Gianluca Garelli, Il cosmo dell’ingiustizia. Ho kosmos tes adikias. Fine della teleologia e fini della responsabilità, il melangolo, Genova, 2005, 198 pp.
Il cosmo dell’ingiustizia è essenzialmente uno studio sul rapporto tra etica ed estetica, analizzato sulla base di quattro coordinate fondamentali: i concetti di estetica e sapere pratico da una parte, le dimensioni dell’antico e del moderno dall’altra. L’autore, inoltre, tiene conto della stretta connessione vigente tra la questione kantiana dei limiti di una teleologia critica — questione che, a suo giudizio, sarebbe stata ingiustamente collocata ai margini del mainstream dell’estetica moderna — e le teorie etiche del Novecento incentrate sul paradigma della responsabilità. In breve, dunque, l’ipotesi che sorregge la trattazione è quella secondo cui «la teoria della responsabilità» rappresenterebbe «l’esito tardomoderno del commiato dalla teleologia» (p. 7).
Nel primo capitolo, intitolato La ragione responsabile, Garelli si sofferma sul «battesimo weberiano della Verantwortungsethik» e sul successivo sviluppo delle «cosiddette ‘etiche di secondo livello’, […] paradossalmente definite teleologiche»: paradossalmente, secondo Garelli, perché orientate da una sorta di «teleologia senza telos» (p. 26). La vera sfida, a suo giudizio, consiste allora nel confrontarsi seriamente con il declino della teleologia: un declino reso visibile proprio dall’assimilazione di etica della responsabilità e utilitarismo, a partire da un concetto di teleologia nominalisticamente inteso. Il che, evidentemente, impone il compito di ripensare, sulla scorta della terza Critica kantiana, quella «istanza peculiare della teleologia» consistente nella tutela «di un alogon irriducibile alla precomprensione e agli interessi della ratio calcolante» (p. 27).
Il problema di una tale ‘a-logicità’viene declinato nei due capitoli successivi, intitolati La legge contro la legge e Senso del dovere e dovere del senso, nei termini di una riflessione sulla terribile ‘alterità’del male. Quest’argomento viene affrontato facendo principalmente riferimento a San Paolo, al Kant del ‘male radicale’, alle tesi di Jonas sull’«immane responsabilità» della filosofia che, di fronte all’abisso del male, «ha il compito, il dovere di non tacere» (p. 56), e infine in riferimento al pensiero tragico di Luigi Pareyson e Sergio Givone. La peculiare ontologia della libertà di questi ultimi, infatti, insistendo proprio sulla «dimensione radicale e autenticamente tragica» dell’esistenza umana, perviene a posizioni etiche che trovano la loro fondazione non tanto nella «decisione per l’essere contro il nulla» (come in Jonas), quanto nella «decisione per o contro il senso dell’essere in forza del nulla» (pp. 80-81).
I capitoli 4 e 5 del libro, intitolati Razionalità e responsabilità e Questione di giudizio, sono interamente dedicati alle figure di due importanti pensatori tedeschi, cioè Georg Picht e Hannah Arendt. Il primo, secondo Garelli, rappresenterebbe una figura di filosofo ingiustamente ignorato, il quale già una decina d’anni prima dello stesso Jonas avrebbe fornito nel libro Wahrheit Vernunft Verantwortung «un’esplicita trattazione ontologica del tema, per certi aspetti non meno scaltrita» di quella proposta nel ben più famoso Principio responsabilità (pp. 85-86). Nel caso della filosofa di Hannover, poi, Garelli enfatizza il fatto che concetto di responsabilità perda la connotazione ontologica conferitagli da Jonas e Picht, acquistandone una smaccatamente politica. Ma anche in questo caso, secondo l’autore, ciò a cui si assiste è una sorta di ritorno a Kant, nel senso che negli ultimi anni della sua vita Arendt, com’è noto, propose un’interpretazione etico-politica dell’ästhetische Urteilskraft e un accostamento fra Giudizio di gusto e Giudizio morale. Il che, peraltro, non comporta affatto «una dissoluzione poco auspicabile dell’etica nell’etichetta», ma una seria e interessante «fondazione di un nuovo modo di considerare il rapporto fra vita attiva e vita contemplativa» (p. 105).
Nel sesto capitolo, intitolato La pittura e la differentia, Garelli prende invece le mosse da uno stravagante esperimento mentale escogitato da Richard Rorty in La filosofia e lo specchio della natura: quello degli Antipodiani, «uomini senza mente» dislocati su un ipotetico pianeta lontano anni luce dalla Terra; uomini che i filosofi umani post-cartesiani, una volta entrati in contatto con loro, non riescono in alcun modo a comprendere. La fiction di Rorty — il quale, com’è noto, è stato tra le altre cose il teorico della dissoluzione della filosofia come scienza rigorosa nella filosofia come metafora e stile letterario — serve a Garelli per porre la questione, estremamente interessante e concreta, della definizione della differentia specifica che separa l’essere umano dagli altri animali. Nel far ciò, egli si rivolge ancora una volta a Jonas, in particolare su alcuni suoi saggi meno noti nei quali si delinea un’originale fenomenologia della percezione e, quindi, s’individua nella «capacità raffigurativa (Bildvermögen) » il tratto distintivo dell’uomo rispetto agli altri viventi, nonché la premessa per la nascita di opere d’arte. Proprio tale passaggio «dalla figurazione all’opera» mette in evidenza ancora una volta lo stretto legame tra estetica ed etica: un legame, peraltro, già presente nel Principio responsabilità, dove «l’indizio della dignità umana» veniva individuato proprio in un fenomeno estetico: «la capacità umana di produrre […] l’opera d’arte, che […] contribuisce all’apertura e alla permanenza del contesto mondano in cui l’uomo abita» (p. 138).
Negli ultimi due capitoli del libro, infine, Garelli ritorna sui temi del tragico. Temi accennati, come si è detto, nei capitoli 2-3 del libro ed ai quali, peraltro, l’autore ha dedicato altri interessanti studi specifici: cioè, i libri Filosofie del tragico (Bruno Mondadori, Milano 2001) e Il tragico (il Mulino, Bologna 2010), quest’ultimo scritto a quattro mani con Carlo Gentili. La questione della «fondamentale esteriorità della cosa rispetto all’identità cui la riconduce il logos» viene coniugata in termini «tragici» nel settimo capitolo del Cosmo dell’ingiustizia (intitolato La stirpe delle foglie), dove il discorso verte essenzialmente sulla lacerante fragilità umana. Una fragilità che, nota l’autore, emerge soprattutto nell’esperienza del lutto. Proprio dal punto di vista di una tale irriducibile e irrimediabile tragicità, Garelli discute i limiti inerenti tanto all’universalismo «astratto» di autori come Habermas o Apel, quanto ad ogni forma di incoerente relativismo. Due atteggiamenti, questi ultimi, opposti ma per certi versi uguali, nel senso che alla fine si rivelano entrambi insensibili a quell’«autentico appello all’alterità al sentire, al di là di feste Gedanken e definizioni rigide di sorta», che conosce bene «chi abbia fatto esperienza del dolore» (p. 162). Da ultimo, il capitolo La logica e la tragedia propone «tre letture di genere» incentrate sui libri che Nicole Loraux (La voce addolorata), Barbara Cassin (L’effetto sofistico) e Martha Nussbaum (La fragilità del bene) hanno dedicato al rapporti tra filosofia e poesia tragica, ossia tra il logos e, per così dire, il suo altro. Attraverso il commento critico di queste opere, l’autore prende ancora una volta posizione contro ogni tentativo di appianamento della tensione eminentemente «tragica» caratterizzante l’agire umano nel suo complesso: ciò che, da ultimo, sfocia in un’esplicita rivalutazione della «plasticità della dialettica» (p. 189) nella forma del dialogo.
In conclusione, sebbene talvolta si abbia l’impressione di un’eccessiva molteplicità di figure e riferimenti che rischia di render difficile e un po’«accidentata» la lettura, rimane il fatto che Il cosmo dell’ingiustizia rappresenti senza dubbio un interessante approfondimento su un tema al quale, forse, non sempre viene prestata la dovuta attenzione — pur essendo un tema accennato o esplicitamente affrontato da molti dei protagonisti del dibattito moderno e contemporaneo, com’è emerso dalla nostra rapida analisi del libro. Il tema, cioè, come si diceva all’inizio, dei rapporti tra gli ambiti dell’estetica e dell’etica. Rapporti che, com’è noto, si sono fatti particolarmente problematici ma, al contempo, affascinanti, soprattutto in età moderna e a partire da Kant.
È soprattutto con Kant, infatti, che l’etica mira a sganciarsi definitivamente da qualsiasi principio «eteronomo» (inclusi quelli sensibili e sentimentali, ossia estetici in senso lato) per ottenere una completa assolutezza e universalità, mentre parallelamente l’ambito estetico consegue la propria legittimazione e autonomia, ma al prezzo della rinuncia a qualsiasi incidenza sulla conoscenza e sulla morale. E, pur non essendo stato il paradigma kantiano accettato da tutti i protagonisti del pensiero otto- e novecentesco — venendo anzi contestato, anche su questi aspetti, sin dagli idealisti trascendentali di primo Ottocento — , non c’è dubbio tuttavia che esso abbia costituito una perdurante influenza sino ad oggi (si pensi al fiorire di approcci razionalistico-normativi nella filosofia morale del Novecento), per certi versi un imprescindibile terminus a quo per ogni dibattito etico ed estetico. Sotto questo punto di vista, è estremamente interessante che Garelli, nel prendere in considerazione tali tematiche, si rifaccia e risalga proprio a Kant, evidenziando il nesso essenziale tra la categoria della teleologia e quella della responsabilità, che tanta fortuna ha avuto nel pensiero contemporaneo. Sembra infatti di poter dire che l’approfondimento di tale tematica (teleologia e responsabilità) potrebbe preludere, tra le altre cose, a una rilettura della stessa Critica del Giudizio: opera multiforme ma coerente, quanto mai densa e problematica, al contempo sistematica e «aperta», che proprio nel Novecento ha conosciuto alcune delle interpretazioni più originali e fortunate, talvolta tese proprio a superare (o, quantomeno, a mettere in discussione) il rigido confine disciplinare tra l’estetica e l’etica.