Una nascita per cominciare a filosofare altrimenti
La filosofia di María Zambrano è stata per molto tempo collocata agli estremi, ai margini dell’indagine speculativo-filosofica tradizionale. Questo perché, in effetti, non ne condivide il carattere sistematico, metodico e tendente ad unificare e assolutizzare tutto ciò che è molteplice e diverso. Ed è proprio questo molteplice, questo diverso dell'esistenza che la filosofa vuole riabilitare e trarre fuori dall'ombra in cui la pura razionalità astratta lo ha relegato, facendo dell’io un ente astratto, un «ideale» privo di umanità nel senso pregnante del termine. Al contrario, per Zambrano l'essere umano è immerso in quelle che sono le dinamiche trasformative della vita, nelle sue profondità, nel molteplice e nell'eterogeneo. Pertanto la ragione, in questa visione attraverso il cuore, dovrà farsi vitale (razón vital), nel senso che dovrà connettersi con la vita per cercare di «umanizzare» la circostanza, ovvero la realtà. Ecco che il pensiero zambraniano fa da volano ad un tipo di filosofia (di ragione) mediatrice tra il pensiero e la vita, che possa assistere chi lo incontra in un percorso esponenziale di consapevolezza di sé, attraverso uno sguardo riflessivo che lo svela per ciò che è veramente. In un'ottica antropologica, Zambrano postula una filosofia medicinale che possa essere un balsamo lenitivo per le sofferenze dell’essere umano (costitutivamente imperfetto) e che, dunque, possa aiutarlo a condurre l'esistenza nell’unicità del proprio percorso in costante evoluzione. In particolare, il presente lavoro si focalizzerà sulla lettura del testo zambraniano Verso un sapere dell’anima, essenziale alla comprensione del tema della nascita proprio nel suo ruolo trasformativo. Si tratterà di una trasformazione che concerne l’aspetto etico e morale dell’individuo che deve, però, prima operare una conversione all’interno di sé stesso, con sé stesso, in un rapporto autoriflessivo. La cosiddetta «conversione del cuore» che l’individuo sceglie di attuare a seguito di un’indispensabile presa di coscienza della propria natura duale: l’essere umano è corpo (è viscere), e mente; e proprio perché fatto di carne e sangue, è soggetto a modificarsi nell’arco della propria vita fino a perire – ciò rientra nella consapevolezza della propria costitutiva imperfezione. Nelle considerazioni che seguono si è voluto dare rilievo all’esperienza – in tal senso sia empirica, appartenente alla sfera della realtà concreta, sia filosofica, come disvelamento della propria origine creaturale – dell’esilio. È nel testo I beati che Zambrano mostra, (provandola in prima persona) la misera natura dell’umanità, ma dice anche di come questa possa e debba avviare l’atto natale inteso come trasformazione del proprio io, scisso dalla sua parte corporeo-viscerale, per recuperare quel lato sensibile e rimanere in contatto con la realtà concreta, nella quale si è immersi. Contro ogni riduzionismo spiritualistico per cui «la cultura moderna ha espulso da sé l’essere totale dell’uomo per occuparsi soltanto del suo pensiero, dalla scoperta dell’uomo come res cogitans fino a scienze non propriamente filosofiche»1, il pensiero zambraniano si situa in quella valorizzazione dell’aspetto duale dell’umano che non implica una differenza, una divisività o una gerarchizzazione tra le due parti ma semplicemente esplica una polarità che si traduce in una totalità e in una poliedricità insita nella natura dell’essere umano. Attraverso una decostruzione del proprio sé che ignora o misconosce tale origine, l’individuo si apre al reale, all’umanità. L’individuo trascende sé stesso per ri-nascere come unità di mente e corpo – come totalità –, ovvero come persona e a fronte di ciò si è analizzato il testo della filosofa Persona e democrazia. Considerato il tema nodale della persona in quanto tale e della sua nascita, si farà riferimento a tutto ciò che è il suo proprio, ciò che la costituisce in quanto persona e non semplice soggetto/individuo appartenente alla categoria più ampia del «genere umano». In tal senso si darà spazio al concetto della speranza che, nel testo I beati, si configura come un elemento in grado di sostenere la vita stessa della persona verso un percorso esistenziale che sia il più autentico possibile. Pertanto, appare necessario scandagliare le possibili vie e traiettorie percorribili dall’essere umano e, di conseguenza, delinearne le possibili destinazioni. La nascita, per potersi definire carica di significato, ha bisogno di essere riscattata tramite quell’atto coscienziale che la riflette e, appunto, la significa. D'altra parte, è altresì necessario che il nascente, colui che opererà ulteriori nascite (ulteriori trasformazioni), non disconosca mai la propria origine. Perché è proprio la prima nascita – la nascita biologica – che racchiude la verità del proprio «essere gettati fuori, esposti d’un tratto alle intemperie, senza appigli. […] nell’istante terribile in cui ci fu da aprire gli occhi e respirare. […] E […] misurare […] la grande differenza tra il riparo della verità materna, dove non era necessario né possibile alcuno sforzo, e ciò che giunge all’improvviso»2. Una natura limitata e povera propria dell’umano che, anche se trascende continuamente sé stesso, quasi come a voler obliare la propria condizione, non può accantonarla, né dimenticarla, pena il delirio e il peccato di hybris. Il momento aurorale in Zambrano è onnipresente: l’essere ri-nasce e deve ri-nascere incessantemente, come fa il giorno dalla notte, per guadagnarsi quell’orizzonte di verità e di senso che gli permette di non vivere invano, o a metà.
L’uomo ha una nascita incompleta e per questo non si è mai adattato a vivere naturalmente e ha avuto bisogno di qualcosa di più: religione, filosofia, arte o scienza. Non è nato né cresciuto interamente per questo mondo perché non s’incastra perfettamente in esso, e sembra che niente sia predisposto per lui; la sua nascita è incompleta e così il mondo che lo aspetta. Deve dunque finire di nascere interamente e crearsi il proprio mondo, il proprio posto, il proprio luogo, deve incessantemente partorire se stesso e la realtà che lo ospita.3
Quello che Zambrano propone è un ripensamento, uno stravolgimento, una sorta di epoché husserliana, un metter tra parentesi tutto ciò che la filosofia occidentale tradizionale – da quella greca a quella moderno-razionalista – aveva tramandato. Non si tratta di teorizzare un sistema o un’epistemologia, ma offrire una nuova chiave di lettura esistenziale che, più che assertiva, è incalzante, pungolante, invade la nostra intimità e il nostro sentire più che la nostra mente. Il metodo di Zambrano si propone di invitare questa intimità per introdurre il lettore ad un cammino inedito, finora tralasciato, un cammino che non darà riposte certe e definitive, non eliminerà dubbi e incertezze, né ordinerà la realtà, ma che piuttosto muoverà verso un’altra ottica. La filosofa spagnola si avvale di un approccio metodologico (ispirato per certi versi ai due grandi maestri del metodo: Descartes e Husserl, anche se con riserve)4 che rispecchia il significato etimologico del termine «metodo»: esso deriva dal greco μετα, oltre e οʹδὁϛ, la via, dunque il cammino da perseguire per raggiungere ciò che determina il proprio scopo,5 in un alternarsi di ritmi unici, poiché diversi tra loro, e opposti nella loro appartenenza alla vita e al pensiero, o all’anima e alla coscienza. Nascere e dis-nascere vuol dire transitare come danzando (figura simbolica, quella della danza, a cui Zambrano allude spesso quando si tratta di mettere in relazione armonica i paradossi della vita).6
La nascita si profila come il leit motiv di tutto il pensiero zambraniano, dall’incipit della prima nascita biologica fino a quell’interruzione che non è possibile denominare fine, poiché per Zambrano il percorso nascente dell’essere umano è un compiersi indefinito, un movimento a spirale in continua ascensione.
Sembra che dover rinascere sia condizione della vita umana; dover morire e risuscitare senza uscire da questo mondo.7
Nel pensiero di Zambrano la decostruzione della propria nascita iniziale, in termini filosofico-esistenziali, è in un certo senso propedeutica rispetto ad una «seconda nascita» e ad ulteriori altre nascite. Pertanto la rinascita si distingue da quell’inizio nascente in chiave biologica perché vede coinvolta la coscienza che accompagnerà il soggetto verso la conversione etica necessaria a farne un essere «umanizzato», una persona. In questo piccolo excursus si tratteranno i movimenti principali che determinano la rinascita della persona, e prima ancora la presa di coscienza indispensabile a quel cambio di postura e di atteggiamento dapprima rivolti verso sé stessi e, in secondo luogo, verso gli altri e verso la realtà. Rispetto a questa questione María Zambrano è molto netta:
La coscienza si estende, e non viviamo più sotto il peso del destino, sotto il suo manto, sentendo l’ignoto in agguato. Viviamo in stato di allerta, sentendoci parte di tutto ciò che accade, anche solo come minuscoli attori nella trama della storia così come nella trama della vita di tutti gli uomini. Non è il destino, ma semplicemente la comunità, la convivenza, quello in cui ci sentiamo avvolti: sappiamo di convivere con tutti gli uomini che vivono qui, e anche con tutti gli uomini che qui vissero un tempo.8
La costituzione della persona e, prima ancora, la maturazione del processo di umanizzazione per cui «facciamo parte di un sistema al momento chiamato genere umano»9, deve avvenire in prima istanza nelle pieghe intime dell’essere umano; in altre parole, egli deve necessariamente prendere coscienza di sé stesso prima di protendersi verso la realtà, verso l’altro da sé. La conversione è dapprima personale e prende il via da un momento di torsione, in cui il soggetto opera un pensiero riflessivo, verso di sé e con sé; egli sente sé stesso, la propria anima e il nucleo centrale del proprio pulsare come essere dotato di cuore (di entrañas, direbbe Zambrano) e di ragione. La procedura di ripiegamento non è fine a sé stessa, ma deve poter porre il quesito della scelta tra le vie percorribili dall’individuo:
L’uomo scopre due vie d’uscita: dis-nascere […] cancellare la nascita e annullarla; o esistere, nascere di nuovo, essere nuovamente generato […].10
Restare rinchiuso nella propria sfera intimistica e autoreferenziale, in una solitudine che diventa un vero e proprio isolamento, dove il soggetto arriva ad annientarsi, oppure intraprendere uno slancio estatico, un’uscita cosciente nella vita, in una vita vera, sostenuta dalla verità come nutrimento e dalla speranza come nutriente specifico dell’anima, vale a dire dell’unità di essere umano. Infine, si innesta una terza via causata da un deragliamento identitario dell’Io, che, se intrapresa spingerebbe l’essere umano a dimenticare la propria natura precaria de-lirando, deviando dal cammino vero e proprio:
L’errore più grave cui la condizione umana è soggetta non è fraintendere le cose che circondano l’uomo, ma fraintendere se stesso, mettendo in subbuglio ciò che spera o desidera, dissimulandolo o confondendolo.11
Per colui che resta assopito nel sonno la solitudine diventa alienazione dalla verità, dalla propria condizione creaturale, da ciò che si è veramente e rende il soggetto un personaggio privo di speranza, privo di trascendenza, privo di libertà. Lo stato passivo si assolutizza e si finisce con l’essere preda del destino anziché procedere in esso attivamente; si finisce col consumarsi nel tempo anziché realizzarsi in esso e per mezzo di esso. Eppure, sarà proprio a partire da questo impulso inverso alla nascita, cioè a dis-nascere, che il soggetto può assurgere a spettatore consapevole di sé stesso e di tutti gli altri esseri umani, come Zambrano scriverà nelle pagine sull’esilio: quest’esperienza personale, ascesa a condizione universale, rappresenta un rituale iniziatico della persona «nata creatura», che riscatta sé stessa e la propria condizione drammatica operando una conversione in termini di amore e di pietà, cioè nell’accogliere l’eterogeneità del reale e dell’altro da sé senza uniformarla al proprio, dunque rispettandola.
L’«impulso a dis-nascere»12
In questa differente indagine filosofica, che necessita di un metodo – seppur a-canonico –, Zambrano accentua dunque la chiave più pratica ed esperienziale, dettata proprio dalla condizione umana nella sua vita terrena. La nascita è l’atto originario della persona che, oltre a riscattare il proprio inizio e a conferirgli un valore, dovrà richiamarsi ad essa in un rifacimento continuo del proprio stesso essere persona. L’impulso a dis-nascere dopo essere venuti al mondo, la tendenza a chiudersi in solitudine per ritrovare prima la propria anima, il centro della persona, è il primo passo necessario per avviare quella consapevolezza a partire dalla quale poter dirimere il proprio andare. È un cammino, questo di Zambrano, senza indicazioni o istruzioni predisposte, anzi si caratterizza proprio per la sua mutevolezza, per la sua precarietà e per una richiesta di dedizione al suo compimento. Si apre una via che ha bisogno di un orientamento verso cui svolgersi, in tal senso il metodo è interpretato come un nuovo percorso in grado di condurre sapientemente e consapevolmente attraverso la propria vita, a una totale presa di coscienza di sé. Per questo esso deve modellarsi sulla vita stessa e quindi rendersi plastico, abbandonando lo schematismo strutturale del pensiero classico che lo definiva e irrigidiva: perché nella vita tutto è in relazione, niente è lasciato a sé escluso (o si autoesclude) dalla costante compartecipazione tra essere umano e realtà, tra soggetto e soggetto. Ma si transita anche nella distanza che intercorre tra il punto zero dell’essere incompleto e la sua possibile realizzazione e, dunque, congiunzione con la metà mancante: la natura dell’essere umano è quella, creaturale e imperfetta, di esseri nati per metà o di non essere nati del tutto. Il suo è un incedere desnudo e misero ed è per questo che si tratta di una ricerca della verità. Per procedere in essa (ri)nascendo come un’identità compiuta, che proviene e, al tempo stesso, incede da un andare e tornare, da un rientrare e un fuoriuscire catartico ai fini dell’ingresso in un percorso che sia il più autentico possibile, anzi che sia quello vero:
bisogna stare «fuori di sé» oppure molto dentro, ma in un andare e venire, in un travaso continuo, andando e venendo da quel fondo ultimo dell’anima dove quasi nulla arriva, dal lago di calma e di quiete al sussulto che ci avvisa che stiamo tra gli «altri» esseri che vivono un loro tempo, distinto.13
Si tratta di una «triplice polarità» con cui il nascente deve esperire il proprio essere ancora in divenire: il «movimento del nascere»; l’«impulso a disnascere» e la «tendenza a perdersi», cioè a delirare.14 Ciò che accomuna tutti e tre i movimenti, è l’esperienza del soffrire quasi come fosse un prodromo ai dolori veri e propri del travaglio, e alla sofferenza della propria condizione creaturale; da ciò deriva l’isolamento auto-protettivo, una sorta di fuga dalla vita che, a tratti, può assumere caratteristiche regressive e portare a due possibili solitudini: la solitudine alienante in cui si è preda della passività e della sospensione della propria libertà: vi si rimane come imprigionati «attaccat[i] alla placenta oscura»15, come del resto accade ad Edipo quando, anziché muoversi e trasformare il suo essere in un’esistenza cosciente, resta impigliato nella rete del delirio del proprio personaggio. L’altra possibile solitudine è quella che non annienta, che non serra e basta, ma che trasfigura la fuga dalla vita in una pausa, sì protettiva, ma anche risanatoria del proprio intimo sentire; un distacco che assume i contorni di un «prepararsi a partire» per uscire pronti. La tendenza a dis-nascere si risolve nel movimento di rinascita grazie alla scelta esercitata, che libera dunque dallo stato passivo-vegetativo proprio perché in quell’esercizio vi è un’azione: esercitare è «tenere in attività» scientemente.
Zambrano si avvale di un linguaggio concettualmente ricco legato al movimento del dis-nascere, che offre un breve parallelismo con Simone Weil,16 filosofa già conosciuta durante la Resistenza contro Franco e citata da María Zambrano. Se parlare di deshacer, cioè di disfare, o descreerse come decrearsi, o desinventarse, disinventarsi è per Zambrano lo stesso che dire la dis-nascita, in particolare il termine descreerse collega inevitabilmente al concetto weiliano di décréation,17 ossia un «farsi vuoto», che non è un’autodistruzione in termini di annientamento totale, ma è un rendersi «concavi» per far spazio, non per diventare barriera perimetrica che delimita e contiene o trattiene soltanto, bensì per assimilarsi a quella passività propria di chi tace per ascoltare, per far entrare, accogliendo tutto ciò di cui si è sprovvisti o di cui si pensava di poter fare a meno o, ancora, di cui nulla si sapeva perché si era soliti tenerlo in ombra. La decreazione weiliana è un togliere qualcosa di sé per far posto ad altro da sé, alla realtà come all’altra persona: un movimento passivo ma fecondo, che definisce i concetti di «accoglienza» e di «amore».18In questa piccola parentesi weiliana si innesta facilmente la tematica zambraniana del processo umano che consiste nell’«incorporarsi», rientrare nelle proprie viscere e stare in modalità passivo-ricettiva, ma pur sempre attiva, in quanto questo stare non inerisce ad un’immobilizzazione di intenti o ad una paresi emotiva ma è più che altro uno stare all’erta, vigili e col cuore aperto, pronti a ricevere. In quest’apertura a ricevere si annida, languida, l’accoglienza. Ma come abbiamo visto, così per Weil come per Zambrano, per accogliere occorre far spazio, creare un vuoto e, quindi «svuotare la mente […] spossessare l’io, […] fare vuoto dentro di sé per fare posto al mondo»19. È proprio grazie a quel processo di rimozione e, conseguentemente, di abbandono di ciò che è superfluo ed inessenziale che la ri-nascita zambraniana può compiersi. La dis-nascita in termini di spossessamento di sé, del troppo di sé e delle proprie conoscenze, fa spazio all’inedito. In altre parole, si tratta di spogliarsi della pelle vecchia (si pensi all’immagine metaforica della serpe utilizzata da Zambrano nella sezione L’albero della vita dei Beati), per poter ri-nascere liberamente, facendo attenzione, però, a non rimanere impigliati: «occorre lasciar morire quelle parti di sé che fanno resistenza»20.
Il tema dello spossessamento in Zambrano richiama il metodo dell’epoché della fenomenologia husserliana, ma in questo caso essa è portata all’estremo poiché non vi è solo la sospensione del mondo per come lo conosciamo, o delle credenze con le quali pensiamo di comprenderlo, ma una messa tra parentesi che ingloba anche il soggetto stesso. Nella «figura innamorante»21 dei Beati dell’omonimo testo (titolo originale Los bienaventurados) si esplica questo umile, seppure audace, atto di sospensione che in realtà Zambrano fa diventare spoliazione di sé stessi, deprivazione di ogni certezza per stare «nella semplicità essenziale», in «povertà di spirito e […] purezza di cuore», senza desiderare nulla che non sia questa mancanza, poiché «stare nella povertà […] è di fatto non mancare di nulla, perché è la condizione per respirare l’essere»22. Tutto questo per giungere a sentire la propria nascita iniziale di creature: proprio in questo senso «dis-nascere significa rammentare la nostra origine, il luogo e il tempo da cui proveniamo»23. Ma altrettanto necessaria è, al contempo, la «sete di trascendenza»24 che porta a trascendere la propria natura finita, e ad obliare la propria creaturalità per poter vivere progettualmente. Pertanto, se lo spossessamento è necessario ai fini della presa di consapevolezza della propria condizione sorgiva, il desiderio di trascendenza lo è altrettanto per fare in modo che non si venga consumati dal (nel) tempo. La persona si realizza proprio tramite il tempo, assegnandogli una forma, cioè donandogli un significato. Ma, da questo incessante desiderio può scaturire un’estrema vulnerabilità, che può farci cadere nella «tentazione dell’esistenza»25 dove l’Io assume la direzione di rotta e di metodo, un metodo fatto di smania di possesso «per agire continui riempimenti di sé [senza] essere, ma solo [illudendosi] di essere»26:
Se non si comprende questa situazione, la tentazione dell’esistenza, di essere l’esistente in mezzo a questa solitudine abbandonata dalla vulnerabilità estrema e anche semplicemente dall’abbandono, può – per via del suo procedere così, senza mediazione – essere presa per libertà. […] E allora emerge l’Io, sostituendosi alla mediazione, prendendo l’immensità come campo a disposizione della sua unicità. È l’unico, e tutto può essere sua proprietà.27
Mentre per «necessariamente essere», cioè realizzare la propria nascita, adempiere all’incarico assegnatoci dal destino, essere liberi in questa obbedienza alla propria chiamata e continuare a camminare, sempre, incessantemente, ricercando la verità,28 occorre saper accettare. Sapersi accettare in questa condizione carente e sempre mendicante, semplicemente perché non se ne può fare a meno, essendo parte costitutiva del nostro essere umani. Come, del resto, non si può fare a meno dell’angoscia che permea la nostra esistenza ma che fa da volano alla nostra maturazione etica, come persone:
Ma quando l’inquietudine eccede la sua misura sostenibile si cade nel disordine esistenziale e/o cognitivo. Allora per trovare un sentire positivo che aiuti la nostra ricerca d’essere non si dovrebbe agire sull’oggetto che costituisce la causa del problema, ma si dovrebbe spostare lo sguardo sul sentimento opposto e quello si cerca di coltivare. È questa delocalizzazione oppositiva dell’attenzione, che fa germinare l’altro differente polo del sentire, la condizione necessaria per trovare quell’equilibrio emotivo essenziale sia al cuore che alla mente.29
I concetti di accettazione, di accoglienza, di attesa fiduciosa mettono immancabilmente alla prova il singolo, che tende inesorabilmente alla sua realizzazione. Tramutare questi concetti in pratica è piuttosto arduo e di difficile mantenimento; anche l’idea della delocalizzazione sul polo opposto del sentimento, cioè del mantenersi concentrati verso la risoluzione è questione tutt’altro che lineare. Sarebbe inverosimile poter credere non vi siano cadute o decadimenti della persona, che deve districarsi, lungo tutto il percorso temporale, tra i paradossi della vita e quelli che la costituiscono in quanto essere umano. Ecco perché Zambrano ci suggerisce la necessità di una speranza intesa come «trascendenza stessa della vita che incessantemente sgorga»30, una speranza che sostiene la vita in quanto «fame di nascere del tutto»31 e, proprio in quanto tale, è da considerarsi forma costituiva primigenia dell’essere umano, prima ancora di essere razionale o di essere coscienza.
La persona non può eludere questa sua base formativa, poiché quella del saper sperare è una necessità da saper gestire adeguatamente, senza cadere nel tranello tentatore di travalicare i propri limiti umani e senza diventare preda dell’ansia derivante dall’incertezza di questa realizzazione, che appare a tratti così distante. Ed è fondamentale sottolineare questo punto perché non si interpreti, impropriamente, la speranza come un modo d’essere del soggetto, un atteggiamento ottimistico, la semplice volontà di attendere un buon auspicio o la venuta di qualcuno o qualcosa in particolare. Tutt’altro: «la speranza è alla base del costituirsi della persona»32 Zambrano parla di una speranza pura, nella misura in cui lo sperare non si nutre di nulla, ma aleggia e «galleggia» «al di sopra di ogni avvenimento»33, al di sopra di ogni tentazione e sentimento, sia essa angoscia, sia essa felicità; è la speranza di chi ha perso tutto, di chi non ha nulla, nemmeno la speranza stessa, proiettata verso qualcosa di concreto. In questi particolari casi, la speranza diviene «sostanza di vita»34, che aiuta e sostiene, nelle intemperie del tempo e della vita, a guardare al futuro
E nel fondo di questa speranza generica, assoluta, possiamo distinguere qualcosa che la sostiene: la fiducia. La speranza sostiene ogni atto della vita; la fiducia sostiene la speranza.35
La speranza che sostiene la vita è la speranza sostenuta dalla fiducia e senza quest’ultima potrebbe vacillare; ma è proprio nelle situazioni limite, nelle vie senza scappatoia, nella piena negatività del contesto – dove si è come sbalzati fuori del tempo – che la speranza, questo intimo confidare, si origina, facendo sì che si possa «saltare l’ostacolo», superare la barriera. Ciò può avvenire solo in vita (la morte non è una via di fuga risolutiva, non si può liberarsi del tempo, uscendo da esso): bisogna liberarsi nel tempo, ordinandolo e organizzandolo in passato, presente e futuro, occorre «aprire il tempo, […] s-viscerarlo [des-entrañarlo]»36, e proprio questo districare le vie temporali permette di vedere la speranza gettarsi come un ponte verso il futuro, verso l’altra sponda. Un ponte «tra la passività e l’azione»37, tra l’immobilità inerziale del sogno o dell’isolamento alienante, e quella forza propulsiva che aiuta a sollevarsi dalla stasi per riuscire a vedere non solo il futuro, ma a ri-vedersi nel qui ed ora della realtà vera. «La ricerca della verità ha bisogno di essere nutrita dalla speranza»38, proprio perché lo stagliarsi del ponte di fronte a noi non è casuale, ma aiuta ad orientarsi, conduce alla corretta destinazione o, ancora meglio, immette nella giusta via (di senso). È proprio in questo senso che la fiducia gioca il suo ruolo decisivo rispetto alla realtà vera: nell’ottica di un’attesa senza brame, di una quietezza d’animo, una totale fiducia intesa come apertura verso un sapere con cui interloquire, che ha bisogno di dare e ricevere e, infine, con un voto di umiltà da parte del proprio Io cognitivo, per permettere a quel «fondo oscuro», quel «vaso unificatore» e comunicante che è il cuore – in cui «sistole e diastole» (richiesta e offerta, chiamata e ascolto) si alternano, come nella nota danza tra vita e pensiero – di nutrire il cammino avendo cura di sé stessi e di tutti gli altri nascenti:
E così, movimenti che paiono contrari, come il chiedere e l’offrire, il chiamare e l’ascoltare, vengono a essere come la sistole e la diastole del cuore. Si scopre, inoltre, che si possono invertire: che colui che chiede molte volte dà, che colui che offre riceve. Si stabilisce la circolazione dei beni, dai beni cosiddetti materiali fino ai beni più invisibili, sottili e luminosi. La circolazione che il movimento del cuore stabilisce trascende, attraverso la speranza, tutti i domini dell’umana vita.39
«Riconoscimento e accettazione del reale [inverato], sono il primo passo della speranza; il secondo passo sta nell’impegno ad attuare quella chiamata che proviene silenziosa dal cuore di ognuno»40, significa vivere lasciandosi guidare dalla speranza, poiché essa permette di vedere ciò che a tratti resta incerto e molto lontano, quasi non percepito. La speranza come nutrimento e nutriente della propria vita, per porre la persona nella condizione ideale a superare ogni impasse che possa profilarsi lungo il cammino, una speranza come rivelazione all’interno di una situazione estrema, come quella dell’esilio, che possa sospingere il pensiero, la riflessione, ad emergere in questa presa di coscienza di sé (se si accettano, anzitutto, i propri limiti strutturali e transeunti). In tal senso diventa possibile accogliere la propria rivelazione e offrirla41 agli altri sotto forma di un sapere sì «personale, [esperienziale], ma che presto la ragion poetica42 trascende ed eleva a metafora generale della condizione esistenziale della vita umana. La vita intera intesa come esilio. Esilio dell’essere e del nulla, della luce e delle ombre»43
La nudità dell’esilio
Per affrontare il tema dell’esilio da un punto di vista filosofico ed esistenziale, non si può prescindere dall’esilio vissuto in prima persona da Zambrano. Bisogna rientrare nella parola stessa di ciò che per María Zambrano è divenuta essenza di vita, dapprima della sua vita in particolare: «Amo mi exilio» (Amo il mio esilio) non a caso disse quando, dopo circa metà della sua intera vita, tornò in Spagna, sul suolo natale. Questa parola, che nel nostro idioma si scrive «esilio», dal latino exilium, ha lo stesso etimo di èsule composto da ex (fuori) e sòl-um (suolo, paese): dunque di qualcuno che esce dalla propria terra, dal suo luogo – suolo di origine –, che si allontana dalla propria patria. Francisco José Martín ne riassume le peculiarità in un’ontologia positiva:
[…] niente potrà mai ricompensarti dall’esilio, né il ritorno, né gli onori, nemmeno l’affetto ricevuto. Perché non si tratta di colmare un vuoto o di voler riparare a una mancanza. L’esilio non è una negazione, bensì è: possiede una positività ontologica. È uno spazio che si apre nella negazione di un altro spazio, è uno spazio vergine, selvaggio, senza limiti né punti di riferimento, senza strade né vie di fuga. Una notte buia. Un deserto bruciante. Un inverno alle intemperie e senza rifugio. L’esilio è intemperie e deriva. Sul confine che separa i due spazi – la patria e l’esilio – María Zambrano dovette trascorrere molto tempo […] E quando infine accettò l’esilio, quando decise – perché di decisione si trattò – di abbandonare la vita errante e di accogliere l’orizzonte dell’esilio, fu come se l’intero suo essere acquisisse una nuova dimensione. Come se il suo pensiero, pur continuando a essere quel che era stato fino ad allora, si elevasse al di sopra di se stesso per vedere di più e meglio, ma soprattutto per vedere più lontano. 44
Zambrano quindi amò il suo esilio poiché lo accettò non in forma di rassegnazione, bensì in quella forma di «passività attiva» che inerisce ad un «doppio movimento, quasi simultaneo, di andata e ritorno, dove il fuoriuscire è già un addentrarsi»45; una passività, dunque, che non patisce e basta ma che, in questo suo star subendo, accoglie fecondamente la vita non come mero destino o in termini di possesso, ma come speranza.46 Si tratta però di una speranza attiva, che ci lascia agonizzanti e impossibilitati a morire, poiché agonizzare è proprio questo: venire interdetti dal processo del vivere e del morire. La speranza ci proietta fuori traducendosi in un «sì!», che è ciò che indurrà a percorrere quell’«arido deserto», più di una volta. Quanto più è indicibile la sofferenza tanto più prepotente si fa l’avvento della speranza, quanto più acuto è il patire tanto più «profonda rinasce la speranza».
Zambrano tratteggia un profilo molto particolareggiato dell’esiliato «nudo» e «distaccato»,
[…] sol[o] e immers[o] in se stesso, e insieme alle intemperie, come uno che sta nascendo; nascendo e morendo al tempo stesso, mentre la vita continua. La vita che lasciarono all’esiliato senza ch’egli ne avesse colpa. Tutta la vita e il mondo, ma senza un luogo in esso, dovendo vivere senza veramente stare, cosa tanto necessaria. Muoversi senza poter quasi agire, ed essere così allo stesso tempo colui che dimora in una caverna, come chi nasce, e nel deserto, come chi muore. 47
Si tratta di una «generazione di mezzi-esseri», che porterà la filosofa a rievocare il dipinto di Velazquez: El niño de Vallecas a cui María Zambrano si ispirerà per la figura dell’idiota che, come l’esiliato, è una figura fondamentale per il tema della nascita. 48 L’idiota richiama direttamente una tendenza alla passività, a subire persino il peso del proprio corpo, come dimostra il ragazzo deforme rappresentato nell’opera, il quale sembra non aver salda la presa delle mani, con la testa quasi a ciondolare da un lato. Esso ci riporta allo stadio prenatale, dove non c’è consapevolezza e l’atemporalità è protagonista in questa assenza di percezione di sé e della realtà esteriore. Non vi è incertezza né negligenza bensì assenza di attenzione. 49 L’idiota è dunque sospeso dalla nascita; posto ai margini della vita va errando senza avere una direzione, erra senza andare né tornare, più che errare tentenna, ma senza esitazione, solo come in preda al carico che è: corpo con un peso.50 Così l’esiliato, abbandonato nell’immensità del tempo e dell’esilio, scansato ai margini della storia, nudo ed esposto alle raffiche della vita, prosegue apparentemente in un’esistenza priva di mediatori, di guide e di orizzonti dove cielo e acqua si confondono. Né rifugiato – nessun nuovo luogo sarà per lui casa propria, o patria adottiva – né più sradicato poiché sarà conscio di non possedere più nulla e, dunque, non cercherà più nulla, né attenderà più in quell’oceano ormai privo di nostalgia.51 La condizione dell’esiliato è quella di essere niente – nemmeno un ente –, è nessuno, uno sconosciuto al quale, proprio perché in stato di revoca, non è concesso nemmeno di morire. L’esiliato è colui che viene visto e dunque giudicato senza essere conosciuto, è oggetto – non soggetto, non umano – di visione nullificante da parte degli altri individui. È un nessuno che «quando sa, guarda e tace. Si rifugia nel silenzio per addentrarsi in qualcosa»52 e rivelare – che equivale anche a portare su di sé – la sua incompiutezza, il suo essere manchevole e drammaticamente effimero; questo è il pegno che deve pagare per riscattarsi, riscattare il suo passato, la sua memoria, e la storia di tutti, anche di coloro che sono rimasti cittadini, che non vivono in esilio né l’esilio. Il cambio di prospettiva è radicale: solo chi è lontano, solamente chi può scrutare o intravedere l’orizzonte come linea di transito degli eventi, chi interpone uno spazio inteso come distanza tra sé e la propria storia, la propria nascita, riesce ad inglobare a mo’ di grandangolo la visione verace per offrirla, rivelarla agli altri e per dis-velare una connessione, una dimensione, un senso come orientamento possibile all’interno della propria esistenza. Orfano e abbandonato: in tale stato, per Zambrano, inizia propriamente l’esilio:
E così, l’esiliato è come se nascesse, senz’altra ultima, metafisica giustificazione che questa: dover nascere come rifiutato dalla morte, come superstite; si sente, perciò, quasi del tutto innocente, giacché che altro può fare se non nascere? È cosa al di là e al di sopra d’ogni ragione giustificante. E il rito della nascita – presentazione e offerta – si compie, almeno nell’animo dell’esiliato, che si sente così: offerto. Questo sentimento è il più lontano possibile dall’eroico.53
L’esiliato è innocente e, in un certo senso, redento dalla fame atavica di impossessamento della vita che talora può sfociare in una forma di delirio, che Zambrano chiama endiosamento: la divinizzazione dell’individuo in quanto maschera o personaggio tentato dall’esistenza in cui l’Io e la volontà predominano. Proprio in quanto redento, l’esule non è l’eroe senza patria bensì l’umile per antonomasia che può solo offrirsi, offrire la sua storia, che a ben vedere appartiene a tutti in quanto condizione primigenia di ogni nascente costitutivamente fragile e imperfetto; egli può solo offrire la verità e nell’operare tale atto deve convertire il proprio sguardo, deve voltarsi per presentarsi e stare: stare in un qui specifico, sentendo se stesso e percependo la vita e non in un là vago. Diversamente da ciò che avviene nella nascita biologica, l’esiliato, non avendo più né madre (patria) né padre, deve nascere da solo, anzi deve ri-nascere in solitudine.54
Si può dire che María Zambrano «fu» il suo esilio e lo fu in molteplici vite, in innumerevoli agonie55 o, in altri termini, in molteplici rinascite: questo la portò a ripensare la propria esperienza – patita, sofferta, accettata e rivelatasi poi feconda – in chiave universale come rituale iniziatico della condizione umana. Per lei l’esilio diviene un possibile istradamento alla via del silenzio e della nudità: dove si abbandona ogni progettualità futura, il che equivale a porsi umilmente tra parentesi, assumere come propria la dimensione dell’epochè e dis-appropriarsi del proprio Io e della propria vita re-stando, però, nel suo fluire incessante e sferzante. Significa venir trovati, essere visti – poiché ci si è perduti essendo stati rigettati –, sentirsi in balia della sospensione dalla vita e dalla morte. L’esiliato è sospeso, solo, nella notte oscura e nel fluire temporale che però non percepisce, e dunque si trova in assenza della mediazione temporale. Dopo il delirio di s-radicamento dalla propria terra e dalla propria origine, il suo primo impulso diventa quello del dis-nascere: l’uomo-esiliato disfa la propria nascita in quella che potrebbe essere un’inversione rispetto alla vita, un alienamento sterile, in cui il soggetto dissotterra le proprie radici annientando la propria origine come per rientrare nel grembo, nel sogno; oppure una solitudine feconda, ove il ritrarsi dalla vita è piuttosto un timido prepararsi a r-accogliere ciò che serve per effettuare lo slancio, per intraprendere la via della trascendenza.56 Per fare ciò si rende necessaria la nascita della coscienza in memoria, ossia quel «tornare indietro a prendere» – in maniera del tutto consapevole – ciò che invoca il proprio riscatto: il momento aurorale, l’«inizio nascente» di cui l’essere umano non serba alcun ricordo, poiché il tempo si è aggrovigliato e il passato, così impetuoso e doloroso ha sovrastato sia il presente che il futuro. Infatti, l’esiliato ha deposto ogni progettualità futura, vive il presente come un inferno dove è costretto a restare – fermo – mentre tutto passa, il tempo scorre e le esistenze continuano a marciare. Allora ecco la funzione salvifica della coscienza – intesa in termini husserliani come coscienza trascendente, in-tenzionale, costantemente aperta e rivolta al mondo –, della memoria in quanto «rivelazione prima, ineludibile, della persona…»57: essa permette di riscattare il tempo della propria esistenza nella sua versione primordiale. L’esiliato sarà propriamente presente e manifesto a sé stesso, sentirà sé stesso per poter pensare quell’Incipit vita nova, in chiave di ri-nascita, che presuppone non solo una consapevolezza, ma anche un’intima ammissione della propria vacuità, che equivale al portarne il peso; un peso che lo schiaccia, come la forza di gravità, verso il basso. In questo sprofondare nelle proprie viscere egli intravede un cammino, che è quello della libertà e della realizzazione: dell’adesione alla propria vocazione. Un cammino analogo al percorso del nascituro, che l’esiliato deve compiere o perlomeno, intraprendere, perché in ciò risiede il significato della propria libertà di essere umano: adempiere al proprio destino e, quindi, compiere quella conversione morale propria della persona. L’inganno sarebbe sfruttare quella libertà in maniera corrotta, per deviare dalla via di realizzazione e lasciarsi dominare, inconsapevolmente, proprio dal senso di pienezza trionfale. Ciò vuol dire che per Zambrano si può non rispondere alla vocazione deviando dal cammino della verità nuda e anelante. Ma questo comporta il restare cadaveri nella vita, «morti viventi», che costruiscono un’immagine di sé stessi, e rappresentano una maschera, un personaggio ambizioso illuso e illusorio, che elargisce realtà ed evidenza a qualsiasi fenomeno fuori di sé o in sé; pertanto,
[…] l’esiliato ha dovuto destarsi. E se è rimasto così, assorto in se stesso e come estraneo a tutto, anche alla sua stessa storia, è perché la vede, perché la contempla con sempre maggiore chiarezza e precisione, da quel luogo, da quel limite tra la vita e la morte dove abita, luogo privilegiato perché si determini la lucidità, soprattutto quando s’è rinunciato a giustificarsi e non si è ceduto alla tentazione di cristallizzarsi in un personaggio; quando non s’è voluto essere nulla, neppure un eroe.58
Prima di destarsi, l’esiliato opera dunque un movimento passivo di ripiegamento interiore, dis-fa la propria identità fino ad arrivare a non essere più nemmeno un esiliato. Appare come un fantasma che va mendicando la propria corporeità e la propria identità. Si trova al centro di sé stesso, del suo fondo oscuro e viscerale, in dialogo con sé stesso e in riflessione con la propria dimensione più intima e coscienziale. Ecco la fecondità dell’atteggiamento passivo, che riscopre nella solitudine la pienezza del sé come individuo e che, anziché restare chiuso nella sfera solipsistica, si modifica in apertura verso il mondo. In questo slancio estatico l’esiliato respira la trascendenza: trascende sé stesso dopo che si è disvelato59 a sé stesso, per comunicare agli altri la verità originaria e costituiva propria del genere umano. Quella condizione «tragica» della propria natura che intimorisce ma con cui si deve fare i conti se si vuole adempiere al proprio destino, accettando e consegnando la propria inanità all’altro da sé. Questa visione segna un nuovo incipit, una nascita, è risveglio alla e nella luce, assieme alla coscienza. Solo con l’ausilio della coscienza infatti si esce da questo stato di prenatalità per nascere, anzi per ri-nascere ed esser pronti a dover ri-nascere innumerevoli volte a venire. E proprio in quella presenza, in quell’Adsum! María Zambrano visse il suo esilio; in quell’essere senza esser nulla nemmeno sé stessa «ma rimanendo nella pura verità dell’essere qui»60. In questa tragedia la persona detiene una sola libertà: quella di camminare nella verità. Diventa dunque necessario assumere la responsabilità di ri-nascere ancora e ancora affermando la propria presenza, il proprio «essere qui» nel sentire più autentico e verace.
María Zambrano presenta il senso dell’esperienza dell’esilio in un modo senz’altro originale, facendo appello ad un rivolgimento al primigenio che permetta di r-accogliere una verità inedita, da riconsegnare alla realtà nelle vesti di un sentire autentico, originale, appunto, in grado di scombinare il comune e scardinare i modelli razionali. Pur nel paradosso di non volere mai più esiliati, Zambrano eleva l’esperienza dell’esilio a «dimensione essenziale della vita umana». La dimensione essenziale dell’esilio per Zambrano fu destino, dunque imposto e conseguentemente accettato col cuore e, per questo, indimenticabile. Del resto, la sua è una dialettica che prevede un’oscillazione tra contrari, presuppone sempre un rapporto, anche un legame tra le antitesi della vita. Poiché per quanto ardente era il desiderio, la fame di rientrare in Spagna, altrettanto bruciante era la sensazione di dover rinunciare a questa dimensione nodale, imprescindibile per la sua vita, che rappresentò l’esilio in quanto patria. E dunque, quando si accetta col cuore si dice sì al proprio destino e, conseguentemente, alla fatalità della propria nascita biologica che porta a riconoscere la propria condizione di creatura creata, e non autodeterminata. Ciò a cui allude la pensatrice è una sorta di «ricognizione esistenziale»61, una sorta di ricerca, una perlustrazione dell’umano in quanto individuo singolo portatore di una sua propria storia che inevitabilmente va ad intrecciarsi e confrontarsi sia con l’altro, portatore di un’altra storia irripetibile, sia con la vita ed i suoi mediatori, gli eventi e tutto ciò con il quale l’essere umano deve fare i conti. In questa ricerca María Zambrano vede delinearsi la storia della specie, costituita, appunto, da ogni storia particolare: questa storia ha un inizio e un divenire che è costante, sempre aperto, sempre incompiuto a cui ogni essere umano, ogni popolo nelle varie epoche storiche, ha provato a dare un senso. Il fine di questa ricognizione è permettere di aprire una via alle possibili direzioni esistenziali essenziali del rapporto tra soggetto ed esperienza.62 In questo senso, l’esilio apre ad un’altra forma di delirio rispetto a quella analizzata finora, che vedeva il soggetto allontanarsi e quindi deviare dal percorso autentico. Questa diversa forma di delirio invece incide una distanza, ci allontana proverbialmente ed etimologicamente dal seminato, dalla consolidata visione delle cose, dalla ragione astratta che non scende a patti con la sensazione. Da una diversa dimensione ontologica in cui aleggia, come un fantasma, l’esiliato, fino a una conseguente teoria della conoscenza nuova, umana, pronta ad addentrarsi in quella notte oscura del non-detto, del non-essere, del sacro63 che possa orientare non ad una verità assoluta bensì indicare un sentiero verso un sapere dell’anima dove si troveranno a transitare sia il sentire che la ragione perfezionandosi l’uno nell’altra: il sentire in soccorso della ragione per ampliarne lo sguardo e la ragione ricettiva e aperta al sentimento per illuminarlo.
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M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, cit. p. 14. ↩︎
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M. Zambrano, Delirio e destino, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, cit. p. 18. ↩︎
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M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit. p. 91. ↩︎
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Secondo l’approccio cartesiano la res extensa è subordinata alla parte razionale, del pensiero e il dramma sta proprio in questa volontà di «scissione» non solo tra io e mondo, tra vita e coscienza, ma anche all’interno dell’uomo stesso, che delegittima tutta la sfera sensibile e i sentimenti stessi. Parimenti, il metodo fenomenologico husserliano che, se per molti versi Zambrano riprende (e radicalizza), per quanto concerne il fine ultimo si trova anche qui completamente agli antipodi. Ciò a cui aspira Husserl – «esemplare e geniale pensatore» (María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit. p. 185.) – è pur sempre una scienza e il soggetto a cui fa riferimento non è il soggetto empirico, in carne e ossa, bensì un soggetto trascendentale, una coscienza costituente. ↩︎
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Cfr.: L. Mortari, Un metodo a-metodico. La pratica della ricerca in María Zambrano, Liguori Editore, Napoli 2006, p. 21, dove si delinea il metodo come un vero e proprio «sapere del camminare», in grado di orientare, quindi di proporre sapientemente una direzione da seguire. Questo «saper camminare» è ciò che deve rendere la vita «saputa», deve cioè renderla esperienza. Questa forma di sapere esperienziale può fornire gli strumenti idonei a questo ripensamento del filosofare, non più dogmatico e imperativo, bensì «germinale, che non pretende di decidere dove sta il vero, ma della verità con passione tiene costantemente aperta la ricerca», cit. Premessa. ↩︎
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«La vita stessa è un paradosso e io credo più ai paradossi della vita che alle antinomie della ragione», intervista a María Zambrano «mandata in onda nel programma «Muy personal» (Molto personale, 1988) della Televisión Española. Trascrizione di María Milagros Rivera Garretas, «Duoda. Revista de Estudios Feministas», n. 25, 2003. Traduzione di Clara Jourdan)», Rivista Diotima filosofe, Per amore del mondo numero 3 - 2004. ↩︎
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M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit. p. 10. ↩︎
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M. Zambrano, Persona e democrazia. La storia sacrificale, SE, Milano 2020, cit. p. 18. ↩︎
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Ivi, p. 19. ↩︎
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M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit. p. 91. ↩︎
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M. Zambrano, Persona e democrazia, cit. p. 37. ↩︎
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R. Mancini, Esistere nascendo. La filosofia maieutica di María Zambrano, Città Aperta Edizioni, Enna 2007, p. 32. ↩︎
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M. Zambrano, Delirio e destino, cit. p. 123. ↩︎
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Cfr.: R. Mancini, Esistere nascendo, p. 32. ↩︎
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M. Zambrano, Il sogno creatore, SE, Milano 2017 cit. p. 95. ↩︎
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Cfr.: S. Del Bello, Esperienza, politica e antropologia in María Zambrano. La centralità della persona, Mimesis Edizioni, Milano 2017, pp. 92-93. ↩︎
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Relativamente alla creazione divina in cui Dio si fa vuoto, si allontana dal creato proprio per far posto, per lasciare spazio agli esseri viventi in un atto d’amore quindi, e non, soltanto di una mera esecuzione di una volontà creatrice. ↩︎
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Cfr. S. Del Bello, Esperienza, politica e antropologia in M. Zambrano, p.93. ↩︎
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L. Mortari, Un metodo a-metodico, cit. p. 38. ↩︎
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Ivi, p. 48. ↩︎
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o «immagin[e] innamorant[e]», C. Ferrucci, Le ragioni dell’altro. Arte e filosofia in María Zambrano, Edizioni Dedalo, Bari 1995, cit. p. 98. ↩︎
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L. Mortari, Un metodo a-metodico, cit. pp. 39-40. ↩︎
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S. Del Bello, Esperienza, politica e antropologia in M. Zambrano, cit. p. 91. ↩︎
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Zambrano identifica questa «sete di trascendenza che incessantemente sgorga, mantenendo aperto l’essere individuale» con la speranza. M. Zambrano, I beati, SE, Milano 2010, cit. p. 92. ↩︎
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Ivi, p. 38. ↩︎
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L. Mortari, Un metodo a-metodico, cit. p. 67. ↩︎
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M. Zambrano, I beati, cit. p. 38. ↩︎
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«Entrare nella vita è cosa necessaria, perché noi mancanti d’essere abbiamo necessità della realtà, necessità di realizzarci», L. Mortari, Un metodo a-metodico, cit. p. 41. ↩︎
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Ivi, p. 93 (nota 12). ↩︎
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M. Zambrano, I beati, cit. p. 92. ↩︎
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M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit. p. 90. ↩︎
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M. Zambrano, I sogni e il tempo, Edizioni Pendragon, Bologna 2020, cit. p. 99. ↩︎
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M. Zambrano, I beati, cit. p. 89. ↩︎
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Ivi, p. 90. ↩︎
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Ivi, p. 92. ↩︎
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Ivi, p. 94. ↩︎
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R. Mancini, Esistere nascendo, cit. p. 173. ↩︎
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L. Mortari, Un metodo a-metodico, cit. p. 108. ↩︎
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M. Zambrano, I beati, cit. pp. 100-101. ↩︎
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R. Mancini, Esistere nascendo, cit. p. 173, corsivo mio. ↩︎
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L’offrire, l’offerta di sé stessi, in termini zambraniani, è questo mostrarsi nella propria nudità e povertà, facendo voto di povertà ed umiltà, in cui dunque si viene visti e giudicati, mostrandosi per ciò che si è in verità, come un riflesso su di uno specchio in grado di svelare a chi guarda, a chi vede, sé stesso, nell’altro. Questo argomento avvia la concezione zambraniana della speranza come creatrice «ossia capace di predisporre l’uomo verso l’incerto futuro, rendendolo in grado di costruire e porre in essere una società, nella quale sia possibile convivere insieme agli altri che gli sono accanto», Ibidem. ↩︎
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La ragione poetica è l’apice del pensiero a-canonico di María Zambrano, che cresce proprio ai margini del Canone filosofico, nutrendosi di ciò che la Grande Tradizione ha tralasciato, delegittimato, relegato nell’ombra perché non degno di appartenere ad una episteme universale. Invece, di riscattare e tornare a prendere ciò che è stato eclissato, secondo la filosofa spagnola, questa tradizione ha scisso l’essere umano in sé stesso, così da non potergli far riconoscere nemmeno più alcune delle parti di sé che lo caratterizzano proprio in quanto essere dotato di cognizione ma anche di corpo. C’è bisogno di una filosofia – di una ragione – più plastica e mescolata al reale, al transeunte; una ragione che non miri al primato e all’esclusività, dunque che non escluda ma, anzi, operi con sentimento di pietà, che includa, dunque, ciò che non riesce ad illuminare in solitaria. Dire ragione poetica significa dire l’unità dell’uomo, in quanto essere unificato, «coscienza integrale» (Machado); «un’intelligenza nutrita di ethos e di pathos» (C. Ferrucci, Le ragioni dell’altro. Arte e filosofia in María Zambrano, Edizioni Dedalo, Bari 1995, p. 32). ↩︎
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M. Zambrano, Per abitare l’esilio. Scritti italiani, Le Lettere, Firenze 2006, Introduzione di F. J. Martín, cit. p. 10. ↩︎
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Ivi p. 11. ↩︎
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Cit. Prefazione di Rosella Prezzo a María Zambrano, Delirio e destino. ↩︎
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Cfr.: R. Prezzo, Pensare in un’altra luce. L’opera aperta di María Zambrano, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006, p. 129. ↩︎
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M. Zambrano, Per abitare l’esilio, cit. p. 136. ↩︎
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E. Nobili, Il pensiero appassionato, Leone Editore, Milano 2016 cap. 2, par. 2.2, edizione Kindle. ↩︎
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Cfr.: L. Mortari, Un metodo a-metodico, p. 55. ↩︎
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Cfr.: L. Boella, Cuori pensanti. 5 brevi lezioni di filosofia per tempi difficili, Chiarelettere, Milano 2020, pp. 93-94-95. ↩︎
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Cfr.: M. Zambrano, I beati, p. 41. ↩︎
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Ivi, p. 32. ↩︎
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M. Zambrano, Per abitare l’esilio, cit. p. 137. ↩︎
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Cfr.: M. Forte, Maria Zambrano Nascere Dis-nascere Rinascere, Pazzini Editore, Rimini 2022, pp. 18-19. ↩︎
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L’agonia per M. Zambrano è ciò che si esperisce quando si viene rifiutati, rigettati sia dalla vita sia dalla morte. ↩︎
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Cfr.: R. Mancini, Esistere nascendo, p. 32. ↩︎
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M. Zambrano, Delirio e destino, cit. p. 21. ↩︎
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M. Zambrano, Per abitare l’esilio, cit. p. 142. ↩︎
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Per Zambrano si tratta dell’aletheia, di verità intesa come non nascondimento, come dis-velamento, un semplice vedere o star sul punto di vedere, che produce la quiete. Una visione attraverso il cuore dunque, e non intellettuale, della mente o del pensiero discorsivo. Una visione-intuizione che dischiude una via da seguire e che quindi imprime un movimento grazie ad una ragione d’amore. Tutto ciò va accolto, va ricevuto in modalità passiva ma feconda perché è la via per pensare-vedere altrimenti. ↩︎
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María Zambrano, Delirio e destino, cit. p. 22. ↩︎
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Roberto Mancini, Esistere nascendo, cit. p. 29. ↩︎
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Si veda qui il pensiero jaspersiano dell’apertura di una via che possa «chiarificare l’esistenza» non in termini di assunzione di una conoscenza certa e apodittica, bensì come pensiero che sente l’essere, lo percepisce, lo ascolta e lo legittima. ↩︎
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Cfr.: M. Forte, María Zambrano Nascere Dis-nascere Rinascere, pp. 20-21. ↩︎