Michele Illiceto, La persona: dalla relazione alla responsabilità. Lineamenti di ontologia relazionale, prefazione di Attilio Danese, Città Aperta, Troina (EN) 2008.
Nell’epoca contemporanea assistiamo ad una progressiva crescita dell’interesse per l’antropologia filosofica poiché le nuove e inedite problematiche etiche, bioetiche, politiche ed economiche sottendono sempre una visione dell’uomo e della persona che occorre indagare in maniera critica e costruttiva. Con intento propositivo, Illiceto si pone con umiltà e coraggio alla ricerca del volume totale dell’uomo procedendo dal problema alle domande mute, di cui il filosofo è chiamato ad essere instancabile sentinella, procedendo dalla relazione alla responsabilità, dal volto ai volti, dal prossimo al terzo. L’autore non fornisce semplicemente una definizione della persona, che di per sé eccede qualsiasi pretesa di classificazione, ma indaga l’essere integrale della persona e la sua vocazione comunitaria, guidato dallo stupore e dalla passione per l’originario. La densità ontologica del volto rivela l’alterità come forma dell’essere. L’essere, rivelandosi come dono dischiude una dimensione oblativa e comunionale che è il fondamento dell’ontologia relazionale. Il darsi iniziale dell’essere è quanto di più difficile possa cogliere il pensiero che è sempre in ritardo rispetto all’essere. Pertanto, la fenomenologia costituisce la via privilegiata per accedere all’ontologia.
L’ontologia relazionale attesta che il cuore dell’identità dell’essere è la relazione dell’essere a se stesso, in quanto l’essere è concepito come distesa e quindi anche come distanza. L’essere attraversa la negazione nel senso che non si sottrae alla propria negazione, ma vi resiste attraversando la negazione per assolversi, liberarsi da essa e fare ritorno a se stesso. L’attraversamento dell’essere non si identifica con la negazione, come pretendeva Hegel, ma con la sua alterità. Per altro verso, anche il pensiero è in relazione con l’alterità dell’essere-come-dono, il quale consente di superare e oltrepassare ogni forma di nichilismo, tentazione inerente alla dialettica hegeliana. Il pensiero può attraversare l’essere perché l’essere si dà originariamente come dono all’intelletto. L’alterità dell’essere deve essere intesa come ospitalità. In altri termini, «l’essere come inizio si dà nella forma dell’alterità» (p. 141). All’inizio è la relazione perché all’inizio è l’essere come dono. Il dono è il luogo etico della significazione in cui si verifica il compimento dell’essere: ciò che è accaduto deve riaccadere nell’assunzione responsabile della propria esistenza aperta all’oltre, che implica la responsabilità del pensiero che pensa l’essere e il dono di sé: «Il fine dell’essere è di rendersi abitabile, e abitabile nella forma dell’ospitalità. Ora, è proprio l’atto della significazione a rendere l’essere abitabile, cioè dimora. Solo l’essere che ospita il proprio senso diventa dimora per l’uomo che lo cerca e che ad esso anela più di ogni altra cosa» (p. 232).
I lineamenti dell’ontologia relazionale, che rinvia alla teologia della creazione e alla metafisica del limite, sono inscritti sul volto di ogni persona che è identità e relazione. Il volume totale dell’uomo è la persona come volto che si fa prossimo nella comunità dei volti: «Il volto non è solo la misura della persona colta nella globalità e nella integralità del proprio volume ontologico, nella complessità dei propri registri di anima, corpo e spirito, e nella sua differenza rispetto al nulla, ma è anche la misura della comunità che permette ad ogni persona di passare dalla relazione io-tu alla relazione io-tu-noi, e che, per tale motivo si pone come comunità di volti, di persone ri-volte l’una nella prossimità dell’altra» (p. 349). Fin dal suo inizio l’essere della persona è dono. Rispondendo al debito ontologico rivelato nell’atto della sua esistenza, l’uomo dona si perde la propria vita nella donazione per ritrovarsi nell’atto della piena auto-significazione. In questo contesto, l’alterità non è un accidente, ma un trascendentale dell’essere e della persona che abbraccia le diverse forme dell’alterità: l’altro di me; l’altro diverso da me e l’Altro, Assoluta e Reale trascendenza. Non si tratta tanto di affermare l’antecedenza del concetto di sostanza rispetto a quello di relazione o viceversa, quanto piuttosto di cogliere l’intreccio e l’unità dell’essere della persona che è relazione sostanziale. L’antropologia filosofica si pone così in servizio della scienza morale poiché dischiude la questione del senso e del compito dell’esistenza umana protesa verso il suo pieno compimento. In questa impostazione teoretica, il pensiero ritrova la propria origine e il proprio fondamento, contro le tendenze anonime insite nella società liquida senza legami, contro le spinte autoritarie che negano la dignità dell’uomo come persona. L’indagine storico-teoretica di Michele Illiceto pone in evidenza i caratteri fondamentali della persona e ricerca il significato fondamentale del termine persona. Illiceto attraversa le fasi di codificazione semantica del termine. Se nella mentalità pre-filosofica di Omero e nella tradizione veterotestamentaria, prosopon significava il volto, la faccia, il viso, per la cultura etrusca phersu indicava la maschera. Anche il termine latino persona era utilizzato per la maschera indossata dagli istrioni. Il pensiero patristico, le dispute cristologiche e trinitarie del IV e del V sec, segnaarono un punto di snodo essenziale. Il concilio di Nicea (325) e di Costantinopoli (381) affermarono il mistero ed il dogma della Santissima Trinità, cioè l’unità della natura divina e la distinzione delle tre Persone; il Concilio di Calcedonia (451) proclamò il dogma cristologico, cioè le due nature di Crsito, umana e divina, nell’unità della persona. Sant’Atanasio difese nelle dispute la consustanzialità tra il Padre ed il Figlio e privilegiò la categoria prosopon, senza tuttavia collegarla a hypostáseis. A Basilio di Cesarea si deve invece la formula del dogma trinitario, «mia ousia treis hypostáseis», che in latino fu resa con un’espressione risalente a Tertulliano: «una natura (substantia, essentia), tres personae». La grande operazione di Basilio fu l’accostamento del termine hypostasis a prósopon. In questo modo, si stabiliva il valore dogmatico di persona-prosopon. Tale indicazione fu recepita da Gregorio di Nazianzo, per il quale Dio è una sola ousía in tre hypostáseis o prósopa, e da Gregorio di Nissa, il quale contribuì a precisare ulteriormente la questione trinitaria collegando hypostásis a prósopon, e distinguendolo da ousía. In sintesi, il termine latino persona venne impiegato per significare un’essenza che esiste nella propria e specifica individualità. Il termine persona designò così la reale distinzione, senza separazione, dell’unità della natura o sostanza divina. Come acutamente rileva Illiceto, nelle dispute teologiche del IV-V secolo, accanto al carattere dell’individuazione, si consolidò la dimensione ontologica del termine persona i cui caratteri sono l’essenza, la sostanzialità, la sussistenza, la soggettività. Inoltre, l’intelligenza della fede portò alla comprensione del fatto che le relazioni intratrinitarie costituissero un elemento strutturale dell’identità personale dei Soggetti divini. A tal proposito, vale la pena rilevare che l’apporto più significativo di Sant’Agostino fu proprio la dottrina delle relazioni intratrinitarie. In altri termini, la relazione fu emancipata dall’accidentalità. Per Sant’Agostino la persona è «substantia ratonalis constans ex anima et corpore». Invece, per Boezio «la persona è sostanza individuale di natura razionale». Attraverso la tematizzazione dei caratteri fondamentali della persona, la sostanzialità individuale — che si prestava a fraintendimenti, a tal punto che Riccardo di San Vittore vi sostituí il termine existentia - e la differenza specifica della natura umana, costituita dalla razionalità ontologicamente intesa, si approfondiva la prospettiva ontologica-metafisica. Nel pensiero di San Tommaso confluirono le riflessioni teologiche e filosofiche precedenti: la persona è una relazione sussistente in quanto la relazione è un atto ontologico della sussistenza personale e non semplicemente uno stato accidentale. Nella modernità possiamo rilevare due direzioni fondamentali della filosofia: a) da Cartesio a Nietzsche e b) da Cartesio a Rosmini. La prima linea di sviluppo proclama la centralità del concetto moderno di individuo identificato con il proprio io e sfocia nell’egocentrismo individualistico; l’altra direzione del pensiero moderno parte dall’io e tende alla riscoperta del SÉ, ontologicamente aperto e abitato dall’alterità. Premesso che i due postulati dell’antropologia integrale rosminiana sono l’intuizione intellettuale dell’essere ideale-oggettivo ed il sentimento fondamentale corporeo, la persona si può definire «un individuo sostanziale intelligente che contiene un principi attivo, supremo e incomunicabile», cioè la volontà intelligente e libera. Il vocabolo persona, in questo contesto specifico, non significa semplicemente sostanza, né meramente relazione, ma una relazione sostanziale che si riscontra nell’ordine intrinseco dell’essere della sostanza. Infine, la fenomenologia di Husserl, a cui Illiceto riconosce molti meriti, ed il pensiero di Heidegger dominano i primi decenni del secolo XX e condizionano larga parte della riflessione successiva del ’900 che è connotata dalla crisi della metafisica. A differenza di Heidegger, che concepisce un essere neutro ed un’ontologia senza un’etica, Illiceto mostra la fecondità del pensiero dialogico di Buber, della filosofia dell’alterità radicale di Levinas, dell’umanesimo integrale di Maritain e soprattutto del personalismo comunitario di Mounier, a cui l’A. dedica la IV sezione del volume. Infine, Ricœur completa e approfondisce il cammino tracciato da Mounier, attraverso la distinzione tra la relazione interpersonale io-tu e la relazione sociale io-tu-altri che approda all’ordine istituzionale fondato sulla giustizia. In breve, possiamo affermare che nell’età contemporanea assistiamo, nonostante le tendenze relativistiche, totalitarie e nichilistiche, al riemergere del significato originario della persona come volto e all’innesto della categoria della relazione nell’ontologia. Di fronte al decostruzionismo antropologico di una società liquida senza radici, identità e legami, secondo l’analisi di Baumann, l’autore delinea un’ontologia relazionale che si articola in un’ontologia dell’ospitalità (Jabès) e della donazione (Marion). Questa proposta filosofica è un’efficace alternativa alla dialettica totalizzante di Hegel, all’ontologia del neutro di Heidegger, all’interpretazione funzionalistica e riduzionistica della persona. La coscienza dei problemi e della loro evoluzione storica si coniuga con la personale e matura impostazione filosofica, esempio significativo di come sia ancora possibile filosofare diventando custodi delle domande di senso. A tal proposito, Illiceto si chiede non solo da «dove provenga e che cosa significhi il termine persona, ma anche in che modo esso renda ragione della profondità e del valore che implica» (p. 31). Nel mondo che cede alla disperazione, la speranza si configura come un tratto distintivo di un nuovo umanesimo capace di permeare la speculazione filosofica, la teoria e la prassi politica e la teologia della storia. Le isole di speranza che Illiceto individua, consentono di superare le secche dell’individualismo, del nichilismo e dello scetticismo in voga nel nostro tempo.
All’inizio è la relazione, categoria fondamentale dell’essere, disponibilità, il tu innato, come afferma Buber. La persona, intesa come singolo e come comunità-comunione, è il perno e il centro in relazione e di relazioni. Dunque, la relazione è nel cuore dell’essere della persona, cosicché l’uomo non è solo in relazione, ma prima di tutto è un essere-in-relazione con se stesso, con il mondo, con gli altri e con Dio. L’oltre, che abbraccia la trascendenza orizzontale e verticale dell’io, è il luogo dell’altro e delle varie forme di alterità che emergono da un’ermeneutica del dono. L’etica della responsabilità sospinge il pensiero alla ricerca del senso ultimo e, al tempo stesso, rivela la struttura metafisica del desiderio che informa la relazione.
La relazione con me stesso come altro evidenzia la relazione che intercorre tra l’IO e il sé, e consente la conversione intima, cioè il passaggio dall’io al sé: l’io è il rispecchiamento di sé, come l’immagine che si produce nello specchio della autorappresentazione cosciente; il sé è il fondo oscuro dell’io su cui quest’ultimo si costruisce e che attende di venire alla luce. Procedere dal sé all’io significa andare alle profondità di me, conoscere se stessi in intimità profonda, nelle pieghe nascoste del proprio volto. Dall’io al sé, dal sé al prossimo e dal prossimo al terzo. La prossimità e l’ospitalità sono i luoghi in cui emerge l’autentica significazione dell’identità distatica del soggetto. Nell’identità in diastasi, che è una nuova soggettività di diverso segno rispetto al cogito cartesiano, la ragione non domina più il mondo, le cose e gli altri, ma si sente assoggettata da tutto nell’istante in cui avverte di essere responsabile di tutto e di tutti. L’io nomade si apre alla ricerca dell’oltre nell’altro: il tu di me non basta a se stesso perché gli manca qualcuno che lo spinge a perdersi per ritrovarsi nel perenne esodo e nella continua diastasi.
La relazione con l’altro/a struttura la sessualità e la fecondità che caratterizza la vita della coppia uomo/donna. Questa prima comunità naturale fondata nell’amore, nella reciprocità e complementarietà, realizza se stessa quando non diventa esclusione, ma accoglienza del terzo.
La relazione con altri è alla base della socialità e della comunità da cui nasce la dimensione politica, cioè l’insieme dei rapporti che intessono la vita della polis regolata da leggi e istituzioni giuste. In questo contesto assume grande rilevanza la precisazione di Illiceto: la mia libertà non finisce dove inizia quella dell’altro, ma inizia dove finisce la libertà dell’altro, in quanto l’alterità costituisce lo spazio ontologico dell’essere e dell’agire personale.
La relazione tra l’uomo, che è esistenza incarnata, e la natura-mondo, che è fatto di enti e di cose manifesta il significato della creazione di cui siamo custodi responsabili. Inoltre, il mondo, inteso come comunità di volti, rientra nella sfera del vissuto (Erlebnis) e diviene mondo-della-vita (Lebenswelt).
La relazione con Dio, infine, è il fondamento metafisico e teologico della persona. L’uomo, pur essendo limitato e contingente, ha tutto l’essere che è in quanto dono. In ciò si manifesta anche la grandezza e l’incomparabile dignità di ogni uomo che è creato da Dio per amore.
La verità ontologica della persona risiede nell’alterità e nel volto. Dalla scoperta di sé come altro dipende anche la capacità di costruire relazioni autentiche. Solo allora, potrò guardare l’altro non come un nemico, come pensava tragicamente Sartre, non come un mezzo o uno strumento per i miei bisogni, ma come fratello di cui posso farmi prossimo. E ciò è possibile perché siamo fatti l’uno per l’altro. L’essere-da, l’essere-in, l’essere-con si esplicitano nella determinazione dell’essere-per. La triplice direzione della responsabilità consiste nel cercarsi, nel trovarsi e nel donarsi liberamente. La reciproca appartenenza non indica possesso e diritto di proprietà che l’uno esercita nei confronti dell’altro, ma esprime il fatto ontologico che noi siamo, prima che sul piano ontico, da sempre ontologicamente coinvolti, l’uno-per-l’altro (p. 249).
Dal volto ai volti tramite il volto: tale è il percorso spianato dalla responsabilità del pensare e dell’agire nel contesto della relazione che è sia un dato ontologico sia un compito etico. Lo straniero non è un estraneo ed il limite ontologico non è un confine, ma lo spazio dell’apertura e dell’ospitalità. Perciò, non è possibile una libertà senza responsabilità perché la libertà non si realizza se non nella consegna ed entro il limite che ci costituisce come debito ontologico. Il limite, come luogo di apertura e consegna all’altro, è una categoria ontologica costitutiva dell’humanum che precede e fonda il riconoscimento. La fecondità di queste riflessioni è fin troppo evidente se pensiamo alla mentalità imperante del no limits che, mentre annuncia l’assenza di limiti, dissolve la libertà umana nell’autodeterminazione assoluta. Recuperare il senso del limite significa abitare nella memoria della nostra origine e del fine a cui aspiriamo.
Pensare e agire con responsabilità significa riproporre le ineludibili domande di senso nel contesto di un’ontologia relazionale, amare il volto dell’altro, non solo il tu, ma anche il terzo escluso sulla base del principio ontologico di giustizia. L’amore che si traduce in giustizia e la giustizia fondata sull’amore fondano l’ordine della società e delle istituzioni.
Inoltre, lo scollamento tra etica e politica induce l’autore a ricercare un fondamento ontologico della politica attraverso il tema dell’ospitalità e della reciproca appartenenza tra le persone. Persona e comunità si intrecciano senza esclusività poiché la solitudine aperta dell’uomo, espressione della riappropriazione interiore di Sé come altro, si distende verso gli altri volti, in memoria dell’evento originario, cioè del nostro essere-da ed essere-per. Ciò che sta dentro alla persona, come sua costitutiva e originaria intimità, e ciò che sta fuori ritrovano la propria unità e si traducono nel prendersi cura di sé e degli altri.
In questa prospettiva, la distinzione tra comunità (Gemeinschaft) e società (Gesellschaft) non comporta separazione, ma reciproca integrazione. Infatti, se la comunità è lo spazio del sentimento e delle relazioni fondamentali che vincolano le persone nel comune senso di appartenenza ad un territorio e ad una cultura, la società consente di rendere oggettiva, concreta e operante la dimensione personale e comunitaria che si riverbera nelle istituzioni giuste, di cui Illiceto rileva la valenza etica. Quest’ultima consiste nel riconoscimento della dignità ontologica della persona. Del resto, la persona precede la Stato. La dimensione politica richiama la responsabilità nei confronti della comunità che è persona di persone, secondo l’espressone di Mounier richiamata dall’autore. Se è vero che la prima conferisce la dimensione specifica della convivenza umana, Seguendo le indicazioni di Ricœur, è possibile individuare un’etica ternaria: a) la stima di sé, b) la sollecitudine e il prendersi cura degli altri, c) il vivere in istituzioni giuste.
La bellezza evocativa delle metafore e delle immagini (il cammino del pensiero, la tenda quale segno dell’itineranza dell’esistenza; il volto e la traccia; la metafora della ferita che rappresenta lo spazio di intersezione tra me e l’altro; la metafora del corpo che, a livello comunitario, esemplifica l’integrazione delle parti nell’unità fondata sul principio persona; la metafora della porta, dietro la quale Dio si ferma e bussa; la metafora biblica dell’ombra che indica Dio nascosto nell’attesa, ma sempre presente nonostante la negazione, o meglio il rifiuto, dell’uomo folle) la cui densità ontologica si riflette sul piano ontico e sul piano etico, il linguaggio limpido che scava nell’interiorità e conduce nella vastità dell’essere, la logica consequenziale e paradossale dell’amore che trabocca dal logos fino a contagiare il mondo e le relazioni, gli ampi orizzonti della ragione dischiusi dal volto, fanno di questo testo un prezioso contributo per la riflessione antropologica contemporanea.