Il dolore fisico nella riflessione filosofica

1. Introduzione

In termini biologici, la sensazione dolorosa rappresenta un sistema di allarme sensoriale ed emozionale con lo scopo di segnalare rapidamente un danno tissutale o un processo degenerativo in atto. Sulla scorta di questa segnalazione seguirebbe, quindi, un comportamento adattivo e un processo biologico di tipo reattivo. Tuttavia, quando si cerca di definire esattamente cosa sia il dolore, ci si trova di fronte a enormi difficoltà, in considerazione della sua natura poliedrica. Lo stesso termine dolore si utilizza ancora oggi in maniera ambigua sia a designare il dolore fisico sia a indicare il dolore morale come sinonimo di sofferenza: è usuale, infatti, parlare di sofferenza dopo un intervento chirurgico e di dolore dopo la morte di un congiunto e viceversa. Quest’ambivalenza del termine di dolore si riflette anche nella riflessione filosofica. Il dolore ha una base biologica così come la malattia. Non bisogna dimenticare che la sofferenza e la malattia sono eventi naturali, come inscritta nel disegno naturale è la morte. Tuttavia, dal punto di vista della prima persona, di chi soffre, non sono mai accettati come fatti naturali, perché negano la vita stessa. Il dolore allora, come contrassegno di ciò che esiste, diviene occasione di prova e di giudizio per l’intero senso dell’esistenza e non può non coinvolgere la riflessione filosofica.

2. I filosofi e il dolore

Il dolore è stato raramente tematizzato in forma esplicita e organica dalla filosofia occidentale e non è stato mai considerato come problema indipendente nella sistematica del sapere.1 Tuttavia, anche se il tema del dolore appare come un territorio ostico alla riflessione filosofica, la sua comprensione è uno degli obiettivi fondamentali e ineludibili della ricerca filosofica, quando quest’ultima intenda se stessa come risposta ai problemi fondamentali dell’esistenza. Per un lunghissimo tempo, i tentativi di dare una qualche spiegazione del dolore sono maturati in un intreccio inestricabile di filosofia e scienza. Ne deriva che una storia del dolore è obbligata a muoversi su due piani, quello fisico e quello metafisico.

Alcmeone di Crotone, vissuto nel V sec. a. C., elaborò una teoria secondo la quale la malattia e, di conseguenza, il dolore erano un’alterazione dell’isonomia, che è a fondamento dei rapporti tra gli organi che compongono il corpo; se uno di questi organi assume una posizione dominante (monarchia), ne deriva uno stato di sofferenza. Sempre ad Alcmeone si ispira la teoria ippocratica, secondo la quale il dolore è l’effetto di una discrasia, ossia di una disarmonia fra gli umori che regolano la vita dell’organismo. Il dolore in Ippocrate riconosce una causa oggettiva e fisica: ogni manifestazione dolorosa trova il suo corrispettivo in un particolare disequilibrio degli umori. Il dolore è strettamente connesso all’insorgere della malattia e il compito del medico è di rimuoverne la causa e, così facendo, promuovere la salute.2

In Platone il dolore rappresenta una frattura nell’equilibrio psicofisico dell’uomo e solo il piacere, come bene in sé, è in grado di ristabilire l’armonia e l’integrità. L’uomo è attratto dall’armonia e respinto dal caos, è attratto dalla gioia e respinto dal dolore. L’intimo legame tra corpo e anima rende presente alla sensibilità la mancanza di armonia come dolore. Esso ha non solo un’origine sensibile ma anche una morale. Il corpo con il dolore influenza lo spirito: sta allo spirito non farsi travolgere dal corpo, che prova dolore, imparando a controllarlo. Se ciò non avviene, è lo spirito stesso che è causa del dolore.3 Aristotele mette in contrapposizione piaceri e dolori, in quanto i primi sono attuazione di abiti, desideri o stati naturali e i secondi il contrario. In opposizione a Platone, Aristotele definisce il dolore come il temuto e la gioia come il desiderato, non in quanto essi sono 1’imperfetto e il perfetto in sé, ma in quanto appunto perfetto perché voluto, ambìto, cercato, 1’imperfetto perché paventato. Il dolore è un indice della situazione ostile e sfavorevole in cui 1’essere vivente si trova e, al contrario, la gioia indica una situazione favorevole. In sostanza, sia per Platone sia per Aristotele il dolore è un’emozione che svolge una funzione nell’economia dell’esistenza umana: per l’uno è indice di disarmonia, per l’altro di indesiderabile.4 Le scuole filosofiche sorte nel IV sec. a. C. (gli epicurei, gli stoici e gli scettici) hanno segnato una separazione pressoché totale tra filosofia e scienza empirica. Questi tre grandi indirizzi filosofici affrontano la questione del dolore, tenendosi esclusivamente su un piano di riflessione speculativa, destinata a tradursi in precetti, in suggerimenti per creare una disposizione d’animo atta a sopportare la sofferenza. Il dolore è inserito in una vicenda tutta interiore, che non prende nemmeno in considerazione un’indagine sulle sue cause materiali, al fine di rimuoverle. Epicuro suddivide il dolore in due diverse tipologie: il dolore forte e quello lieve. In entrambi i casi, il filosofo spiega per quale motivo è facile sopportarli. Infatti, se un dolore è intenso dura poco, al contrario se un dolore è debole ma cronico, il corpo umano lo rende, con il passare del tempo, impercettibile. Epicuro afferma testualmente:

Non dura ininterrottamente il dolore della carne ma il massimo permane un tempo brevissimo; e quello che appena supera il piacere corporeo non dura molto tempo. Le lunghe malattie poi arrecano alla carne più piacere che dolore.5

Con lo stoicismo il dolore non è più considerato nell’ambito morale del bene e del male. Esso è un errore del logos:è un falso giudizio o una falsa opinione circa un presunto male attuale. Per tale motivo è insignificante per il saggio e non può essere di preoccupazione per lui.6 Lo scettico raccomanda l’imperturbabilità. Anche il saggio, come tutti gli altri uomini, soffre il freddo o la fame, oppure è afflitto da malattie e da dolori, ma, non essendo in grado di decidere se queste evenienze siano un bene o un male, sospende il suo giudizio e ne guadagna rispetto al volgo una maggiore serenità o, quanto meno, un minore turbamento. Tuttavia, la sospensione del giudizio non consente la liberazione da ciò che è ineluttabile come il dolore. In questo caso, come sostiene Sesto Empirico, lo scettico almeno può raggiungere uno stato di «moderazione delle passioni» (metriopatheia).7 Con il Cristianesimo il dolore assume un ruolo centrale nella vita, perché rappresenta una frattura che apre la prospettiva del cambiamento, della conversione («metanoia»). Del resto, S. Paolo nella II Lettera ai Corinzi parla di un dolore e di una tristezza che sono da benedire, da accogliere con gioia, perché sono il segno del rinnovarsi della vita e dell’accedere a una dimensione nuova.8 Nel Cristianesimo il modello di vita diventa il Cristo sofferente, il cui dolore assume una funzione salvifica. Il problema allora non è liberarsi dal dolore, ma accettarlo e farlo fruttare come strumento di redenzione. Su questa linea si muove la riflessione filosofica di Sant’Agostino d’Ippona. Il male fisico è conseguenza del male morale, inteso come allontanamento volontario dall’ordine dell’essere. Tuttavia, esso ha anche un significato positivo, tramutandosi a volte in un punto di partenza per arrivare alla fede per vie imperscrutabili. In tal modo, Agostino supera una convinzione diffusa nel periodo precedente, che concepiva la malattia e il dolore esclusivamente come una sorta di punizione divina delle azioni umane. Tuttavia, nelle sue Confessioni egli mette in guardia da un’idealizzazione del dolore: «Vi sono così dolori che si possono approvare, nessuno che si debba amare».9 Tommaso d’Aquino interpreta il dolore come una passione dell’anima, sostenendo che quando soffre il corpo patisce anche l’anima:

Si dice che un dolore è nel corpo, perché nel corpo si trova la causa di esso: per esempio, quando soffriamo qualche cosa che nuoce al corpo. Ma il moto del dolore è sempre nell’anima: infatti, come si esprime Agostino, «il corpo non può soffrire senza che soffra l’anima».10 Inoltre: «il dolore esterno più volte è unito al dolore interno: e allora lo accresce.11

Tuttavia, la questione essenziale del significato del dolore per la vita dell’uomo, è vedere se la persona con la sua vita interiore, orientata liberamente e stabilmente nella direzione indicata dall’ordine etico e secondo quella pienezza che è l’abito morale della virtù, può governare il dolore, mitigarlo e addirittura arrivare a fargli cambiare il senso negativo. Per quanto riguarda il dolore fisico Tommaso riconosce che:

La virtù morale non è in grado di moderare e diminuire direttamente il dolore esterno sensibile: poiché codesto dolore non obbedisce alla ragione, ma è legato alla natura del corpo. Tuttavia può diminuirlo indirettamente per la ridondanza delle potenze superiori su quelle inferiori.12

Ora, questi casi di «ridondanza» della dimensione intellettivo-razionale, in virtù della ricchezza della vita interiore per la piena adesione al bene, cui consegue la gioia, non sono frequenti e, comunque, non eliminano il dolore, se non per un dono eccezionale della grazia:

Il dolore sensibile del corpo impedisce di sentire il godimento spirituale della virtù, a meno che la sovrabbondanza della divina grazia non sollevi l’anima alle cose di Dio, dove essa trova la sua gioia, in modo da non essere più afflitta dai dolori del corpo.13

Nei casi più comuni la virtù della fortezza, ove sia presente e operante nella vita personale, fa sì che la ragione non sia sopraffatta dai dolori fisici. Tommaso propose anche l’idea che la compassione altrui avesse la capacità di lenire il dolore del sofferente, condividendone il fardello e alleggerendone la pena.14 Con Cartesio si abbandona la concezione metafisica del dolore, che trova nel cervello la sua sede. Il dolore, infatti, giunge attraverso i nervi da un’affezione periferica del corpo nel cervello. Corpo e anima per la prima volta sono nettamente separati dal punto di vista antropologico. Tuttavia, il dualismo cartesiano non impedisce l’unità di corpo e mente. Cartesio non deve essere associato alle teorie meccanicistiche che ignorano l’effetto della mente sul corpo. Il dolore, infatti, è un fenomeno che dimostra l’esistenza del corpo e la sua unione con la mente:

Non vi è nulla che la mia natura mi insegni in maniera più evidente che io ho un corpo, che sta male quando sento un dolore. […] la natura mi insegna attraverso queste sensazioni di dolore, fame, sete ecc., che io non tanto mi trovo nel mio corpo come un marinaio si trova nella nave, ma che sono collegato a quello in modo strettissimo e quasi confuso, in maniera tale da costituire quasi una sola cosa con quello. Altrimenti, infatti, quando il mio corpo è colpito, io, che non sono nient’altro che una cosa che pensa, non sentirei perciò il dolore, ma afferrerei questa lesione col puro intelletto, come il marinaio percepisce con la vista se qualcosa si spezza nella nave.15

L’anima, la cui essenza è il pensare, il ragionare e il provare emozioni, consente all’uomo di percepire il dolore in maniera diversa a seconda della sua disposizione. In una lettera alla principessa Elisabetta di Germania, affetta da febbre, Cartesio scrive:

La salute fisica e la presenza di oggetti gradevoli aiuta molto la mente, scacciando da essa tutte le emozioni che contribuiscono alla tristezza e aprendo la strada a quelle che favoriscono la gioia. Al contrario, quando la mente è piena di gioia, ciò aiuta molto a far sì che il corpo goda di una migliore salute.16

Spinoza inserisce il dolore nell’ambito delle emozioni: è compreso nel concetto di tristitia, insieme al dolore psichico e associato al fenomeno della melanconia:

Vediamo quindi che la Mente può subire grandi cambiamenti, e passare ora da una certa perfezione ad una perfezione maggiore, e ora da una certa perfezione a una perfezione minore: e proprio queste passioni, o mutazioni della Mente, ci spiegano i sentimenti della Letizia e della Tristezza. Per Letizia, quindi, intenderò qui di seguito la passione per cagion della quale la Mente passa ad una perfezione maggiore; per Tristezza invece intenderò la passione per cagion della quale la Mente passa a una perfezione minore. Chiamerò poi Eccitazione, o Allegrezza, il sentimento della Letizia riferito insieme alla Mente e al Corpo; e chiamerò Dolore, o Melanconia, il sentimento della Tristezza riferito insieme alla Mente e al Corpo. Si deve però notare che l’Eccitazione e il Dolore si riferiscono all’Uomo quando una sola sua parte è interessata più delle altre da Letizia o da Tristezza, mentre l’Allegrezza e la Melanconia hanno luogo quando tutte le parti sono interessate in modo eguale.17

Secondo il neurobiologo Antonio Damasio alla filosofia di Spinoza si deve la conquista del concetto di unità psicofisica di mente e corpo. Lo studioso è particolarmente affascinato dal concetto spinoziano che la mente umana non possa percepire l’esistenza di un corpo esterno se non attraverso la modificazione del suo stesso corpo:

La Mente e il Corpo sono una sola e medesima cosa che è concepita ora sotto l’attributo del Pensiero ora sotto quello dell’Estensione. Per cui deriva che l’ordine, o la concatenazione delle cose, sono un’unica realtà, sia che la natura sia concepita sotto questo o quell’attributo e di conseguenza deriva che l’ordine delle azioni e delle passioni del nostro Corpo corrispondono per natura all’ordine delle azioni e delle passioni della Mente.18

Spinoza rompe con lo schema antagonistico, nel quale la ragione era assunta come specificazione essenziale dell’uomo in quanto animale razionale, e le passioni, in stretta connessione con gli impulsi tipicamente ferini, finivano per essere l’elemento perturbante; ciò che adombra la cristallina chiarezza della razionalità e il suo orientamento al bene, perciò erano da evitare, sottomettere, estirpare. Spinoza propone di comprendere l’umano in tutte le sue articolazioni e riconoscere che le passioni, anche quelle tristi o turpi, appartengono alla natura dell’uomo, unità inscindibile di mente e corpo. Il dolore assume un ruolo necessario nei filosofi dell’idealismo tedesco come motore della vita. Ne La missione del dotto Fichte indica il dolore come stimolo di ogni attività, giacché esso è intimamente legato al sentimento del bisogno e nella conseguente tensione verso il soddisfacimento.19 Secondo Hegel il dolore è un privilegio degli esseri più elevati, un privilegio della vita, dell’uomo; solo l’uomo, la natura, la natura vivente può sentire dolore, poiché solo la natura sta nel contrasto tra l’idea e la vita. Questo dissidio tra la vita e l’idea, percepito nella coscienza, è per Hegel la causa e la manifestazione del dolore: «così il vivente è per se stesso questo sdoppiamento e ha il sentimento di questo sdoppiamento che è il dolore».20 La separazione significa dolore: nel dolore si manifesta la coscienza del limite e dell’opposizione, esso è dunque la condizione da cui dipende il superamento del limite. Una complessa metafisica del dolore è elaborata da Arthur Schopenhauer. La stessa filosofia per il filosofo tedesco nasce dalla cognizione del dolore:

Ad eccezione dell’uomo, nessun essere si meraviglia della propria esistenza […] . La meraviglia filosofica […] è viceversa condizionata da un più elevato sviluppo dell’intelligenza individuale: tale condizione però non è certamente l’unica, ma è invece la cognizione della morte, insieme con la vista del dolore e della miseria della vita, che ha senza dubbio dato l’impulso più forte alla riflessione filosofica e alle spiegazioni metafisiche del mondo. Se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore, a nessuno forse verrebbe in mente di domandarsi perché il mondo esista e perché sia fatto proprio così, ma tutto ciò sarebbe ovvio.21

Se ognuno di noi non fosse che un puro soggetto sensoriale, «una testa d’angelo alata senza corpo»,22 non potremmo mai uscire dai fenomeni ma, poiché siamo corpo, non ci limitiamo a guardarci dal di fuori ma ci «sentiamo vivere», sentiamo che il corpo ci appartiene, che è l’oggetto con cui l’io tende a identificarsi e che tutto questo genera dolore, inteso come un desiderio di vivere che non trova soddisfazione completa. Alla ricerca dell’essenza della vita, Schopenhauer la scopre nella presenza della «volontà di vivere», una forza irrazionale e noumenica che spinge l’uomo a potenziare sempre più la sua esistenza corporea e ad arricchirla, senza rendersi conto che in questo modo egli accresce il dolore di vivere. La volontà di vivere produce dolore ma non per se stessa, per una sua connotazione maligna: il dolore, infatti, nasce quando la volontà di vivere si oggettiva nei corpi che, volendo vivere, esprimono una continua tensione, sempre insoddisfatta, verso quella vita che appare loro come sempre mancante di quanto essi vorrebbero. Quanto più si ha brama di vivere, tanto più si soffre. Quanto più si accresce la propria vita, arricchendola, tanto più si soffre. Non esistono rimedi definitivi per uscire dal dolore, poiché questo è connesso alla nostra stessa materialità. L’unica via d’uscita sembra essere quella prospettata dalla filosofia orientale, dell’ascesi intesa come volontaria e totale rinuncia alla corporeità. L’ascesi significa liberazione dell’uomo dal fatale alternarsi del dolore e della noia attraverso un cammino di purificazione, che scioglie l’uomo dall’esistere stesso, estirpando ogni desiderio di essere e di volere. È, infatti, un non volere trasformare la voluntas in noluntas: scompare l’io, l’individuazione, radice e destinazione della volontà. L’io perde il suo primato per liberarsi da se stesso e dunque dalla pretesa della volontà. Per gli utilitaristi la fuga dal dolore e la ricerca del piacere sono i criteri che riescono meglio a descrivere l’agire umano. Jeremy Bentham scrive:

La natura ha posto il genere umano sotto due padroni: il Dolore ed il Piacere. Spetta ad essi soltanto indicare quel che dovremmo fare, come anche determinare quel che faremo. Da un lato il criterio di ciò che è giusto o ingiusto, dall’altro la catena delle cause e degli effetti, sono legati al loro trono. Dolore e piacere ci dominano in tutto ciò che facciamo, in tutto quel che diciamo, in tutto quel che pensiamo: qualsiasi sforzo possiamo fare per liberarci da tale soggezione non servirà ad altro che a dimostrarla.23

Questa affermazione rappresenta il culmine dell’indagine di Bentham sulla natura umana, il manifesto del suo utilitarismo psicologico in senso edonistico. In ogni sua azione l’uomo ricerca come obiettivo principale sempre il conseguimento del proprio piacere personale, dove il termine «piacere» è utilizzato da Bentham come sinonimo di bene, vantaggio, felicità, mentre il termine «dolore» ha i suoi corrispettivi in danno, male e infelicità.24 Il dolore è un elemento centrale nella riflessione filosofica e nella vita di Nietzsche. Il significato del dolore è alla base della distinzione tra il mito di Dioniso e la vicenda di Gesù Cristo. Su questa distinzione Nietzsche fonda il proprio progetto filosofico. Sia Dioniso sia Cristo fanno esperienza di terribili dolori. Il «Crocifisso» simboleggia il rifiuto del mondo del divenire e delle sensazioni. Questo mondo è il male per il Cristianesimo che, quindi, rimanda a una realtà fuori dal mondo del divenire. Dioniso simboleggia l’affermazione dell’esistenza come tale. Nietzsche afferma che «Dioniso tagliato a pezzi è una promessa alla vita»,25 rinasce e rifiorisce nella sua distruzione, che è poi questo essere in frantumi. Il mondo di Dioniso mostra la visione del mondo come una serie di trasformazioni perpetue e senza scopo nel mare delle forze. È un mondo orribile per quelli che vogliono avere fiducia nella vita, essere ottimisti, credere in una divinità che possa offrire una via di salvezza da questa realtà. L’alternativa di Nietzsche è il totale nichilismo dionisiaco. Per entrare in rapporto con la vera natura del mondo, bisogna accettare questa realtà e considerare il dolore come una parte essenziale del mondo e della vita. Per Nietzsche il dolore è una reazione alla perturbazione dell’equilibrio, in seguito a un terribile shock che scuote il sistema nervoso. Tuttavia, l’equilibrio è impossibile da raggiungere. Ne consegue che il dolore è un aspetto inscindibile dalla vita. Esso è sia una reazione alla deformazione sia un catalizzatore di nuove formazioni. Ne Il crepuscolo degli dei Nietzsche afferma che «il divenire e il crescere, tutto ciò che garantisce il futuro, postula il dolore».26 Egli, che ha sofferto di forti emicranie durante la sua vita, ha posto il dolore al centro dell’esistenza.

Cercare di perseguire una vita senza dolore non solo è impossibile ma anche la rende priva di significato: la vita senza dolore semplicemente non è vita. Vivere fino in fondo il dolore, senza cercare consolazioni, accogliere un dolore totale e perfetto, è un’idea affascinante. In effetti, l’operazione del dolore perfetto si compie per Nietzsche solo se l’uomo si solleva in uno spazio, quello dell’oltre-uomo, nel quale non ci sono più ostacoli e pesi, non ci sono più rapporti e differenze, non ci sono più rischi e pericoli: uno spazio nel quale lo stesso dolore non è più contingente e, quindi, non è più tale, perché un dolore che non sorprende e non travolge sembra piuttosto assumere le fattezze di una sublime indifferenza. L’interpretazione fenomenologica del dolore ha superato la concezione dualistica cartesiana di divisione corpo-mente tramite il concetto di «intenzionalità». Per Husserl il contenuto della coscienza, il pensato, si identifica «intenzionalmente» alle cose pensate. Ciò significa che i concetti che pensiamo sono il frutto di un rapporto intenzionale che sussiste tra la coscienza e ciò di cui essa è cosciente. L’intenzionalità è ogni relazione che esiste tra il soggetto e il suo mondo; non risiede né nell’individuo né nell’oggetto ma nella loro relazione reciproca. Per Merleau-Ponty l’intenzionalità come relazione dell’individuo con il mondo circostante è essenzialmente mediata dal corpo. In questo modo il filosofo francese introduce il concetto di «corpo vivo», perché è attraverso questo corpo che l’individuo si apre al mondo, lo percepisce e prende coscienza di sé. Poiché ogni relazione dell’individuo con il mondo è intenzionale e ogni contatto dell’individuo con il mondo è mediato dal suo corpo, si può concludere che un individuo è sempre un uomo nel suo corpo vivo, che è in relazione permanente con il mondo circostante.

Solo in questa interazione, l’individuo stabilisce il proprio mondo con i relativi significati e prospettive specifiche. Inquadrare il dolore solamente in una mera prospettiva anatomopatologica, significa trascurare ciò che significa in termini umani fare esperienza del dolore. Il corpo che patisce il dolore è un individuo, costituito dal mondo circostante che influenza e dal quale è influenzato in ogni momento. In questa prospettiva, il dolore presenta caratteristiche particolari e uniche, dalla comprensione delle quali non si può prescindere per ogni intervento terapeutico. Il dolore coinvolge l’individuo nella sua totalità, catturando la sua attenzione, sollevando interrogativi, portando cambiamenti nella sua vita familiare, lavorativa, relazionale. Si può concludere che nella prospettiva fenomenologica il dolore non esiste in maniera isolata: ci sono individui con le loro particolarità che manifestano il dolore. Per tale motivo, nella sua unicità ogni individuo esprime il suo dolore in maniera particolare. La filosofia esistenzialista per un verso rivaluta il dolore come mezzo di perfezione morale, capace di rendere gli uomini consapevoli della loro uguaglianza nella sofferenza e della necessità della reciproca solidarietà, per un altro proclama il proprio pessimismo.

Karl Theodor Jaspers inquadra il dolore nell’ambito delle «situazioni-limite», cioè le situazioni decisive proprie della natura umana in quanto natura limitata e finita. Esse sono sempre sentite, sperimentate, pensate ai limiti dell’esistenza. Sono orizzonti estremi che segnano una discontinuità nell’esperienza, in quanto inconcepibili e incomprensibili alla natura umana. Nelle «situazioni-limite» l’esistenza si rivela a se stessa. Noi non le possiamo modificare, ogni ribellione contro di esse è insensata; possiamo solo constatarle, prenderne atto ma non comprendere il perché non sia possibile vivere senza lotta, senza peccato, senza dolore in un altro ambiente e tempo storico o senza morire. Di fronte a tali situazioni non resta che la rassegnazione. Ci sentiamo impotenti ma proprio per questo siamo indotti a ritenere che il carattere finito delle cose del mondo, della nostra esistenza, delle nostre conoscenze si regga su di un Essere supremo, infinito, illimitato e trascendente oltre tutti i nostri limiti. Sartre afferma che il dolore, come semplice vissuto, non è suscettibile di essere attinto. Per Sartre «la coscienza dolorosa è progetto verso una coscienza ulteriore che sarebbe priva di ogni dolore, cioè la cui struttura, il cui esserci sarebbe non-doloroso».27 Sartre, il quale si riferisce al dolore fisico, si guarda bene dal parlare di un’oggettivazione del dolore e si limita a considerare la coscienza dolorosa come progetto verso una coscienza vuota di dolore, una «fuga laterale», non potendo mai consistere una siffatta progettazione nel costituire il dolore come oggetto. La coscienza dolorosa non è che un tentativo di fuga da sé: proprio in questa sua tensione, proprio nel suo anelante movimento di liberazione, essa, pur non essendo intenzionale, è coscienza ed è effettivamente dolorosa, perché è impotente a liberarsi, crocifissa a ciò da cui vorrebbe fuggire. Il dolore fisico è l’irriducibile presenza di una fattualità che incrina la logica idealità della coscienza, la sua necessità intenzionale e che, quanto più la gonfia di sé, tanto più l’avvicina al baratro dell’annullamento, facendola vacillare sotto i colpi di una contingenza irresistibile. Ludwig Wittgenstein sostiene che il dolore sconvolge l’uomo come un evento sordo e muto, ma egli attraverso il linguaggio può esprimere il dolore, dandogli un senso e raggiungendo così un sollievo alla sofferenza. Wittgenstein inserisce la sua riflessione sul significato della parola «dolore» tra la sua critica alla posizione filosofica, che identifica il significato delle parole con gli oggetti e quello delle proposizioni come connessione tra oggetti. Wittgenstein afferma che «dolore» non è il segno di un oggetto, considerato come una sensazione privata. Come oggetto, il dolore dovrebbe essere indipendente dal soggetto che prova dolore. Tuttavia, non può essere considerato oggetto, perché non può essere dimostrato. Nel contempo, in quanto sensazione privata non sarebbe comprensibile dagli altri. Tuttavia, ciò avviene. Ne consegue che espressioni come «oggetto privato» ed «esperienza» conducono a un paradosso. Wittgenstein suggerisce che l’espressione verbale del dolore è meglio descritta come «comportamento»: questo comportamento è parte del dolore stesso. L’uso nella lingua ordinaria del termine «dolore» è associato a una serie di comportamenti manifesti che quindi diventano i criteri per la sua corretta utilizzazione.

A conclusione di questo excursus storico si può tracciare una sintesi delle principali linee interpretative del dolore. Nella filosofia antica il dolore è stato considerato un accadimento che rompe l’ordine armonioso dell’esistenza, così da lasciare al piacere il ripristino dell’equilibrio. Di qui le forme di atarassia o apatia che dovevano garantire l’immagine positiva della vita umana, liberata e scollegata dai suoi eventi luttuosi. Esorcizzare il dolore era la prima preoccupazione del filosofo, spesso fuggendo dalla vita medesima, isolandosi in uno spazio astorico e atemporale. I greci hanno due parole chiave che racchiudono mirabilmente il senso profondo dell’esperienza del dolore: álgos, che allude alla dimensione fisica (provo dolore, sono malato, soffro)e, pathos, parola che allarga il senso alla sofferenza emotiva e psichica, alla dimensione interiore (sono angustiato, afflitto, turbato). Se da un lato il dolore è riconosciuto nella sua materialità come in Ippocrate e in Epicuro, la sua inclusione nella sfera più ampia della sofferenza anche dell’anima è già in atto in Platone e arriva fino agli stoici. Con l’avvento del Cristianesimo, il dolore assume una valenza positiva: si tratta di un’occasione preziosa di rinnovamento per la vita, poiché negarlo significa negare la vita stessa. Il dolore e la sofferenza sono inscindibili ed entrambi coinvolgono l’anima e sono parte del suo cammino di purificazione e incontro con Dio. La soluzione proposta dai filosofi razionalisti in generale è quella di eliminare la consistenza del dolore, che come tale risulterebbe una debolezza intollerabile in una visione dove tutto ha una ragion d’essere e si presenta come logicamente deducibile. Per Nietzsche, il problema dell’uomo non è la sofferenza in se stessa ma la sua mancanza di senso, la sua assurdità. Il nonsenso del dolore, del resto, è per lui parte del nonsenso della vita. La soluzione è nella ribellione e nel ricorso all’energia volitiva, alla volontà di potenza propria della soggettività del «superuomo»per superare qualsiasi limite opposto dalle forze cosmiche. Il dolore e la sofferenza sono nello stesso tempo parti inscindibili e limiti della vita. In termini esistenziali il dolore non è solo un evento meramente fisico ma rappresenta la condizione dell’uomo in quanto essere limitato e mortale. L’esistenza non può essere sperimentata in tutta la sua complessità, se pretende di sfuggire alla dialettica fra vita e morte, fra felicità e dolore. Accettando la nostra condizione di temporalità, siamo in grado di fronteggiare maggiormente gli aspetti della nostra esistenza che ci appaiono sentenze di morte e verso cui, da sempre, ci rapportiamo con imbarazzo. Il dolore e la sofferenza psichica si compenetrano nell’unità inscindibile di corpo e mente. In questo modo la filosofia abbandona la mera conoscenza oggettuale e si apre all’emozione e, a lungo andare, rappresenta una valida fonte di aiuto e di cura, non solo per se stessi ma anche per gli altri.

3. Ontologia del dolore

Nelle teorie edonistiche il dolore è semplicemente visto come una sensazione sgradevole, strettamente legata alla sua radice corporea. Da ciò deriva che la sofferenza fisica deve essere combattuta in quanto minaccia al proprio benessere. Il dolore, tuttavia, non è semplicemente una sensazione ma è anche un sentimento, come ci insegna la fenomenologia. La sua percezione è data da una diminuzione o da una disorganizzazione delle funzioni vitali dell’organismo. Il dolore è qui patologia, lamento, spasmo. Il suo sentimento, invece, è l’impatto di questa sensazione dolorosa sulla persona. In questo atto riflesso, il dolore investe globalmente l’individuo, la sua progettualità, la sua ricerca di senso. In quest’ottica, come già esposto nel capitolo precedente, la definizione del dolore, data dall’Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (IASP), è chiara nell’affermare che esso non è solo una sensazione fisica, legata a un danno organico in atto o potenziale, ma anche un’esperienza emotiva. Le emozioni sono portatrici di significato che va ben oltre il territorio della mera sensazione fisica. Le emozioni hanno senso perché ci portano ad agire nel mondo, come denota l’etimo della parola dal latino ex=fuori+movere=muovere, cioè portare fuori, smuovere. Nella riflessione filosofica fenomenologica si è sviluppata la concezione che le emozioni sono da valutare non solo come fenomeni puramente fisici ma anche come esperienze significative, che svelano un mondo di oggetti, azioni, pensieri, comunicazione umana. In Essere e TempoHeidegger afferma che la tonalità affettiva costituisce l’orizzonte di apertura dell’ente, che è l’uomo, rispetto a se stesso e al mondo; il suo esser-ci, il «ci» dell’esserci (Dasein), sono determinati e dipendono esclusivamente dall’emotività. Le emozioni, sono alla base del nostro «stare nel mondo», poiché ce lo svelano come fonte di significato per noi. Sono gli strati fondamentali della «fattualità», il nostro essere gettati nel mondo prima di aver fatto qualsiasi pensiero o scelta al riguardo. Le varie emozioni semplicemente sono presenti come le basi costitutive del trovarci nel mondo. In effetti, noi non scegliamo le emozioni che ci troviamo a vivere; esse ci sopraffanno e non possono essere cambiate facilmente.28 Alcuni stati d’animo, come il dolore, sono più pervasivi e coinvolgenti di altri: è probabilmente impossibile provare un improvviso e intenso dolore senza che traspaia il relativo stato emotivo. Nella maggior parte dei casi le emozioni rimangono sullo sfondo della nostra attenzione, pur tuttavia fornendo significato e coerenza al modo nel quale viviamo. Le emozioni non solo influenzano la valenza positiva o negativa delle singole esperienze che una persona vive nel mondo, ma condizionano anche l’intero modo nel quale esse si mostrano alla persona. Il mondo di chi prova dolore è totalmente differente da quello di chi prova gioia, sia nella sua totalità sia in ogni singolo aspetto. In sostanza, il dolore consiste nel percepire non solo il corpo che ne è colpito ma anche l’intero «mondo della vita» (Lebeswelt) in maniera sofferente. Nel dolore fisico il mondo si restringe: l’attenzione è costretta a focalizzarsi sul corpo che fa male e a tralasciare le altre esperienze. Tuttavia, ciò non significa che la sperimentazione del dolore riguarda solo il corpo. La struttura del mondo circostante cambia in presenza del dolore, nel senso che la persona sofferente percepisce tutto in un modo nuovo. Si pensi a come un raggio di luce possa catturare l’attenzione di chi si trova a soffrire il freddo rispetto a chi è in preda ad un attacco di emicrania! Il dolore interrompe il normale esprimersi della soggettività nel mondo. È un’aggressione alla persona nella sua interezza. È sofferenza perché è un’«emozione bloccata»: non può essere scacciata, oppure tollerata o integrata, ma può essere solo sopportata. Il filosofo Christian Grüny parla di un «un movimento bloccato di fuga» (eine blockierte Fluchtbewegung): si cerca di evitare il dolore ma ciò non è possibile perché il corpo, sede del dolore, non può essere annullato.29 Agustin Serrano de Haro spiega così questo concetto:

Nel dolore fisico, la sensibilità percettiva corporea, che è normalmente aperta al mondo, ritorna verso l’interno, scorre indietro, senza nessuna uscita intenzionale, senza nessuna tensione ad altro, racchiusa in una possibile rivelazione inattesa di se stessa.30

Dal punto di vista fenomenologico nel dolore, così come in altri tipi di sofferenza fisica, il «corpo vivo», cioè il corpo inteso come il modo di esistere ed entrare in contatto con il mondo, assume una valenza aliena, mostrandosi come un ostacolo, una limitazione, invece di essere un’opportunità. Il corpo che prova dolore si manifesta in maniera negativa, tutto il contrario di quello che succede in situazioni di benessere fisico, quando il corpo scompare, nel senso che rimane nello sfondo del nostro campo percettivo. Il filosofo Drew Leder ha chiamato dysappearance lo stato del corpo sofferente e disappearance quello del corpo in condizioni fisiologiche.31 Sebbene il corpo sia una presenza imprescindibile dei nostri vissuti, esso è anche essenzialmente caratterizzato dall’assenza, perché è raramente l’oggetto dell’esperienza di un individuo. Normalmente l’attenzione è diretta intenzionalmente verso il mondo esterno e raramente dimora nella propria incarnazione. Il corpo di solito tende a sparire dalla nostra attenzione, finché funziona senza problemi. Appena sono presenti disfunzioni, è proprio in questa situazione che si sperimenta il corpo come assenza, fuori dallo stato ordinario desiderato. In sostanza, il dolore comporta una condizione di non sentirsi a casa nel proprio corpo. Tuttavia, il dolore non è solo una sensazione che fa sentire il proprio corpo come un alieno ma è anche un’emozione e come tale investe l’intera esistenza dell’individuo, i suoi progetti e i suoi obiettivi; la coinvolge in modo negativo, ostacolandone le azioni. Sicuramente un corpo che prova dolore può impedire di passeggiare, giocare, partecipare attivamente a una conversazione.

Il libro La sofferenza del corpo, scritto da Elaine Scarry, descrive in maniera precisa cosa possa causare il dolore alla vita di un uomo.32 Scarry prende in considerazione la tortura. Torturare una persona è rendere non solo il suo corpo ma anche l’intero mondo circostante alieno. L’autrice descrive come la tortura faccia uso di oggetti ordinari della vita quotidiana come il letto, il tavolo, la vasca da bagno, le sedie, trasformandole in armi utilizzate per torturare la vittima. Il mondo circostante, nonostante la sua familiare apparenza, si tramuta in un ambiente ostile. Inoltre, gli interrogatori e l’isolamento distruggono la capacità della vittima di esprimere se stessa. Il dolore causa anche un collasso di tutti i tentativi della vittima di trovare un senso e uno scopo. È arduo trovare parole per esprimere cosa si prova nel dolore e ciò porta in ultima analisi a una mancanza di autocomprensione di questo vissuto. La tortura evidenzia in maniera estrema le caratteristiche salienti presenti in ogni forma di dolore severo: l’esperienza di passività e di essere violato. Infatti, la metafora di essere ferito da un’arma, quando si tenta di descrivere l’esperienza del dolore, è illuminante: il dolore è una sorta di stato passivo, in cui qualcosa di negativo è inflitto da un’altra persona, come nella tortura, oppure dal corpo stesso, come nel dolore fisico. Nell’analisi di Scarry all’opposto del dolore c’è il «lavoro»: il dolore distrugge il mondo dell’individuo mentre il «lavoro» è creativo. Per comprendere questo concetto si può considerare l’esperienza del parto. Molte donne dichiarano che il dare alla luce un bambino è stata per loro la gioia più grande e il più grande dolore: ma la sofferenza per loro era assente.33 Quando il dolore è finalizzato a uno scopo carico di significato positivo, come il generare una nuova vita, la sofferenza scompare. In sostanza, mentre il dolore aliena l’individuo non solo dal suo corpo ma anche dal mondo delle relazioni, il «lavoro» è la possibilità di trasformare non solo il proprio relazionarsi con il corpo ma anche con gli altri e con i propri obiettivi vitali, in modo da poter riacquistare uno stare nel mondo familiare. In quest’ottica il dolore, anche se non si può sopprimere, può essere contrastato nell’immergersi in attività che tornino a dare senso alla vita. Trovarsi immerso nel dolore può essere una spinta a fare attività che possano impedire di soccombere alla sofferenza e ridare significato alla propria esistenza. Il dolore può assumere il valore di un processo di trasformazione che può condurre a modificare i valori essenziali di condotta di vita e a renderla più autentica.

La filosofa Kay Toombs ha descritto in maniera precisa come il suo mondo sia stato trasformato dalla sua malattia: la sclerosi multipla. Questa patologia comporta sia la comparsa di dolore cronico sia la presenza di riduzione delle capacità fisiche con la compromissione della possibilità di svolgere attività, che in condizione di ottimale stato di salute sarebbero agevoli da compiere. Ciò comporta una trasformazione del modo di pensare, provare sensazioni e agire: il proprio mondo cambia in maniera radicale. Toombs scrive:

Mi trovo a osservare studenti correre attraverso il campus universitario oppure colleghi salire le scale due per volta e mi stupisco della loro capacità di compiere queste azioni senza sforzo. Per quanto mi possa sforzare, non posso più ricordare come fosse facile muoversi così. Non è semplicemente che non posso ricordare l’ultima volta che ho salito le scale. È che non posso ricordare, immaginare ancora la sensazione fisica del movimento.34

Il dolore trasforma il mondo perché non è più possibile vivere come prima. L’armonia tra pensieri, corpo e mondo è interrotta. Focalizzando la propria attenzione unicamente sul dolore che si prova a svolgere i movimenti, ciò che prima era compiuto automaticamente e senza problemi, come il semplice salire le scale, necessita di spendere energie fisiche e mentali per poterlo compiere: si ha una contrazione del proprio mondo, che è assorbito da un semplice atto. Si vive in modo limitato, frustrante e pieno di rinunce. Non è solo il corpo che è ostacolato dall’esperienza dolorosa ma anche la vita relazionale. L’antropologa finlandese Marja Liisa Honkasalo descrive il dolore come una relazione incarnata con il mondo: la sofferenza del corpo si riflette in un mondo ostile.35 Le persone non sofferenti sono capaci di aprirsi agli altri, mentre il dolore le fa racchiudere in se stesse. Più il dolore è forte e più diventa una prigione, un restringimento della realtà. È l’esistenza che arretra. Questa caratteristica ha fatto parlare del dolore come di un’esperienza puramente individuale che non può essere condivisa con gli altri. Il filosofo Salvatore Natoli sottolinea la solitudine come caratteristica saliente di chi soffre:

Il dolore rende soli perché l’elemento repellente da un lato restringe la vita, dall’altro allontana chi osserva: in tutto ciò il dolore si fa sempre più intimo alla morte e la raffigura. E la morte è sempre e solamente mia. Il cerchio di solitudine si rafforza da sé poiché da un lato il dolore rende oggettivamente estranei, dall’altro è il sofferente che si rende estraneo al mondo a cagione del suo dolore.36

Tuttavia, persiste la volontà di uscire da questo isolamento e unirsi agli altri. Quando la comunicazione si sfalda e le parole non sono più in grado di esprimere la propria sofferenza interviene il lamento come estremo tentativo di dare conto del dramma vissuto. Scrive Paul Ricœur:

La sofferenza non si limita a essere, ma a essere in eccesso. Soffrire è sempre soffrire troppo. È messo a nudo, a partire da qui, il paradosso del rapporto con l’altro. Da un lato, sono io che soffro e non l’altro, i posti che occupiamo non sono intercambiabili; d’altro lato nonostante tutto e a dispetto della separazione, la sofferenza che si manifesta nel lamento è appello rivolto all’altro; richiesta, forse impossibile da esaudire di un soffrire senza riserve.37

Il dolore quando diventa «grido» si apre al mondo di relazione dell’individuo e questo aspetto deve essere considerato per comprendere più profondamente questa esperienza. Sociologi e antropologi hanno ampiamente dimostrato che la percezione e l’espressione del dolore sono costruzioni sociali e culturali. Infatti, la soglia di percezione del dolore e la sofferenza a essa legata differiscono in condizioni sociali e culturali diverse. Anche l’espressione del dolore varia in base all’appartenenza culturale, sociale e religiosa, all’età e all’essere uomo o donna.38 La maniera con cui si percepisce e si esprime il proprio dolore si avvale degli elementi culturali e sociali in cui si è immersi. Ogni persona ha oltre che un passato, un futuro, che apre l’esistenza a una prospettiva tendenzialmente illimitata di possibilità e in cui dimora la speranza, come attesa e certezza di un bene che deve realizzarsi. La perdita di questa prospettiva è causa della più grande sofferenza, soprattutto perché spoglia l’individuo di tutte le immagini illusorie, costringendolo a confrontarsi con la realtà estrema della propria fine e, quindi, con le ragioni della speranza. Il dolore modifica il modo di interpretare il passato e il futuro: il passato diventa spesso un paradiso perduto, mentre il futuro assume un connotato negativo di ulteriori e maggiori sofferenze fino anche alla morte.39 Il normale fluire del tempo sembra concentrarsi sull’attimo, sull’impegno che esso richiede. Pare naufragare il futuro, in questo istante: soprattutto quando il dolore è cronico. Quando si è in stato di benessere fisico, si può esplorare il passato tramite i ricordi e prospettare il futuro con l’immaginazione; quando si è in preda al dolore, si vuole dimenticare il passato di sofferenza e non si riesce a concepire un futuro senza dolore. Questo contrarsi del tempo nel presente comporta anche la rottura della struttura narrativa della vita. L’idea che una persona è una «narrativa» va interpretata in modo metaforico. La vita non è un racconto, scritto o narrato, in senso stretto. Tuttavia, la vita di una persona ha chiaramente una struttura temporale, comprendente un inizio e una fine, e anche una struttura narrativa, nel senso che la vita acquista un significato per chi la vive e forse anche per le persone che cercano di comprenderla. Quando si cerca di comprendere gli eventi e i personaggi del mondo circostante e anche se stessi, ci si serve di racconti. La struttura narrativa è il luogo da cui deriva la coerenza di una vita: non è sufficiente la semplice continuità temporale, c’è bisogno anche di una narrativa per comprendere e mostrare chi si è. Il filosofo Paul Ricœur precisa: «La comprensione che ognuno ha di se stesso è narrativa: non posso cogliere me stesso al di fuori del tempo e dunque al di fuori del racconto».40

Il dolore che comprime tutta l’esistenza sul presente di sofferenza e rompe la struttura narrativa della propria vita porta alla distruzione della propria identità. La sofferenza fisica può essere influenzata anche da eventi che impediscono di realizzare i valori che sono basilari per un individuo. Un esempio può servire a chiarire questo concetto. Il dolore che colpisce le dita, impedendo loro di muoversi, è molto più importante per un musicista professionista, che non può più suonare il suo strumento, rispetto a un professore di filosofia, che trova minor ostacolo alla sua professione. In sostanza, la sofferenza connessa al dolore dipende dai valori e dai giudizi che guidano la vita dell’uomo e rendono le cose che gli accadono più o meno significative per lui. Il filosofo Charles Taylor nel suo libro Le radici dell’io illustra come la vita di un individuo sia strutturata in base a questi valori e giudizi. In particolare, Taylor introduce il concetto di «valutazioni forti»: sono valutazioni qualitative di cose che si desiderano e si apprezzano nella vita come il buon cibo, la sicurezza, il divertimento, l’amore. In questo modo, i desideri sono classificati in quanto appartenenti a modi di vita qualitativamente differenti (per esempio, vita coraggiosa o pusillanime, alienata o libera, etc.). Le «valutazioni forti» riguardano anche valori morali come il rispetto per la vita, la responsabilità. In sostanza, sono criteri di scelta che un individuo applica per rendere degna la vita ai propri occhi. Queste «valutazioni forti» guidano anche le relazioni con gli altri. Se il dolore impedisce di vivere in base a questi indirizzi valoriali la sofferenza si acuisce, perché la vita diventa insignificante.

4. Il dolore tra alienazione e sopportazione

Il dolore fa prendere coscienza del corpo come di un’entità aliena, che sfugge al controllo. In quanto «corpo vivo» quest’alienazione rende il mondo ostile, impoverito e duro da tollerare, perché il dolore costringe la persona a ripiegarsi unicamente su se stessa e a ritrarsi dalle relazioni vitali. Il dolore impoverisce la vita e rafforza l’isolamento. Non solo la vita ma anche l’identità personale è alienata. L’esempio della tortura illumina i tratti salienti della sofferenza fisica: è un’esperienza di essere aggredito e violato in un totale stato di inerme passività. Il dolore ammutolisce il linguaggio perché è difficile descrivere un’esperienza che si presenta priva di significato. Il dolore fisico non è sicuramente la peggiore forma di sofferenza ma è quella più complessa da riempire di senso e da trasformare in un’esperienza ragionevole. È fondamentale per la ricerca medica e bioetica comprendere questi molteplici aspetti della sofferenza fisica. Non solo, ma proprio l’ignoranza o la negazione della complessità multidimensionale della persona possono contribuire in maniera determinante a generare sofferenza.Il dolore si può subire ma anche sopportare, cioè si può affrontare e in qualche misura controllare, anziché farsene travolgere, piegarlo, se non spiegarlo, renderlo funzionale al proprio progetto di vita, addirittura considerarlo un mezzo per ottenere il proprio fine. In questo senso, il massimo della passività si può rovesciare nel massimo di attività e in tutte le tradizioni morali la capacità di affrontare con coraggio, con determinazione e con dignità le avversità e le sofferenze, tra cui anche il dolore fisico, è considerata la forma più alta di virtù, cioè di capacità in cui si esprime l’eccellenza umana.


  1. Nell’Enciclopedia Filosofica Garzanti(Garzanti, Milano 1981), per fare un esempio, non compare nessuna voce «dolore», mentre il Dizionario di filosofia, curato da Paolo Rossi(La Nuova Italia, Firenze 1996) gli dedica appena una colonna e mezza. ↩︎

  2. Cfr. S.E. Sculin, Hippocratic pain, Publicly Accessible Penn Dissertations, Paper 578. ↩︎

  3. Cfr. H.K. Kotobi, Le dualisme du corps et de l’esprit a l’éprouve de la douleur, II, L’Harmattan, Parigi, 2009, p. 23. ↩︎

  4. Cfr. P.A. Rossi, L’arco e la lira, antropologia del dolore nella filosofia classica, «Anthropos & iatria», II, (1998). ↩︎

  5. Epicuro, Massime capitali, tr. it. di L. Gianicola, Armando, Roma, 2007, p. 116. ↩︎

  6. Cfr. R. Rey, Histoire de la douleur, La Découverte, Parigi, 2011, p. 51. ↩︎

  7. Cfr. J. Annas, La morale della felicità in Aristotele e nei filosofi dell’età ellenistica, Vita e Pensiero, Milano, 1997, p. 288. ↩︎

  8. Cfr. G. Tagliavia, Il dolore: una ferita incurabile, in AA. VV., Il dolore e la speranza, a cura di L. Alici, Aracne, Roma, 2011, p. 45. ↩︎

  9. Agostino d’Ippona, Le confessioni, libro III, capitolo II, paragrafo V, BUR, Milano, 2008, p. 125. ↩︎

  10. Tommaso D’Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 35, a.1, ad 1, a cura dei Domenicani Italiani, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1985. ↩︎

  11. Ibidem, I-II, q. 35, a. 7. ↩︎

  12. Ibidem, III, q. 46, a. 6, ad 2. ↩︎

  13. Ibidem, II-II, q. 123, a. 8; cfr. ad 3. ↩︎

  14. Cfr. B. Mondin, Dizionario enciclopedico del pensiero di Tommaso d’Aquino, ESD, Bologna, 1992. ↩︎

  15. R. Descartes, Meditazioni metafisiche, a cura di A. Lignani, Armando, Roma, 2008, p. 135. ↩︎

  16. R. Descartes, Correspondance avec Elisabeth (1643-1645). Descartes à Elisabeth novembre 1646, Philosophie, Grenoble, 2010, p. 118. ↩︎

  17. B. Spinoza, Vivere da umani. L’Ethica ordine geometrico demonstrata, tr. it. di R. Peri, III, prop. 11, Aedes Spinoziana, Bologna, 2001, p. 60. ↩︎

  18. A. Damasio, Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, tr. it. di I. Blum, Adelphi, Milano, 2003, p. 254. ↩︎

  19. Cfr. G. Tagliavia, Il dolore: una ferita incurabile, cit., p. 47. ↩︎

  20. G. F.W. Hegel, Scienza della logica, II, Laterza, Bari, 1968, p. 874. ↩︎

  21. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. it. di N. Palanga, G. Riconda, A. Vigliani, Mondadori, Milano, 1992, pp. 938-39. ↩︎

  22. «In realtà sarebbe impossibile trovare il significato di questo mondo che ci sta dinanzi come rappresentazione, oppure comprendere il suo passaggio da semplice rappresentazione del soggetto conoscente a qualcosa d’altro e di più, se il filosofo stesso non fosse qualcosa di più che un puro soggetto conoscente (una testa d’angelo alata, senza corpo).» (Ibidem, pp.137-138). ↩︎

  23. J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, a cura di E. Lecaldano, Utet, Torino, 1998, p. 89. ↩︎

  24. Ibidem, pp. 90-91 «Per utilità si intende quella proprietà di un oggetto per mezzo della quale esso tende a produrre beneficio, bene o felicità (in questo contesto tutte queste cose si equivalgono), oppure ad evitare che si verifichi quel danno, dolore, male o infelicità (di nuovo tutte cose che si equivalgono) […].» ↩︎

  25. F. Nietzsche, Volontà di potenza,a cura di M. Ferraris, P. Kobau, Bompiani, Milano, 2008, frammento 1052, p. 554. ↩︎

  26. F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, Rusconi, Milano, 2015, p. 123. ↩︎

  27. J. P. Sartre, L’essere e il nulla ,Il Saggiatore, Milano, 2002, p. 392. ↩︎

  28. Cfr. M. Heidegger, Tempo e essere ,tr. it. di M. Chiodi, Longanesi, Milano, 2005. ↩︎

  29. Cfr. C. Grüny, Zerstörte Erfahrung: Eine Phänomenologie des Schmerzes, Königshausen & Neumann, Würzburg, 2004, p. 118. ↩︎

  30. A. Serrano de Haro, New and old approaches to the phenomenology of pain, «Studia Phaenomenologica», XII, 2012, p. 232. ↩︎

  31. Cfr. D. Leder, The absent body, University of Chicago Press, Chicago, 1990, p. 69. ↩︎

  32. Cfr. E. Scarry, La sofferenza del corpo. La distruzione e la costruzione del mondo, Il Mulino, Bologna, 1990. ↩︎

  33. Cfr. D. Le Breton, Esperienze del dolore, tr. it. di M. Gregorio, Raffaello Cortina, Milano, 2014, p. 209. ↩︎

  34. K. Toombs, Reflections on bodily change: The lived experience of disability, in AA. VV., Handbook of phenomenology and medicine, a cura di K. Toombs, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht, 2001, p. 254. ↩︎

  35. Cfr. M.L. Honkasalo, Chronic pain as a posture towards the world. «Scandinavian Journal of Psichology, XIV (2001), pp. 197-208. ↩︎

  36. S. Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale,Feltrinelli, Milano, 2002,p. 29. ↩︎

  37. P. Ricœur, La souffrance n’est pas la douleur, in Souffrances. Corps et âmes, èpreuves partagées, a cura di J. M. von Kaenel, Autrement, Parigi, 1994, p. 68. ↩︎

  38. Cfr. D. Le Breton, Esperienze del dolore, cit. pp. 57-58. ↩︎

  39. Cfr. F. Svenaeus, Illness as unhomelike being-in-the-world: Heidegger and the phenomenology of medicine, «Medicine, Health Care and Philosophy», XII, 2011, pp. 333-43. ↩︎

  40. P. Ricœur, La componente narrativa della psicanalisi, tr. it. personale, «Metaxù», V, 1988, p. 8. ↩︎