Empatia e fenomenologia nel dibattito contemporaneo

Il tema dell’intersoggettività costituisce una questione piuttosto spinosa all’interno del panorama filosofico: nonostante l’argomento sia stato e continui ad essere ampiamente dibattuto, oggi più che mai ci si trova di fronte a una varietà di posizioni teoriche tra esse inconciliabili. Negli ultimi anni, infatti, la maggior parte della discussione a proposito della natura della cognizione sociale sembra muoversi all’interno del dibattito sulle varie «teorie della mente». Tale termine è stato introdotto da Premark e Woodruff nel 1978, all’interno di un seminario sull’intenzionalità dei primati. In quest’occasione, i due scienziati sostennero:

In saying that an individual has a theory of mind, we mean that the individual imputes mental states to himself and to others (either to conspecifics or to other species as well). A system of inferences of this kind is properly viewed as a theory, first, because such states are not directly observable, and second, because the system can be used to make predictions, specifically about the behavior of other organisms.1

All’interno di tale contesto ci si trova di fronte, da un lato, alla theory-theory of mind, approccio secondo il quale la nostra comprensione dell’alterità avviene per mezzo di processi intellettuali e inferenziali; e dall’altro alle simulations theories of mind, che negano la priorità del momento teoretico e sostengono, al contrario, che la nostra stessa mente sia un modello attraverso il quale, sotto forma di rappresentazioni o simulazioni, comprendiamo l’alterità. Entrambi gli approcci condividono una visione impersonale di percezione, il cui ruolo sarebbe meramente osservativo e contingente rispetto al nucleo della comprensione intersoggettiva (individuabile in un caso nel processo inferenziale, nell’altro nel momento simulazionista). Di contro ad entrambe le teorie, negli ultimi anni si sta assistendo a una lettura fenomenologica dell’esperienza intersoggettiva: in altre parole, numerosi pensatori, tra cui Gallagher e Zahavi, avvalendosi di studi empirici di carattere psichiatrico e neuroscientifico, e dell’utilizzo di nozioni mutuate direttamente dai fenomenologi classici, hanno iniziato ad asserire la possibilità di una percezione diretta dell’Altro, e non meramente inferenziale o immaginativa.

Le critiche che i sostenitori della percezione diretta rivolgono alla theory theory e alla simulation theory sono molteplici: innanzitutto, a tali autori viene rimproverata una concezione di «percezione» eccessivamente sterile. Tale processo verrebbe ridotto, infatti, a un meccanismo meramente impersonale e bisognoso di supplementi cognitivi, poiché scevro di informazioni sul soggetto intenzionato. Soprattutto a seguito della scoperta dei neuroni specchio, ovvero del sostrato neurale attivo durante la comprensione delle azioni altrui, la percezione intersoggettiva tende sempre più ad essere descritta in connessione a determinate mappe neurofisiologiche e ai risultati sperimentali. Tuttavia, come Gallagher sottolinea in diversi testi, è necessario distinguere tra una spiegazione subpersonale della percezione e quello che, invece, è il processo percettivo cosciente, il quale implica qualcosa di più di una mera attivazione neurale.

In altre parole, sia la Simulation Theory che la Theory Theory presentano delle lacune:

  • Missing Experience: il ruolo dell’esperienza viene sottovalutato, a favore di atteggiamenti proposizionali e modelli neuronali. Al contrario, studi recenti hanno dimostrato che, fin dall’infanzia, il nostro sistema neurale è costantemente modificato dall’interazione sociale, ed è in continuo sviluppo.
  • Missing Interaction: sia la ST che la TT considerano l’interazione sociale un’abilità personale, collocabile nella mente o nel cervello del singolo individuo. Invece, una prospettiva fenomenologica (si pensi, ad esempio, all’incontro face-to-face descritto da Schutz), privilegia l’apertura intenzionale reciproca fra due agenti, e non una relazione esclusivamente univoca.
  • Missing Embodiment: il ruolo della corporeità, fatta eccezione per il processo di simulazione meramente neurale, non viene preso in considerazione da nessuna delle due teorie, le quali sembrano piuttosto postulare che l’incontro intersoggettivo sia semplicemente una relazione disincarnata tra due agenti cartesiani.

Rifacendosi al pensiero fenomenologico, ma anche al contributo wittgensteiniano a proposito dell’intersoggettività, numerosi pensatori (Gallagher, Zahavi, Fuchs, De Jaegher, Di Paolo, per citarne alcuni) propongono, invece, una teoria interazionista, che pone al centro dell’attenzione lo scambio interpersonale tra due soggetti necessariamente incorporati: la tesi principale di quest’approccio è che esista un senso di Sé essenzialmente corporeo, grazie al quale è possibile una percezione diretta dell’alterità, un’alterità che viene descritta come altrettanto embodied ed embedded, ovvero come «corpo vivo» inevitabilmente immerso nel mondo, con il quale intrattiene una relazione di dinamica reciprocità. Come sosteneva Wittgenstein: «We see emotion. As opposed to what? We do not see facial contortions and make the inference that he is feeling joy, grief, boredom. We describe a face immediately as sad, radiant, bored, even when we are unable to give any other description of the features. Grief, one would like to say, is personified in the face. This is essential to what we call emotion».2 Ciò è coerente anche con la fenomenologia, il cui richiamo è esplicito: il corpo, infatti, assume una funzione conoscitiva fondamentale ed è considerato il vero nucleo dell’attività percettiva, il mezzo che permette di stabilire un contatto tra mondo e soggetto, tra ego e alter ego. In particolare, è forte il riferimento a Merleau-Ponty, il quale, foriero e «radicalizzatore» del pensiero husserliano, sosteneva che la percezione della propria soggettività debba necessariamente contenere l’esperienza dell’alterità: essenziale al soggetto è, infatti, l’essere aperto all’altro ed avere la tendenza ad oltrepassare se stesso. Inoltre, sia nel caso della percezione di Sé, sia nel caso della percezione dell’altro, si ha a che fare con una soggettività incarnata, la cui caratteristica principale è, per definizione, quella di comprendere un’esteriorità.

Come dimostrano numerosi studi scientifici, infatti, fin dalla nascita3 siamo in grado di distinguere una faccia rispetto all’ambiente circostante, e addirittura di imitarne le espressioni: Meltzoff e Moore, ad esempio, hanno provato che i neonati (i più «giovani» di 42 minuti, i più«maturi» di 72 ore dalla nascita) sono in grado di riprodurre le espressioni facciali,4 grazie a una capacità innata simile allo schema corporeo merleau-pontiano, che ci permette dunque di creare un ponte tra interiorità ed esteriorità.

Senza l’intervento di simulazioni o capacità concettuali, il soggetto è quindi in grado di percepire i movimenti corporei come espressivi e intenzionali fin dal primo anno di vita, e di comprendere l’altro immediatamente come agente, e non come oggetto o mente cartesiana.5 Citando Gallagher: «Such perceptions give the infant, by the end of the first year of life, a non-mentalistic, perceptually based embodied understanding of the intentions and dispositions of the persons».6

La percezione intersoggettiva si configura così come un processo interattivo, e non meramente cognitivo: nell’incontro con l’Altro, non sono un semplice osservatore, ma «I am responding in an embodied way».7 In quest’ottica, la cognizione sociale diviene sinonimo di interazione sociale, processo all’interno del quale i movimenti corporei, le espressioni8 e il contesto assumono un ruolo fondamentale: l’idea alla base di quest’approccio è che la nostra intersoggettività sia essenzialmente un meccanismo diretto e corporeo non solo nell’infanzia ma anche in età adulta, e che ci si rivolga al mind reading solo in casi eccezionali. I pensatori che sostengono questa tesi coniugano quindi la validità degli esperimenti empirici a nozioni fenomenologiche come quella di schema corporeo, intenzionalità e Leib: la descrizione di soggetto come organismo essenzialmente psicofisico è infatti al centro della loro proposta, secondo la quale è grazie a un innato senso del Sé corporeo, pre-riflessivo e pre-teoretico, che non solo riusciamo ad avere coscienza di noi stessi, ma anche a comprendere l’alterità e ad interagire con essa.

Nelle pagine che seguono vedremo come questa prospettiva di studio, che sta godendo di molta fortuna all’interno del dibattito contemporaneo, fornisca non solo un nuovo modo di comprendere le scoperte neurali relative alla vita emotiva (in primis, la scoperta dei neuroni specchio), ma abbia risvolti in ambito clinico. In altre parole, le tesi fenomenologiche si stanno rivelando sempre più coerenti con gli sviluppi della psichiatria, specialmente per quanto riguarda lo studio delle patologie che coinvolgono la sfera intersoggettiva.

1. Il caso dei neuroni specchio: una lettura fenomenologica e non simulazionista

Recentemente, gli studi fenomenologici a proposito della corporeità e dell’intersoggettività sono stati presi in considerazione da ambiti molto distanti dalla filosofia: la psichiatria, la medicina, ma soprattutto le neuroscienze cognitive, che, pur continuando a utilizzare un metodo di ricerca empirico, stanno iniziando a indagare i correlati neurali delle componenti soggettive dell’esperienza del mondo. Si sta dunque assistendo allo sviluppo di un approccio neuroscientifico alle esperienze in prima persona, con una particolare attenzione all’esperienza intersoggettiva.

Tale slancio nei confronti di un tema notoriamente filosofico è dovuto, in gran parte, a una scoperta destinata a rimanere nella storia delle neuroscienze: i neuroni specchio. Sotto molti aspetti, lo studio dei neuroni specchio rappresenta un case study esemplare di interazione tra fenomenologia e neuroscienze, in quanto sembra confermare il paradigma fenomenologico a proposito dell’intersoggettività: le nozioni di intenzionalità di coscienza, di corpo proprio ed empatia che emergono dall’analisi dei dati sperimentali avrebbero infatti molte consonanze con l’approccio husserliano.

Vittorio Gallese, in particolare, si è interessato di tali argomenti, cercando di stabilire una connessione tra neuroscienze e filosofia. La tesi principale sostenuta da Gallese, tesi che sarà oggetto delle riflessioni riportate in queste pagine, è quella per cui attraverso i neuroni specchio i soggetti si scoprono simili, tramite un processo di modellizzazione: tale processo, grazie al quale vengono simulate le azioni altrui, è involontario, non conscio e predichiarativo, e non passa attraverso una traduzione linguistica o concettuale. Il neuroscienziato utilizza sia la nozione merleau-pontiana di «intercorporeità», sia la discussione husserliana a proposito dell’empatia presente, in particolare, in Idee II e nelle Mediatazioni Cartesiane, dove viene impiegato il concetto di Paarung. Il ruolo del corpo vissuto nelle relazioni intersoggettive appare sempre più centrale, mentre l’empatia si configura come un nesso intenzionale di somiglianza, elemento costitutivo per la stessa genesi della coscienza soggettiva. Tuttavia, è necessario sottolineare anche le divergenze tra la spiegazione neuroscientifica e quella fenomenologica. Husserl stesso era molto esplicito nel sostenere l’urgenza di distinguere vari livelli di empatia e comprensione intersoggettiva: alla base egli aveva posto, in effetti, una comprensione passiva e involontaria, fondata sull’analogia corporea, ma aveva anche sostenuto che tale livello non spiega in modo definitivo la complessità della vita interpersonale.9 Assodata, dunque, l’esistenza e l’utilità del sistema mirror nel superamento di modelli meramente inferenziali, è bene perciò riformulare la questione e domandarsi quanto i neuroni specchio riescano a spiegare. Come hanno fatto notare anche Jacob e Borg, tali neuroni riescono, infatti, a farci comprendere le intenzioni motorie altrui, tuttavia, non ci dicono nulla a proposito delle intenzioni a priori dell’altro: in altre parole, grazie al sistema mirror simuliamo e comprendiamo l’azione osservata, ma non capiamo il perché dell’azione in questione.

È necessaria una distinzione tra il riconoscimento di un’azione intenzionale, e il riconoscimento di un’azione svolta con un’intenzione specifica che i neuroni specchio non possono certo afferrare (ad esempio, abbraccio un mio caro perché sta partendo e so che mi mancherà).10 Ad essere messo in dubbio è quindi il potere esplicativo del sostrato neurale, decisamente sterile per far fronte alla complessità delle motivazioni e tendenze che spingono gli individui ad agire in un determinato modo.

Dan Zahavi, convinto sostenitore dell’utilità di un approccio interdisciplinare, ma comunque vigile nel preservare il dato esperienziale dei vissuti, analizzando la questione dei neuroni specchio fa inoltre notare la tensione esistente nella teoria di Gallese, il quale da un lato sostiene che, grazie al sistema mirror, la comprensione dell’alterità avviene in modo immediato e diretto, dall’altro, invece, sottolinea che nella relazione con l’altro viene attivato un processo simulativo simile all’imitazione interna di Lipps, che richiederebbe un termine medio (appunto, il sistema mirror, ovvero una conoscenza motoria interna) necessario affinché sia possibile l’empatia. In tal modo, l’empatia si potrebbe definire anche una sorta di proiezione interna: lo stesso termine «mirror» risulta infatti fuorviante, e ben lontano dalla fenomenologia husserliana.11 Ne La mente fenomenologica, Gallagher e Zahavi sostengono, ad esempio, che:

L’esperienza percettiva non è determinata semplicemente dagli stati neurali che sono attivati dall’imput sensoriale, anche se specifici neuroni «canonici» che si attivano quando afferriamo qualcosa si attivano anche quando semplicemente vediamo un martello, per esempio, oppure osserviamo un oggetto manipolabile;12 né è pienamente determinata dai processi neurali del percorso visivo dorsale che predispongono percettivamente il corpo al movimento e all’azione. Dipende anche, invece, dalle capacità senso-motorie del percipiente e dalle possibilità offerte dall’ambiente. Di norma, la percezione non è altro che il nostro fare fronte all’ambiente in quanto dotati di un corpo.13

La fenomenologia cerca quindi un approccio alternativo al riduzionismo e ricerca il significato autentico della corporeità. Il corpo, infatti, non è un semplice oggetto, ma: «Un principio costitutivo o trascendentale proprio perché è coinvolto nella possibilità stessa dell’esperienza».14

In questo modo si rifiuta il dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa, poiché il corpo non viene collocato né nell’uno né nell’altro dominio, essendo allo stesso tempo oggetto e soggetto di esperienza.

Gallagher e Zahavi, rifacendosi al pensiero di Sartre, anch’esso convinto della centralità dell’elemento corporeo nella vita percettiva, sostengono che il corpo plasma il nostro modo di essere nel mondo, e, in quanto:«è operativo in ogni percezione e in ogni azione, costituisce il nostro punto di vista e il nostro punto di partenza».15 Tale concezione di corporeità non è affatto statica, ma colloca il corpo in relazione alle circostanze, ai contesti, all’ambiente. Tutti questi elementi condizionano la percezione e il comportamento dell’agente, anche quando è impegnato a comprendere l’alterità. Esperire l’altro, infatti, non significa empatizzare di volta in volta con singoli vissuti, ma con un ego, un corpo nello spazio dotato di una psiche, un centro di orientamento simile a me ma, allo stesso tempo, completamente diverso, poiché possiede una storia di vissuti irripetibile ed unica.

Risulta sempre più chiaro come una semplice simulazione neurale non possa essere esaustiva nei confronti di tale ricchezza esperienziale. Se, inoltre, l’attivazione del sistema mirror fosse sufficiente all’empatia, vivremmo costantemente in uno stato di sconvolgimento emotivo. È invece interessante notare come non si provi empatia per tutto e per tutti: in tal senso, oltre al sostrato neurale, risulta necessario chiamare in causa un set complesso di fattori motivazionali, cognitivi ed emotivi, distinguendo il meccanismo fisiologico di condivisione delle emozioni (il sistema mirror) e il sentimento dell’empatia. In quest’ottica, il problema principale non è descrivere cosa accade quando empatizziamo, piuttosto, è quello di capire perché lo facciamo e quando, enfatizzando la selettività di tale sentimento.

De Vignemont, in un interessante testo dal titolo significativo When do we empathize?,^[16] riporta un esempio paradigmatico della complessità e della selettività dell’esperienza empatica, ovvero quello di una madre turbata poiché il figlio Peter ha fatto uno scherzo al fratello minore, mettendolo in pericolo. Peter, a seguito del rimprovero della madre, potrebbe reagire in diversi modi:

  • Potrebbe essere dispiaciuto per lo scherzo fatto e mettersi a piangere disperato.
  • Potrebbe non sentirsi affatto dispiaciuto poiché, in fin dei conti, il fratellino non ha subìto alcun danno ma, anzi, meritava lo scherzo.
  • Potrebbe non dispiacersi poiché in realtà non c’è stato nessuno scherzo: la madre ha frainteso la situazione e ha avuto una reazione esagerata e fuori luogo.

A questi punti, non è poi così scontato individuare un soggetto con cui empatizzare: di solito, nel caso in cui Peter non si dimostri pentito poiché il fratello «meritava lo scherzo», empatizzeremo con la madre; al contrario, nel caso in cui la madre non avesse capito la situazione, empatizzeremo con Peter, ingiustamente punito, e giudicheremo il comportamento della donna inappropriato. Il primo caso è invece il più ambiguo: da un lato, infatti, saremmo portati a provare empatia per il bambino piangente, dall’altro, invece, potremmo provare empatia anche per la madre preoccupata e adirata.

La conclusione che si può trarre da questo aneddoto è l’evidenza che l’empatia, oltre alla simulazione neurale, implica ulteriori fattori. Se, infatti, il soggetto dell’emozione non sono io, ma un altro, occorrono elementi che vadano a rafforzare l’attivazione del sistema mirror. Tra di essi, è necessario ricordare che:

  • Certe emozioni sono più facilmente condivisibili: si pensi, ad esempio, a un’emozione «negativa» come la paura;
  • L’emozione deve appartenere al nostro repertorio emotivo: se non soffro di vertigini, difficilmente comprenderò a fondo chi è terrorizzato dall’altezza;
  • L’emozione che andremo a comprendere non deve essere debole, ma saliente, e coerente con il contesto esterno e interno;
  • La relazione tra chi empatizza e il soggetto dell’emozione è fondamentale: spesso si parla, infatti, di un familiarity effect, che ci porta a empatizzare maggiormente con i nostri parenti e con le persone che conosciamo bene, e di un similarity effect, che ci influenza facendoci tendere di più verso le persone simili a noi;
  • La situazione generale di chi empatizza è importante: non siamo perennemente aperti e ben disposti nei confronti dell’alterità, piuttosto, si è più propensi ad esserlo quando i nostri bisogni generali sono soddisfatti.

Infine, è bene sottolineare quanto sia difficile empatizzare con emozioni dirette al soggetto stesso dell’empatia (ad esempio, troveremmo difficile provare empatia nei confronti di un collega geloso di noi).

Un’interpretazione problematica del sistema mirror è offerta, inoltre, da alcuni pensatori (come ad esempio Ramachandran) secondo i quali i neuroni specchio potrebbero essere definiti simulator neurons, e sarebbero la prova empirica dell’approccio simulazionista, poiché offrirebbero basi biologiche al processo di simulazione. Tuttavia, è bene sottolineare che, coloro i quali, all’interno del dibattito contemporaneo, analizzano il vissuto intersoggettivo da una prospettiva fenomenologica, tendono piuttosto a criticare tale interpretazione e a considerarla errata. Come nota Gallagher, infatti, nella Simulation Theory c’è un controllo strumentale, da parte del soggetto, del momento simulativo, cosa che, ovviamente, non può accadere a livello neurale; inoltre, la simulazione implica finzione, un processo che si potrebbe definire come se, mentre l’attivazione del sistema mirror èautomatica e implicita, e non riesce a preservare la distinzione tra «ego»e «alter», essenziale soprattutto in un’ottica fenomenologica.16 Gallagher propone dunque un’interpretazione non simulazionista del sistema mirror, piùin linea con un approccio fenomenologico e con una visione di percezione intersoggettiva essenzialmente corporea e diretta. Secondo lui, infatti:

To deny that mirror resonance processes constitute simulations is not to deny that mirror neurons may be involved in our interactions with others, possibly contributing to our ability to understand others or to keep track of ongoing intersubjective relations. Rather, directly relevant to the concept of direct perception, I want to suggest that an alternative and more parsimonious interpretation of mirror neuron activation is possible. Mirror resonance processes can easily be interpreted as part of the neuronal processes that underlie social perception. That is, the articulated neuronal processes that include activation of mirror neurons or shared representations constitute the neural correlates of a non-articulated immediate perception of the other person’s intentional actions, rather than a distinct process of simulating their intentions.17

In quest’ottica, il sistema mirror si configure come una percezione sociale enattiva:

Mirror activation is not the initiation of simulation; it is part of a direct perception of what the other is doing. At the phenomenological level, when I see the other’s action or gesture, I see (directly perceive) the meaning in the action or gesture. I see the joy or I see the anger, or I see the intention in the face or in the posture or in the gesture or action of the other. I see it. I don’t have to simulate it. And I immediately see that it is their action, gesture, emotion, or intention, and it is extremely rare that I would be in a position to confuse it with my own.18

Il contesto fenomenologico alla base della teoria di Gallagher è evidente: il rimando esplicito non è solo a Scheler, ma anche a Schutz e Merleau-Ponty. L’intersoggettività viene descritta come un processo basato sull’esperienza, più che sulla cognizione, e viene definita come un’interazione tra corpi vivi, che riescono a comunicare proprio in quanto incarnati. La scoperta dei neuroni specchio, dunque, costituisce un evento fondamentale all’interno del dibattito sull’intersoggettività: non solo ha dimostrato che la comprensione dell’alterità non si basa su processi linguistici e inferenziali (confutando così le theories of mind), ma ha reso anche evidenti — da una prospettiva fenomenologica — i limiti dell’approccio simulazionista, troppo sterile per rendere conto della complessità dell’esperienza empatica.

2. Corporeità e disturbi intersoggettivi: la psichiatria fenomenologica

È interessante notare che una concezione di intersoggettività intesa come esperienza percettiva diretta e incarnata emerge anche in studi psichiatrici: recentemente, infatti, stiamo assistendo all’avvicinamento tra fenomenologia e studi empirici, connubio che ha dato vita a discipline come la psicopatologia fenomenologica, disciplina nella quale il soggetto è definito come corpo vivo, dinamicamente coinvolto in una relazione di reciprocità con l’alterità. Ciò su cui si focalizza tale prospettiva di studio è un senso del Sé corporeo necessario e antecedente la percezione intersoggettiva, e perfettamente in linea con il Leib husserliano e l’intenzionalità motoria merleau-pontiana. L’approccio incarnato, in concomitanza con lo sviluppo delle neuroscienze, ha infatti rivitalizzato l’interesse della psichiatria nei confronti della fenomenologia: nei primi anni del Novecento già Jaspers, ma anche Binswanger e Minkowski, per fare solo alcuni nomi, avevano concentrato la loro indagine sul vissuto. Allo stesso modo oggi, coloro che si rifanno a una teoria della percezione diretta pongono l’accento sulla struttura del Sé e della soggettività, struttura tutt’altro che ideale e trascendente il mondo, ma completamente radicata nel corpo.

Nel caso della schizofrenia, ad esempio, Minkowski, nel testo La Schizophrénie, risalente al 1927, sosteneva l’impossibilità di comprendere tale malattia senza avere ben presente la struttura della soggettività: l’essenza della schizofrenia consisterebbe, in particolare, nell’incapacità di rapportarsi al mondo e di stabilire legami significativi con altri individui. Nonostante i disturbi psichici colpiscano principalmente tre sfere — l’autocoscienza, l’intenzionalità e l’intersoggettività — , è proprio quest’ultima, infatti, ad essere maggiormente colpita. Il contatto con la realtà, inoltre, non viene perso solo da un punto di vista sociale, poiché ad andare smarrita è la stessa prospettiva in prima persona. Il Sé e l’Altro, infatti, non sono più mutualmente interrelati, ma divergono fino a divenire due realtà completamente separate. La soggettività esperisce così un senso di perdita dei propri confini, in concomitanza ad allucinazioni uditive e impossibilità di controllo delle proprie azioni: in un certo senso, sembrerebbe andato perso lo «schema corporeo» merleau-pontiano. Da un punto di vista fenomenologico, è interessante notare che recenti studi hanno proposto l’ipotesi secondo la quale la causa scatenante il disordine schizofrenico sarebbe proprio la perdita del senso di Sé corporeo. Secondo Parnas e Zahavi, in particolare, è possibile individuare tre livelli del senso di Sé:

  • Un’implicita coscienza che «questa è la mia esperienza», ovvero l’ipseità, un livello pre-riflessivo, «minimo»
  • Una coscienza più esplicita di Sé, come soggetto invariante delle mie esperienze e azioni (livello che, a sua volta, presuppone il «sé minimo»).
  • Il Sé narrativo o sociale, che si riferisce alla personalità, alle abitudini, allo stile e ad altre caratteristiche individuali.

Secondo tale logica, il disturbo schizofrenico si crea già al primo livello, quello del Sé minimo, intaccando a sua volta anche le altre sfere. Ad essere coinvolto nel decorso della malattia, inoltre, non è solo il senso di sé, ma anche la corporeità e il flusso di coscienza del soggetto.

Thomas Fuchs, in particolare, sostiene che nella schizofrenia la debolezza del senso di sé «minimo», il malfunzionamento delle funzioni corporee e la disconnessione dal consorzio intersoggettivo altro non sono che manifestazioni di un disturbo più ampio, ovvero quello del Sé corporeo.

Tale disturbo viene detto anche disembodiment, poiché implica una progressiva alienazione dai propri sentimenti corporei, e di conseguenza, l’impossibilità di distinguere il Sé dagli Altri. In altre parole, l’immersione pre riflessiva e pratica del Sé nel mondo-situazione descritta minuziosamente da Merleau-Ponty in Fenomenologia della Percezione viene persa, colpendo le sfere del Sé, della percezione, dell’azione e dell’intersoggettività. Le conseguenze sono notevoli: il disembodiment del Sé comporta infatti la diminuzione dell’autocosapevolezza e del contatto con il reale, conducendo a una sorta di alienazione dal mondo; il disembodiment dell’azione e della percezione rischia invece di distruggere gli schemi attraverso i quali viene conosciuto il mondo obiettivo, alterandolo e distorcendolo;19 infine, il disembodiment dell’intersoggettività conduce alla totale incapacità di empatizzare con gli altri, e, conseguentemente, di dare un senso allo spazio condiviso.

La prospettiva fenomenologica appare perciò utile alle analisi di casi clinici poiché può aiutare a spiegare in che senso viene persa l’implicita struttura del corpo. I risultati delle ricerche scientifiche sembrano inoltre confermare le tesi merleau-pontiane, secondo le quali esiste un senso del sé corporeo che aiuta il soggetto a dare un significato alle situazioni e a muoversi nel mondo: in particolare, le nozioni di «schema corporeo» e «intenzionalità fungente» si rivelano utili a sottolineare la dimensione passiva, incarnata e pre riflessiva necessaria affinché il soggetto abbia consapevolezza di Sé, e sia conseguentemente in grado di attribuire senso anche al mondo intersoggettivo.

Negli ultimi anni fenomenologi, psicopatologi e neuroscienziati hanno rivolto gran parte delle loro ricerche proprio alla definizione di tale senso di Sé corporeo, descrivendolo all’unanimità come indispensabile e antecedente sia il sense of ownership (ovvero la consapevolezza di essere il protagonista invariante di ogni esperienza), sia il sense of agency (cioè la certezza di essere colui che causa l’azione). Inoltre, è interessante rilevare che è stato attestato che tale senso di Sé corporeo non solo condiziona, ma è condizionato a sua volta dai meccanismi di interazione sociale, essendo l’uomo essenzialmente relazionale.20 Tale tendenza spontanea all’intersoggettività è di tipo pratico e rappresenta una parte costitutiva della praktognosìa, il cui compito, secondo Merleau-Ponty, è quello di fornire a ciascuno un accesso immediato non solo al mondo e agli oggetti, ma anche alle potenzialità d’azione offerte al soggetto dal contesto che lo circonda. Piuttosto che ricercare i correlati neurali della conoscenza esplicita e riflessiva, le ricerche empiriche stanno iniziando dunque a rivolgersi all’approfondimento dell’esperienza pre riflessiva ed implicita: è in tal senso che bisogna prendere in considerazione i sostrati neurali dell’autoesperienza corporea e della comprensione dei sentimenti dell’altro, la cui scoperta ha messo in luce che le regioni cerebrali coinvolte nell’autoesperienza di Sé sono le stesse che distinguono il Sé dall’Altro. In tali studi, la corporeità assume un ruolo centrale e il ricorso al concetto di Leib diviene esplicito: citando Gallese, che recentemente si sta occupando proprio di schizofrenia: «Pensiamo che le contemporanee neuroscienze cognitive (…) debbano porre nuova luce sul Leib».21

Un altro disturbo dell’embodiment, che recentemente è stato affrontato unendo l’approccio scientifico a quello fenomenologico, è la depressione grave o malinconica, ovvero una forma di depressione più duratura ed intensa rispetto alle altre, talmente profonda da poter condurre, in certi casi, anche al suicidio. In questo caso il corpo perde la sua fluidità e diviene «solido» e «pesante», al punto da impedire al soggetto la realizzazione delle proprie intenzioni e dei propri impulsi. Anziché offrire un ancoraggio al mondo e un accesso ad esso, il corpo dei malati di depressione grave costituisce un ostacolo che li separa da tutto ciò che li circonda. Come nella schizofrenia, seppur per motivi opposti, il soggetto non è più in grado di provare empatia e di trascendere se stesso e il suo corpo. Il paziente è così confinato al suo presente stato corporeo, e non è in grado di conoscere le proprie potenzialità d’azione: lo spazio viene ristretto all’ambiente circostante, in una tensione generale definita anche hyperembodiment. Laddove lo schizofrenico perdeva il senso del Sé corporeo divenendo incapace di relazionarsi con il mondo, il depresso accusa un sentimento corporeo talmente forte e distorto da non essere in grado di liberarsene per fare posto ad altre percezioni. La conseguenza principale di tale hyperembodiment è, infatti, la perdita di risonanza emotiva ed intersoggettiva: il malato si trova così in uno stato detto melancholia anaesthetica, poiché non è in grado di sentire nulla, ed è consapevole di questa sua condizione, «sente di non sentire» e percepisce il proprio corpo come un peso, come se fosse mero cadavere.22 In altre parole, il soggetto si percepisce come mero Körper, e non riesce ad avere consapevolezza di Sé come corpo vivo: ancora una volta risulta importante sottolineare la centralità di una soggettività intesa come Leib, intreccio tra psiche e corpo. Per questo motivo, oggi più che mai neuroscienze cognitive e fenomenologia avvertono l’esigenza di una cooperazione: il senso di Sé corporeo (il quale risulta centrale nella maggior parte delle patologie) non è, infatti, un semplice meccanismo neurale, ma qualcosa di molto più complesso. Ricorrere a nozioni come Leib e intenzionalità fungente si rivela perciò utile a comprendere il problema. Da un punto di vista neuroscientifico, l’emergere della dimensione corporea richiede, infatti, molteplici fattori sensoriali: in particolare, nel caso di un’alienazione intersoggettiva come quella registrata nella schizofrenia e nella depressione malinconica, si registra un’insufficienza all’interno del cosiddetto «cervello sensoriale», ovvero la nella corteccia premotoria, sede dei neuroni specchio. Da un punto di vista fenomenologico, è importante invece sottolineare la dipendenza dei processi cerebrali dall’ambiente in cui il soggetto vive: l’individuo viene inteso in senso enattivo, come dinamicamente connesso con il contesto circostante.23

In quest’ottica, i disturbi mentali non sembrano mere disfunzioni cerebrali, ma veri e propri disordini dell’essere-nel-mondo della persona: sono la natura soggettiva e il contenuto intenzionale dei processi mentali ad avere quindi impatto sulle funzioni cerebrali. Ne emerge, come sostiene insistentemente Thomas Fuchs — il quale applica la fenomenologia allo studio di malattie della mente — un processo causale circolare, nel quale elementi neurofisiologici, ambientale e intenzionali interagiscono l’uno con l’altro. Queste tesi sembrano coerenti con la fenomenologia, in particolare con il pensiero di Merleau-Ponty, convinto sostenitore di una visione gestaltica del soggetto. Significativo questo passo tratto da Fenomenologia della Percezione: «Fra lo psichico e il fisiologico possono intercorrere rapporti di scambio che quasi sempre impediscono di definire una turba mentale come psichica o come somatica. Come distinguere, nei sintomi, le cause fisiologiche e i motivi psicologici?». In sintomi di questa specie, psichico e fisico sono così intimamente connessi che non si può più pensare di completare uno dei domini funzionali con l’altro e che entrambi devono essere assunti da un terzo. Si deve passare da una conoscenza dei fatti psicologici e fisiologici a un riconoscimento dell’evento animico come processo vitale inerente alla nostra esistenza.24

3. Conclusione

Il dibattito contemporaneo sull’intersoggettività è decisamente variegato e comprende diverse definizioni di «empatia». Battaly, nel 2011, ha individuato tre posizioni principali, alle quali sembrerebbe necessario, alla luce degli sviluppi più recenti, aggiungerne una quarta:

  • Empatia come condivisione di stati mentali: quest’accezione non implica processi cognitivi, piuttosto meccanismi simulativi che possono comprendere anche fenomeni di contagio e mimesi (è possibile includere le Simulation Theories all’interno di questo filone di pensiero).
  • Empatia come condivisione e conoscenza: simulare il vissuto altrui non è sufficiente. Per comprendere pienamente l’alterità, è necessario ascriverle stati mentali: tale descrizione implica, dunque, un processo cognitivo e la differenziazione tra il Sé e l’Altro.25
  • Empatia come cognizione: ai fini del vissuto intersoggettivo, la simulazione e la condivisione non sono necessarie, ciò che conta è la capacitàdi capire gli stati mentali altrui (Theory theories of Mind).
  • Empatia come percezione sociale diretta: l’intersoggettività non si basa né su processi cognitivi, né su capacità immaginative o simulazioni. Grazie ad un incontro diretto con un’alterità essenzialmente corporea, siamo infatti in grado di comprendere i suoi vissuti in modo preriflessivo e preinferenziale. Ad avvallare una simile tesi contribuiscono numerosi studi sull’auto-coscienza e sull’intersoggettività nell’infanzia, che dimostrerebbero l’esistenza di un senso del Sé corporeo grazie al quale la soggettività è, fin dalla nascita, essenzialmente e ontologicamente aperta al mondo e agli altri.26 Quest’ultima tendenza si rifà esplicitamente all’approccio fenomenologico, e offre una visione di cognizione sociale diametralmente opposta alle altre teorie vigenti. Come nota, infatti, Zahavi: «When I empathically grasp the trepidation in the other’s voice, or the concentration and effort in her actions, I am experiencing another subjectivity, and not merely imagining it, simulating it, or theorizing about it».27

All’interno di questa prospettiva, il ruolo del corpo diviene centrale, al punto che è possibile parlare di una comprensione incarnata, e di una crescente attenzione verso una fenomenologia dell’embodiment: ciò non significa affatto ricondurre la vita percettiva ed emotiva del soggetto al suo sostrato corporeo. Specialmente per quanto riguarda l’esperienza empatica e la percezione intersoggettiva in generale, grazie all’interazione tra fenomenologia e scienze cognitive diviene chiaro che il corpo funge da medium nella percezione emozionale, percezione nella quale sono coinvolti numerosissimi fattori, secondo una struttura che si potrebbe definire gestaltica. Nella nostra vita emotiva, infatti, non è possibile operare una separazione netta tra il momento valutativo, la componente corporea e il contesto socio-culturale: questi elementi formano una sintesi, condizionandosi reciprocamente, secondo un’interazione circolare. Ciò risulta evidente dagli studi sulla schizofrenia e sulla depressione, ad esempio, dai quali emerge la complessità della struttura soggettiva, struttura essenzialmente corporea che si rivela la base non solo della nostra autocoscienza, ma anche della possibilità di rapportarsi al mondo e agli altri.Le conseguenze principali dell’approccio diretto, fenomenologico e incarnato, sono essenzialmente due: la prima è, appunto, la centralità del Sé corporeo, antecedente e fondante ogni tipo di conoscenza e percezione; la seconda è l’avvicinamento tra fenomenologia e discipline empiriche, interazione che comporta una naturalizzazione della fenomenologia. Ancora una volta, è Gallagher a farsi portavoce di tale tendenza, e a proporre la possibilità di un mutual enlightment tra approccio fenomenologico e scienze naturali. Fenomenologia e scienze empiriche condividono una visione monistica di soggetto come agente psicofisico, nel quale la corporeità è inestricabilmente connessa alla psiche e condiziona la nostra percezione e cognizione.

In quest’ottica, il metodo fenomenologico e i risultati degli studi sperimentali possono integrarsi l’uno all’altro, dando vita, in certi casi, a prospettive di studio innovative, come, ad esempio, la psicopatologia fenomenologica. Prendere sul serio l’approccio incarnato significa, inoltre, contestare la visione cartesiana di soggetto, e superare le dicotomie classiche tra mente e corpo, tra idealismo e realismo. Come emerge dagli studi più recenti sull’intersoggettività, infatti, è necessaria una riconsiderazione del momento esperienziale, piuttosto che la focalizzazione su processi meramente cognitivi o, al contrario, esclusivamente biologici. La complessità e la ricchezza dei vissuti personali del soggetto vengono dunque preservate, mentre la fenomenologia conferma la sua incredibile attualità.

4. Bibliografia essenziale

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  • D. Zahavi, Self and Other. Exploring Subjectivity, Empathy and Shame, Oxford University Press, 2015.

  1. Premack, D. & G. Woodruff , Does the chimpanzee have a theory of mind? in Behavioral and Brain Sciences, 4, 1978, p. 515. ↩︎

  2. Wittgenstein, L. 1980b. Remarks on the Philosophy of Psychology, Volume II, ed. G.H. von Wright and H. Nyman, tr.C.G. Luckhart and M.A.E.Aue. Oxford:Blackwell. ↩︎

  3. Si veda, ad esempio, Gallagher e Meltzoff, 1996, The earliest sense of Self and Others, in Philosophical Psychology, 9, pp. 123-236. ↩︎

  4. Tali studi confermano le intuizioni di Scheler e Merleau-Ponty, i quali, rispettivamente in Essenza e Forme della Simpatia, e nel saggio Les Relations avec autrui chez l’enfant, sottolinearono la natura non inferenziale della nostra comprensione dell’alterità fin dai primi anni di vita, in linea con un approccio percettivo incarnato↩︎

  5. Questa tesi, oltre che da Gallagher, è sostenuta anche da Scholl e Tremoulet. ↩︎

  6. S. Gallagher, Direct Perception in the Intersubjective Context, in Consciousness and Cognition, 17, (2008), pp. 535-543, p. 540. Il corsivo è nostro. ↩︎

  7. S. Gallagher, Direct Perception, cit. nt. 6, pp. 535-543, pp. 540. ↩︎

  8. Secondo Danile Hutto e Shaun Gallagher la percezione intersoggettiva basata sulla comprensione di movimenti ed espressioni altrui si può definire «intersoggettività primaria», e ci appartiene fin dalla nascita; quando invece abbiamo bisogno anche del contesto pragmatico siamo in presenza dell’intersoggettività secondaria, che si sviluppa intorno al primo anno di vita. ↩︎

  9. Allo stesso modo oggi Stueber sostiene la necessità di distinguere tra una re-enactive empathy, nella quale sono coinvolte capacità cognitive e deliberative in grado di riprodurre gli stati mentali altrui, e una basic empathy, un meccanismo di imitazione innato preteoretico e immediato. ↩︎

  10. In Gallese and Goldman, 1998, pp. 498, gli stessi neuroscienziati ammettono: «Our conjecture is only that MNs represent a primitive version, or possibly a precursor in phylogeny, of a simulation heuristic that might underlie mindreading.» ↩︎

  11. Lo stesso Gallese ha ammesso che la metafora «neuroni specchio» potrebbe generare incomprensioni, poiché suggerisce una proiezione di sé nell’alterità, quando invece è necessario rimarcare la differenza tra Sé e Altro, differenza che, come sosteneva anche Husserl, secondo il neuroscienziato è un elemento importante per l’intero processo empatico. ↩︎

  12. È chiaro il riferimento ai neuroni specchio. ↩︎

  13. S. Gallagher e D. Zahavi, The Phenomenological Mind, Routledge 2008; trad. ita. (a cura di) P. Pedrini, La mente fenomenologica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009, p. 154. ↩︎

  14. S. Gallagher e D. Zahavi, The Phenomenological, M.cit. nt. 13, p. 206. ↩︎

  15. S. Gallagher e D. Zahavi, The Phenomenological M., cit. nt. 13, p. 209. ↩︎

  16. L’irriducibilità dell’altro è fondamentale per mantenere il senso della relazione stessa, che altrimenti perderebbe i due termini di confronto: come sosteneva anche Lèvinas, «l’assenza dell’altro è esattamente la sua presenza in quanto altro». Alla critica inerente l’importanza della distinzione «Sè-Altro», Gallese risponde che, anche da un punto di vista neurale, se io compio un’azione e osservo la stessa compiuta da un altro si attivano, in effetti, i medesimi neuroni, ma con una differente intensità: in un certo senso, si può quindi affermare che «l’opacità» caratterizzante la percezione dell’alterità descritta da Husserl venga preservata. E’ bene sottolineare, infatti, che è proprio il permanere della diversità a rendere possibile l’empatia. ↩︎

  17. S. Gallagher, Direct Perception, cit. alla nt. 6, p. 541. ↩︎

  18. Gallagher, S., La perception d’autrui en action. Fondements cognitifs de l’interaction avec autrui. Lecture organize par Alain Berthoz, Collège de France (22 February 2006), p.9. http://pegasus.cc.ucf.edu/~gallaghr/gall06ParisAS.pdf ↩︎

  19. Alcuni pazienti riportano infatti che l’ambiente sembra loro alterato, e gli oggetti appaiono come fantasmi. Anche i movimenti e le azioni di tali soggetti risentono di questa «percezione difettosa»: spesso, chi soffre di schizofrenia sostiene di sentire una sorta di scissione tra la propria mente e il proprio corpo. Questo è indicativo di come si debba intendere la persona come essere nel quale, normalmente, psiche e corpo sono intrecciati e connessi. ↩︎

  20. E’ già stato sottolineato, nelle pagine precedenti, come anche i neonati siano in grado di riprodurre le espressioni facciali a cui assistono, prova inconfutabile della loro innata relazionalità. ↩︎

  21. V. Gallese, F. Ferri, Jaspers, the Body, and Schizophrenia: The Bodily Self, in Psychopathology, July 17, 2013, p. 5. ↩︎

  22. In alcuni casi il soggetto afflitto da malinconia depressiva può arrivare persino a negare la propria esistenza e quella degli altri, che gli appaiono come fantasmi: avviene una sorta di desincronizzazione con il mondo. ↩︎

  23. Ci si riferisce, nello specifico, al concetto di autopoies introdotto da Varela, Thompson e Rosch. ↩︎

  24. Merleau-Ponty, Fenomenologia della Percezione, Bompiani, Milano 2012, p. 138. ↩︎

  25. Questa seconda opzione è stata difesa da De Vignemont, Jacob e Singer. ↩︎

  26. Abbiamo visto come Gallagher si faccia portavoce di tale tendenza, e si avvalga di un approccio diretto e enattivo, sviluppato da Tomasello e Hutto in senso narrativo: secondo l’Ipotesi della Pratica Narrativa, fin dai primi anni di vita la nostra comprensione intersoggettiva sarebbe il frutto della competenza narrativa, ovvero della capacità di capire e raccontare storie, la quale fornirebbe uno strumento essenziale nella percezione diretta dell’alterità. ↩︎

  27. D. Zahavi, Self and Other. Exploring Subjectivity, Empathy and Shame, Oxford University Press, 2015, p. 167. Il corsivo è nostro. ↩︎