Massimo Donà, L’uno e i molti. Rosmini-Hegel un dialogo filosofico, Città Nuova, Roma 2001.
Il libro di Massimo Donà si apre con una Prefazione di Piero Coda il quale offre un contributo alla problematica dell’uno e dei molti in una prospettiva teologica. Infatti, Piero Coda alla luce della Rivelazione e della Tradizione, considera sulla scia di Rosmini il dogma trinitario e la Rivelazione verità imprescindibili da cui ogni riflessione trova alimento e vita.
A questo proposito, meritano di essere sviluppate alcune considerazioni. La prima osservazione è di natura ermeneutica e mira a cogliere l’essenza di un discorso così articolato e complesso come quello intessuto dal Roveretano. Di là da ogni conflitto delle interpretazioni che si contendono lo spazio, è importante non chiudere la prospettiva e l’orizzonte del pensiero in angusti confini segnati dalle convinzioni del partito preso. Ecco perché un Rosmini esclusivamente teologo o esclusivamente filosofo, non risponde a verità. La distinzione tra filosofia e teologia va mantenuta, dichiarata e infine risolta; solo così si potranno evitare le confusioni e i sospetti derivanti dalla prepotenza della limitata e valida conoscenza umana e da una fede cieca, muta e sorda. Nella filosofia rosminiana troviamo una felice corrispondenza ed una sintesi meravigliosa tra Fede e Filosofia che, essendo complementari l’una all’altra, rendono più chiare e luminose le domande fondamentali dell’essere umano. Un’altra riflessione che nasce come conseguenza immediata di quella appena enunciata, può essere formulata in questi termini: quale strada bisogna seguire per trovare le ragioni della propria fede? Rosmini fornisce una risposta adeguata a questi interrogativi.
Sul terreno più propriamente filosofico, il centro, l’inizio di qualsivoglia disquisizione è l’essere e, il testo di Massimo Donà ha certamente il merito di aver evidenziato il primato ontologico di cui troviamo testimonianza nelle cose stesse e in ogni anelito di vita, contro il grido di distruzione e di morte che più volte si è levato nei confronti della metafisica occidentale. Da ciò l’esigenza di pensare l’essere, di tornare alle origini e alle scaturigini da cui tutto proviene e porre così la domanda metafisica suprema: Perché l’essere e non il nulla? Molti hanno affrontato la questione qui delineata, in modo implicito o esplicito, ma nessuno più del Roveretano, erede e testimone di una gloriosa Tradizione, ha saputo riproporre in termini nuovi questa domanda essenziale per il filosofare.
Il testo di Massimo Donà, affermato docente di Estetica all’Accademia di Belle Arti di Venezia, pone a tema la problematica ontologica cui è strettamente connessa quella dell’uno e dei molti. Il confronto tra la concezione della dialettica propria del Rosmini e l’idealismo hegeliano, è il nucleo attorno al quale viene costruito un itinerario avvincente. Le precedenti pubblicazioni dell’autore, quali Sull’assoluto. Per una reinterpretazione dell’idealismo hegeliano e più recentemente Aporia del fondamento, testimoniano la competenza e la conoscenza della filosofia tedesca.
Nell’ultimo lavoro che qui intendiamo esaminare, il Donà rivolge la sua attenzione alla filosofia rosminiana. Appare encomiabile lo sforzo e l’intenzione di voler restituire alla filosofia italiana il posto ed il giusto riconoscimento che le spetta. In particolare Rosmini «merita non solo… di essere riportato al centro del dibattito filosofico, ma assai più radicalmente, di essere riconosciuto quale straordinario anticipatore di buona parte delle domande su cui ancora si affatica la ricerca filosofica contermporanera» (Donà, L’uno, i molti. Rosmini-Hegel un dialogo filosofico, Città Nuova, Roma 2001, p. 14). L’attualità di una simile proposta speculativa viene sottolineata a più riprese dall’autore, il quale intende riproporre alla cultura contemporanea il pensiero di un grande filosofico che è e rimane tale in ogni tempo. Egli infatti comprese la centralità per la modernità tutta della questione dell’essere «ben prima che gli iniziali e incerti vagiti heideggeriani cominciassero a diffondersi in lungo e in largo per l’Europa» (Donà, p. 14). Detto ciò, non possiamo però ignorare gli studi fatti, le strade percorse, le interpretazioni sviluppate e i problemi posti da tutti coloro che sono venuti prima e che hanno lasciato in eredità una straordinaria mole di opere sulla figura e sull’opera del filosofo di Rovereto. È questa una precisazione doverosa, poiché il volume di Donà non fa nessun riferimento, né in nota, né alla fine, all’imponente bibliografia rosminiana che Padre Cirillo Bergamaschi ha pazientemente raccolto e catalogato. Nel complesso il testo che qui proponiamo ha un carattere divulgativo, ma non intendiamo con ciò dire che si presenta agevole e facile nella lettura. Il linguaggio si avvale di una tradizione filosofica che attraversa l’antichità classica (Anassimandro, Platone, Aristotele, Plotino), la modernità (Kant, Hegel), l’epoca contemporanea (Heidegger, Severino, Cacciari).
Dopo un’introduzione promettente, Donà pone all’attenzione del lettore l’interpretazione gentiliana esposta nella tesi di laurea dal titolo Rosmini e Gioberti. Il contributo di Gentile appartiene ormai alla storia della critica e non risponde certo alle autentiche esigenze teoretiche che Rosmini nel suo tempo avvertiva ed esprimeva, pur avendo avuto il merito di ridestare all’inizio del secolo scorso l’interesse e l’attenzione per una prospettiva filosofica davvero originale, più di quanto lo stesso Gentile non pensasse. Alludo a quella facile e ingenua tentazione di identificare Rosmini con Kant o addirittura ritenere, come ha fatto Garin nella sua Storia della filosofia italiana, che l’esigenza che muove il Roveretano sia più kantiana di Kant.
Il Donà evidenzia nel prosieguo del suo discorso i tratti comuni tra Rosmini e la modernità, sostenendo che il problema gnoseologico costituisce l’inizio imprescindibile di ogni autentica indagine filosofica. Lo stesso problema dell’essere e la posizione della domanda ontologica, rinviano ad una «preliminare comprensione dell’essere come significato, o meglio delle modalità specifiche della sua giustificazione concettuale, sempre inevitabilmente soggettiva» (p. 22). Se indubbiamente il problema dell’origine delle idee e dell’idea dell’essere in particolare, è il problema della modernità tutta, non possiamo qui dimenticare l’apporto positivo che già il Nuovo saggio sull’origine delle idee presenta, anche se non del tutto esplicitamente. Si tratta cioè di un cambiamento di prospettiva, ben più radicale di quanto creda Donà, in quanto non è tanto la gnoseologia che presuppone la questione ontologica, ma è l’ordine intrinseco dell’essere che rende possibile, proprio in quanto condizione necessaria, la domanda del soggetto e la significazione concettuale soggettiva. Questo vuol dire comprendere fino in fondo il primato dell’essere e la portata ontologica dell’idea, intesa come ciò che è ed in quanto è si rende presente alla mente in una modalità o forma, quella ideale appunto. Positivo è il fatto che l’autore colga questo legame essenziale nella filosofia rosminiana tra pensiero ed essere, contro l’incapacità di Gioberti prima e Gentile poi di cogliere la forza di questa unione
Inoltre, Donà sottolinea chiaramente la distinzione che Rosmini pone tra assoluto (esistere in sé) e relativo (essere sentito), idea e sensazioni. L’assoluta inseità dell’essere si configura come la condizione di possibilità di ogni cosa in quanto tale e, ogni cosa è veramente «una» solo in quanto possiede l’essere, il fondamento di tutto ciò che è. Secondo l’autore, «l’essere originario vale come assoluta inseità, proprio in quanto dice la sua assoluta incondizionatezza» (p. 28), prima ancora di considerarlo nella forma ideale. Da una parte abbiamo le condizioni soggettive, dall’altra l’oggetto infinito di cui si deve predicare l’assoluta autonomia. Il pensiero dell’infinito è perciò l’unica modalità del pensare che si possa definire assoluta. In quanto funge da presupposto, l’essere originario si presenta come il vero esistente e la vera e perfetta identità dei diversi, nell’unità e nella coincidenza degli opposti. Tutte le cose sono quell’identico essere e per questa ragione traducono l’originaria diversità da sé propria dell’Originario. Massimo Donà affronta il problema dell’uno e dei molti nella filosofia rosminiana analizzando in questa prospettiva la posizione speculativa di N. Cusano (sui limiti della soluzione cusaniana si veda la nota 18 di pp. 37-38) e V. Vitello. Tutto viene ricondotto alla questione dell’identità e della differenza, intesa come una sfida imprescindibile in cui il differire, ossia l’atto della divisione, non può che essere originario, così come l’identità dell’essere non è esclusa dall’orizzonte dell’originario. Scrive Donà: «Il momento valevole come differenza deve senz’altro poter essere concepito, anche nell’unico principio di cui è espressione insieme all’identità, come ciò che non è l’identità. A questo proposito Rosmini ha le idee molto chiare… È vero: solo nell’Uno, la dimensione costituente il «principio», può rendere concepibili e quindi visibili i Molti. Esso deve dunque renderli concepibili «come Uno». Eppure ciò che la vera visione del principio deve consentirmi di percepire come uno, sono i molti — e quindi il differire come in qualche modo diverso dall’uno… non contraddittoriamente diverso da esso» (Donà, … p. 38 nota 18). Questo è, a parere dell’autore, il novum assoluto della posizione rosminiana rispetto a quella cusaniana che finiva per risolvere dal canto suo identità e differenza in una sola cosa, ossia in un’astratta identità. L’autore riconosce che l’essere rosminiano è indeterminatissimo, semplice, ma non per questo povero. Infatti, esso comprende e possiede già in sé tutti i finiti, virtualmente e inizialmente. «I concetti dunque di essere virtuale e di essere iniziale prestano alla mente la via di soddisfare al bisogno ch’ella sente dell’unità: il primo le somministra il modo di ridurre ad unità tutti i moltiplici termini dell’essere considerati nella loro potenzialità; il secondo le somministra il modo di ridurre ad unità tutti i moltiplici termini dell’essere considerati nella loro attualità». (Teos., vol. I, nn. 265-268). Allo sguardo imperfetto dell’uomo l’indeterminatezza dell’essere intuito a priori, vale come prova della sua non conformità rispetto alla perfezione che caratterizza l’inseità.
Con grande acutezza, Donà ricorre ai testi rosminiani in cui risalta quella coimplicazione essenziale tra uno e molti, cosicché è possibile vedere l’uno nei molti e i molti nell’uno, senza contraddizione, né distruzione dei due termini. In questa prospettiva si colloca l’uni-trinitarietà dell’essere: l’uno è indubitabilmente trinitario. Il Principio per porsi come principio dei molti di fatto esistenti deve essere in grado di giustificare nel suo seno l’originarietà della molteplicità che coesiste nella semplicità dell’uno. Senza approfondire il discorso delle tre forme dell’essere, del sintesismo ontologico e dell’inesistenza delle tre categorie supreme, questioni che fornirebbero l’esatta prospettiva rosminiana in relazione alla problematica dell’unità e della molteplicità inerente all’essere, Donà considera centrale nella prospettiva rosminiana, il problema della molteplicità: «ciò di cui si tratta di render ragione è la stessa possibilità dell’esserci di una molteplicità di individui, ognuno esistente in sé» (p. 66). Nella struttura dell’idealità (essere ideale) l’identico e il diverso, l’Uno e il molteplice eidetico esistono in sé. Come precisa Donà, l’Essere è gli enti, è la molteplicità delle essenze eidetiche, ciò che veramente è. Ancor più precisamente, l’Essere penetra la stessa esistenza individuale delle idee. Tutto ciò perché l’uno e il vero, originaria identità indeterminata, costituisce dall’origine la loro assoluta individualità.
Il punto della questione è trovare la ragione sufficiente del molteplice. Ciò di cui si tratta di rendere ragione è la possibilità delle molteplici individualità, ognuna esistente per sé. Alla luce dei testi rosminiani, la ragione della molteplicità degli enti non può trovarsi nell’essere contingente (che è, ma potrebbe anche non essere); neppure nella sensazione, che è la modificazione del sentimento fondamentale, riesce a giustificare la determinatezza; non può derivare da Dio, poiché, se così fosse, la molteplicità uscirebbe necessariamente dall’essenza divina. Non resta come soluzione possibile, direttamente riconducibile alla filosofia rosminiana, che la forma ideale astratta dall’essenza divina.
Molto opportunamente viene introdotta nel testo quella distinzione tra il pensare che appartiene ad una mente eterna la quale ha per oggetto un essere illimitato e assoluto, e il pensare umano, imperfetto e parziale che ha come termine costitutivo l’essere indeterminato. Sulla base di queste considerazioni, Rosmini critica i filosofi tedeschi che «cadono in errore quando il pensiero e il me astratto confondono col pensiero e il me assoluto. La confusione nasce, infatti, dal non aver convenientemente distinto l’essere indeterminato dall’essere assoluto: illimitato l’uno e l’altro, ma in modo diverso» (Teosofia, p. 126). Viene con ciò evitata ogni forma d ontologismo: l’idea dell’essere è il divino in noi, ma non è Dio, in quanto essa manca della sussistenza.
In un simile contesto si colloca il capitolo centrale «Sulla dialettica» che assume Rosmini ed Hegel come termini di paragone e di confronto. Qui emerge con forza la questione filosofica per eccellenza che è proprio quella del rapporto Uno-Molti. Donà fonda le sue considerazioni sul testo rosminiano Saggio storico critico sulle categorie e la dialettica, un capitolo della Teosofia, dove si dice che l’essenza dell’essere è una, e le cose, tutte egualmente essenti, molteplici. Dopo una brevissima considerazione sui tre modi dell’essere (ideale, reale e morale) e sul limite costitutivo dell’umano conoscere, il discorso ruota attorno alla pluralità degli enti contingenti. La domanda che si pone a questo punto può essere così formulata: «che cosa costituisce la pluralità degli enti contingenti… È ella la dialettica, quella che moltiplica gli enti, come pretende Hegel? O la pluralità delle cose è ella indipendente affatto dalla mente umana? Ha un fondamento nelle cose stesse?…» (Teosofia, tomo IV, vol. 15, Città Nuova Roma 200, p. 254)
Nel processo conoscitivo hegeliano, la principalità poietica del soggetto assorbe in sé la stessa materia della conoscenza. Mentre Kant ritenne che la materia venisse presa dallo spirito umano fuori dalle forme logiche e da ciò derivava la rovina del sapere oggettivo, Hegel, trovando assurda questa conseguenza, negò il fatto, e disse che nelle stesse forme logiche doveva esser contenuta anche la materia del sapere. In ultima analisi, la realtà oggettiva viene assimilata e ricondotta all’attività del soggetto o spirito. L’Io diviene il presupposto imprescindibile della realtà tutta. Come Donà precisa, l’assoluta «principialità poietica del soggetto» significa anche principialità delle sue forme logiche a priori. A partire da tali premesse, Hegel giunge ad affermare l’identità di essere e niente che Rosmini considera come la suprema formula in cui tutte le contraddizioni sono comprese. Nella prospettiva hegeliana, una perfetta identità originaria è il fondamento della contraddizione.
Agli occhi di Rosmini questo fu l’errore logico o paralogismo dialettico commesso da Hegel: dall’identità assoluta scaturirebbe la totalità delle possibili determinazioni del molteplice. Ogni determinazione proviene dall’idea che vale come primum logico e ontologico, inizio e vera archè del molteplice. Per Hegel non vi è altro che l’idea «giacché ella è tutto, ella diviene tutto — è quella che produce le nozioni contrarie e le supposte contraddizioni e antinomie della ragione» (Teosofia, vol. IV, p. 269). Occorre rilevare che, mentre l’identità allude a due termini assolutamente identici, non così è per i termini opposti in una relazione di contraddizione. Da ciò deriva l’errore hegeliano che confonde le due cose facendole confluire nell’identità originaria; dall’Idea dunque si genera la contraddizione. Ma, osserva Rosmini, se l’idea produce la contraddizione, ciò implica che la deve anche contenere virtualmente. Il Roveretano intende così dimostrare l’incapacità di Hegel nel pensare l’identità proprio perché è convinto che essa di fatto non ci sia. Siamo di fronte al punto debole della dialettica hegeliana che non risolve l’aporia dell’identità. Quest’ultima infatti nella prospettiva teoretica del filosofo tedesco è in se stessa già assoluta differenza: l’Uno hegeliano è dall’origine molteplice e i molti sono in quanto tali identici. In tutte le forme dell’idealismo trascendentale, Rosmini rileva l’errore logico o paralogismo dialettico il quale contravviene alla regola suprema della dialettica secondo la quale non si può negare il valore di un pensiero anteriore, se non si nega in pari tempo il valore dei pensieri posteriori. Da ciò segue che chiunque, partendo da qualche principio medio, pretendesse di distruggere i principi supremi, cadrebbe in errore. In un passaggio del testo si sottolinea l’auto-contraddittorietà della tesi hegeliana, in quanto proprio in base alla concezione della dialettica del filosofo tedesco, «si deve ammettere che ogni sua affermazione è immediatamente identica a quella contraria. Il fatto è che Hegel, per poter dire ciò che dice, è costretto ad avere una posizione, ossia deve essere disposto ad attribuire valore di verità solo ed esclusivamente a ciò che sta dicendo. E dunque a smentire la verità della sua tesi. Anch’egli deve presupporre il valore originario ed insuperabile del principio di contraddizione» che per Rosmini indica la possibilità stessa del pensare in quanto tale principio dice che l’essere (ciò che è) non si può pensare con il non essere insieme «- di quel principio che in actu signato egli Hegel vorrebbe destituire del proprio valore di verità. Egli deve riconoscere l’inconfutabilità di quel principio in forza del quale nessuna determinazione può essere ritenuta uguale, identica a ciò che essa non è o non dice. In questo senso ha ragione Rosmini a mettere i luce las struttura paralogistica del logos hegeliano» (Donà, … p. 93). Il paralogismo dialettico cui si fa riferimento è un errore contenuto in tutti quegli argomenti logici che, pur derivando dal principio di non contraddizione, intendono eliminarlo.
Insomma, Hegel sarebbe mosso dalla necessità di trovare una ragione adeguata al problema lasciato irrisolto da Plotino: perché da un Uno assoluto e perfetto i molti? Tuttavia Donà precisa che il problema dell’inizio non viene in realtà risolto adeguatamente neppure da Hegel. Prendendo le mosse dal soggettivismo fichtiano, ma al tempo stesso superandolo, egli ritenne che «le forme logiche avessero un valore oggettivo, e che portassero altresì la loro materia in se stesse, con che anche la materia loro diveniva oggettiva, e il sapere oggettivo veniva così assicurato» (Rosmini, Teosofia, tomo IV p. 271). Per Hegel dunque l’identità, l’unità assoluta che non presenta contraddizione alcuna e non si contrappone ad alcunché, è l’origine dei molti. Come acutamente rileva Massimo Donà che si rifà più o meno esplicitamente alle critiche di Rosmini nei confronti dell’idealismo, resta il fatto che «se l’origine risulta costituita dall’unità dell’idea non possiamo in alcun modo comprendere la ragione dell’attualizzarsi da parte di ciò che in quell’unica origine esisterebbe solo in potenza. Perché l’unità originaria non implica ancora, nella sua mera potenzialità, l’attualità di un sussistere empirico… Il semplice essere in potenza da parte di un qualcosa non garantisce affatto il suo diventare esistente in atto» (p. 95). Di fronte a questa aporia, Rosmini prospetta una soluzione diversa, mostrando cioè che l’origine (l’idea dell’essere) è già attualità dei molti. Qual è il rapporto che intercorre tra idealità e realtà, tra l’uno e i molti? La «pluralità è propria dell’essere reale, e dalla natura di questo si deve desumere: quando poi la pluralità esiste realmente, allora si vede attuata nell’ideale; e in esso se ne contempla la ragione altresì, che prima ci stava occulta in modo virtuale» (Teosofia, p. 420). Ecco allora spiegato il motivo per cui il molteplice non è prodotto dall’Idea, come voleva invece dimostrare Hegel. Il principio è dunque uno e molteplice per Rosmini, cosicché la dualità del principio non coincide affatto con la dualità di principi. Il limite dell’umano conoscere deriva dal fatto che non siamo in grado di vedere insieme le due determinazioni. In questa concezione, bisogna comprendere innanzitutto che i molti, realmente diversi, sono nell’Uno. Come la forma ideale dà all’uomo l’universalità, la forma reale dà la singolarità. Tale distinzione fa parte dell’ordine intrinseco dell’essere e non è una produzione della dialettica. La ragione dell’ordine coincide con la pura essenza dell’essere che è una e semplicissima; l’ordine in quanto tale è invece molteplice, non essendovi ordine senza pluralità. Per Rosmini l’origine è tanto identico quanto differente.
Nell’ultimo capitolo Massimo Donà riassume il contenuto delle prime pagine della Scienza della logica in cui si legge che l’essere puro costituisce l’inizio. Questo essere puro, vuoto, nell’assolutezza della sua immediatezza e della sua indeterminazione, è il nulla. Inoltre la verità dell’essere e del nulla è la loro unità; e questa unità è il divenire. È così che il processo dialettico sfocia nella sintesi, in un’entità logica che contiene entrambi, in virtù del fatto che l’essere trapassa nel nulla e viceversa. È bene precisare tuttavia che il divenire rappresenta non una determinazione logica in senso stretto, ma rappresenta il cominciamento della logica stessa. Si tratta in definitiva di un movimento incessante, di un processo per mezzo del quale le cose divengono e passano dal non essere al nulla. Rosmini fa notare che l’essere puro, cioè vuoto di cui parla Hegel, non è un essere privo di contenuto, ma è uguale al Tutto. Il proposito hegeliano fu quello di dedurre, dall’essere puro e astratto, per via di negazioni, le idee e le cose che sono nel mondo, il che equivale a dire che il filosofo tedesco pose a principio di tutto il nulla.
La questione nei termini rosminiani è posta diversamente. Fondamentale appare la distinzione dei due modi di operare del pensiero: l’intuizione e l’affermazione. Con l’intuizione o visione, l’intendimento vede l’oggetto che è l’essere e non il niente, mentre con l’affermazione e con la negazione, il soggetto pronuncia intorno all’oggetto un verbo con cui acquista una persuasione che è tutta soggettiva, e non aggiunge nulla all’oggetto stesso. Infatti, affermazione e negazione o il loro effetto, vale a dire la persuasione, non producono nessun oggetto nuovo. A questo punto si colloca l’analisi che Rosmini fa della negazione, del nulla, vocaboli che esprimono semplicemente una disposizione soggettiva negativa nei confronti di un oggetto che si manifesta. Il termine «niente» non indica perciò qualcosa di diverso dall’ente. Come è vero che l’affermazione e la negazione non producono enti, è anche vero, rileva Donà, che il soggetto non produce se stresso, ma ha bisogno di un fondamento e di una giustificazione che è altro da sé. Un passaggio fondamentale del testo è proprio quello in cui viene definito e ridefinito il concetto di contraddizione, alla luce del pensiero rosminiano. Secondo l’autore, la radice dell’errore hegeliano consisterebbe per Rosmini, nel tentativo di costituire il negativo come origine della totalità delle cose. Riportando il ragionamento svolto dal filosofo di Rovereto, Donà sostiene che vi è vera e propria contraddizione solo relativamente al conoscere per affermazione e negazione, ossia solo in riferimento alla disposizione che il soggetto assume nei riguardi dell’oggetto. La contraddizione, causa del movimento dialettico, nasce dal fatto che l’essere si presenta nella forma indeterminatissima e manifesta di non poter esistere in sé allo stesso modo in cui è presente alla mente, come abbiamo già rilevato in precedenza. Ecco perché è giusto dire che la contraddizione non è contenuta nell’Idea, ma nasce dalla limitazione del soggetto che intuisce l’Idea. Secondo il decisivo rilievo rosminiano «se di una determinata essenza eidetica si può dire che può essere tutta rossa o tutta nera, dal punto di vista del pensiero intenzionale, le due diverse attribuzioni non esistono mai insieme nella stessa essenza» (p. 127).
In tal senso, le essenze sono tra loro sempre diverse e mai identiche, o meglio diverse l’una dall’altra e identiche solo a se stesse. Sia a livello eidetico che a livello empirico la contraddizione risulta impossibile, giacché la realtà e l’eidos non sono contraddittori. Il contraddirsi è riconducibile invece al soggetto e non mai alla sussistenza o all’idealità. Il molteplice dal canto suo mai potrà darsi come compresenza dei contrari. Ogni determinazione contraria poi rappresenta l’identico in quanto tale, prima ancora di affermare qualcosa e di connettere i significati logicamente. Infatti, l’affermazione frutto della riflessione e del pensiero, può ri-conoscere ciò che è originariamente dato, ma non certo produrre la pluralità degli enti. Intuizione e riflessione rinviano alla considerazione del rapporto soggetto-oggetto nel quale consiste la sostanza del perenne messaggio filosofico rosminiano. Con l’istituirsi dell’atteggiamento riflettente, l’essere ideale indeterminato diviene oggetto per un soggetto. A parere del Donà, restando ferma la distinzione tra i due, è possibile fare esperienza dell’unità in sé molteplice dell’oggetto. In conclusione, non c’è processione dialettica dall’uno (Idea) ai molti (idee e cose sensibili), ma vi è l’uno dell’oggettualità che è affermata dal due (soggetto-oggetto) della riflessione. Il pensiero e con esso la riflessione non produce alcunché, ma è chiamato a conoscere e riconoscere l’oggetto sempre identico e immutabile che si offre alla mente nell’intuizione: l’essere ideale indeterminato.
In ciò mi sembra di poter individuare quella legge ontologica fondamentale che il Rosmini definisce a chiare lettere «sintesismo» e «inesistenza» delle forme dell’essere, capace di rendere ragione del rapporto strutturale che lega soggetto e oggetto. L’autore ha evidenziato che la convergenza tra Rosmini ed Hegel consiste nella definizione dell’entità originaria come idea, ma la differenza tra i due è grande. Il punto decisivo della critica che Rosmini rivolge all’idealismo hegeliano si può riassumere nel fatto che il concreto non è deducibile dal movimento dialettico del pensiero e dell’Idea, e inoltre non vi è alcuna identità categoriale tra realtà e idealità. Riassumendo, diciamo che la dialettica rosminiana (il movimento dialettico altro non è che la tensione del pensiero finito a trovare i termini dell’Essere) presuppone da un lato la necessità dell’Essere di manifestarsi in unità e compiutezza, dall’altro la limitazione del soggetto che non conosce l’essere con queste condizioni.
Tutto il discorso che Rosmini porta avanti è però animato dalla consapevolezza che l’inseità si raggiunge e si manifesta solo attraverso la relazione alla mente, vale a dire in una condizione di dianoeticità.