differenti che la compongono.3 Anche per Aristotele seppur in modo attenuato rispetto a Platone, rimane tale connotazione negativa, poiché la democrazia viene vista, per certi aspetti, come una degenerazione di quella particolare forma di politeia, la forma di governo che è espressione del plethos, della moltitudine, in cui però, al proprio interno, vi possono essere anche molte virtù e capacità di giudizio.4

Ma ciò che distanzia profondamente il termine attuale di democrazia dal suo significato antico, – differenza su cui le nostre considerazioni cercheranno di insistere – è innanzitutto il concetto moderno di popolo ad esso legato. Tale concetto possiede una sua genesi storica e corrisponde a quello di un soggetto collettivo unitario il quale ha alla sua base le grandi idee di uguaglianza e di libertà nate con il moderno giusnaturalismo, diffuse e divenute progressivamente egemoni dopo l’epoca della Rivoluzione francese. Entrambi i concetti moderni di popolo e democrazia, assieme a quelli delle forme sociali e alle loro ramificazioni connesse, nascono in quella che è una vera e propria cesura tra la modernità e il mondo antico-medievale: sia il concetto di popolo come soggetto unitario che quello di potere come esercizio del dominio politico sono del tutto estranei al pensiero antico che si ispira invece ad un principio del tutto diverso da quello del potere moderno. Si tratta – come vedremo meglio – del principio del governo, che non viene inteso come esercizio del dominio basato su di un rapporto di comando e obbedienza, ma come armonizzazione di quelle differenze sociali che appartengono agli uomini per loro natura e che compongono la comunità politica.5 Tale principio prevale anche nel concetto greco-antico di democrazia che viene inteso, a prescindere dalla sua connotazione negativa, come signoria del demos, una parte della polis, che, in quanto tale, può governare le altre parti di cui la polis è composta. Il concetto moderno di democrazia è invece radicalmente diverso perché si basa su quello di popolo che non è il demos ma è invece la totalità di tutti gli individui che sono considerati uguali in base al principio di natura. È il principio di uguaglianza che legittimerà la politica intesa come esercizio del potere, quello che Weber definirà come «il monopolio della forza fisica legittima» da parte dello stato.6

Per il concetto moderno di democrazia bisogna dunque risalire ad un’idea di natura dell’uomo radicalmente diversa rispetto a quella dell’antichità. In questa nuova idea di natura non vi è più come nell’antichità greca, un ordine naturale (Cosmos) da riconoscere come tale (Nomos), in essa vengono azzerate le differenze tra gli uomini, quelle differenze che invece erano essenziali alla partecipazione alla vita politica antica. Nella modernità l’elemento fondamentale diviene quello della libera volontà degli individui riconosciuti uguali per la loro stessa natura. Sul fondamento di questa unica, potente, volontà si costruisce quel soggetto collettivo unitario che diventa popolo, un soggetto dotato di una forza a cui tutti devono obbedire ed essere sottomessi per evitare la possibilità dei conflitti causati dall’uso arbitrario, privato, di forze e volontà singole: ha origine così, con un tale potente soggetto, il concetto moderno di sovranità ma anche il problema della rappresentanza politica ad essa strettamente legato: quello di un agire diretto e immediato di un soggetto collettivo, oppure di un suo agire mediato da persone che lo rappresentino.7

Lo stesso termine di societas, che per lungo tempo ha contraddistinto la comunità politica degli uomini, nella modernità, sulla base del giusnaturalismo, subisce una radicale trasformazione. Esso viene ad indicare, all’opposto della concezione comunitaria antica, una realtà formata da un’associazione di individui, la cosiddetta società civile, la quale nasce come dimensione pre-politica, nettamente distinta da quella politica dell’esercizio del potere rappresentata dallo stato moderno.8 Otto Brunner fa notare che ciò che viene indicato con il termine di stato dei ceti nella realtà medievale fa ancora parte di un contesto concettuale in cui la civitas o respublica è un tipo di società che non si contrappone allo stato, ma alla sfera domestica dell’oikos, in tale contesto la politica e l’economica sono entrambe discipline etiche che fanno capo rispettivamente ad una dottrina della signoria (Herrschaft), quale quella del governo esercitata dalla signoria del re nella Respublica e dal padrone nell’oikos, la società domestica.9 Si tratta di un contesto totalmente estraneo alla moderna società civile, la quale è priva di potere (imperium) politico che invece viene delegato al monopolio della forza, monopolio che caratterizza fondamentalmente il concetto di sovranità dello stato. Nella modernità si dissolve dunque quell’idea di mondo politico-sociale che ha origine nell’etica aristotelica, in cui prevale un principio organizzatore legato al concetto di organismo, dove la sfera dell’oikos e quella della polis e della civitas sono distinte, ma all’interno di un ordine il cui buon mantenimento richiede innanzitutto l’arethé, l’eccellenza, e la phronesis, la saggezza pratica di chi governa.10

La nuova scienza politica, fondata dunque nel legame tra il principio di uguaglianza del diritto naturale e la dottrina del contratto tra gli individui come base della società e dello stato moderno, appare nella sua chiarezza e precisione concettuale per la prima volta con Hobbes e proprio in esplicita polemica con la concezione aristotelica: «Aristotele nel primo libro della sua Politica – sostiene Hobbes – pone come fondamento della sua dottrina che gli uomini sono per natura, alcuni più disposti per comandare, volendo dire i più saggi […] altri per servire […] volendo dire coloro che avevano il corpo forte ma non erano filosofi come lui»11. Per Hobbes, pensare come fa Aristotele che vi sia tale differenza naturale tra gli uomini va contro il principio di ragione che sancisce il fatto che «ogni uomo riconosca l’altro come suo eguale per natura»12. La libertà viene ora pensata sulla base del concetto di individuo, il quale è in grado di estrinsecare la propria forza espressa dalla propria volontà come altrettanto possono fare tutti gli altri individui. Per evitare il prevalere di ciascuna singola volontà sulle altre, il principio di uguaglianza che stabilisce che tutti gli uomini sono uguali per natura, deve essere riconosciuto come la condizione necessaria per la libertà e l’indipendenza di ciascuno.

Si tratta della base indispensabile per la costruzione della società civile, la quale delega la propria volontà, in base a un reciproco accordo, un contratto, ad un potere sovrano il cui compito rappresentativo fondamentale è per Hobbes, com’è noto, quello di impedire la guerra e il pericolo di annientamento dei singoli individui garantendo quindi l’ordine e la pace. Nasce allora un concetto di potere che è puramente formale: quello di sovranità come espressione della volontà di tutti gli individui intesi come soggetto astratto collettivo e non come concreta realtà personale.13 Quello che progressivamente vien meno nella scienza politica moderna e nella rivoluzione concettuale da essa messa in atto, è dunque l’idea di governo come principio organizzatore delle differenze.14

Vi è un’immagine suggestiva che ricorre nella letteratura politica antica, un’immagine usata da Platone, da Aristotele, da Cicerone sino alle soglie della modernità con Althusius: quella del nocchiero, il kybernetes, in cui la conduzione della nave, viene paragonata all’azione del governo: quella, come afferma Cicerone, nel De Republica del gubernare navem rei publicae.15 Ciò che nella metafora del kybernetes, il pilota della nave, risulta essere rilevante, è non solo il fatto che il pilota guidi la nave per il bene comune di coloro che sono a bordo e, accidentalmente, anche per il suo vantaggio personale, in quanto imbarcato – come dice Aristotele nella Politica16 ma ancor più per il fatto che l’attività della conduzione della imbarcazione è pensabile solo all’interno di una concreta dimensione di conoscenza, quella appunto dei venti, delle correnti, dei punti di orientamento nel sole e nelle stelle. Da una parte c’è dunque la conoscenza del pilota legata alla propria esperienza, dall’altra la sua arethé, la sua eccellente capacità, di saperla sfruttare al meglio. Non tutti possono dunque essere piloti, anche se tutti hanno un loro ruolo nell’imbarcazione. Il principio del governo non è pensabile se non in rapporto ad una comunità ordinata che non si regge essenzialmente sulla volontà né di chi governa né di chi è governato, ma sul principio della differenza naturale che connota i membri da cui è composta.

La trasformazione moderna del concetto di democrazia

Nella scienza politica moderna il concetto di potere come forza di dominio sostituisce dunque quello antico di governo, sulla base di un significato del termine popolo completamente nuovo: il popolo non è più una parte come accade nella polis antica ma bensì è la totalità di tutti gli individui eguali. Lo stato di natura del moderno giusnaturalismo prevede solo individui uguali che divengono popolo tramite la forma del contratto, di un accordo artificiale (quindi non per natura) tramite cui può esserci società e stato. Nel popolo risiede il potere politico, che è unico ed assoluto, sovrano proprio perché poggia sul diritto naturale inalienabile dell’uguaglianza e della libertà tra tutti gli individui. La legittimazione di tale potere avviene con la subordinazione di ciascun individuo tramite contratto ad un principio di sovranità che esprime la volontà popolare. Tale legittimazione rispecchia il riconoscimento di un unico potere che consente la salvaguardia della vita di ciascun individuo e la protezione dei suoi beni, potere che rappresenta dunque la volontà di tutti coloro che compongono il corpo politico e non è quindi arbitrio di una singola persona, il sovrano, nei confronti dei propri sudditi. Hobbes e Rousseau nonostante il loro differente modo di intendere la legittimazione della sovranità si riconoscono nel concetto fondamentale della subordinazione degli individui al corpo politico nella sua totalità che esprime l’alienazione delle volontà singole a quella generale.

Ma la volontà generale impersonata nel sovrano non può essere una volontà particolare e neppure la somma di volontà singole poiché rappresenta l’uguaglianza di tutti gli individui. Per Hobbes, tale volontà si esprime nel concetto di persona, il sovrano è l’attore dietro la cui maschera si cela l’intero corpo sociale. Il sovrano è legittimato ad agire per conto di tutti gli altri individui, ma si tratta di un corpo paradossalmente svuotato del suo senso politico-effettuale, poiché gli individui, nello Stato concepito da Hobbes, non sono altro che degli individui tra loro dissociati i quali trovano solo un’unità formale nel principio stesso del sovrano a cui viene delegato interamente il potere politico nella sua funzionalità.17

Il diritto – secondo Hobbes – è la libertà di esprimere indiscriminatamente la propria singola volontà di potere: a uno jus corrisponde una libertas e viceversa. Lo jus perde il significato antico legato al fatto di essere interno ad una civitas organizzata. Si tratta invece di uno jus, un diritto senza alcun limite, in uno stato naturale dove tutti accampano il proprio volere prevaricante. Di qui la necessità della lex, della legge, come limite, come principio regolatore della società. La legge, dunque, rende positivo lo jus, il diritto prevaricante, toglie la guerra, l’ostilità tra gli uomini, consente loro di poter conseguire il proprio bene (ciò che risulta essere utile) senza danneggiare quello altrui o venirne danneggiati. Diritto e legge devono allora essere distinti, perché il primo è libertà di prevaricare, cioè di poter fare e non fare senza alcun freno, mentre la legge è vincolante per tutti. La legge diviene dunque la limitazione del diritto inteso come volontà individuale di prevaricazione. Anticamente era esattamente l’opposto: la legge sanciva il giusto coincidendo con esso. Con Hobbes la legge diviene il limite del diritto. L’una è esterna all’altro, gli si impone formalmente dal di fuori.

Dissolvendo la sua identità con il diritto, la legge, che ne esprime il limite, non è più immediatamente ciò che è giusto. In questo modo viene definitivamente meno l’identificazione che Aristotele faceva nel I libro della Politica tra legge e giustizia.18 Hobbes, nel capitolo XV del Leviatano, afferma che «le leggi di natura sono immutabili ed eterne, poiché l’ingiustizia, l’ingratitudine, l’arroganza, l’orgoglio, l’iniquità, l’accettazione di persone ecc. non possono mai essere rese legittime. Non può mai essere, infatti, che la guerra preservi la vita e la pace la distrugga. […] La scienza di esse è la sola filosofia morale. La filosofia morale, infatti, non è altro che la scienza di ciò che è bene e di ciò che è male nella conversazione e nella società degli uomini»19. L’esito di questa estraneazione tra la legge e la giustizia è l’idea del tutto moderna della morale intesa come norma formale del dovere.

La dissoluzione del concetto antico di governo, come ciò che regola i differenti rapporti tra i cittadini, trova dunque la sua piena realizzazione in quello di sovranità di Hobbes come rappresentazione del costituirsi del potere politico che è, a sua volta, intrinsecamente legato alla genesi del concetto moderno di rappresentanza. Il concetto di sovranità esprime un rapporto formale tra comando e obbedienza in grado di definire una struttura stabile atta ad eliminare qualsiasi fonte particolare di conflitto. Rappresenta un’autorità formale che è dunque frutto della sottomissione ad una forza comune, e che, in quanto tale, diviene legittima a prescindere dai propri contenuti.

Anche per Rousseau il vero problema politico è quello moderno della sovranità del popolo. Rousseau, però, al contrario di Hobbes, com’è noto, evidenzia il fatto che la conflittualità deve essere ricercata piuttosto nella civilizzazione, anche se ritiene impossibile un ritorno allo stato di natura, condizione che, nonostante i suoi aspetti positivi, è uno stato di isolamento degli individui. La conflittualità sociale, scaturita da un abbandono forzato dello stato di natura, rende però necessaria la costituzione di un corpo politico atto alla difesa delle persone e dei loro beni. Ma, a differenza di Hobbes, per Rousseau, l’alienazione dei diritti individuali, che garantisce la libertà dei singoli, non viene fatta in favore di una persona, ma dell’intero corpo politico in cui i singoli sono insieme sudditi e cittadini e quindi essi stessi membri della sovranità. Per risolvere la contraddizione tra la volontà di ogni cittadino che è privata e quindi gli appartiene in quanto suddito ma che viene annullata nella volontà generale che di per sé non può corrispondere ad alcuna volontà singola e neppure alla somma di tali volontà, viene introdotta da Rousseau, nel Contratto sociale, la figura ideale del grande legislatore.20

La figura del grande legislatore esprime il fatto che il popolo come totalità degli individui può essere solo un’idea. Concretamente però, rispetto alla vita sociale dei singoli, la questione della rappresentanza non può dissolversi. In Rousseau emerge invece con chiarezza ciò che sta alla base della questione moderna della rappresentanza politica e della democrazia: non vi può essere alcuna istanza superiore o estranea al popolo, inteso come la totalità di tutti gli individui, in grado di condizionarlo e subordinarlo a sé. L’unità del popolo come potere sovrano, escludendo qualsiasi potere ad essa esteriore, è dunque un fondamento del tutto immanente ma che però può porsi solo nello scarto tra le singole concrete e differenti volontà e l’unità generale che dovrebbe rappresentarle, un’unità che rispetto alla concreta pluralità delle singole volontà, può essere solo ideale, trascendente.21

Le aporie del concetto moderno di democrazia

Per il pensiero antico, la Polis è una comunità che risulta composta di parti, così come lo è l’oikos, l’organizzazione economico familiare, e, a sua volta, lo stesso uomo come essere vivente composto di anima e corpo. Una pluralità che deve essere organizzata come governo delle differenze: tra le diverse parti dell’anima nell’uomo quali quella razionale e istintuale, tra i differenti ruoli di moglie, marito, padrone e schiavo nell’oikos, e infine quelle tra gli uomini liberi della polis, di cui il demos rappresenta una parte, quella della moltitudine dei più poveri, rispetto ai più ricchi, la minoranza dei possidenti terrieri. Sono tali differenze, dunque, a richiedere per sé un governo, una guida, un Archein come dirà Aristotele nella Politica.22 Il governare e il dirigere la polis pone inoltre la questione essenziale della giustizia come quella del prendersi cura del bene comune, una cura che, oltre a valorizzare le differenze sociali, deve rivolgersi anche a quelle sue parti composte da coloro che non sono in grado di badare a sé stessi.

La democrazia intesa modernamente come potere del popolo si inserisce dunque in un quadro storico-concettuale profondamente mutato in cui vien meno il concetto stesso di governo delle differenze. Il popolo allora non è più una parte, la moltitudine del demos della polis greca, ma è la totalità e l’unità di tutti gli individui uguali. Il punto di partenza è quello degli individui che sono tali in base alla loro uguaglianza per natura e di conseguenza si accordano contrattualmente per difendere e realizzare i loro diritti e la loro libertà dando origine ad un’idea unitaria. Nasce così, assieme a tale idea, anche quella moderna di sovranità come unico potere del corpo politico al quale si deve obbedienza poiché rappresenta ed è espressione della volontà popolare che unifica in sé tutte le volontà individuali. Il concetto moderno della rappresentanza politica trova dunque qui le proprie più profonde radici e diviene la condizione indispensabile per pensare il popolo come il nuovo soggetto politico e come ciò che costituisce la legittimità del potere, il potere dello stato nella sua facoltà coercitiva di esercitare il dominio.23 Ma con la nascita della scienza politica moderna si configura anche quella che sarà la contraddizione cardine dello stesso concetto moderno di rappresentatività democratica: nel delegare e nell’autorizzare la responsabilità del proprio agire ad altri, che nei regimi democratici si esprime essenzialmente tramite il voto, viene delegata anche la propria diretta responsabilità politica individuale. Tale rinuncia alla propria volontà particolare, anche quando si organizza in gruppi ristretti di interessi comuni, differisce necessariamente con quella che è la volontà, comunque particolare, di coloro a cui tale responsabilità è stata delegata.24

È in Rousseau che troviamo espressa per la prima volta l’idea di un soggetto collettivo che esercita direttamente la propria autorità. Per Rousseau tale soggetto è un soggetto esclusivamente ideale che non può avere alcuna esistenza reale. Nel Contratto sociale, la democrazia, come forma concreta di governo, è un qualcosa di assolutamente impensabile: «volendo prendere il termine nella sua rigorosa accezione, – sostiene Rousseau – una vera democrazia non è mai esistita e non esisterà mai. È contro l’ordine naturale che la maggioranza governi e che la minoranza sia governata»25. Lo stesso uomo, per Rousseau, è suddito nei confronti della legge espressa dalla volontà sovrana ma allo stesso tempo, in quanto cittadino, fa parte del sovrano stesso, ma non è il sovrano stesso che è solo il soggetto collettivo: «in effetti ogni individuo può, in quanto uomo, avere una volontà particolare contraria o diversa dalla volontà generale che ha come cittadino. Il suo interesse particolare può parlargli in modo diverso dall’interesse comune»26. Ma tale volontà particolare deve essere sottomessa all’interesse generale che rappresenta anche il suo autentico interesse. Rousseau si chiede: «come una moltitudine cieca, spesso ignara di ciò che vuole, perché di rado sa cosa le giova, potrà attuare un’impresa tanto grande e difficile come un sistema di legislazione? Il popolo da sé sempre vuole il proprio bene, ma non sempre lo vede da sé»27. Come vertice dell’esercizio della sovranità Rousseau inventa allora la figura ideale del grande legislatore a cui è affidata l’opera quasi divina di legiferare e costituire la comunità.

Con Hobbes e Rousseau, i pensatori della sovranità moderna, ha dunque origine il tessuto concettuale moderno della democrazia. Il popolo non è più una realtà costituita da parti, ma è una molteplicità di individui virtualmente infinita ed indefinita, frutto di una costruzione che parte da un accordo collettivo, il contratto sociale, che si forma in base alla volontà generale. Il problema della differenza tra democrazia diretta e rappresentativa va situato nella connotazione del potere politico come espressione di un soggetto collettivo reso possibile dall’uguaglianza. Si tratta, dunque, di un problema del tutto moderno se tale soggetto collettivo possa esercitare direttamente il proprio potere oppure abbia bisogno di persone che lo rappresentino ed agiscano di conseguenza, come accade nel regime democratico-parlamentare.28

Per Hobbes è caratteristica peculiare del sovrano che esso sia colui che rappresenta la volontà dei singoli, la persona civile, in un’unica persona. Ed è invece quanto viene negato da Rousseau secondo cui il popolo, proprio in quanto soggetto collettivo che riunisce tutti gli individui deve esprimersi direttamente, senza mediazioni, non potendo alienare a nessuno la propria volontà e il proprio potere.

Ma vi è un’aporia di fondo che mina alla radice l’avversione di Rousseau al principio di rappresentanza: se non vi è costituzione legittima senza popolo come soggetto costituente, altrettanto non è possibile alcuna costituzione senza un corpo politico, la rappresentanza di coloro che sono autorizzati ad esprimere la volontà popolare. Rimane comunque, come problema di base, lo scarto, la trascendenza, la distanza tra le volontà particolari determinate in ciò che le dovrebbe rispecchiare e quelle stesse volontà, distanza da cui scaturirà nella modernità la nascita di un nuovo potere importante e manipolabile ai fini del dominio politico, e scenario costante della lotta politica, quello dell’opinione pubblica.

Anche nelle forme moderne che si presumono essere di democrazia diretta quale espressione della volontà popolare come nel caso del referendum e del plebiscito vi è una necessaria uniformazione ed estrema semplificazione delle volontà singole nel voto: in tali forme di partecipazione popolare non è infatti consentita una qualsiasi espressione di volontà particolare ma si tratta piuttosto del riconoscersi o meno con una vocazione maggioritaria rispetto ad una domanda, oppure ad una scelta affermativa o negativa ad una domanda. Senza tale uniformazione del molteplice non sarebbe infatti possibile alcun esito in grado di esprimere una presunta volontà popolare. Il popolo, dunque, si rivela essere, in tale contesto, il soggetto depositario del potere legislativo che si esprime attraverso il meccanismo rappresentativo sia come frutto della volontà generale e sia come fonte di legittimazione del comando. Ma il popolo, così inteso, è un’entità astratta che non può coincidere con le singole volontà dei singoli votanti ma solo con il risultato unitario e formale della volontà che si esprime tramite la legge valida per tutti. La figura del moderno partito di massa non contraddice tale quadro del concetto di rappresentanza politica. I partiti politici, infatti, non sono tali semplicemente solo perché espressione di differenze ideologiche, ma sono invece, come ha mostrato Weber, apparati burocratici, funzionali all’organizzazione delle forme del consenso unitario al voto che porta alla creazione di un soggetto che sia in grado di ricoprire cariche politico-elettive.29 Si spiega in questo modo, e sull’indispensabile base delle riflessioni weberiane, il fatto che nelle moderne democrazie di massa, con il progressivo venir meno delle differenze ideologiche, i partiti si siano dotati sempre più di un apparato burocratico-comunicativo volto ad assicurarsi l’adesione dell’opinione pubblica a favore dei propri candidati.30

Anche questo quadro complessivo, descritto dalla scienza politica moderna, giunge progressivamente a dissolversi nell’attuale presente, dove si va inevitabilmente radicalizzando sempre più il profondo solco tra i cittadini e la loro reale appartenenza alla vita politica. Un processo che – come si è cercato di indicare esemplificandolo in alcuni dei suoi tratti generali – ha preso avvio con l’avvento della modernità e che sfocia nella crisi contemporanea delle istituzioni democratiche. La questione della rappresentanza politica, che ha il suo nucleo genetico, come si è visto, in quella del concetto di rappresentazione e di popolo che sono propri del costituirsi della sovranità moderna, pone allora, certamente nella sua complessità, un problema di governo del tutto differente quanto ineludibile rispetto a quello dell’antichità.31

Ma nell’ascoltare senza ingenue mitizzazioni, l’eco del discorso politico antico, possiamo forse risollevare la questione cruciale delle moderne democrazie occidentali ed in particolare – per ciò che direttamente ci riguarda – rispetto a quell’ embrione politico ancora del tutto incerto costituito dall’attuale Comunità Europea: una questione tutt’altro che semplice e che in modo del tutto schematico e ancora ampiamente indefinito, potremmo definire essere quella dell’esigenza ineludibile di nuove forme politiche di federazione sovranazionali. Si tratta di forme di governo in grado di comporre tramite un nuovo patto federativo gli interessi dei singoli e delle parti in organismi politici e di generare in tal modo un nuovo, forte, soggetto sovrano in grado di proporre nuove mediazioni, mediazioni a loro volta capaci di raccogliere, in quanto rafforzato soggetto politico-unitario, le inesorabili sfide globali. Una questione che certamente non trova soluzione nel modello antico dalla quale è sorta, ma che in esso può forse trovare un efficace stimolo critico per una riflessione attorno alle aporie che affliggono la vita della democrazia e i suoi fondamenti dottrinali nella loro incerta, attuale, sopravvivenza.

In questo articolo vengono riprese le tematiche svolte in una conferenza dal titolo Le contraddizioni della democrazia. Max Scheler e l’origine dell’integrazione globale, tenuta a Pordenone il 25 gennaio 2020 presso l’Associazione Norberto Bobbio.


  1. Le considerazioni che seguono si limiteranno dunque ad alcune annotazioni problematiche senza avere la pretesa di entrare nel merito delle prevalenti teorie critiche della scienza politica, quali la critica dialettica, la biopolitica e la teologia politica. La loro discussione richiederebbe ovviamente ben altro approfondimento. Per un’analisi critico-introduttiva, puntuale ed accurata di tale contesto teorico, cfr. G. Galli, Forme della critica. Saggi di filosofia politica, il Mulino, Bologna 2020. ↩︎

  2. Cfr. L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Bari 2004, p. 33. ↩︎

  3. Cfr. Platone, Repubblica, 555 b-569 d. ↩︎

  4. Cfr. Aristotele, Politica, III, 7, 1279 a, 24 sgg. ↩︎

  5. Cfr. G. Duso, La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Polimetrica, Monza 2007, pp. 221-229. ↩︎

  6. Cfr. M. Weber, La politica come professione, in Il lavoro intellettuale come professione, tr. it. a cura di D. Cantimori, Einaudi, Torino 1977, p. 48. ↩︎

  7. Cfr. G. Duso, La logica del potere, cit., pp. 230-231. ↩︎

  8. Cfr, Ivi, p. 21. ↩︎

  9. Cfr. O. Brunner, I diritti di libertà nell’antica società per ceti, in Per una nuova storia costituzionale e sociale, tr. it. a cura di P. Schiera, Vita e Pensiero, Milano 1968, p. 202. ↩︎

  10. Cfr. O. Brunner, La casa come complesso, in Per una nuova storia costituzionale e sociale, cit., p. 146. ↩︎

  11. T. Hobbes, Leviatano, tr. it. di G. Micheli, La Nuova Italia, Firenze 1976, p. 148; cfr. Aristotele, Politica, I, 2, 1252 a 25 sgg. e II, 2, 1261 a, 18-25. ↩︎

  12. Ivi, p. 149. ↩︎

  13. Cfr. G. Duso, La logica del potere, cit., pp. 46-47. ↩︎

  14. In questo stesso contesto è il concetto di rivoluzione, che emergerà pienamente con la rivoluzione francese, ad assumere un significato totalmente diverso rispetto all’etimo antico, che era quello di revolutio, il ritorno su di sé come caratteristica essenziale del moto circolare. Secondo la nuova accezione si intende invece l’instaurazione di un ordine completamente nuovo legato ad una idea della storia come evoluzione e emancipazione e, come sostiene Koselleck, «un concetto prospettico di filosofia della storia, che indica una direzione irreversibile» (cfr. R. Koselleck, Futuro passato, tr. it. di A. M. Solmi, Marietti, Genova 1986, p. 64). ↩︎

  15. Cfr. Cicerone, De re publica, I, 11, 84 sgg. ↩︎

  16. Cfr. Aristotele, Politica, III, 6, 1279 a. ↩︎

  17. Cfr. G. Duso, La rappresentanza politica. Genesi e crisi del concetto, FrancoAngeli, Milano 2006, pp. 101-104. Sul tema dell’evanescenza politica del popolo rispetto al principio formale della sovranità in Hobbes, cfr. G. Galli, Forme della critica…, cit., pp. 100 sgg. ↩︎

  18. Cfr. Aristotele, Politica, I, (A) 1253 a.; cfr. A. Biral, Per una storia del concetto di politica. Lezioni su Aristotele e Hobbes, Il Prato, Padova 2012, pp. 85-99. ↩︎

  19. T. Hobbes, Leviatano, tr. it. cit., p. 154. ↩︎

  20. Cfr. J. J. Rousseau, Il contratto sociale, in Scritti politici, 2, Laterza Bari 1994, cap. VII. ↩︎

  21. Cfr. Ivi, pp. 114-117; A. Biral, Rousseau la società senza sovrano, in Id., Storia e critica della filosofia politica moderna, FrancoAngeli, Milano 1999, pp. 176-181. ↩︎

  22. Cfr. Aristotele, Politica, III, 4, 1277 a 5 sgg. ↩︎

  23. Cfr. A. Biral, Per una storia della sovranità, in Storia e critica della filosofia, cit., pp. 275-318. ↩︎

  24. Cfr. G. Duso, Genesi e aporie dei concetti della democrazia moderna, in G. Duso (a cura di), Oltre la democrazia, Carocci, Milano 2004, p. 126. ↩︎

  25. J. J. Rousseau, Il contratto sociale, in Scritti politici, 2, Laterza Bari 1994, p. 139. ↩︎

  26. Ivi, p. 96. ↩︎

  27. Ivi, p. 113. ↩︎

  28. Cfr, G. Duso, Pensare la democrazia, in «Paradosso», 2001, pp. 94-95. ↩︎

  29. Si veda ad es. M. Weber, Parlamento e governo, tr. it a cura di F. Fusillo, Laterza, Bari 2002, p. 27. ↩︎

  30. Cfr. G. Duso, Pensare la democrazia, cit., pp. 99-102. ↩︎

  31. Come nota Carlo Galli, in Sovranità, il Mulino, Bologna 2019, p. 24: «la sovranità è lontanissima dall’ideale (proprio di altre culture) del potere come armonia; implica anzi che l’equilibrio di forza e ragione, di politica e diritto, di comando e consenso, che essa vuole realizzare, sia abitato da uno squilibrio: forse controllabile, certo non del tutto cancellabile». ↩︎