Introduzione
Sembra impossibile pensare che Michel Foucault, dopo essersi occupato del potere, tornasse ai Greci e in particolare si occupasse della parrhesia, una pratica che consiste nel prendere la parola in pubblico per dire la verità. Almeno inizialmente, il potere della parola era concesso solo ai re. I sudditi dovevano ascoltare in silenzio le decisioni del capo o le parole sacre del sacerdote. La parola non era solamente dichiarativa, non esponeva un’idea ma era soprattutto un atto performativo, illocutorio, o si mostrava nella forma dell’imperativo, del comando, oppure era esortativa, magica: essa rivelava, mentre la si esprimeva, la realtà stessa delle cose, la potenza dell’immaginazione del rituale, fino a diventare una vera e propria pratica, un agire, un fare perché si potesse parlare con gli stessi dei o parlare per mezzo di essi, durante i riti, cadendo in trance. Essa era evocativa, non era un’espressione meramente nominalistica; con l’effetto della parola, si poteva davvero risvegliare i morti, compiere stregonerie, offendere l’altro anche fisicamente. La parola poteva manifestarsi come un gesto violento: essa poteva uccidere. Era talmente importante che la si prendeva molto sul serio: la promessa, il patto, il giuramento, il rito, la cerimonia, il dire la verità si fondavano sulla parola. Essa non era una metafora, ma era la sostanza stessa dei fatti raccontati o detti. Chi parla? È il capo stesso che ha il dovere della parola,1 ma ha anche il dovere di dire la verità ai suoi sudditi: non può mentire, perché altrimenti perderebbe il consenso e il rispetto della sua gente. Dunque il linguaggio attraversa i soggetti e li costituisce come individui. Essi sono contemporaneamente soggetti al linguaggio e soggetti produttori del linguaggio. Il linguaggio istituisce la vita. Il discorso foucaultiano, basato sulla predominanza del linguaggio, ancora persiste nell’ultimo Foucault, quello che si interroga sulla parrhesia. Forse allora non hanno tutti i torti coloro i quali sostengono la centralità del linguaggio nell’intera opera di Foucault e già presente nei suoi scritti giovanili e letterari.
Dire la verità
I Greci, dunque, definivano con il termine parrhesia, ciò che viene detto, «che significa ‘dire tutto’, da pan, tutto, e rhema».2 La verità è poter dire ciò che si pensa. Anticamente dire la verità non significava pensare che quello che si affermava fosse indubitabile e indiscutibile: essa non era ancora una forma di conoscenza considerata oggettiva (aletheia). Colui che aveva il potere della parola (il migliore, áristos) doveva dire quello che riteneva giusto, rischiando anche personalmente. Gli altri potevano pensare la stessa cosa ma non avevano il coraggio di dire. Non si aveva diritto di parola perché si era re, ma si era re perché si aveva il coraggio di parlare. Insomma, dire ciò che si pensava, anche per colui che dominava, era pericoloso e ci voleva coraggio, soprattutto quando lo si diceva alla moltitudine, la quale aveva più forza e potere del singolo, chiunque fosse. L’assoluta buona fede del parresiasta risiedeva soprattutto nel mettersi alla prova, sfidando la verità degli altri, rischiando personalmente nel difendere la propria posizione, che, ovviamente, non considerava mera doxa, come penseranno molto più tardi i sofisti, pronta per essere abbandonata facilmente, ma che invece costituiva la verità di sé. Pertanto, se la sua verità non dipendeva da un certo tipo di conoscenza, (non era ovviamente una verità scientifica), non era neanche un atto di fede, ma era data dalla coerenza e dal confronto di sé col mondo. Essa diventa nel tempo, piuttosto, «una riflessione permanente e continua con sé stessi».3 La verità è la ricerca di verità, è il percorso che l’individuo, durante la sua vita, attraversa: il vero è, hegelianamente, l’intero processo di vita. Verità e vita sono un binomio inscindibile: «il bíos greco, al contrario della soggettività cristiana […] è un lavoro continuo di sé su sé stessi».4 Bisogna continuamente dimostrare a sé stessi e agli altri «di essere in grado di esercitare la padronanza di sé [enkrateia]». Inoltre «il rapporto con il vero costituisce un elemento essenziale della temperanza».5 La verità di sé include anche la coerenza, la libertà, la sincerità, il coraggio, l’agonismo, a costo di essere disposti a criticare sé stessi. «La verità inoltre è ciò che illumina il soggetto, è un lavoro su di sé, un’elaborazione su di sé, una trasformazione di sé»:6 la cura di sé. Invece, con la regola dell’obbedienza elaborata dal cristianesimo non si raggiungerà mai il dominio di sé: si apparterrà sempre a qualcun altro all’interno di una gerarchia per cui si risponde sempre a qualcuno più in alto: più che di temperanza si poteva parlare di prudenza, attenzione a ciò che si dice per non offendere il maestro: «La pratica dell’obbedienza significa sottomissione completa del proprio comportamento al controllo del maestro e non prevede alcuna situazione finale di autonomia del discepolo».7 La posta in gioco, nel cristianismo, non è tanto la verità quanto il Principio di Autorità: non importa che chi parla abbia torto; c’è una regola e una forma a cui si risponde indipendentemente dal contenuto: il valore della verità dipende dal fatto che si obbedisce. La verità nel cristianesimo è già data, non si cerca più. Quello che conta nelle religioni, nei fondamentalismi, nei totalitarismi è accettare dogmaticamente la verità: ascoltare, tacere e obbedire. Parlare solo durante la confessione per riconoscere a sé stessi le idee confuse o diaboliche che ci possono fuorviare disobbedendo ai precetti religiosi. La confessione non è una pratica di libertà ma uno strumento per controllare il pensiero dei soggetti e imporre un’unica Verità, la verità del testo biblico, la verità del testo giuridico: la Legge di Dio e la Legge degli uomini. Vediamo dunque meglio queste qualità che costellano la parrhesia.
La temperanza
Secondo la precettistica platonica, che si rivolgeva ancora agli aristocratici, coloro che guidano una nazione devono imparare la moderazione (sophrosyne) attraverso la padronanza o il dominio di sé (enkrateia). «La temperanza (sophrosyne) -- scrive Foucault, riprendendo proprio Platone – in un certo senso è ordine e dominio su taluni piaceri e passioni».8 Essa è una lotta interna che deve portare al difficile bilanciamento degli eccessi e dei difetti di ogni passione. I significati dei due termini, moderazione e dominio di sé, sono quasi coincidenti anche se non sinonimi. Infatti la temperanza è un precetto generale, mentre la padronanza di sé riguarda i casi particolari collegati ai piaceri. L’enkrateia invece è una lotta, una resistenza, un conflitto per controllare le proprie passioni. In questa lotta non si tratta di negare le passioni «ma di padroneggiare una forza che fa parte di sé stessi e della propria natura, per poterne fare un uso moderato e ragionevole, senza estirparla né sopirla».9 La moderazione interviene per pacificare le istanze estreme richieste dal corpo: è uno sforzo razionale che agisce per mitigare i piaceri della carne e i desideri. Non c’è distacco tra sé e il mondo; non si rinuncia a sé e a fortiori non si rinuncia al mondo. Non si subisce ancora quella separazione tra città e individuo, tra politica e psicofilia, tra vita pubblica e vita privata, tra ragione e passioni, che sarà invece tipica della cultura cristiana. Il governo di sé implica anche il governo degli altri. Per questo, come ci ricorda ancora Platone nell’Alcibiade, solo chi è in grado di governare sé stesso può governare gli altri e avere un buon rapporto di amicizia con gli altri: «Non ci si può occupare e prendersi cura di sé stessi senza un rapporto con l’altro».10 Non perché sia necessariamente il più forte o il più competente, ma perché si pone agli altri come esempio da seguire, è un modello di virtù che stimola tutta la comunità. Siamo inoltre, di fronte a qualcuno che ama sé stesso e ha fatto di sé stesso un oggetto di piacere. Anche se gli assomiglia, l’atteggiamento parresiastico non è un atteggiamento del dandy, di un artista o di un intellettuale à la Proust. Essa riguarda non tanto e non solo l’estetica quanto l’esistenza, pertanto si in-contra e si ris-contra in chiunque, o si s-contra inevitabilmente con l’altro, sia nell’agire politico sia nell’agire culturale. Per apprendere gli esercizi che conducono alla cura di sé, occorre incontrare qualcuno che sia esso stesso un parresiasta. In tal senso, il modello parresiastico è un modello culturale nel senso ampio e antropologico del termine. Quindi non si tratta di pensare alla propria salvezza individuale, alla salvezza della propria anima, del proprio corpo, alla propria individualità autocentrata e narcisistica: piuttosto, la salvezza di sé deve riguardare la comunità in toto. In particolare sarebbe desiderabile riprendere la pratica della verità di sé che permetterebbe di costituirsi attraverso una soggettivazione attiva, libera, autosufficiente che consiste nel giungere alla felicità che si trae da sé stessi. Ma per raggiungere tali obiettivi occorre appunto «costituirsi come soggetto virtuoso e temperante nell’uso che si fa dei propri piaceri».11
La cura di sé
La parrhesia sarebbe alla base di tale trasformazione del soggetto che, dice Foucault, dovrebbe passare dal logos all’ethos e all’eros. Al contrario, la nostra società occidentale, erede del cristianesimo, ha posto l’obbligo di svelare al confessore i propri comportamenti sessuali in vista di una loro rinuncia o di un controllo sociale su di essi. Anche quando sono vissuti, come oggi, nella società edonistica, i piaceri sono del tutto scollegati dalla pratica di sé come se fossero altro da sé, una mera forma di trasgressione e alienazione di sé. Certe azioni si fanno e si imparano acriticamente presupponendo, in una logica ancora tutta cristiana, che ci sia in noi un monstrum che ogni tanto vada soddisfatto: «Il suo presupposto è che esista in noi qualcosa di occulto, un segreto»12 da rivelare. La verità del sesso allora sarebbe semplicemente da svelare, confessare o ‘esorcizzare’. Si può parlare solo all’interno di un determinato spazio limitato, privato, nel quale si confidano i segreti e i peccati ad un direttore di coscienza, durante la confessione. «L’obbligo di dire la verità» diventa, nel cristianesimo, una particolare tecnologia del sé, un’esegesi del sé, un sapere disciplinare imposto agli individui, che ha il compito di verificare da parte del potere se la propria verità potrà apparire ortodossa e correggibile. Invece per i Greci anche il sapere era una pratica che non derivava da una serie di precetti appresi una volta per sempre, ma era dato da una serie di esperienze che producono un miglioramento e un piacere di sé in vista di una vita felice. Per Foucault si potrebbe esercitare la parrhesia solo a condizione che ci si prenda cura di sé, ovvero che non si sia schiavi di qualcun altro o di qualcosa di altro: per ottemperare a questa cura di sé sarebbe necessario un esercizio (askesis) costante, che può durare una vita, perché l’equilibrio è complesso e difficile da raggiungere: occorre perfezionarsi continuamente, allenarsi, fare esperienza della vita; una pratica di sé su sé stessi, «un continuo esercizio che l’uomo compie dal di dentro».13 Per questo è lecito parlare di un soggetto in formazione, in divenire, che plasma sé stesso, un’etica del sé che assomiglia molto ad un’estetica del sé, ad un’invenzione e un rimodellamento di sé stessi. Ma questo lavorio su di sé non ricerca né l’originalità né la trasgressione. Questo tipo di lavoro del levare, del sottrarre, del negare, del decostruire, che è il lavoro tipico del metodo foucaultiano, è applicabile però ad un soggetto assoggettato della modernità. Oggi, invece, spogliato dalle incrostazioni e dalle sovrastrutture storiche, si tratterebbe, rilanciando il pensiero antico, non più di «un lavoro di decostruzione, ma di un esercizio produttivo, creativo».14 Solo dopo tanto allenamento e potenziamento di sé, si è in grado di dominare sé stessi, conoscersi, prendersi cura di sé; e solo a questo punto il cittadino sarà in grado di occuparsi della vita politica e potrebbe legittimamente governare sé stesso e gli altri: «Assicurare la direzione di sé stessi, assumere il governo della propria casa e partecipare a quello della città, sono tre pratiche dello stesso tipo».15
L’esempio
Abbiamo visto che colui che dice la verità, il parresiasta, non è un retore, un professionista della parola che usa il linguaggio solo per ingannare o per ridurre all’assurdo certe argomentazioni, vivendo una vita scissa tra ciò che dice e quello che fa e come agisce. La verità invece si manifesta nel parresiasta piuttosto come un evento, 16 o forse, meglio ancora, come esempio. La verità è un racconto di sé, una forma di esperienza entro la quale il soggetto si dispone. Ma quando si costituisce come evento? Quando il parresiasta decide di dire quello che pensa e pensa quello che dice? La risposta è: quando «tra le parole e la vita ci sarà un perfetto accordo»17 tale per cui sarebbe più facile mostrare e agire che parlare. Tra il filosofo che non parla ma agisce, e il retore, che parla sempre ma non agisce mai, il cittadino-filosofo sceglie una vita mediana. L’exemplum è fondamentale per testimoniare, con la rettitudine e la coerenza delle proprie azioni, ciò che diciamo con le parole: quello che facciamo deve essere coerente con quello che diciamo e viceversa, altrimenti vi sarebbe una vera e propria contraddizione tra il dire e il fare, che confuta tutti i nostri atti e pensieri: «Quello che certifica l’autenticità del fatto che ti dico il vero, è che effettivamente, come soggetto del mio comportamento, io sono assolutamente, integralmente e totalmente identico al soggetto dell’enunciazione che io stesso costituisco allorché ti dico quello che ti dico».18 Può avvenire in una discussione tra amici, tra pari, ma in questo contesto difficilmente si obietterebbe che non si stia dicendo la verità, perché altrimenti non si avrebbe la fiducia degli altri. Una menzogna o anche una piccola bugia potrebbero minare i rapporti amicali. Nel rapporto tra uguali ci si aspetta la franchezza. Certamente tale verità che viene espressa è contingente, assume un fondamento di verità solo in quel determinato momento temporale, altrimenti ci sarebbe una finalizzazione della verità che non può darsi per colui che si trasforma e cambia. Ma il parresiasta, ed è questo che i Greci avevano in mente, deve dire soprattutto quello che pensa a chi è più forte di lui, al tiranno, al capo, al padre, al maestro, ad un altro che non conosce; lo dice ovviamente quando si trova in disaccordo, in una situazione asimmetrica, spesso solitaria, scomoda e non conveniente. Anche l’allievo, quindi. può dissentire, perché la prima regola del parresiasta è quella di non conformarsi neanche al maestro. È evidente che nel suo agire onestamente e sinceramente, il messaggio del maestro passa anche ai suoi allievi.
La critica
La parrhesia non è un giuramento, non è un discorso politico, retorico o ironico, non è un discorso di un professionista, non è un mestiere, non è una dimostrazione matematica o razionale, non è la verità epistemologica, la forma data dalla logica, non è una forma di persuasione, non è un consiglio o una raccomandazione ad un discepolo19 o nei riguardi di un amante, non è adulazione nei confronti di qualcuno, la collera contro qualcuno o un atto di clemenza.20 «Non è neanche uno stato di dipendenza»,21 non è la verità di un Dio, non è una profezia, l’aleturgia di un indovino, come Tiresia,22 perché, come rileva Finn, «the prophet tells the truth not in his own name but as mediator between the principal speaker and his auditors».23 Non è un discorso giuridico o giudiziario di un avvocato in tribunale o di un testimone, non è la verità di un medico, di uno scienziato, non è la verità di uno storico, non dipende da un sapere precipuo, non è una tecnica, non è una confessione, non è un insegnamento, non è la minaccia o un ordine di un soldato o di un cittadino di un altro paese, non è neanche, anche se può assomigliare, la verità di un saggio, perché il saggio può anche non parlare.24 Ovviamente in tutte queste relazioni dire quello che si pensa può essere un bene. Ma essere sinceri non basta per diventare parresiasti. La parrhesia è invece una critica di un cittadino a certi comportamenti di altri concittadini o dei potenti di turno. «La parrhesia è una forma di critica, verso gli altri o verso sé stesso».25 È più vicina a un discorso filosofico che si interroga sul comportamento da tenere e «al tempo stesso sulla verità, sulla forma di accesso alla verità che potrà formare questo ethos».26 Qual è la scena esemplare della parrhesia per Foucault? «Un uomo insorge contro un tiranno e gli dice la verità […]. E dire la verità significa aprire per colui che la dice un certo spazio di rischio, una possibilità di minaccia e di pericolo, dove l’esistenza del locutore verrà messa in gioco».27 Perché fidarsi allora del parresiasta? O perlomeno perché supporre che stia dicendo proprio quello che pensa? Innanzitutto perché critica sé stesso; in secondo luogo perché non trae nessun vantaggio personale dalla sua critica; poi, perché mette a rischio sé stesso e la sua stessa onorabilità; infine, perché quello che afferma è coerente con la vita che ha condotto. Egli problematizza la sua verità, non la pone come dogmatica, ma come contingente alle azioni storico-politiche del momento; c’è uno stretto rapporto tra critica e cura di sé.28 In realtà, dicendo quello che gli piace, il parresiasta mostra in modo trasparente e onesto «qual è la sua scelta di vita»,29 chi è veramente. Lui è quello che dice di essere. Allora ci si dovrebbe domandare se parresiasti siano state figure emblematiche come Antigone, Socrate, Platone, Seneca, Gesù, Bruno, Galileo, Spinoza, Gandhi, Martin Luther King, Mandela. Bisognerebbe poi riflettere se parresiasti siano i fanatici religiosi, i martiri in cui «si produce la verità di sé solo nella misura in cui si è capaci di sacrificare sé stessi»30 o, al contrario, si può considerare il parresiasta soltanto colui che non esprime una verità preconfezionata, in una qualche misura ereditata dal mondo nel quale il rapporto di dominazione è già stabilito a priori, ma agisce sulla base di una verità costruita individualmente attraverso un pensiero critico.
Il coraggio
La parrhesia include anche, oltre alla sincerità, il coraggio. Per questo insisto nel collegare enkrateia e parrhesia perché solo chi è capace di darsi autonomamente delle regole e rispondere solo a sé stesso può avere il coraggio di dire ciò che pensa e difendere le sue idee. Il vivere, il fare, il dire la verità sono azioni intimamente legate, attraverso le quali il parresiasta deve mostrare, in primo luogo a sé stesso, la volontà di esercitare costantemente la conoscenza di sé per equilibrare queste forze e dare senso alla sua vita. Ma, se fossimo «obbligati a dire il vero su sé stessi», saremmo ancora in una forma di coercizione in cui il potere vorrebbe iscrivere la sua verità nei nostri pensieri? È difficile riconoscere il potere quando la verità non ci viene imposta con la forza, ma, più subdolamente, ci venisse ‘offerta’ fin dalla nascita o dipendesse da ‘vincoli’ o strategie di persuasione. Come resistere ad un potere che non si manifesta chiaramente? Come riconoscerlo? Una sana forma di sospetto dovrebbe essere alla base di qualsiasi amante della verità. Ovviamente questo tipo di uomini che ricercano la verità in modo disinteressato, il cui unico interesse è il piacere della verità, sono gli uomini amanti del sapere, che misurano (metron), mescolano (krasis), soppesano al momento opportuno (kairos), come dei medici o degli alchimisti, tutte le possibilità: infatti essi, come dicevamo, praticano la temperanza ma «non si può praticare la temperanza senza una certa forma di sapere».31 La forma di conoscenza dovrà essere perciò in primo luogo una conoscenza delle proprie passioni, dei propri desideri, non per liberarsene, in una logica tutta cristiana di esclusione del sé, ma proprio per modellarsi, riorientarsi, valorizzarsi, potenziarsi, rafforzarsi, migliorarsi, accettarsi. Insomma, per Foucault, i Greci non puntavano ad un’ermeneutica del desiderio, ad una epistemologia in cui il sé prende le distanze da sé stesso, ad una conoscenza trascendente del reale, ma più pragmaticamente ad un certo tipo di sapere, ad un’estetica di sé, ad un’estetica dell’esistenza in cui il sé è modellato attraverso i canoni di equilibrio, ordine, misura. Il coraggio della verità di cui parla Foucault, in questo caso, non si dà tanto attraverso la conoscenza, se per quest’ultima si intende un cumulo di nozioni che possediamo e che lascia intatte le virtù morali del soggetto, quanto attraverso il sapere, che invece implica, nel bene e nel male, (o al di là del bene e del male) un agire su sé stessi, un saper fare. Ecco perché la dismisura, l’arroganza, la tracotanza, la superbia (hybris) sono i comportamenti più gravi per un uomo greco. Per combattere contro le imposizioni e i divieti di uomini tracotanti, come ad esempio il tiranno, ai Greci occorreva che l’individuo concentrasse su di sé il controllo, il sapere, la ricerca della verità. Egli viveva all’interno di una società, non rifiutava di per sé la comunità politica, come invece accadrà agli epicurei e agli scettici e poi ai primi cristiani (sarà forse per questa dimensione politica che Foucault studierà soprattutto i cinici). Solo così poteva ritenersi un uomo libero, un uomo capace di controllare la paura, affrontare in campo aperto, davanti a tutti, il suo avversario, «vale a dire il coraggio di restare saldi di fronte al nemico».32
L’agonismo
È soprattutto nell’aristocrazia guerriera che la parrhesia rientrava in una «pratica di sé»: era, in primo luogo, un esercizio di sincerità, perché, se si dice quello che si pensa, si è coraggiosi, si è valenti, si è i migliori. Lo stesso rapporto con sé stessi, ossia «il rapporto con i propri desideri e i piaceri è infatti concepito come un rapporto agonistico».33 Pertanto la parrhesia presuppone anche una volontà non solo di sapere ma anche di agire verso e/o contro l’altro. «La parrhesia è legata, molto più che a uno statuto, a una dinamica, a una lotta, a un conflitto. Struttura dinamica e struttura agonistica della parrhesia».34 Però l’agonismo non prevede una vittoria definitiva del più forte sul più debole, non siamo in un campo tra avversari di due città opposte, nella logica amico-nemico. Siamo piuttosto nello stesso campo di attività politica, tra gli stessi cittadini, tra uomini liberi. Insomma, come spiega lucidamente Deleuze nel suo seminario dedicato a Foucault: «l’agonismo non è la guerra ma la rivalità».35 Il parresiasta segue l’areté, l’eccellenza, migliorandosi e potenziandosi. Vi è un «processus continu d’autosubjectivation […]. Il s’agit d’une concentration sur soi de type athlétique».36 D’altronde, soprattutto, all’inizio della società ateniese, chi prendeva la parola, erano gli aristocratici-guerrieri, i nobili, che tra pari (isonomia) esercitavano una forma democratica di decisione. Sono molti gli studiosi (antropologi e storici del diritto) ad avere sottolineato questo aspetto della democrazia ateniese che nei fatti era un’uguaglianza tra pochi. Étienne Balibar, riflettendo proprio sulla parrhesia, coglie, anche se en passant, la funzione quasi-aristocratica del parresiasta.37 Se il parresiasta non deve cadere nell’eristica, nel relativismo, non deve neanche arrogarsi il diritto di pensare di essere l’unico a dire il Vero. Altrimenti il rischio è che qualsiasi persona, un tiranno, un sacerdote, un filosofo, possa imporre la Verità dall’alto. Invece, «la parrhesia, dal canto suo, è ben legata alla politeia (alla costituzione della città) e all’isegoria»38 che è il diritto di parlare di ogni cittadino di una democrazia, «non semplicemente in funzione della nascita, della fortuna e del denaro […] ma per l’interesse generale».39 È come se Foucault ci invitasse oggi, in una società apparentemente democratica, ad imparare ad essere aristocratici, nel senso letterale del termine. L’atteggiamento parresiastico, soprattutto prima di Socrate e Platone, era riconducibile «sempre e perennemente alla questione del potere e alla questione del suo rapporto con la verità e il sapere»,40 laddove morale e politica non erano ancora disgiunte. La parrhesia è quindi in primo luogo un’azione politica.
La libertà
Il soggetto, ad Atene, non era una monade senza finestre, non si isolava e non si emarginava vivendo una vita che è finalizzata solo a sé stessa in un goffo individualismo atomistico, in cui si rinuncia alla politica e a migliorare sé stessi, come avverrà invece in ambito cristiano; non è un intellettuale disgustato dagli altri, che si ritira fuori dal mondo per vivere in solitudine, privo di ogni passione e desiderio. Gli «esercizi di astinenza», che pratica ogni cittadino/filosofo greco, non hanno lo scopo di privarsi dei piaceri ma servono per comprendere che quello che si possiede non è un dono per sempre. Il sapersi accontentare, vivere una vita tranquilla senza cadere negli eccessi o nell’estrema rinuncia, è la via di mezzo che cerca il continente, il prudente, il temperante. Tali pratiche etiche, in senso lato filosofiche, riguarderanno, soprattutto nel periodo della sofistica, tutti i cittadini. Per questo non dovrebbero provenire dall’esterno, da un maestro o da un sacerdote, ma sono consigli che ogni individuo dovrebbe rivolgere in primo luogo a sé stesso. Esse «si occupano generalmente di dotare l’individuo di una preparazione o di un corredo morale che gli permettono di affrontare appieno il mondo in una maniera etica e razionale».41 Questo comporta la capacità di saper parlare con sé stessi, di sapersi ascoltare, procedendo ad un esame minuzioso di quello che è stato fatto, di come si sarebbe voluto fare e di come si potrebbe migliorare. «La parrhesia costituiva quella che si potrebbe definire una preparazione, aperta e insieme finalizzata dell’individuo agli eventi della vita».42 Se si impara ad agire e a pensare praticando la vita e se «non vi è discrepanza tra ciò che si dice e ciò che si fa»,43 allora l’individuo è libero. Dà a sé stesso le norme attraverso le quali vivere. È lo stesso tipo di etica auspicata da Kant, che esortava ogni cittadino ad uscire dallo stato di minorità di fronte ad un padrone, ad un imperatore, prendendo la parola sui giornali, (sui ‘media’), e dire quello che pensava, almeno in certi contesti pubblici: l’uso pubblico della ragione. Non è un caso che proprio il corso sulla parrhesia di Foucault, intitolato Il governo di sé e degli altri, si apra col commento alla lettera su Che cos’è l’illuminismo? Questo tipo di vita etica va considerata pragmaticamente la più sana e la migliore per tutti e dunque fortemente consigliata. Al fondo della parrhesia vi dovrebbe essere «questa adaequatio tra il soggetto che parla e che dice la verità, e il soggetto che agisce, e si comporta come esige tale verità».44 Chi mente a sé stesso, chi è capace di autoingannarsi, di perdonarsi, di adularsi, di non migliorarsi eticamente, di non usare questo tipo di ragionevolezza, sarà in grado di mentire anche agli altri, di usare la menzogna per raggiungere i propri interessi personali, di arrabbiarsi con gli altri, di non essere benevolo, di non sapere amare gli altri, di non essere amico degli altri. Solo chi rispetta sé stesso e ama sé stesso può amare gli altri ed essere amato e rispettato dagli altri. Solo chi è in pace con sé stesso potrà vivere una vita buona e giusta nella quale troverà un rapporto adeguato tra sé e sé stesso, un rapporto in cui diventa cruciale parlare a sé, ascoltarsi, riflettere. I parresiasti sono coloro che «riescono a costituire da sé, con sé stessi, rispetto a sé stessi, una relazione di sovranità che sarà la caratteristica del soggetto saggio, del soggetto virtuoso, del soggetto che ha ottenuto tutta la felicità che è possibile ottenere in questo mondo».45 Non è tanto l’amore o l’amicizia in sé ad essere centrali nella parrhesia, ma è l’azione stessa del parresiasta che, prendendosi cura di sé, permette di accrescere, coltivare e promuovere l’amicizia e la libertà di opinione nella vita pubblica. La vera rivoluzione culturale e politica consisterebbe nel dialogo: promuovendo un modo di vivere più sano, più autentico e onesto con sé stessi, il rapporto con gli altri diventa più amicale, favorendo una vita sociale e politica più cordiale, rivolta al riconoscimento e al rispetto delle differenze.
La democrazia ateniese
Questa era la vita virtuosa di ogni cittadino ateniese, questa dovrebbe essere la vita di un uomo libero, libero perché pronto a criticare sé stesso, conoscere sé stesso e poter dominare su sé stesso. Questa è la vita di un uomo libero perché capace di poter partecipare, guidare e/o amministrare la città nella sua funzione politica di cittadino. Solo coloro che sono temperanti e moderati, come suggerirà chiaramente Aristotele, solo questi sono in grado di guidare la città. Solo questi sono veramente liberi. Insomma, la parrhesia apparteneva, secondo Foucault, alle tre caratteristiche tipiche della democrazia ateniese: isonomia, isegoria e appunto parrhesia: «Perché vi sia democrazia deve esserci parrhesia».46 O meglio: «La parrhesia fonda la democrazia, e la democrazia è il luogo della parrhesia».47 Certo, questa forma sociale tipicamente ateniese della cultura di sé, di soggettivazione, di identità a sé, esprime a sua volta la relatività di una cultura, quella greco-romana appunto, che non appartiene a tutte le comunità, in particolare a quelle che si fondano, non sull’individuo, ma sulla religione, su un Testo religioso o sul potere di un dittatore o di una ideologia totalitaria. Per identità si deve intendere una costruzione coerente con le proprie scelte, e la parrhesia trova ovviamente il suo apogeo, ma anche il suo senso, solo in una società democratica, in cui ogni cittadino può e deve (o dovrebbe) esprimere liberamente il proprio pensiero, pubblicamente, senza rischiare troppo per la sua incolumità. Se nelle grandi religioni monoteistiche la metafora principale della comunità è quella del potere pastorale, per la quale vi sono pochi capi (i pastori), qualche cane, (i guardiani) e il gregge; nella Grecia antica le metafore principali erano quelle relative alla navigazione e a quella del medico. In questi due ultimi casi il dire il vero (la parrhesia) di un capitano di una nave o di un medico che cura il corpo ha ovviamente una rilevanza politica e sociale maggiore rispetto ad un pastore con le sue pecore. «Questa caratterizzazione della parrhesia come una techne in relazione alla medicina, alla navigazione e alla politica è indicativa della trasformazione della parrhesia in pratica filosofica».48 Benché la parrhesia, per esempio quella espressa da Socrate, possa sembrare allo stesso Foucault, non-politica, è invece la forma migliore affinché la politica in senso lato, sia sostenuta da ogni cittadino nella vita pubblica. A Foucault, come per il suo maestro Nietzsche, la posizione di Socrate, appare fin troppo razionalistica, laddove nella parrhesia permane il carattere agonistico della vita aristocratica greca e della doxa sofistica. Invece, Socrate, per così dire, si defila dall’azione politica, non va a parlare in assemblea: in lui la parrhesia non è immediatamente e direttamente politica. Non è che a Socrate manchi il coraggio di affrontare l’avversario, sono troppe le testimonianze che lo ritraggono a discutere apertamente, per ultimo durante il suo processo, per non parlare della sua esperienza di guerriero. Certamente anche in lui, la parrhesia è una forma di vita, una modalità di comportamento. Inoltre, permane, ancora in Socrate, la volontà di potenziarsi, di migliorarsi per migliorare la città, affermando una verità che sia la più possibile condivisibile con gli altri. Tuttavia egli propone una filosofia “oggettiva” che dice il vero per sé stessa, senza violenza o prevaricazione ma solo con la forza dell’argomentazione. Socrate rivendica solo per sé stesso «il monopolio della parrhesia» come se, una volta trovato il metodo, la verità fosse eguale per chiunque. Dopo Platone, chiarisce Foucault, questa corrispondenza tra filosofia e politica non sarà più possibile o meglio, sarà avocata solo da una parte minoritaria dei cittadini, da un’élite che si occuperà del potere o, nel peggiore di casi, da un consigliere filosofico, l’intellettuale engagé, che avrà la funzione di dire la verità al principe. Con Platone purtroppo la parrhesia si svolgerà solo all’interno della filosofia e non più nella politica. Insomma, siamo di fronte ad una separazione tra filosofia e politica, come aveva già segnalato Hannah Arendt. Non è che non vi sarà più una parrhesia filosofica come quella di Socrate, la quale mirava a vivere filosofando; tuttavia essa, con Platone, non avrà più una funzione strettamente politica, e «non è più necessaria al funzionamento e al governo della città».49
I rischi della democrazia
Il dire il vero, il parlare francamente, erano qualità intrinseche della democrazia ateniese, che si ritrovano, fino ad un certo punto, nella storia del pensiero greco, sia nella filosofia che nella politica. Nella democrazia, il buon cittadino, che svolgeva regolarmente l’attività politica (la parrhesia è un’attività politica determinante), avrebbe dovuto svolgere anche un lavoro su di sé, che possiamo definire, in senso lato, filosofico: «Il dire il vero nell’ambito della politica non può essere chiaramente, che il dire il vero filosofico». Perché allora si è passati da una parrhesia democratica, che poteva e doveva riguardare tutti, ad una parrhesia rivolta solo al principe? Quali sono le cause per le quali la parrhesia democratica è entrata in crisi? Innanzitutto, spiega Foucault, perché parlare sinceramente e pubblicamente, anche in una democrazia come quella di Atene, come si è detto, poteva costare la vita: l’attitudine al coraggio, il coraggio della verità, il coraggio di dire quello che si pensava, metteva a repentaglio la vita stessa. Ma, soprattutto, la democrazia lascia spazio a tutti di poter parlare, e il rischio paradossale è che in democrazia possono parlare anche quelli che non hanno le idee chiare, o che non ce l’hanno proprio, e che potrebbero indurre all’errore gli altri facendo prendere decisioni sbagliate; oppure fidandosi di coloro che mentono per interessi personali. Insomma occorre distinguere una buona parrhesia da quella cattiva, la quale inoltre tende a conformarsi per compiacere il popolo. Invece nella democrazia tutti dovrebbero occuparsi di politica e ragionare filosoficamente. E si può essere liberi solo nella democrazia, perciò in essa «ognuno è per sé stesso, in una qualche misura, il suo piccolo stato»,50 anche se «la democrazia non può essere il luogo del discorso vero».51 Sappiamo come Foucault intendesse rilanciare questo tipo di approccio politico oggi. La salvezza non passa attraverso una rivoluzione o con proposte di nuove leggi o di cambiamenti istituzionali ed economici, ma dall’individuare la propria «cultura di sé» e dalla modificazione culturale del rapporto di sé con sé stessi. Almeno in parte Foucault pensava che sarebbe auspicabile riprendere proprio certe tecniche del sé inventate dai Greci e dai Romani. Sarebbe possibile oggi rilanciare una democrazia dove ogni cittadino sia libero di dire e soprattutto pensare quello che ritiene più giusto per la comunità? Se vi è un rapporto costante tra la verità e il potere, come indica Foucault, il problema allora non è cosa dice il potere, almeno non solo, o quale verità esso propone, ma anche come il potere possa essere a sua volta ricostruito, riadattato, reindirizzato, trasformato dalle pratiche del sé, che sono innanzitutto pratiche di libertà. Oggi tali pratiche dovrebbero servire a questo: a decostruire il potere che ci attraversa: depotenziarlo, sottrarvisi, rovesciarlo, praticando nuove forme di soggettivazione che sono esse stesse pratiche di libertà. Ma chi sarebbe capace di insegnare oggi l’arte della critica in primo luogo a sé stessi? Chi sarebbe capace di vivere non fidandosi della propria cultura imposta dal sapere-potere? E a quali condizioni un individuo sarebbe pronto a sfidare coloro che la pensano diversamente e non riconoscono che i suoi atteggiamenti sono in primis forme di libertà da rispettare e da attuare? Può un individuo, così inteso, mantenere integri i legami con la comunità senza doverle obbedire e senza, nello stesso tempo, non minacciarla dal di dentro? Il rischio infatti sarebbe quello di minare le identità acquisite che cementano gli individui, per proporre una società di individui anarchici e libertari che sfaldino il tessuto sociale stesso. Non è questa l’accusa, secondo me infondata, che però viene mossa da più parti a Foucault, di essere, prima ancora che un libertario, un liberale? In fondo, il motto del liberalismo: «vivere pericolosamente», potrebbe valere anche per il soggetto foucaultiano. Ma è evidente che il pensiero foucaultiano è del tutto privo di economicismo. Anzi, il vivere pericolosamente ricorda più la concezione di un guerriero che di un mero capitalista. Occorrerebbe una società di individui che riconoscano le identità altrui senza per questo sentirsi minacciati. Ma su quali regole generali? Sull’idea appunto di libertà e di tolleranza reciproca. Ma questa è la concezione ideale della cultura democratica occidentale! Purtroppo, o per fortuna, tutte le società si fondano invece su saldi principi identitari in cui l’individuo è sempre una funzione della collettività. Ciò consente tra l’altro un rafforzamento del gruppo che ha lo scopo di difendersi meglio. Il tipo di società delineato da Foucault vale solo per quella parte di Occidente che fonda i suoi diritti democratici sul rispetto dei diritti individuali.52 L’idea di democrazia, che abbiamo ereditato dai Greci, non esime anche noi, oggi, di dubitare e, nello stesso tempo, di considerare la nostra società come la migliore per vivere. La libertà politica è il concetto espresso più chiaramente solo in Occidente e che autori come Camus, Arendt e Foucault hanno provato a rivitalizzare. Quanto oggi, nell’epoca della globalizzazione, sia da considerare ancora come un valore fondante all’interno della nostra società capitalistica, da un lato sempre più omologante e conformista, dall’altro lato sempre più creolizzata, ibridata da culture altre in un “miscuglio eterogeneo”, è ancora tutto da verificare.
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P. Clastres, La società contro lo stato. Ricerche di antropologia politica, Ombre corte, Verona 2003, p. 113. ↩︎
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M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma 1996, p. 4. ↩︎
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M. Foucault, Soggettività e verità, Feltrinelli, Milano 2017, p. 45. ↩︎
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Ivi, p. 260. ↩︎
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M. Foucault, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, Feltrinelli, Milano 1984, p. 93. ↩︎
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M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli Milano, 2003, p. 18. ↩︎
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M. Foucault, Le tecnologie del sé, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 43. ↩︎
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M. Foucault, L’uso dei piaceri, cit., p. 69. ↩︎
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L. Cremonesi, Michel Foucault e il mondo antico. Spunti per una critica dell’attualità, Ets, Pisa 2008, p. 87. ↩︎
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M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), Feltrinelli, Milano 2009, p. 50. ↩︎
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M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 282. ↩︎
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M. Foucault, Tecnologie del sé, cit., p. 45. ↩︎
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R. Ninivaggi, Parola, essere e verità. Il logos cristiano e la parresia di Michel Foucault, Mimesis, Milano 2021, p. 18. ↩︎
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A. Sforzini, Parresia e retoriche della veridizione nell’ultimo Foucault, «Noema», IV, 71. ↩︎
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M. Foucault, L’uso dei piaceri, cit., p. 81. ↩︎
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F. Gros, «Nota del curatore», in M. Foucault, Soggettività e verità, cit., p. 315. ↩︎
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L. Cremonesi, op. cit., p. 141. ↩︎
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M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 364. ↩︎
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Ivi, 214. ↩︎
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M. Foucault, «La parrhesia», Materiali foucaultiani, gennaio-dicembre 2014, III, p. 38. ↩︎
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M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 338. ↩︎
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M. Foucault, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980), Feltrinelli, Milano 2014, p. 46. ↩︎
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T. Flynn, Foucault as parrhesiast, edit by J. Bernauer and D. Rasmussen, Final Foucault, The Mit Press, Cambridge, Massachusetts 1994, p. 104. ↩︎
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M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France, Feltrinelli, Milano, 2011, p. 28. ↩︎
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M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, cit., p. 8. ↩︎
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M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 74. ↩︎
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M. Foucault, Il governo di sé e degli altri, cit., pp. 56-63. ↩︎
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C. Di Marco, Critica e cura di sé. L’etica di Michel Foucault, FrancoAngeli, Milano 2009, pp.170-176. ↩︎
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M. Foucault Il governo di sé e degli altri, cit., p. 50. ↩︎
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M. Foucault, Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Levanio (1981), Einaudi, Torino 2013, p. 107. ↩︎
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M. Foucault, L’uso dei piaceri, cit., p. 91. ↩︎
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M. Foucault, Soggettività e verità, cit., p. 272. ↩︎
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M. Foucault, L’uso dei piaceri, cit., p. 72. ↩︎
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M. Foucault, Il governo di sé e degli altri, cit., p. 154. ↩︎
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G. Deleuze, La soggettivazione. Corso su Michel Foucault (1965-1986) /3, Ombre corte, Verona 2020, p. 95. ↩︎
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F. Gros, Michel Foucault, Presses Universitaire de France, Paris 2004, p. 114. ↩︎
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É. Balibar, «Sulle parresie di Foucault», Materiali foucaultiani, gennaio-dicembre 2017, VI, n. 11-12, p. 80. ↩︎
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M. Foucault, Il governo di sé e degli altri, cit. p. 155. ↩︎
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Ivi, p. 173. ↩︎
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Ivi, p. 76. ↩︎
-
M. Foucault, Discorso e verità, cit., p. 95. ↩︎
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M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 287. ↩︎
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M. Foucault, Discorso e verità, cit., p. 65. ↩︎
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M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 363. ↩︎
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Ivi, p. 345. ↩︎
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M. Foucault, Il governo di sé e degli altri, cit., p. 76. ↩︎
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Ibidem. Si veda anche, F. Gros, «Foucault e la verità cinica», Iride, 2012, n. 66, pp. 289-298. ↩︎
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M. Foucault, Discorso e verità, cit., p. 74. ↩︎
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Ivi, p. 311. ↩︎
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Ivi, p. 193. ↩︎
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M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 51. ↩︎
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Sul disinteresse di Foucault riguardo alle culture altre, eccettuati forse i suoi scritti iraniani di occasione, si vedano le critiche di D. Losurdo, Il marxismo occidentale, Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 125-137. ↩︎