1. Il principio attivo supremo
Il paradigma metafisico della persona, è stata la novità assoluta introdotta dal cristianesimo che ha utilizzato l’ontologia (l’Essere) e l’enologia (l’Uno) per creare un nuovo paradigma. L’essere umano in quanto persona assume un valore ed una dignità altissima per il fatto che l’uomo è immagine del Creatore. Inoltre, una seconda motivazione deriva dal mistero dell’incarnazione per il quale Cristo stesso ha assunto la natura umana, ha spogliato se stesso non considerando un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio. Tutto ciò conferma quanto sia stata nuova e rivoluzionaria la concezione antropologica cristiana rispetto a quella dei greci, sia in rapporto a Dio che in relazione all’uomo. Infatti, il concetto di persona presenta una struttura triangolare, dove l’io porta il segno del tu e lo stesso legame interpersonale è dato dal rapporto con Dio. L’Altissimo non è il Dio dei filosofi i quali elaborarono forme raffinate di antropomorfismo, ma è essenzialmente Amore. In tale contesto si inserisce il pensiero di Antonio Rosmini che restituisce vitalità a questo discorso: egli considera inizialmente il soggetto in generale, poi la sua specie sensibile, quella puramente intellettuale e infine il soggetto specificamente umano. Il punto intermedio dell’analisi metafisica, è costituito dalla dimensione che potremmo definire psicologica: la genesi dell’Io.
Se è vero che l’Antropologia in servizio della scienza morale colloca la persona ad un livello etico, bisogna considerare attentamente l’ontologia personalista1 che è qui sottesa, poiché nella persona umana si attua il sintesismo ontologico delle tre forme dell’essere. Vediamo ora nel dettaglio le definizioni che Rosmini propone nel tentativo di esplicitare sempre più il suo pensiero: «La persona si può definire un soggetto intelligente».2 Analizzando le parole con i significati ad esse connessi, si nota subito la differenza tra ciò che si chiama semplicemente soggetto e la persona: il primo indica il principio attivo contenuto in un essere sensitivo qualsiasi (intelligente oppure no); quando invece aggiungiamo l’attributo intelligente, restringiamo il campo di riferimento ad una specie particolare, quella appunto dei soggetti intellettivi che possiedono una dignità superiore a tutti gli altri. Ancora una volta, la continuità con la Tradizione è quanto mai evidente. Già Boezio (480-526), definendo la persona «naturae rationalis individua substantia»,3 introdusse i due caratteri dell’individualità sostanziale e della razionalità umana. Questa definizione fu approfondita poi da S. Tommaso che nella Summa theologiae, scrive: «persona significat id quod est perfectissimum in tota natura, scilicet subsistens in rationali natura».4 L’uomo inteso come realtà sussistente, diventa paradigma dell’esistente, vertice supremo della realtà contingente, cosicché nessun’altra realtà può uguagliare il suo essere personale, la densità ontologica e il valore morale che essa «sintesizza» in se stessa. La sostanza suprema cui si fa esplicto riferimento è lo spirito che nella sua sussistenza rappresenta ciò che vi è di più perfetto nella natura. Ripercorrendo la storia del termine persona, notiamo che in origine esso significava la maschera usata nei teatri dai commedianti ed indicava gli uomini costituiti in dignità. A questo tradizione di pensiero si ispira il Rosmini quando dice che il soggetto intellettivo (razionale) e la persona, nell’uomo sono la medesima cosa; infatti, il principio intellettivo-volitivo, è ciò che vi ha di più eccellente, di supremo nella natura umana. Dunque il punto più elevato dell’esistenza, non è meramente sensitivo, ma è propriamente intellettivo, il primo viene aggiunto come un mezzo al suo fine, come la materia di ogni cognizione. Il Nostro non si ferma ad un’espressione sintetica, ma dà anche una definizione più esplicita: «diremo che si chiama persona un individuo sostanziale intelligente, in quanto contiene un principio attivo, supremo, ed incomunicabile».5
Le potenze, i principi e i rispettivi termini di cui si compone l’ente qui considerato (intelligenza, volontà, sentimento, istinti) sono collocati in un ordine, una gerarchia, una struttura all’interno della quale vi è un principio supremo in relazione a tutto ciò che è sostenuto e attivato da esso: «La persona esprime l’ordine intrinseco dell’essere in un individuo senziente e perciò ha per base una relazione tra il principio intrinseco e tutto il resto che è nell’individuo stesso».6 L’ordine ontologico di tutti gli elementi, è quello che il Rovertano chiama una «relazione sostanziale» la quale si trova nell’intrinseco ordine dell’essere di una sostanza. Si tratta di una relazione che sussiste nel soggetto umano, cioè di un principio supremo di operare che domina su tutti gli altri. Ciò di cui andiamo discutendo e che costituisce la base della persona è l’attività intellettiva che non è diversa da quella volitiva. Infatti, la volontà opera dietro la cognizione. Dalla volontà intellettiva (principio attivo supremo) dipende la sussistenza dell’individuo e in virtù di questo principio, la persona è causa prima delle sue azioni. Perciò, «se la sussistenza è l’elemento essenziale per la costituzione della persona, ne segue che persona si è fin dal primo istante della propria esistenza».7 La persona ha dunque queste proprietà: è innanzitutto una sostanza, poi deve essere un individuo reale che non appartenere alle cose puramente ideali, è inoltre intelligente; è un principio attivo che include anche la passività e la ricettività ed è anche supremo, nel senso che non ve ne sono di superiori, senza involgere necessariamente una relazione con qualche cosa di inferiore. In ultimo, l’aggettivo incomunicabile rimanda al fatto che ogni individuo non si può comunicare senza cessare di essere se stesso, l’incomunicabilità del soggetto e della persona non significano altro che l’unità individuale che gli conferisce quella esistenza e nessun’altra, grazie alla quale e per la quale ognuno è se stesso, distinto dagli altri. È il concetto dell’irripetibilità e dell’unicità individuale. Poiché la persona è essenzialmente una, è incomunicabile: «la sua esistenza come persona comincia e finisce in sé, è separata da ogni altra esistenza. Se dunque esistono molte persone nel mondo, ciascuna di esse è un uno subiettivo incomunicabile; e perciò il mondo non ha un solo subiettivo, ma molti».8 Questo discorso, contrariamente a quanto si potrebbe pensare sulla base di un’interpretazione fuorviante, costituisce il presupposto di ogni possibile comunicazione. Infatti, il soggetto prima ancora di incontrare l’altro da sé, è se stesso nella sua totalità e unità indissociabile. Ma l’uno si apre ai molti, poiché il mondo non è costituito da un solo soggetto, ma è lo spazio comunicativo del «noi».
Volontà intelligente. Risulta ora necessario volgere la nostra attenzione al principio personale che qualifica l’esistenza personale. Dobbiamo rilevare subito una difficoltà nel cogliere la concezione rosminiana della volontà, della sua genesi e natura: se cioè sia possibile o meno applicare ad essa lo stesso schema che vale per le altre potenze dell’uomo le quali sono dette atto primo, come elementi costitutivi dell’essere umano, e potenze in rapporto agli atti secondi. Tale questione è stata affrontata in modo esplicito da Cirillo Bergamaschi,9 ma ancor prima il Pagani aveva notato che «la volontà primitiva anziché come potenza esiste come atto immanente, principio e base della potenza, onde il Rosmini ama appellarla piuttosto volizione primitiva, perciò egli afferma la potenza morale non essere a principio nell’anima se non virtualmente».10 Questa volontà primitiva va intesa come atto ontologico essenziale e, i testi rosminiani che evidenziano ciò, sono in verità molto rari. «La volontà primitiva ed universale non ha ragion di potenza, ma di atto immanente, principio e base della potenza; onde meglio che la volontà primitiva, a noi pare di doverla chiamare volizione primitiva».11 Un altro passo molto significativo che condensa in poche parole la verità di questa interpretazione della volontà, è il seguente: «Nell’uomo v’ha un atto primo d’intelletto, e un atto primo di volontà: quello è l’idea dell’essere indeterminato, questo è la tendenza appunto indeterminata verso quest’essere. La natura umana adunque ha dunque nel suo seno fin dall’origine un intelletto e una volontà in atto e da questi risulta e si crea come da’ suoi proprj costitutivi elementi».12
Da questi passi risulta chiaramente l’esistenza di un atto della volontà fondamentale, essenziale, necessario, universale. Si può ritenere che ogni uomo, anche nella situazione più infelice, sia esso un pazzo, un ubriaco o un imbecille, e meno sviluppata, pensiamo ai bambini, non sia privo del tutto di un atto di ragione, e quindi ne faccia uso in qualche modo. Anche se costoro ricevono percezioni e sentimenti alterati, congiungono debolmente, irregolarmente e a volte falsamente le idee, non per questo cessano di essere uomini. Anzi, è così provato che hanno idee, percezioni, sentimenti e che in qualche misura li congiungono: «Ora se ciò fanno, già usano della ragione; usano della volontà; ed è per sé onesto l’uso della facoltà. Alla conservazione adunque, e all’uso delle proprie facoltà, pigliato in generale e nel debito modo, l’uomo ha sempre diritto, come egli ha diritto a quel bene in comune, ch’egli vuole sempre essenzialmente: volizione onesta, essenziale, necessaria, fondamentale».13 In tale contesto, si esplicita il carattere dell’universalità, poiché volere il bene comune è essenziale ad ogni uomo, un suo diritto in qualunque stato e condizione si trovi. La volontà umana è formata proprio dalla notizia del bene in comune in quanto essa è un’inclinazione al bene, una tensione continua e connaturale verso ciò che non contiene alcuna determinazione. Se ciò è vero, si comprende la preziosa indicazione che un attento e appassionato studioso dei testi rosminiani ci fornisce: «L’interpretazione che considerasse che la volontà sia concepita dal Rosmini come una semplice inclinazione o attività della parte intellettiva dell’uomo, e che esce all’atto soltanto date certe condizioni, sarebbe del tutto insostenibile, sia considerando la logica del sistema, sia le dichiarazioni esplicite dell’Autore, che afferma esplicitamente che per la volontà vi è un atto primo essenziale, che si considera potenza in relazione agli atti secondi».14
La dottrina intorno al primo atto della volontà è connessa con la teoria dell’intendimento, poiché ogni volizione suppone sempre una cognizione, e una volizione primitiva esige che ci sia innanzi a sé e come suo termine una cognizione primitiva e originale. L’oggetto primitivo dell’intendimento, il primo noto grazie al quale si conoscano le altre cose, è l’essere indeterminato intuito per natura. Ad ogni modo, non è sufficiente la pura e semplice contemplazione dell’oggetto visto e conosciuto; affinché l’uomo migliori se stesso, c’è bisogno di un’operare volontario, poiché la persona si compie nella volontà e l’uomo buono e virtuoso è colui che fa il bene ed evita il male. In una pagina vibrante di emozione, densa di contenuti, capace di aprire scenari nuovi all’umanità tutta e di prospettare orizzonti nuovi, così si esprime Rosmini: «Una filosofia la quale non tenda al miglioramento dell’uomo è vana. Ed oseremo anche dire di più, essa è falsa; poiché la verità migliora sempre l’uomo».15 Per passare dall’ordine ideale a quello reale, c’è bisogno di un atto della volontà e la stessa nozione di bene non è una nozione intellettiva, ma è essenzialmente una nozione voluta. La volontà colora di sé tutto ciò che l’intelletto apprende, è un atto di amore e dedizione che riassume e lega l’essere ideale e l’essere reale in una terza forma: l’essere morale. Occorre perciò un atto di riconoscimento pratico, grazie al quale si amano tutti gli enti secondo il loro ordine, in virtù della loro quantità determinata di essere (il quantum ontologico). Il riconoscimento da parte della volontà dell’ordine dell’essere, involge il concetto di giustizia che non è altro se non il dare a ciascuno il suo. Per queste ragioni condividiamo le penetranti analisi condotte da Gomarasca il quale sottolinea, sulle orme di Schiavone, come il metodo e il punto di vista squisitamente razionale applicato all’etica, non scade mai in un vuoto sentimentalismo, non rende mai intellettualistica la logica morale del Rosmini: «Nell’atto del riconoscimento pratico, la volontà non si costituisce come puro rispecchiamento dell’ordine ontologico, presentatole dalla ragione. Piuttosto, si dovrebbe parlare di funzione poietica della volontà, nella misura in cui essa si comporta come un attuazione e un compimento della dimensione più specificamente teoretica».16 La volontà svolge la funzione di attuare la vita spirituale nella quale il soggetto non solo conosce l’oggetto, ma entra in un rapporto vivo con esso, lo riconosce e lo ama con un amore universale e con un atto di adesione. «La volontà è la parte attiva del soggetto intelligente, e si può definire quella virtù che ha il soggetto di aderire ad un’entità conosciuta».17
L’adesione del soggetto all’oggetto rende la notizia dell’intelletto operativa e, poiché la volontà opera alla luce dell’essere, essa è la più nobile tra le facoltà attive, il principio supremo che costituisce la persona. C’è dunque prima l’essere oggettivo, e poi l’attività soggettiva che si congiunge ad esso nella forma dell’assenso: così nasce il principio attivo delle operazioni umane, la potenza di volere, che dicesi volontà. Riconoscere l’ordine intrinseco dell’essere nel quale appunto la volontà si radica, seguire nell’operare il lume della ragione, è la legge morale assoluta. Come esplicitamente si esprime il Nostro, «la volontà è la potenza per la quale l’uomo tende al bene conosciuto»18 e che dunque «opera a tenore di una cognizione precedente».19 Dall’atto primo e originale con cui l’uomo intende, scaturisce l’attività della volontà umana. Il bene dell’atto volontario consiste nell’unirsi di questo al suo termine naturale: «Ora il termine naturale della volontà è l’ente conosciuto».20 Occorre collocare tutte queste espressioni all’interno del sistema, dove risulta per la verità non sempre in modo esplicito, che la volontà è un atto primo essenziale ed è una potenza in relazione agli atti secondi. Come l’intelletto, anche questa facoltà umana non sarebbe potenza se prima di tutto non fosse atto: l’atto costituisce la potenza e ogni potenza è un atto primo.
La volontà: atto d’amore. La volontà costituisce la parte morale dell’uomo, è un atto primo, «un atto di amore per la sua stessa essenza».21 Già nell’Antropologia in servizio della scienza morale si era detto che volere una cosa significa guardarla come bene, amarla. La volontà è sempre in atto verso il bene, per cui è sufficiente che esso si presenti affinché la volontà lo elegga, cioè perché lo preferisca al suo contrario. Il significato metafisico della moralità emerge allorquando si considera il bene un trascendentale, nel significato scolastico del termine, come ciò che indica lo stesso essere. Tutti gli enti sono buoni per il fatto che esistono e a prescindere dalle qualità accidentali che li costituiscono: ogni essere è bene in quanto è, dice Rosmini.22 Perciò, è nella natura della volontà amare tutte le cose: «un cotal amor universale è, si può dire, il fondo della volontà, e della umana natura che la possiede».23 Ogni atto morale, lo stesso atto primo della volontà che tende al bene universale, viene dall’essere e va all’essere. Questo bene universale o forma morale dell’essere è ciò che pone in atto la stessa volontà. L’essere ideale è la forma oggettiva dell’intelletto umano, ma in quanto è morale diviene termine della volontà. Questa terza forma emerge dalla virtualità dell’idea che, in ultima analisi, contiene la realtà e la moralità. La forma oggettiva, infatti, è l’unico astratto divino e davanti alla mente esiste questa forma astratta dell’oggettività, mentre le altre due sono contenute in essa.24 In conclusione, diciamo che l’essere morale per il Rosmini è sempre fine e si congiunge all’atto di amore fondamentale che è la volontà; il termine di quest’ultima è dunque l’essere in quanto fine e, la volontà «non è che la potenza di operare per un fine».25 La dimensione metafisica del volere si chiarisce ulteriormente nella considerazione della persona che, in una prospettiva morale, è sostanzialmente amore e, in virtù della sua partecipazione all’essere universale, diviene fine. «Il circolo reale, intellettuale e morale dell’atto ontologico, costituente l’ente finito uomo, modellato e fondato nel circolo uno e trino dell’essere assoluto, trova nel morale, cioè nella volontà che è un atto immanente di amore […] la sua costituzione fondamentale e radicale che è quella di essere un essenziale amore o apertura verso l’Essere infinito».26
Da tutto ciò risulta evidente che l’aspirazione più profonda dell’essere umano consista nella volontà di amare ciò che si conosce. La conoscenza affettuosa rappresenta infatti il vertice della conoscenza in quanto «l’amore perfeziona il conoscimento, e l’uomo che conoscendo ama, trova nell’ente amato il bene, termine pieno di quell’atto di cui egli è potenza. Laonde si può convenientemente deffinir l’uomo «Una potenza, l’ultimo atto della quale è congiungersi all’Essere senza limiti per conoscimento amativo». Questa tendenza, quest’istinto razionale e morale, detto da Sant’Agostino il peso dell’uomo (pondus meum, amor meus, eo feror quocumque feror, Conf. XIII. 9), move e guida tutto il suo sviluppamento. Di che la ragione è, perché l’uomo, ne’ primi suoi tentativi d’acquistare un conoscimento scientifico, non si volge ad astratte speculazioni, nè se n’appaga, ov’altri gliele presenti, giudicandole vane ricerche e quasi un sapere formato a tela di ragno. Chè le astrazioni si possono desiderare per la luce che danno a conoscere la realità, ma sole non sono amabili nè può acquietarvisi l’umano desiderio. L’uomo è realtà, e vuole accrescere la realtà propria, e non può accrescerla colle pure astrazioni».27 Ciò dimostra chiaramente quanto sia lontano dal Rosmini ogni forma di intellettualismo: l’amore è il motore sempre in movimento della nostra vita, è ciò che ci fa essere e ci spinge ad operare. Cosa sarebbe mai un filosofo se non fosse in grado di trasmettere tutto il suo patos per la vita, la verità assoluta? Le speculazioni possono conferire luce alla realtà, ma in se stesse non sono in grado di soddisfare l’umano desiderio di amare. L’esistenza di un mondo delle idee in cui il pensatore possa rifugiarsi fuggendo dal mondo, viene smentita dalla realtà che ciascuno di noi è, dalla quale non si può evadere; ancora più in profondità, l’uomo vuole addirittura accrescere la propria realtà. Come può avvenire ciò? Possono mai bastare vane illusioni e artificiose costruzioni della ragione all’aspirazione infinita iscritta nell’uomo? La filosofia non è altro che l’amore puro e incondizionato della Sapienza, nel grado più alto che si possa concepire dalla nostra mente. L’Essere senza limiti al quale l’uomo aspira di congiungersi per mezzo di una conoscenza animata dall’amore, esprime il fine della nostra esistenza e anche delle nostre riflessioni.
La moralità si qualifica come la ricerca attiva del fine da parte dell’uomo che vive in una circostanza particolare e decide, nello spazio ontologico della libertà, di aderire o non aderire all’attuazione e alla perfezione ontologica della propria esistenza. Chi ha colto recentemente questo sviluppo, è stato Paolo Gomarasca: «l’essere ideale indeterminato è certamente un bene, ma il bene del soggetto uomo, quello che riveste carattere di legge, può avere il proprio fondamento soltanto nell’Essere assoluto creante e finalizzante il creato […]».28 Con ciò siamo giunti ad un punto determinante dell’indagine sull’essere umano condotta da Rosmini, ma facciamo ora il punto della situazione: dopo avere indagato nei presupposti ontologico-metafisici la natura della forma morale quale termine ultimo dell’atto dell’essere (nel senso che rappresenta la perfezione e il compimento), abbiamo visto in che consista il principio supremo della moralità.
2. Le azioni esterne: volontà e libertà
Ci poniamo qui il problema di come il soggetto morale passi all’azione esteriore e in che consista l’atto morale in particolare. Rosmini parla di un segreto lavoro che si compie nello spirito dell’uomo: all’apprensione delle cose o cognizione diretta che si configura con il carattere della necessità, segue la riflessione volontaria che può riconoscere fedelmente la cognizione diretta oppure alterarla; la meditazione sulla cognizione diretta costituisce un’altra tappa cui fa seguito l’apprensione viva e operatrice prodotta dalla meditazione; il giudizio o stima pratica, effetto dell’apprensione, produce il diletto intellettuale o dolore; come il dolore e il dispiacere sono il principio dell’odio, così il piacere e il diletto non sono altro che l’inizio dell’amore pratico che, a sua volta, rappresenta il compimento ed il fine del piacere. Infine, dietro l’amore e l’odio, seguono le azioni esterne, come il punto d’arrivo di un lungo processo. Tutto questo itinerario interiore viene descritto nei Principi della scienza morale.29 L’Antropologia in servizio della scienza morale si presenta come un approfondimento ulteriore del discorso, in quanto l’atto morale viene distinto dall’atto umano, da quello intellettivo, dall’atto volitivo e dall’atto di elezione.
Innanzitutto umano è l’atto che l’uomo compie con le potenze che sono esclusivamente sue, l’intelletto e la volontà. Gli atti umani sono il genere, comprendono cioè tutta la serie degli atti che concepir si possano. L’atto intellettivo e quello volitivo sono due specie, una sorta di sottoinsiemi che non coincidono totalmente con l’estensione più ampia di quelli che nominiamo genericamente atti umani. Attraverso molteplici distinzioni, giungiamo ad un punto decisivo dell’analisi che riguarda le azioni esterne: l’atto morale è una terza specie particolarissima in quanto indica gli atti eminentemente umani. In conclusione, l’atto morale e perciò la moralità, viene definita «l’atto della volontà nella sua relazione colla legge».30 Per comprendere a fondo queste parole, dobbiamo riferirci innanzitutto alle volizioni o atti della volontà che si distinguono in affettive e apprezziative.
Le volizione affettive costituiscono una funzione essenziale della spontaneità razionale e richiedono uno sviluppo dell’intelletto che consenta la percezione dei beni animali, senza nulla più. Il bambino desidera e vuole solo ciò che gli è grato ai sensi, ma non pronuncia a se stesso un giudizio di valore perché non possiede ancora una regola che gli consenta di fare ciò. «Le volizioni meramente affettive non si possono dire morali, appunto perché non si ha in esse un giudizio portato sul prezzo della cosa, ma la volontà concorre all’atto solamente allettatavi dall’istinto animale e in aiuto di questo».31 Siamo qui ad un livello di sviluppo soggettivo.
Le volizioni appreziative e l’atto morale. Le regole che rendono possibili i giudizi sono date dalla facoltà dell’astrazione che esercitiamo sulle nostre percezioni reali al fine di ottenere le idee specifiche, da queste le generiche fino ad arrivare a quelle universali e astratte. A sua volta la stessa astrazione trova la condizione di possibilità nella stessa idea dell’essere indeterminato. Questa facoltà dunque consente alla volontà di accedere ad un altro grado di sviluppo più elevato del primo, giacché l’idea astratta è quella regola dell’apprezzamento degli oggetti. Chiarito ciò, non si deve pensare che tutte le volizioni di questo tipo siano morali: la stima soggettiva delle cose, il giudizio su quanto valgano le cose soggettivamente, non è ancora la moralità attuale. Perché essa si realizzi occorre non una regola qualsiasi, ma unicamente la regola morale, causa efficiente della stima oggettiva. Se lo sviluppo morale attraversa diversi gradi, l’attuazione totale si ha quando l’uomo riconosce di non essere l’unico soggetto intelligente. Gli altri sono parte dell’universo morale e meritano lo stesso riguardo, a tal punto che per essere felici non si deve rendere miseri i nostri simili, ma al contrario si deve procurare la felicità degli altri come la propria.32 Questa apertura alla dimensione relazionale dell’essere umano, il quale si costituisce in essa dal punto di vista ontologico e quindi anche morale, è un grande merito della speculazione rosminiana che troviamo nei Principi della scienza morale e nell’Antropologia in servizio della scienza morale. L’uomo attinge la propria perfezione nel rapporto interpersonale, vive la propria dignità amando il valore oggettivo delle cose, abbandonando gli interessi individuali, assoggettando a se stesso le manie di grandezza, come l’istinto di superiorità e di potenza. Attraverso la facoltà dell’integrazione, dalla scoperta di altri esseri intellettivi all’intelligenza suprema di Dio, il passo è breve: così l’uomo raggiunge il traguardo della sua maturazione psicologica e morale, ottenendo il possesso dell’idea astratta e del bene oggettivo. Quando la regola del prezzo assoluto delle cose e delle azioni viene pronunciata per la prima volta, comincia l’atto compiutamente e pienamente morale. Dunque, il carattere della moralità dipende strettamente dall’idea del bene oggettivo, e il bene morale consiste proprio nella preferenza di esso al bene soggettivo.
Atto elettivo o di scelta. A proposito dell’atto di scelta, Rosmini insiste su ciò che impedisce di confonderlo con l’atto morale e con quello volitivo. Il punto di tangenza, ma ancor più di coincidenza tra queste diverse specie di atti, si verifica ad una condizione precisa, quando cioè tra i beni soggettivi e l’ordine oggettivo dell’essere, si sceglie quest’ultimo. Ma andiamo con ordine, analizzando i tre gradi in cui si può dare la scelta o un vestigio di essa. Nel bambino si verifica in un primo momento un contrasto tra più beni fisici che non si possono avere tutti insieme e già a questo stadio si manifesta una scelta dei beni che si giudicano migliori per appagare i propri istinti. In secondo luogo, si esercita una scelta tra beni animali e spirituali propri dell’uomo, anch’essi soggettivi. Infine, vi è un terzo stadio dell’atto elettivo tra beni di ordine soggettivo e beni che appartengono ad un ordine oggettivo. Nell’età in cui si concepisce l’ordine oggettivo delle cose, si può parlare di moralità dispiegata, per cui l’atto volitivo, l’atto della scelta e l’atto morale sono diversi, non nel senso che l’uno è estraneo all’altro, ma per il fatto che non coincidono totalmente. Tuttavia, l’uno è inerente all’altro, come il più conosce il meno, il che significa che l’eccellenza dell’atto morale si può cogliere solo nella scelta o elezione del bene oggettivo. In queste distinzioni quasi impercettibili, mi pare di coglier lo sforzo grandioso di un pensatore, animato da una forte esigenza morale che è di carattere oggettivo e che richiede una scelta del soggetto maturata nel tempo. Ma vediamo in che consiste la libertà e come l’atto elettivo di cui abbiamo parlato non si debba confondere con l’atto libero.
Atto libero. Il primo grado di elezione, tra beni fisici, che sono in competizione tra loro, è privo di libertà poiché il bambino effettua una scelta sulla base degli istinti che prevalgono e a cui si accompagna un movimento spontaneo della volontà che Rosmini chiama volizione affettiva. Ascendendo al secondo grado della scelta, è legittimo parlare di libertà dove si tratta di scegliere tra beni fisici e beni di opinione che l’uomo si crea da se stesso (una specie di frutto che ha prodotto nel fanciullo un piacere graditissimo, resterà segnato nella mente come una cosa preziosa; questa opinione o giudizio abituale sulla cosa, indurrà a scegliere, anche a distanza di tempo, quel frutto a preferenza di altri) con la propria forza pratica? Rosmini ribadisce che nella sfera dei beni soggettivi, non c’è libera scelta. Resta perciò che la libertà umana si manifesti, senza alcun dubbio, nel terzo grado di elezione, nel quale «la libertà è chiamata nientemeno a soggiogare tutto ciò che v’ha di soggettivo, facendol servire all’ordine oggettivo ed assoluto, è chiamata a rendere onnipotente l’invisibile, l’ideale, la verità, la giustizia, su tutto ciò che è visibile, su tutto il reale, sull’universo e tutto ciò che in esso si rinviene, di bello, di grande, di seducente e di incantevole».33 Le ali della libertà si stendono nel cielo e librano abbandonandosi all’ebbrezza del vento; essa ha cioè «il compito di governare e il dovere di imporsi all’azione reale esercitata dai beni presenti sull’appetito, scegliendo, stimando anche i beni soggettivi in modo oggettivo […].».34 La libertà dell’atto consiste nel «non patire necessità. L’atto libero è quell’atto della volontà che non viene determinato (da nessun impulso straniero al principio volitivo) da nessuna cagione necessaria diversa dal principio che vuole».35 Questo è il concetto assoluto di libertà intesa in senso stretto e, poiché da essa proviene il merito delle azioni, si chiama libertà meritoria.
La libertà è il contrario della servitù ed è perfetta allorquando esclude ogni forma di sudditanza. Essa si predica in molti modi che si addicono alla volontà. La libertà da ogni violenza indica che la volontà, in virtù della sua stessa definizione, non può essere forzata, il che sarebbe una contraddizione in termini. Amare qualcosa, conoscerla come bene, significa volerla senza sforzo, per cui la forza violenta che viene dall’esterno è un concetto di genere opposto alla volontà. Vi è poi la libertà da ogni necessità: il fatto che questa nostra facoltà non possa essere violentata, non la rende libera in senso stretto, giacché, pur libera da ogni violenza, può essere mossa e necessitata da qualcosa, un impulso esterno al principio volitivo. Sulla stessa linea della tradizione scolastica, Rosmini distingue dunque libertas a coactione e libertas a necessitate. Da ciò segue che la volontà agisce sempre in modo spontaneo, ma non sempre in modo libero. Volontà e libertà non si devono confondere, come fecero Calvino, Giansenio e Baio. Essi non compresero che la libertà è un accidente della volontà, nel senso che le due coincidono solo ad un livello di scelta che ci introduce nell’ordine oggettivo delle cose: dunque la volontà si può trovare in uno stato di necessità e in uno stato di libertà. Le polemiche teologiche intorno alla grazia che si verificarono nella Chiesa in occasione delle opinioni avanzate da Baio e Giansenio, condussero a fissare l’attenzione sopra la volontà istintiva non ancora libera, evitando la confusione con il libero arbitrio propriamente detto. In base a simili ragionamenti, si concluse che la volontà poteva esistere nell’uomo fin dai primi momenti della sua esistenza e anteriormente al suo libero arbitrio. L’uomo avrebbe poi acquistato la libertà col tempo, sviluppando il suo intendimento. Infatti, solo quando egli è in possesso della cognizione di più cose, può scegliere ciò che più gli è grato. Perciò, la potenza della volontà è presente in un bambino, ma è priva di libertà, essendo in uno stato legato e necessitato. Essere liberi dalla necessità significa voler operare senza un impulso necessitante, è «l’atto della volontà in cui questa potenza non è da cosa alcuna necessitata, ma ella si determina e muove da sé stessa a qual più voglia dei vari partiti che le stanno innanzi».36 Questa è la definizione che il Roveretano ci fornisce della libertà bilaterale o meritoria. Commentando alcuni passi di S. Agostino, il Nostro rileva la distinzione implicita tra l’operar spontaneo della volontà (volontà non ancora libera) e la volontà morale che nasce nell’alveo della libertà meritoria (volontà libera).37 Le difficoltà ermeneutiche in rapporto al Padre latino, vengono superate nella misura in cui si interpretano correttamente i luoghi in cui quest’ultimo usa la parola libero arbitrio (libertà) per indicare la volontà in generale, che opera spontaneamente, e quelli in cui con l’espressione «libero arbitrio» vuole indicare la libertà propriamente detta, che rende meritevoli le nostre azioni. Inoltre, la libertà considerata come una qualità dell’operare volontario, ricevette altri significati dai Padri della Chiesa: si disse che la volontà nasceva soggetta alla legge, serva della giustizia e di conseguenza libera dal peccato (libertà che conviene ai santi); in secondo luogo che la volontà rigettasse la legge, divenendo serva del peccato e libera dalla giustizia (libertà dei dannati, retaggio dei figli di Adamo); infine che la volontà era libera di servire alla giustizia e al peccato, il che significa che era libera di scegliere (questa libertà la ebbe il primo uomo nello stato di innocenza e che hanno i redenti in Cristo i quali con l’aiuto della grazia riacquistano il potere di vincere il male e operare il bene in un ordine soprannaturale). «I primi due stati di libertà si potrebbero chiamare di libertà unilaterale, e il terzo si può chiamare stato di libertà bilaterare».38
Alla fine di questo itinerario storico-ricognitivo molto variegato, il Rosmini parla della libertà dell’intelligenza; l’elemento intellettuale è ciò che mette l’uomo in relazione con l’elemento oggettivo degli esseri, con l’ordine morale. Il concetto di volontà intellettuale mette in evidenza quella che è la parte più nobile della natura umana e, se le inclinazioni soggettive sono il carcere della libertà umana poiché restringono l’uomo in uno spazio esistenziale limitato, al contrario, l’inclinazione oggettiva apre una dimensione infinita e viene denominata enfaticamente «la reggia del cielo».39 L’uomo è perciò veramente libero, non impedito a fare ciò che più vuole, solo quando si compie la volontà dell’uomo che segue l’intelligenza. Al trionfo della volontà superiore dell’uomo si congiunge la felicità e l’uomo libero è anche virtuoso: nella virtù infatti è libera la sua parte più eccellente. Tuttavia, il filosofo di Rovereto è consapevole che nella vita presente la libertà è sempre mista a qualche servitù (gli istinti e le passioni) e proprio il comandare le passioni è ciò che rende l’uomo virtuoso e libero dal peccato. È la libertà dei giusti in terra. In questo discorso vediamo esplicitato un rimando alla dimensione soprannaturale, nella quale la libertà sarà perfetta in ogni sua parte. Distinte le varie libertà, Rosmini si sofferma a parlare della libertà bilaterale, fonte del merito. Essa non opera mai senza una ragione, anzi il potere dell’uomo consiste nel far sì che uno dei tanti motivi compresenti nel nostro animo prevalga sugli altri a determinare la volontà all’azione.
Libertà o causalità? La riflessione, giunta fin qui, affronta il classico problema delle relazioni tra causalità e libertà. La libertà è un dato di fatto incontrovertibile testimoniato dall’osservazione interna, e lo stesso dicasi della causalità. Inoltre, sembra che si escludano a vicenda per cui la domanda è: come si concilia la libertà con il principio di causalità? All’indagine storico-teoretica appaiono tre soluzioni differenti: 1º alcuni difesero la libertà umana a scapito della causalità che restava non spiegata nella formula stat pro ratione voluntas; 2º altri, fra i quali Leibniz, dissero che la libertà si decide dietro una ragione preponderante; con ciò si affermò l’esistenza del principio di causalità senza nulla dire sulla libertà bilaterale, 3º infine il criticismo con la distinzione tra fenomeni e noumeni, pensò di conciliare le due posizioni in base all’assunto secondo cui il principio di causa dominerebbe l’ordine fenomenico e la libertà apparterrebbe al noumeno. Fenomeni e noumeni, causalità e libertà, sono cose che derivano dallo spirito umano, sue produzioni a cui lo spirito necessariamente crede. Questa soluzione è la peggiore di tutte poiché non rende giustizia né all’uno né all’altro partito.
Ma se è vero che il Nostro respinge tutti e tre i sistemi qui enunciati, quale soluzione propone alla questione? Per prima cosa l’atto della libertà viene definito come quell’atto di elezione con il quale l’uomo, avendo da una parte un bene soggettivo e dall’altra un bene oggettivo e assoluto, preferisce l’uno dei due all’altro. Dunque la risposta è questa: la libertà è causa della scelta. Questa causa può operare in due modi, può cioè scegliere una cosa o l’altra, ma il suo effetto è immediatamente identico, la scelta. Quindi, data all’uomo la libertà in atto dalla natura, quest’unico effetto della scelta c’è sempre e necessariamente. L’atto dell’eleggere è un atto semplicissimo, in cui vi è solo l’elezione e non ancor volizione, anzi è quello che determina l’una o l’altra tra le volizioni, e che perciò deve precedere tutte.
3. Persona, Io, natura
Persona e Io. Dal complesso delle riflessioni svolte, si fa più chiaro che la parola persona, nel senso rosminiano del termine, non esprime in modo assoluto e necessario la stessa cosa che indica il monosillabo Io. Fra l’una e l’altro esiste una differenza di concetto, simile a quella che c’è fra il soggetto e l’Io. Per lo più, dicendo «Io», si esprime un soggetto intelligente, ossia una persona che ha consapevolezza di sé, della propria personalità, per cui si dice che è un pronome personale. Quando l’anima percepisce e pronuncia il monosillabo Io, raggiunge il centro del suo essere cosciente: «Il monosillabo IO, è dunque il segno vocale, pronunciato da un’anima intellettiva (o più generalmente da un soggetto intellettivo), di un atto suo proprio quando interiormente rivolge l’attenzione a se stessa e si percepisce».40 Da quanto detto, derivano due conseguenze importanti: innanzitutto che si è sempre persona fin dal primo istante della vita; in secondo luogo deduciamo che solo l’uomo è autocoscienza e può dire conseguentemente «Io».
Persona e natura. La dignità dell’elemento personale è così alta e sublime che merita rispetto e non deve mai essere sacrificata a favore di qualcos’altro. Vediamo in che modo tutto ciò che è nell’uomo si annetta a quel principio ultimo che costituisce la sommità, «il comignolo dell’umana natura»,41 e che si chiama persona umana. Il filosofo di Rovereto, attraverso distinzioni concettuali fondamentali, vuole evidenziare l’unità umana e insieme l’ordine che le appartiene. Si coglie nelle parole appassionate del Rosmini uno stupore incantato dalla meravigliosa molteplicità di potenze, operazioni, abiti e condizioni che riscontriamo nell’uomo. Nella natura, infatti, oltre alle forze materiali, distinguiamo cinque principi attivi: l’istinto vitale, l’istinto sensuale, l’istinto umano, la volontà e la libertà. Ora, il Nostro si propone di descrivere il nesso fisico che di fatto esiste tra i principi attivi inferiori e la personalità umana; in secondo luogo si vedrà in che consiste il nesso morale, cioè quella superiorità di diritto della personalità sulle altre potenze della natura umana. Considerando che ogni azione comincia spontaneamente dal soggetto o viene suscitata in lui dall’oggetto, si possono ricondurre tutti i principi di azione42 a due generi sommi o principi innati: il principio di operare soggettivo e quello oggettivo. Mentre i tre istinti si riducono al primo, risiedono cioè nel soggetto o sentimento fondamentale, la libertà e la volontà, invece, hanno la loro scaturigine nell’intuizione dell’essere, poiché si muovono dietro la conoscenza dell’oggetto. Stabilita questa differenza, si trae l’unica conclusione possibile, in base alla quale «la personalità innata non può esistere che nel principio di operare oggettivo»,43 che è il più alto e nobile di tutti per il fatto che prende parte alla dignità dell’essere e così distingue la persona dalle cose e da tutti gli altri enti.
È da notare che il Roveretano parla esplicitamente di personalità innata che non è acquisita in forza di alcune condizioni particolari e accidentali e questa rappresenta un’ulteriore confutazione di ogni forma di psicologismo. Passiamo a considerare la superiorità di diritto che spetta alla persona rispetto alle altre potenze della natura umana. Il principio intellettivo include in sé volontà e libertà: la volontà trae la propria eccellenza morale dall’idea dell’essere da cui procede; la libertà, signora della volontà, deriva la sua dignità morale dalla sua capacità (o potere) di piegare la volontà verso la pienezza dell’essere, forma dell’intelletto e luce della ragione. È così delineato precisamente il concetto di persona umana, nella sua distinzione dalla natura. Infatti, i principi di azione di cui abbiamo parlato, sono uniti nell’uomo a formare un individuo, ma non per questo cessano di avere un’attività propria. Quando operano secondo le proprie leggi, senza che il principio supremo intervenga, i loro atti vengono semplicemente definiti naturali; se, al contrario, operano perché mossi dal principio supremo intellettivo e volitivo, i loro atti si dicono personali. Riferendoci ora alla definizione di persona, apparirà la differenza che intercorre fra il concetto di individuo e l’elemento che costituisce la personalità del medesimo: l’individuo di una data natura non viene chiamato persona, se non a motivo di un elemento sublime che è in lui, per cui egli «intendendo opera». Nonostante ciò, nulla vieta che ci siano in quello stesso individuo degli altri elementi, principi e potenze che non sono supreme e appartengono per sé alla natura umana. Essi non sono personali per se stessi, ma si dicono tali solamente perché aderiscono e sono effettivamente subordinati alla volontà intelligente che li muove e li governa. In conclusione, non tutto ciò che entra a formare l’individuo sostanziale coincide con il concetto di persona. Per tali ragioni distinguiamo il concetto di natura da quello di persona e indichiamo con il primo tutte le potenze che sono contenute nell’individuo, prescindendo dal loro ordine e dalla gerarchia, e con il secondo la potenza intellettiva (razionale)-morale che è il più elevato dei principi attivi. Sulla base di ciò, possiamo concludere che la natura riceve perfezione quando le facoltà che essa contiene (forze corporali, le stesse capacità intellettuali), cioè le singole componenti, si attuano sempre di più accrescendo la propria potenzialità. Accade inoltre che la perfezione di una potenza qualsiasi si sviluppi assieme ad altre, oppure che l’una si migliori senza l’altra o addirittura a scapito dell’altra. Invece, il perfezionamento della persona si ha solo in rapporto al principio attivo supremo dal quale emerge il carattere morale dell’essere umano. Tutto ciò è molto importante, poiché se non si distinguono questi concetti si corre facilmente l’illusione di aver raggiunto uno stadio avanzato nello sviluppo sociale e umano, senza in realtà perseguire e realizzare il principio di moralità, quel fattore di incivilimento che appartiene alla persona in quanto è tale, costituita, nella luce dell’essere, dalla volontà e dalla libertà: «la sola moralità perfeziona l’uomo personalmente».44
La prevalenza del principio personale sulle potenze inferiori, implica il perfezionamento della persona e al tempo stesso della natura, giacché tutti i principi sono al loro posto e formano quell’armonia da cui la natura riceve bellezza e nobiltà.45 Questo processo di perfezionamento integrale fa sì che «tutte le potenze assolvano al loro compito che è appunto quello di collaborare ordinatamente, allo scopo di rendere migliore la persona umana».46 Detto ciò, non è difficile intendere che «la natura deve servire alla persona, e non viceversa, e che la perfezione della persona vale infinitamente più di quella che è semplicemente perfezione di natura, anzi è la sola che costituisca il vero pregio di tutto l’uomo».47 Ecco allora che l’unità fondamentale dell’essere umano, riscopre la propria ragion d’essere nel fattore supremo della natura umana, cioè in quel principio intellettivo (che ci fa conoscere la verità) e volitivo (che ce la fa amare): tale principio attivo possiede un valore assoluto ed un potere di fatto e di diritto sopra tutte le altre potenze che compongono l’uomo. Con la distinzione inequivocabile tra perfezionamento della natura e perfezionamento della persona, è chiaro che l’antropologia rosminiana intendeva contrapporsi nettamente alla visione sensistica dell’uomo. In realtà, già con il filosofo inglese John Locke (1632-1704) e il suo testo An Essay concerning Human Understanding (1690), si era inaugurato un nuovo «periodo di volgarissime e pur efficacissime fallacie».48 Si tenga presente che questo testo fu tradotto in francese nel Settecento ed ebbe diffusione anche in Italia per merito del Soave (Milano 1812). Nel periodo dell’Illuminismo, in particolare con il Condillac (1715-1780), La Mettrie (1709-1751) e Holbac (1723-1789), si assiste alla riduzione della persona a natura. In questa fase particolare dell’intera vicenda storica, ad un’elevata considerazione per le scienze biologiche e fisiologiche, si accompagna un’estrema matematizzazione della natura. Secondo la mentalità diffusa, le piante, gli animali e l’uomo presentavano una gradazione continua che escludeva ogni ipotesi soprannaturale e riconosceva la materialità come unico principio valido di spiegazione. Il rapporto tra la natura e l’uomo veniva letto in chiave deterministica e la stessa spiritualità umana aveva come unico termine di riferimento la causalità materiale.49 I sensisti, eliminando l’aspetto ideale della realtà, fecero ricorso ad un riduzionismo esasperato e deducendo tutto dall’esperienza, non si accorsero che l’essere ideale è la stessa conditio sine qua non di ogni esperienza.
L’antropologia rosminiana reagisce a questa concezione, rivendicando l’irriducibilità dell’uomo alla natura, la presenza in lui di elementi che vanno al di là di essa e addirittura la dominano. Tutto ciò nulla toglie al valore della natura stessa, che acquista anzi un valore nell’ordine intrinseco dell’essere sostanziale e non viene dissolta nel nulla. Il Roveretano afferma perciò con forza che la persona è intelligenza e volontà, non solo sensitività materiale.
4. Verità, virtù e felicità: la comunicazione tra le persone
La persona che si conforma alla legge morale, aderisce all’essere e così vuole il bene secondo l’ordine oggettivo degli esseri: questo è il bene morale. Di conseguenza, il male morale consiste nel rifiuto della legge morale da parte della volontà, la quale non riconosce l’ordine intrinseco dell’essere. Nell’intima congiunzione tra essere e persona, quest’ultima acquista un pregio particolare, risplende di un’incantevole bellezza e riflette in sé la luce che solo la virtù può infondere. Tale bellezza spirituale che l’uomo virtuoso possiede, genera in chiunque la contempli l’amore dell’intelligenza, che allarga i suoi confini sino ad abbracciare l’infinita vastità dell’essere da cui proviene. «La persona virtuosa fregiata di celeste bellezza è degna di ogni amore, e il riscuote da tutte le intelligenze; dunque ella è anco degna di ogni bene, tutte le intelligenze gliel vogliono, gliel desiderano, tutte giudicano che a lei competa l’esser felice».50 La virtù nella sua prosperità e nel suo trionfo, genera in tutti gli animi l’approvazione, così come il disgusto e la disperazione si hanno invece ogni qualvolta l’uomo moralmente ingiusto prospera e gode in mezzo a tutte le delizie e, al contrario, il giusto è piegato dalla miseria. La legge ontologica, per la quale al bene morale si congiunge il bene eudemonologico o soggettivo, si rende evidente se consideriamo che tutti gli enti intelligenti sono ordinati ad amarsi in maniera reciproca nella comunicazione delle intelligenze. Essere felici significa vivere nello spazio comunicativo dell’amore universale, «nel godere di tutta la pienezza dell’essere»,51 la quale trova la sua più alta manifestazione nell’intelligenza infinita di Dio. L’uomo è fatto per conoscere l’essere, amarlo disinteressatamente nella sua purissima oggettività e, per questo, è anche tendenza a godere dell’essere sentito e amato. Come rileva acutamente Beschin, «è molto importante rilevare che, secondo il Rosmini, non si ama il bene per essere felici, perché allora si ottiene una felicità limitata e propria dell’individuo; si ama perché l’essere è degno di essere amato, prescindendo dall’utilità che se ne può trarre soggettivamente, solo così dall’amore scaturisce quella felicità purissima che è la gioia autentica della persona».52
Questa filosofia dell’uomo ci comunica la verità perenne in base alla quale dall’intuizione dell’essere nasce spontaneo l’amore, e la felicità è il risultato ultimo di questo atto così sublime che penetra la nostra essenza, ci rende persone capaci di amare l’essere, noi stessi, gli altri, Dio. Dall’esame della natura umana abbiamo appreso che se l’intelligenza è fatta per la verità, la volontà è fatta per la virtù. L’uomo dunque aderisce alla verità ed ama tutte le cose secondo la loro verità e il grado di essere che contengono. Inoltre, questo amore incontenibile vorrebbe possedere tutto ciò che ama per goderne pienamente ed il sentimento è proprio quella tendenza, iscritta nella natura umana, a godere: «La volontà […] che aderisce alla verità, e che perciò è virtuosa, la volontà che di conseguente ama tutti gli enti secondo la verità, desidera altresì che tutti questi enti le si dieno a godere, giacché col godimento si compie il suo conoscimento e il suo amore di essi. Questo è quanto dire che cerca la felicità. Di che si raccoglie, che l’anima tende di sua natura ed è destinata alla sua perfezione, e che questa perfezione consiste nella piena vista della verità, nel pieno esercizio della virtù e nel pieno conseguimento della felicità, triplice fine, triplice destinazione, in cui si trova tuttavia una perfetta unità, poiché non ci può essere un solo di questi tre elementi in modo completo, senza che ci sieno gli altri due: la verità non è veduta ne’ suoi intimi visceri, se non da chi l’ama e la gode; nessuno ama pienamente la verità negli enti in cui è attuata, senza che ce la veda e ne goda; nessuno ne gode pienamente ed è felice, se pienamente non l’ama, ed è virtuoso, e pienamente non la vede ed è sapiente. L’uno di questi tre beni implica gli altri due: non sono che tre forme d’un solo e unico bene».53
Verità, virtù felicità (godimento), sono i tre gradi del bene che, insieme considerati, costituiscono una comunione perfetta tra l’essere (conosciuto, amato e goduto) e la persona umana, nel reciproco rimando che solo il circolo dell’amore può realizzare. Detto ciò, si chiarisce ulteriormente il concetto di essere virtuoso il quale consiste proprio nell’amare tutte le intelligenze, tutta l’entità, tutto l’essere nel suo ordine intrinseco. La felicità del singolo in tale prospettiva si inserisce nella felicità degli altri, non è mai un godimento egoistico e solipsistico, in quanto si tratta sempre di una partecipazione al bene di tutti, alla beatitudine e alla perfezione del tutto. Amore, comunione e gioia sono i frutti maturi che si realizzano in quella comune felicità morale di tutti e di ciascuno nella comunicazione tra le persone. Essa non è uno scambio vuoto e insignificante di parole, ma si fonda sull’adesione della volontà all’eterno ordine dell’essere nel quale ognuno riscopre la comune origine metafisica e il fine dell’esistenza, quel compimento ultimo dell’amore che è Dio. Rosmini, in un passo di straordinaria bellezza e profondità, riassume tutto il cammino svolto nell’Antropologia morale qui riproposto nei tratti essenziali: il senso, gli istinti, l’intelletto, la volontà e la libertà, nella dialettica fondamentale del principio e del termine, concorrono insieme a formare l’unità indissociabile dell’uomo. Il sentimento tende a dominare gli istinti, anche se è pur vero che esso incontra notevoli resistenze nella sua azione da parte della materia; tuttavia, al di sopra del sentimento animale, si innalza un principio superiore che ha per termine l’essere ideale. Il soggetto razionale rappresenta infine l’intima unione dei principi senziente e intellettivo: «Questo principio soggettivo si manifesta sotto le forme di ragione e di volontà: così esiste la persona che esprime la primazia di tutte le attività razionali».54
Teoresi e prassi sono le due attività in cui si esplica il principio intellettivo e, nell’atto supremo della volontà che domina su tutte le attività razionali, consiste la personalità. L’antropologia rosminiana riscopre la sua fondazione metafisica nell’ontologia triadica, in base alla quale dall’essere ideale e dall’essere reale emanano leggi ideologiche e fisiche. La legge ideologica fondamentale è quella che considera l’essere come oggetto dell’intelletto; invece, leggi fisiche che competono all’essere reale, sono ad esempio quelle che regolano l’istinto. Entrambe le leggi dominano il soggetto e, in virtù della relazione che si stabilisce tra l’essere ideale e l’essere reale, nasce la moralità che impone di amare l’essere nell’ordine suo. Perciò, la persona diviene morale in forza di questo rapporto, e stima il valore oggettivo delle cose, l’infinito prezzo che in loro (nelle cose) risplende in quanto partecipano appunto dell’essere infinito. L’uomo può entrare nella sfera oggettiva, in cui il prezzo delle cose è infinito, in quanto, compiendo azioni morali, riproduce anch’egli l’ordine intrinseco dell’essere che si presenta alla sua mente e nel quale (ordine oggettivo), tutte le cose convengono. Ma il principio soggettivo è libero, non è cioè determinato dalla necessità ad attuare l’ordine dell’essere e a riconoscere il rapporto ideale-reale. Al contrario, la persona può anche sottrarsi a questo altissimo compito morale, come del resto può liberamente decidere di attuare l’ordine dell’’essere. Quindi, in questa nuova forma di attività che è la libertà bilaterale, la quale deve scegliere tra due beni in conflitto, «sta il fastigio (comignolo, culmine, sommità) dell’umana natura come natura potenziale, non però della sua piena attuazione. Poiché non basta che si consideri questa attività, sì elevata sopra tutte l’altre, in se stessa; conviene meditarla nel suo atto, e ne’ maravigliosi effetti di lui».55 Grazie all’atto libero della volontà che produce il bene morale, nasce il merito, il che equivale a dire che la libertà bilaterale è il fonte del merito. Se guardiamo ad essa, come ciò a cui viene imputata56 l’azione (in quanto la libertà è la causa dell’azione morale), è evidente come l’uomo che pratica liberamente la virtù, è felice e dunque merita stima e amore. Possiamo dire infine che nell’universo degli enti, tutto tende alla persona e la sua felicità consiste nella comunicazione attraverso un atto integrale di amore che sgorga dalle sorgenti inesauribili dell’essere: «egli s’unisce di proprio moto a tutti gli enti, al fonte degli enti, gli ama tutti, e da tutti riscuote amore, trasfonde in tutti se stesso, e tutti si trasfondono in lui: rallarga allora i proprj suoi limiti, completa la sua natura angusta e deficiente: non fruisce più solo di sé, minima particella di essere, ma fruisce di tutte l’entità, e nel mare dell’essere essenziale, trova e riceve la propria felicità, una felicità morale che non può più disvolere (non volere), un bene che non può più perdere: questo è il fine dell’uomo, l’altissimo fine della persona, e conseguentemente della natura umana: e questa comunicazione, questa società mutua degli enti coll’ente degli enti e tra sé, è il fine dell’universo».57
Trasfondendo noi stessi agli altri in questo commercio d’amore in cui ognuno dà se stesso, gli argini del proprio egoismo e interesse si rompono, non si sottrae l’essere alla propria individualità, non si perde nulla, pur donando ciò che ci appartiene nelle più profonde radici della nostra esistenza. Infatti, amore chiama amore in una corrispondenza che è fondata sulla giustizia: è giusto che «a chi dà amore sia restituito amore, e a chi desidera il bene altrui, sia restituito bene; acciocché egli tanto acquisti dell’altrui, quant’egli dà del suo».58 Inoltre, l’essere giusto e buono, vuole comunicare se stesso ed unirsi liberamente alle nature intelligenti che provano, a loro volta, un senso di profonda gratitudine. In conclusione, nella donazione totale e nell’amore si diviene pienamente se stessi e quella piccola particella di essere, secondo il linguaggio agostiniano, che ognuno di noi è, fruisce di tutte le entità; il finito si incontra così, in un abbraccio sconfinato, con l’infinito da cui proviene e verso cui si dirige.
La comunicazione è davvero il fine dell’universo e da essa deriva la felicità ultima dell’esistenza.
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Così l’ ha definita F. Evain, Notizie storico-critiche, in A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, a cura di F. Evain, Città Nuova, Roma 1981, p. 520: «La persona attua la sintesi dell’essere reale e dell’essere ideale nell’essere morale. Questo sintesismo si ritrova nel Piano stesso dell’Antropologia: il libro IV (Del soggetto umano) è la sintesi del libro II (Dell’animalità) e del libro III (Della spiritualità), giustificando così in maniera critica la definizione ipotesi del libro I (Dell’uomo). La persona è definita come il principio supremo dell’unità del sentimento fondamentale e dell’intuizione dell’idea (Antropologia in servizio della scienza morale 832-838). Si può dunque concludere che l’antropologia è detta in servizio della scienza morale per il fatto che l’uomo non è persona che nel riconoscimento dell’ordine dell’essere. Quest’opera è perciò in realtà un’ontologia personalista». Si veda anche dello stesso Autore: Introduction à l’ontologie personaliste d’Antonio Rosmini, in A. Rosmini, Antropologie morale, Beauchesne, Paris 1973, pp. 3-45. Sul concetto di persona in Antonio Rosmini, segnaliamo il contributo di U. Muratore, Idea di persona in Antonio Rosmini, in AA. VV., Rosmini e Stefanini. Persona, Etica, Politica, Atti del II Convegno della fondazione «Luigi Stefanini» (Treviso 14-15 Novembre 1997), Prometheus, Milano 1998, pp. 37-52. Troviamo qui in una sintesi completa gli elementi essenziali che compongono la dottrina antropologica del Roveretano: il contesto storico della modernità, il tessuto ontologico dell’uomo, la distinzione tra natura e persona, la persona come diritto umano sussistente, la dimensione soprannaturale e la perfettibilità dell’essere umano. ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 832, p. 460. ↩︎
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Boezio, De duabus naturis et una persona Christi, in Migne, Patrologia latina 64, Paris 1891, 1354-1412. ↩︎
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T. d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. XXIX, a. 3; cit. in: A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, nota 51, p. 461. ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 832, p. 460; si vedano le definizioni ad esse equivalenti: n. 769, p. 427, n. 838, p. 462; A. Rosmini, al Padre Antonio Tommaseo, a Roma, Trento, Maggio 1832, in Epistolario completo di Antonio Rosmini Serbati, prete rovertano, Casale Monferrato 1888, vol. IV, lettera 1681, pp. 295-297; Teosofia, a cura di M.A. Raschini e P.P. Ottonello, tomo II, Città Nuova 13, Roma 1998, n. 904, pp. 215-216; n. 1119, pp. 443-444; Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Città Nuova 33, Roma 1997, p. 137. Nella Filosofia del diritto, si precisa che la definizione di persona coincide con quella del diritto: «Il principio attivo supremo, base della persona, è informato dal lume della ragione, dal quale riceve la norma della giustizia: egli è propriamente la facoltà delle cose lecite. Ma poiché la dignità del lume della ragione (essere ideale) è infinita, perciò niente può stare sopra al principio personale, niente può stare sopra a quel principio che opera di sua natura dietro un maestro e signore di dignità infinita; quindi viene, ch’egli è principio naturalmente supremo, di maniera che niuno ha diritto di comandare a quello che sta ai comandi dell’infinito. Se dunque la persona è attività suprema per natura sua, egli è manifesto che si dee trovare nell’altre persone il dovere morale corrispondente di non lederla, di non fare pure un pensiero, un tentativo volto ad offenderla o sottometterla, spogliandola della sua supremazia naturale, come si scorge applicando il principio morale da noi stabilito di riconoscere praticamente le cose per quello che sono. Dunque la persona ha nella sua natura stessa tutti i costitutivi del diritto: essa è dunque il diritto sussistente, l’essenza del diritto» (A. Rosmini, Filosofia del diritto, a cura di R. Orecchia, Ed. Nazionale, Cedam, Padova 1967, vol I, n. 52, p. 192). ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 832, p. 460. ↩︎
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C. Riva, Soggetto, persona, io, Giornale di metafisica, fasc. III, Gennaio-Febbraio 1955, Anno X, p. 667. ↩︎
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A. Rosmini, Teosofia, a cura di M.A. Raschini e P.P. Ottonello, tomo II, Città Nuova 13, Roma 1998, n. 1119, p. 443. ↩︎
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C. Bergamaschi, La volontà atto di amore e base della persona nel pensiero di Antonio Rosmini, Rivista Rosminiana, fasc. III, Anno LVIII, Luglio-Dicembre 1964, pp. 250-269, confluito poi a formare il cap. VI del testo intitolato: L’essere morale nel pensiero filosofico di Antonio Rosmini, La Quercia Edizioni, Genova 1981. Sullo stesso concetto di volontà quale atto primo e fondamentale, nella quale ha origine la moralità dell’uomo, aveva insistito I. Tubaldo, L’essere morale nella costituzione della persona, in AA. VV., L’essere ideale e morale in Antonio Rosmini, Atti delle riunioni filosofiche di Stresa negli anni 1952 e 1953, Sodalitas, Stresa 1954, pp. 319-332. ↩︎
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A. Rosmini, Compendio di etica, Ed. Nazionale, n. 14, nota del Pagani. ↩︎
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A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, tomo II, Città Nuova 9/A, Roma 1988, n. 1011, p. 248. ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia soprannaturale, a cura di U. Muratore, tomo I, Città Nuova 39, Roma 1983, p. 390. Si veda anche Ibid., pp. 384-387; A. Rosmini, Degli studi dell’Autore, in Introduzione alla filosofia, Città Nuova 2, Roma 1979, n. 59, pp. 112-113; A. Rosmini, Compendio di etica e breve storia di essa, con annotazioni di G.B. Pagani, a cura di M. Manganelli, Città Nuova 29, Roma 1998, n. 29, p. 39; n. 68, p. 48; n. 85, p. 53; n. 95, p. 56; A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 633, p. 356; A. Rosmini, Logica, a cura di V. Sala, Città Nuova 8, Roma 1984, n. 289, p. 125; A. Rosmini, Teosofia, a cura di M.A. Raschini e P.P. Ottonello, tomo II, Città Nuova 13, Roma 1998, n. 740, pp. 21-22; n. 881, pp. 188-189; n. 1042, pp. 357-358; n. 1048, p. 363. ↩︎
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A. Rosmini, Filosofia del diritto, a cura di R. Orecchia, I vol. , Edizione Nazionale, Cedam, Padova 1967, n. 39, p. 189. ↩︎
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C. Bergamaschi, L’essere morale nel pensiero filosofico di Antonio Rosmini, p. 83. ↩︎
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A. Rosmini, Come si possano condurre gli studi della filosofia, in Introduzione alla filosofia, Città Nuova 2, Roma 1979, p. 319. ↩︎
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P. Gomarasca, Rosmini e la forma morale dell’essere. La «poiesi»del bene come destino della metafisica, FrancoAngeli, Milano 1998, p. 121. ↩︎
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A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, tomo II, Città Nuova 9/A, Roma 1988, n. 1102, p. 279. ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 501, p. 297; n. 571, p. 323, n. 587, p. 331; n. 848, p. 466; Psicologia, n. 1102, p. 279; Trattato della coscienza morale, n. 119; Nuovo Saggio sull’origine delle idee, n. 1282, p. 518. ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 416, p. 255. ↩︎
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A. Rosmini, Compendio di etica e breve storia di essa, con annotazioni di G.B. Pagani, a cura di M. Manganelli, Città Nuova 29, Roma 1998, n. 29, p. 39; Teosofia, a cura di M.A. Raschini e P.P. Ottonello, tomo II, Città Nuova 13, Roma 1998, n. 1037, pp. 351-353. ↩︎
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A. Rosmini, Teosofia, a cura di M.A. Raschini e P.P. Ottonello, tomo III, Città Nuova 14, Roma 1999, n. 1366, p. 251. ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 632, p. 356. ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 632, p. 356. ↩︎
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A. Rosmini, Teosofia, a cura di M.A. Raschini e P.P. Ottonello, tomo II, Città Nuova 13, Roma 1998, n. 956, p. 271. ↩︎
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A. Rosmini, Nuovo Saggio sull’origine delle idee, vol. II, n. 1282, pp. 518-519; n. 1294, pp. 526-527. ↩︎
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C. Bergamaschi, L’essere morale nel pensiero filosofico di Antonio Rosmini, p. 89. ↩︎
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A. Rosmini, Teosofia, a cura di M.A. Raschini e P.P. Ottonello, tomo I, Città Nuova 12, Roma 1998, n. 35, p. 70. ↩︎
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P. Gomarasca, Rosmini e la forma morale dell’essere. La «poiesi» come destino della metafisica, FrancoAngeli, Milano 1998, p. 129. L’Autore, mettendo in evidenza l’insufficienza ideologica dei Principi e le successive linee di sviluppo nella speculazione del filosofo di Rovereto, afferma che nel contesto della Teosofia «la moralità non si predicherà più in senso proprio degli oggetti in quanto voluti, ma verrà ritrovata, primariamente, a livello di ciò che specifica la dimensione del soggetto e della sua intenzione (diretta verso il fine e non chiusa e rivolta a se stessa): l’atto morale diventa, in altri termini, il vertice dell’atto di esistere e la legge madre dell’etica non sarà più l’essere ideale… ma la carità universale, slancio amoroso verso il compimento esistenziale del proprio essere creaturale» (Ibid. pp. 129-130). ↩︎
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A. Rosmini, Principi della scienza morale, p. 131. ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 577, p. 327. ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 576, p. 326. ↩︎
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In merito alla spazio comunicativo su cui si costruisce la persona umana, vedi G. Beschin, La comunicazione delle persone nella filosofia di Antonio Rosmini, Marzorati, Milano 1964. ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 582, p. 329. ↩︎
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M. Manganelli, Persona e personalità nell’antropologia di Antonio Rosmini, Marzorati, Milano 1967, p. 68. Nel suo acuto studio sull’antropologia rosminiana, la Manganelli dice ancora: «La libertà, in breve, per il Nostro, è chiamata ed ha il dovere di promuovere, unificare, dirigere lo sviluppo morale della persona umana nelle contingenti e concrete vicende in cui è posta ad attuarsi, con gli elementi di cui il soggetto dispone, tutto facendo convergere a quel compimento la cui realizzazione è congiunta con la felicità, consistente nel godimento di tutta la pienezza dell’essere che ha sede e consumazione nell’intelligenza infinita, in Dio» (Ibid., p. 68). ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 584, p. 330; n. 591, p. 332. ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 591, p. 333. ↩︎
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Sul concetto di libertà in S. Agostino, cfr. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 592, pp. 333-334. ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia n servizio della scienza morale, n. 599, p. 336. ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 604, p. 342. ↩︎
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A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, tomo I, Città Nuova 9, Roma 1988, n. 63, p. 62. ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 839, p. 463. ↩︎
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Il Rosmini distingue tra potenze e principi di azione, precisando che tutti i principi di azione sono potenze, ma non tutte le potenze sono principi di azione: «Noi chiamiamo principi di azione quelle potenze che presiedono a tutto un genere d’attività, e che costituiscono un principio attivo di quel genere» (A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 841, p. 464). ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 846, p. 465. Come giustamente sottolinea G. Beschin, «senza il principio supremo intellettivo, che unifica tutto, la persona sarebbe un’accozzagli di elementi» (G. Beschin, La comunicazione delle persone nella filosofia di Antonio Rosmini, Marzorati, Milano 1964, p. 82). ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 853, p. 467. Anche nell’ Antropologia soprannaturale, a cura di U. Muratore, Città Nuova 39, Roma 1983, p. 351, leggiamo: «il perfezionamento del principio morale forma la perfezione della persona». ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia soprannaturale, a cura di U. Muratore, Città Nuova 39, Roma 1983, pp. 339-340. ↩︎
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M. Manganelli, Persona e personalità nell’antropologia di Antonio Rosmini, Marzorati, Milano 1967, p. 13. ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia soprannaturale, a cura di U. Muratore, Città Nuova 1983, p. 352. ↩︎
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A. Rosmini, Degli studi dell’Autore, in Introduzione alla filosofia, a cura di P.P. Ottonello, Città Nuova 2, Roma 1979, pp. 18-19. ↩︎
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Si fa qui riferimento alle penetranti analisi condotte da Gianfranco Morra sui concetti di natura e persona: G. Morra, Natura e persona in Antonio Rosmini, in AA. VV., Siamo immortali? La riforma rosminana, 25-29 agosto 1992, Atti del XXVI Corso della Cattedra Rosmini, Sodalitas-Spes, Stresa- Milazzo 1993, pp. 251-269. In questo contributo si fanno alcuni cenni che delineano la visione dell’uomo nel Settecento: «Diderot, nella sua Lettre sur les aveugles (1749), avanza ipotesi trasformistiche, La Mettrie non parla solo di Homme-machine (1748), ma anche di Homme plante (1748), nel tentativo monistico di colmare le differenze qualitative tra mondo della natura e mondo dell’uomo, tanto che, per lui gli stessi animali sono qualcosa di più che una semplice macchina (Les animaux plus que la machine, 1750), Helvetitus, nel tentativo di superare i residui dualistici nel Traité des sensations (1754) del Condillac, perverrà con la sua opera De l’esprit (1758) ad un completo monismo; Holbac tenterà di organizzare tutte queste tendenze in un Système de la nature (1770) retto da leggi rigorosamente causali […]. Vale la pena di ricordare una delle prime pagine: «L’uomo è il prodotto della natura: esso esiste nella natura, è sottoposto alle sue leggi e non può svincolarsene, anzi non può neppure uscirne con il pensiero. Invano il suo spirito vuole procedere oltre i confini del mondo. Esso è sempre costretto a rientrarvi. Per essere prodotto dalla natura e circoscritto da essa non esiste nulla al di là del gran tutto di cui fa parte, e di cui subisce le influenze» (cfr. Ibid., p. 255). ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 839, p. 485. ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 894, p. 485. ↩︎
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G. Beschin, La comunicazione delle persone nella filosofia di Antonio Rosmini, Marzorati, Milano, 1964, p. 83. ↩︎
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A. Rosmini, Sistema filosofico, in Introduzione alla filosofia, a cura di P.P. Ottonello, Città Nuova 2, Roma 1979, n. 150, p. 278. ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 906, p. 489. ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 906, p. 489. ↩︎
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Sull’imputabilità delle azioni: A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, nn. 870-889, pp. 473-482. ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 906, p. 489. ↩︎
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A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, n. 897, p. 486. ↩︎