Margini e marginalità dell’uomo nell’«entropologia» di Lévi-Strauss. Un problema filosofico contemporaneo

L’uomo chiese una volta all’animale: perché non mi parli della tua felicità e soltanto mi guardi? L’animale dal canto suo voleva rispondere e dire: ciò deriva dal fatto che dimentico subito quel che volevo dire — ma subito dimenticò anche questa risposta e tacque; sicché l’uomo se ne meravigliò.

— F. W. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita

1. La prospettiva “entropologica” di Lévi Strauss

Nel 1955 Claude Lévi-Strauss pubblica Tristi Tropici, una sorta di resoconto intellettuale scritto in soli quattro mesi sui viaggi che condusse nelle foreste del Brasile dal 1935 al 1939. Le suggestioni del Mato Grosso animarono la fervida e rara capacità di lettura del mondo e dell’uomo di Lévi-Strauss, allora ventisettenne deluso dalla bocciatura al College de France, dal divorzio dalla prima moglie e in genere da tutto ciò che la laurea in filosofia conseguita nel 1931 non lo saziava intellettualmente:

Ho cominciato allora a capire che tutti i problemi, gravi o futili, possono essere liquidati applicando un metodo sempre identico, che consiste nel contrapporre due punti di vista tradizionali sulla questione […] Queste esercitazioni diventano presto del tutto verbali, fondate come sono su giuochi di parole elevati ad arte che prendono il posto della riflessione, mentre le assonanze fra i termini, le omofonie e le ambiguità forniscono progressivamente la materia di questa teatralità speculative, dalla cui ingegnosità si riconoscono i buoni lavori filosofici. Cinque anni di Sorbona si riducevano al tirocinio di questa ginnastica evidentemente pericolosa.1

L’attacco frontale alla filosofia che Lévi-Strauss sferra nella prima parte di Tristi Tropici non può essere considerato solo una forma di nausea intellettuale di un soggetto particolare alle prese con la sua esperienza personale: il “disgusto” per quella «specie di contemplazione estetica che la coscienza operava su se stessa»,2 vista a posteriori, nell’ottica del contributo che Lévi-Strauss ha dato a tutte le scienze umane del nostro recente passato, suona più come un’esigenza squisitamente filosofica: l’esigenza di rapportare il privilegio di chiarezza speculativa della filosofia con una esperienza sul campo che potesse portare a compimento un itinerario armonico di pensiero e di vita. In questo senso, l’etnografia poté dunque rappresentare il ponte ideale fra gli studi, in cui peraltro Lévi-Strauss eccelleva, e una “sete di alterità” che presto lo condusse a una fama internazionale in quanto antropologo, ma ancor prima in quanto uomo di cultura.

Se Goethe, in una lettera a Schiller del 1798 disse: « del resto mi è odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività»3, siamo autorizzati a pensare che Lévi-Strauss abbia incarnato perfettamente questa insoddisfazione, ancor più del Nietzsche “vitalista” e rintanato nelle tristi stanze della Torino di fine ’800, in via Carlo Alberto n. 6.

Lungi, in questa sede, dal riportare l’effettivo lavoro etnografico dell’antropologo francese illustrato in Tristi Tropici, è utile concentrarsi ancora sulla tipologia filosofica del suo approccio al mondo in quanto teatro della realtà:

Questa evoluzione che ho subito contemporaneamente ad altri uomini della mia generazione, si colorava nondimeno di una sfumatura particolare, in relazione all’intensa curiosità che, fin dall’infanzia, mi aveva spinto verso la geologia; ricordo infatti con particolare soddisfazione, più che la rischiosa spedizione in una zona sconosciuta del Brasile centrale, la ricerca della linea di contatto fra due strati geologici, lungo i fianchi d’una altura del Languedoc. Non si tratta qui di una passeggiata o d’una semplice esplorazione dello spazio: questa ricerca, incoerente per un osservatore ignaro è per me l’immagine stessa della conoscenza, delle difficoltà che presenta, delle gioie che se ne possono attendere.

Ogni paesaggio si presenta dapprima come un immenso disordine, che lascia liberi di scegliere il senso che si preferisce attribuirgli.4

Ecco che “il paesaggio” diventa per Lévi-Strauss l’orizzonte della conoscenza per antonomasia. Oltre i tecnicismi gnoseologici dell’empirismo inglese moderno, oltre il pragmatismo schematico di certa filosofia analitica anglosassone contemporanea, il mondo come esteriorità è oggetto di filosofia già solo come alterità in quanto tale, come esperienza di trascendimento del soggetto attraverso la conoscenza della realtà, come respiro cosciente di vita. Del resto, l’antropologia di Lévi-Strauss usa le connessioni tra i segni culturali per ricostruire sistemi di relazioni validi universalmente, il che porta questa disciplina su validi binari scientifici. Il viaggio e l’osservazione partecipante (Malinowski), in questo senso, sono lo specchio concreto di ciò che l’intelletto fa con i concetti; uno specchio che riflette i vari modi in cui la conoscenza opera e può operare in collaborazione fra le sue parti. L’antropologia e l’etnografia, in questo senso, rappresentano con piena legittimità aspetti della filosofia, rami di essa che con autorità contribuiscono alla coscienza del soggiorno enigmatico dell’uomo nel mondo. L’antropologia culturale di Lévi-Strauss, in particolare, eredita pienamente numerosi aspetti paradigmatici della filosofia del ’900: il congedo dalle speculazioni onnicomprensive della realtà, dalle grandi narrazioni e in genere dalla tradizione di pensiero occidentale, che lentamente ha visto dipanarsi il suo tramonto. Se si passa il gioco di parole, è singolare, in un certo senso, come le derive della filosofia cosiddetta “continentale”, si siano tramutate, in Lévi-Strauss, in approdi intercontinentali.

Approdi che sorprendentemente spostano la centralità del tramonto occidentale in un tramonto ben più ampio: quello dell’uomo in quanto soggetto privilegiato della storia. Non è solo l’etnocentrismo il pericolo dell’uomo occidentale, quanto piuttosto lo stesso antropocentrismo che lo anima. Il passo più suggestivo e profondo di Tristi Tropici sta proprio nelle sue pagine conclusive:

Il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui. Le istituzioni, gli usi e i costumi che per tutta la vita ho catalogato e cercato di comprendere, sono un’efflorescenza passeggera d’una creazione in rapporto alla quale essi non hanno alcun senso, se non forse quello di permettere all’umanità di sostenervi il suo ruolo. Sebbene questo ruolo sia ben lontano dall’assegnarle un posto indipendente e sebbene lo sforzo dell’uomo — per quanto condannato — sia di opporsi vanamente a una decadenza universale, appare anch’esso come una macchina, forse più perfezionata delle altre, che lavora alla disgregazione di un ordine originario e precipita una materia potentemente organizzata verso un’inerzia sempre più grande e che sarà un giorno definitiva.5

Le sentenze di Lévi-Strauss si ficcano prepotentemente, una dopo l’altra, nel cuore dell’antropocentrismo che sino ad oggi è fra le fondamenta dell’inconscio dell’Occidente. La civiltà della tecnica, così come l’umanesimo che la precede, volgono verso lo stesso depotenziamento, nelle considerazioni del filosofo-antropologo francese:

Da quando ha cominciato a respirare e nutrirsi fino all’invenzione delle macchine atomiche e termonucleari, passando per la scoperta del fuoco, l’uomo […] senza dubbio ha costruito delle città e coltivato dei campi; ma, se ci si pensa, queste cose sono anch’esse macchine destinate a produrre dell’inerzia a un ritmo e in una proporzione infinitamente più elevata della quantità di organizzazione che implicano. Quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all’uomo e si confonderanno nel disordine quando egli sarà scomparso.6

Le parole di Lévi-Strauss sono così pesanti, una dopo l’altra, da richiedere pazienza e ricerca di basi su cui sviluppare un discorso coerente riguardo la loro profonda attualità. È a questo punto della conclusione di Tristi Tropici, tutta incentrata in poche e dense righe, che il presente studio vuole dividere due strade di riflessione: una a riguardo dell’antropologia negativa che si può ravvedere nel corollario levistraussiano da lui espresso in queste parole: «piuttosto che antropologia, bisognerebbe chiamare ‘entropologia’ questa disciplina destinata a studiare nelle sue manifestazioni più alte, questo processo di disintegrazione»:7 tema che si affronterà nei seguenti due paragrafi; infine, nel quarto paragrafo, si avrà per tema la strada dell’alterità, affrontata in quella che è la fine vera e propria di Tristi Tropici, in cui, dal sorprendente asserto «eppure io esisto», nel giro di un paio di capoversi, Lévi-Strauss apre a una visione dell’esistenza umana profonda e altamente filosofica, al punto di incarnare una forma di “nichilismo” tale da meritare una problematizzazione per la filosofia contemporanea.

Prima però, come sopra anticipato, una breve riflessione sull’entropologia non solo come provocazione intellettuale dell’antropologo francese, ma come condizione della filosofia contemporanea nell’età della tecnica.

2. L’antropologia negativa come sfondo per una radicalizzazione del problema dell’identità umana. Un parallelo con Günther Anders

L’uomo è nato libero e ovunque è in catene.

— J. J. Rousseau, Il contratto sociale

Cosa si può intendere per “antropologia negativa”? A onor del vero, una dicitura di questo tipo difficilmente sarebbe piaciuta a Lévi-Strauss — e oltretutto, si tratta di un’espressione di Gunther Anders. Eppure, non è difficile trovare linee di convergenza fra le suggestioni dell’antropologo sopra citate e il discorso andersiano sulla condizione dell’uomo, sebbene questo, nel filosofo tedesco, sia circoscritto prevalentemente all’età della tecnica. Certo, se in Lévi-Strauss, come annunciato, il lavoro intellettuale è di più ampio respiro per la natura stessa che ha l’etnografia, è interessante notare come anche Anders, dal punto di vista biografico, si sia sempre ritenuto un filosofo “en plein air”, per via di una forte tensione anti-accademica e una conseguente spinta verso una vita intellettuale combinata a un’esperienza “sul campo”: quello che il filosofo può invidiare, appunto, all’etnografo. Dal punto di vista squisitamente più concettuale, invece, non si può non rintracciare una certa familiarità fra l’ entropologia di Lévi-Strauss e la ermeneutica prognostica paventata da Gunther Anders. Come noto, il concetto fondamentale portato avanti dall’autore de L’uomo è antiquato concerne il dislivello venutosi a creare fra l’uomo e le sue produzioni: l’età della tecnica ha portato alla luce quella vergogna prometeica (questa l’espressione di Anders) scaturita dal passaggio da homo faber a homo materia, in cui la funzionalità ineccepibile dei macchinari e della vita organizzata tecnicamente superano di gran lunga la “difettosità” connaturata all’uomo, il quale, attore goffo della sua necessità di sopravvivere con o senza dei, si trova paradossalmente scavalcato in efficienza dai suoi prodotti. Da qui, la perdita di senso dell’uomo contemporaneo, o perlomeno della sua centralità rispetto a un mondo che ha creduto di dominare:

Solo quando ci adattiamo agli apparecchi (ma persino questa formulazione presume ancora troppa spontaneità), solo quando gli apparecchi adattano noi a se stessi ha luogo quella adaequatio producti et hominis, che in un secondo tempo ci permette di credere che il nostro mondo sia “nostro”, ch’esso sia l’espressione di noi, uomini d’oggi. In senso dialettico, ovviamente, esso è anche questo. Infatti gli uomini che vengono plasmati dagli apparecchi non sono mai uomini “allo stato di natura”, bensì sono sempre già quali sono stati condizionati da apparecchi precedenti, e quindi preparati per i seguenti. Allo stesso modo, se l’“abito del mondo” ci sta addosso così bene, come se fosse stato confezionato su misura, è perché esso ha misurato noi prima che se stesso. Superfluo notare che l’odierna formula di adeguazione non definisce la verità come la precedente adaequatio rei et intellectus, bensì il nostro falso rapporto con il mondo, ovvero il nostro rapporto adeguato con il falso mondo esistente.8

Ecco che a questo punto, il Lévi-Strauss che ci dice che «Quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all’uomo e si confonderanno nel disordine quando egli sarà scomparso»,9 pare in forte convergenza con l’esame critico di Anders. L’uomo non può più specchiarsi con il mondo per come lo trasforma, poiché esso trascende anche dette trasformazioni: la produzione, la “creazione dello spirito umano” è quanto di più caduco possa introdursi nello scenario dell’essere, che esso sia un palazzo, una fede, un approdo scientifico, un sistema filosofico; la pretesa dell’uomo di dominare il mondo, e di conseguenza il suo motore, il divenire, cade inesorabilmente di fronte al tribunale della storia, che sotto i silenzi delle cose che periscono, attua la sua unica verità, mostruosa per l’uomo che per prendere coscienza del suo genere (quello che la tradizione filosofica tedesca chiama Gattung) sospende il suo cieco cammino verso ipotetici progressi.

3. Dal Gattung della tradizione filosofica alla disgregazione dell’escatologia

In tutte le cose ci siamo fatti più modesti. Non deriviamo più l’uomo dallo “spirito”, dalla “divinità”, lo abbiamo ricollocato tra gli animali. Esso è per noi l’animale più forte, perché è il più astuto: una conseguenza di ciò è la sua intellettualità […] relativamente parlando, l’uomo è l’animale peggio riuscito, il più malaticcio, il più pericolosamente aberrante dai suoi istinti — indubbiamente, con tutto ciò, anche il più interessante! —

— F. W. Nietzsche, L’anticristo

Con il suo celeberrimo Anticristo (1888), sottotitolato Maledizione del cristianesimo, già Nietzsche preparava il terreno per quella forma di antropologia negativa che si è voluta rapidamente mettere in mostra qui sopra con l’esempio di Günther Anders. Ma oltre l’inflazionata centralità data alla “filosofia col martello” di Nietzsche, è questione di onestà filosofica e storiografica mettere a fuoco il fatto che il suo stesso terreno fu a sua volta preparato dalla filosofia tedesca che lo precedette. Fu curiosamente proprio uno Strauss, David Friedrich Strauss (Ludwigsburg 1808 — 1874) ad avanzare i primi passi della trasfigurazione della cristologia in antropologia, in prima battuta proprio riportando su un piano mondano, “umano” la figura stessa di Cristo:

Una incarnazione eterna di Dio non è forse più vera di una incarnazione limitata ad un punto nel tempo? […] L’umanità è la riunione delle due nature, il Dio fatto uomo, lo spirito infinito che ha alienato se stesso nella natura finita e lo spirito finito che si rammenta della sua infinità.10

Come giustamente annota Massimo Borghesi, nel caso di Strauss «l’umanità, o meglio il genere (Gattung) viene pertanto a rivestirsi, nella interpretazione straussiana della cristologia idealista, degli attributi di Cristo: essa e solo essa è il Cristo reale»;11 da questa “mondanizzazione” di Cristo post-hegeliana fino alla morte di Dio di Nietzsche, tutta un versante della filosofia tedesca ha contribuito a un itinerario di secolarizzazione e di trasvalutazione dell’escatologia tradizionale dell’Occidente, da Hegel a Nietzsche passando per Strauss, Bauer, Feuerbach, Marx, Stirner. Il processo di “scristianizzazione” ha a che vedere con il modo in cui gli albori della filosofia contemporanea hanno congedato un vecchio concetto di uomo:12 è attraverso il congedo da Dio che la filosofia ha coltivato il terreno per la riforma dell’antropologia quale quella che sinora si è illustrata nella figura di Claude Lévi-Strauss, nel parallelo con Günther Anders. Non è un caso che, come citato agli inizi del presente articolo, la stessa virata di Lévi-Strauss dalla filosofia accademica all’etnografia sia nata proprio da un’insoddisfazione di base verso gli strumenti tradizionali della filosofia: intenzionalmente o meno Lévi-Strauss trova nell’itinerario della secolarizzazione il suo apri-pista e la sua legittimazione proprio all’interno della filosofia contemporanea. Non a caso, fra gli aneddoti che ci consegna, non manca di sottolineare come Marx fosse oggetto di una delle sue poche adesioni alla filosofia che da ragazzo studiò.

Una volta indicato brevemente il percorso storico-filosofico che ha portato sino a Lévi-Strauss, è con più chiarezza e visione d’insieme che si può collocare storicamente il terribile asserto di Tristi Tropici che si è citato in principio: «Il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui». Il punto è che in questo passaggio l’escatologia giunge al compimento della sua demolizione.

4. «Eppure io esisto». Lévi-Strauss come nichilista problematico

Dal momento in cui viene meno l’orizzonte di senso e salvezza nella prospettiva storica del genere umano, l’entropologia di Lévi-Strauss si iscrive di diritto nel clima filosofico contemporaneo rintracciato sotto il termine “nichilismo”. Il problema del senso coinvolge le velleità del genere umano come quelle del singolo uomo; nel caso specifico, una prospettiva filosofica di questa sorta pare curiosa se profilata, come in Tristi Tropici, da parte di un etnologo, la cui trasversalità interpretativa del fenomeno della vita umana dovrebbe non concedere spazi a esiti ultimi, quanto piuttosto a quella “osservazione partecipante” cui si richiamava Malinowski. L’abbandono del piano per così dire “orizzontale”, in Lévi-Strauss, a favore di una verticalità così abissale, fra il nichilismo dello sconforto e la mistica dell’inanità, ci consente perlomeno di notare l’invasione di campo dell’antropologo in tematiche esistenziali tipiche della filosofia contemporanea.

In quanto etnologo, io non sono dunque più il solo a soffrire di una contraddizione che è comune all’umanità intera e che porta in sé la sua ragione. La contraddizione sussiste soltanto quando isolo gli estremi: a che serve agire se il pensiero che guida l’azione conduce alla scoperta dell’assenza di senso? […] Quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all’uomo e si confonderanno nel disordine quando egli sarà scomparso.13

In questo passo il sentimento dell’inanità è talmente evidente che, se non vi fosse scritto il nome dell’autore sul libro, si potrebbe comodamente pensare di avere a che fare con una sentenza del Cioran de L’inconveniente di essere nati. Il modo in cui però il passo prosegue, rimette la suggestione esistenziale sui binari dell’osservazione etnologica:

Cosicché la civiltà, presa nel suo insieme, può essere definita come un meccanismo prodigiosamente complesso in cui saremmo tentati di vedere la possibilità offerta al nostro universo di sopravvivere, se la sua funzione non fosse di fabbricare ciò che i fisici chiamano entropia, cioè inerzia.14

Nel cripto-nichilismo di Lévi-Strauss non è il “fine”, a mancare; esso non si configura come esito, però, quanto piuttosto come conclusione. Il fine è la fine.

È schiacciante il peso dei termini “funzione”, “fabbricare” e “inerzia”, nel passo appena citato, ma aiutano in modo netto a capire quale scarna e sintetica filosofia della storia si produca nell’opera intellettuale e umana dell’antropologo francese. La marginalità dell’uomo appare come ineluttabile.

Eppure, in questo orizzonte ristretto, al limite del tragico, gli ultimi capoversi di Tristi Tropici offrono un’ulteriore suggestione sull’uomo. Lungi dal finire il discorso sulla sola marginalità del vivere, Lévi-Strauss, con un colpo di coda umanistico, si adopera in un ultimo salvataggio dell’uomo, sul filo dei margini, dei limiti, di quest’ultimo, come un trapezista dell’esistenza:

Eppure, io esisto. Non certo come individuo; perché, che cosa sono io, sotto questo rapporto, se non la posta, ad ogni istante rimessa in giuoco, della lotta fra un’altra società formata di qualche migliaio di cellule nervose raccolte nel formicaio del mio cranio, e il mio corpo che le serve da robot? Né la psicologia, né la metafisica, né l’arte possono servirmi da rifugio, miti ormai passibili, anche all’interno, di una sociologia di nuovo genere che nascerà un giorno, e che non sarà per loro più benevola dell’altra.15

La rivendicazione di sé prende piede da una squalifica dei saperi come rimedi all’inanità dell’esistenza. Ed è curioso come ciò avvenga in un libro sì apertosi, come detto in sede d’introduzione, con il percorso intellettuale dell’autore; ma si tratta pur sempre di un’opera etnografica che al suo interno passa in rassegna una serie di esperienze nel vero senso della parola; in questo quadro il rimedio alla scomparsa di senso dell’esistenza pare non poter essere rivestito né da velleità teoriche che esperienziali. I “Tropici” sono “Tristi” proprio per via di questo doppio vicolo cieco. Esiste opera più nichilistica di questa, dunque, se per nichilismo intendiamo una presa di coscienza dell’emergenza del negativo nel nostro tempo ma anche nella nostra biografia, nel nostro cosiddetto — vissuto?

Quando l’arcobaleno delle civiltà umane si sarà inabissato nel vuoto scavato dal nostro furore; finché noi ci saremo ed esisterà un mondo — questo tenue arco che ci lega all’inaccessibile resisterà: e mostrerà la via inversa a quella della nostra schiavitù, la cui contemplazione, non potendola percorrere, procura all’uomo l’unico bene che sappia meritare: sospendere il cammino; trattenere l’impulso che lo costringe a chiudere una dopo l’altra le fessure aperte nel muro della necessità e a compiere la sua opera nello stesso tempo che chiude la sua prigione; questo bene che tutte le società agognano, qualunque siano le loro credenze, il loro regime politico e il loro livello di civiltà; in cui esse pongono i loro piaceri e i loro ozi, il loro riposo e la loro libertà; possibilità, vitale per la vita, di distaccarsi e che consiste — addio selvaggi! Addio viaggi! — durante i brevi intervalli in cui la nostra specie sopporta di interrompere il suo lavoro d’alveare, nell’afferrare l’essenza di quello che essa fu e continua ad essere, al di qua del pensiero e al di qua della società; nella contemplazione di un minerale più bello di tutte le nostre opere; nel profumo, più sapiente dei nostri libri, respirato nel cavo di un giglio; o nella strizzatina d’occhio, carica di pazienza, di serenità e di perdono reciproco che un’intesa volontaria permette a volte di scambiare con un gatto.16

Oltre che non potersi esimere dal sottolineare la grandezza della prosa e della riflessione, si può notare come Lévi-Strauss sia, in questo caso, uno dei più grandi assertori del concetto filosofico di Necessità, perlomeno in epoca contemporanea: poco prima asserisce: «L’IO non è soltanto odioso: esso non ha posto fra un ‘noi’ e un ‘nulla’»;17 questa asserzione spiega come il singolo, fintantoché non si produce in un’esclusione della sua orizzontalità, non può strappare il velo di Maya di schopenaueriana memoria e non può sospendersi dal “mondo della vita”, detto in termini husserliani. L’esito ultimo di Tristi Tropici vuole appunto dirci che al di là del velo di Maya, v’è pur sempre un valore, se non il Valore: la cura per il particolare che ci attraversa e ci sospinge verso la vita ogni giorno, come rimando ad un’ulteriorità tutta da patire, come pàthos dell’esistenza. L’orizzontalità vana del quotidiano come cifra jaspersiana del verticale da emendare attraverso l’esercizio dell’ammirazione dell’esistente.18

Il nichilismo di Lévi-Strauss si trasforma rapidamente in un discorso sulla saggezza dal sapore antico, classico. Il fascino del suo pensiero può a pieno titolo essere ascritto nietzscheanamente come un valido nichilismo attivo, del tutto vitalistico, dunque, poiché lontano dalla fanghiglia postmoderna delle vuote astrazioni e dei fanatismi dell’epitaffio. Il pur terribile declivio cui giunge il pensiero di Lévi-Strauss offre, nel suo amore travagliato per il sapere — ossia nella sua travagliata filosofia — un dono prezioso per chi del nichilismo e del vitalismo vuole comprendere la portata puramente filosofica ed esistenziale, come (una delle) opportunità dello Spirito, più che come critica e deriva decadente dell’Occidente, nella prolissa e masochistica autoflagellazione accademica del sapere metafisico contemporaneo cui siamo chiamati a non abituarci.


  1. C. Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Il Saggiatore, Milano 1960, p.49. ↩︎

  2. Ivi, p.50. ↩︎

  3. Nietzsche cita quest’espressione goethiana nella prefazione alla cosiddetta “seconda inattuale”. L’edizione cui ci riferiamo è la seguente: F.W. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano 1973, p.3. ↩︎

  4. C. Lévi-Strauss, op. cit., p. 54 [corsivi miei]. ↩︎

  5. Ivi, pp.402-403. ↩︎

  6. Ibidem. ↩︎

  7. Ibidem. ↩︎

  8. G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 396. Proprio a seguito di questa riflessione, Anders dice: «Se io scrivessi qui un testo accademico, introdurrei il termine “comprensione prognostica” e chiamerei la teoria di questa comprensione “ermeneutica prognostica”», ibidem. ↩︎

  9. C.Lévi-Strauss, op. cit., p. 402. ↩︎

  10. D. F. Strauss, La vita di Gesù o Esame critico della sua storia, vol. II, pp. 627-629. ↩︎

  11. M. Borghesi, L’era dello spirito. Secolarizzazione ed escatologia moderna, Studium, Roma 2008, p. 227. ↩︎

  12. Molto pertinente e chiara, a riguardo, l’interpretazione di Karl Lowith: «Nessuna interpretazione sembra mai abbastanza radicale: ciò che all’uno sembrava ateismo, era poi scoperto da chi veniva dopo come ancor sempre qualcosa di teologico, religioso e cristiano. Strauss apparivaa Bauer un “prete”, Feuerbach si presentava a Stirner sotto la figura di un “ateo devoto”, Bauer sembrava agli occhi di Marx un critico, che rimaneva critico solo in quanto teologo. Stirner poi, che credeva di superare tutti, è deriso insieme alla “sacra famiglia” (Bauer) da Marx, il quale lo chiama “Padre della Chiesa” e “Santo Max”, mentre Feuerbach scopre nel “nulla di Stirner” ancora un “predicato divino”, e nel suo “Unico” vede comparire la “felicità individuale cristiana”. Ognuno vuole dimostrare negli altri un residuo di cristianità», in K. Löwith, Von Hegel zu Nietzsche, Zürich 1941, tr. it. di G. Colli, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, Torino 1971, pp. 500-501. È inoltre da tenere conto come lo stesso Nietzsche abbia indirizzato una aspra polemica proprio contro David Friedrich Strauss, apostrofandolo come “filisteo della culturag” nella sua prima Inattuale, vedi F.W. Nietzsche, David Strauss. L’uomo di fede e lo scrittore, Adelphi, Milano 1992. ↩︎

  13. C. Lévi-Strauss, Op. Cit., pp.402-403. ↩︎

  14. Ibidem. ↩︎

  15. Ibidem. ↩︎

  16. Ivi, p.404. ↩︎

  17. Ivi, p.403. ↩︎

  18. Per non dire “Creato”, appunto. In questo si potrebbe, non con intenti profani, confrontare le ultime righe di Tristi Tropici con il Cantico delle Creature di S. Francesco. ↩︎