Mariangela Maraviglia, Semplicemente una che vive. Vita e opere di Adriana Zarri, Il Mulino, Bologna 2020.
Molteplici sono i pregi di questo volume. Colpisce un metodo d’indagine rigorosamente scientifico che si avvale di una impressionante vastità di fonti (archivistiche, bibliografiche, testimoniali), che però non appesantisce la lettura del testo, perché si coniuga con una brillantezza, una scintillante fluidità di scrittura che avvince costantemente chi legge. In esso biografia umana e biografia intellettuale si intrecciano intimamente. Già il suo titolo, Semplicemente una che vive, allude ad un intimo rapporto tra vita e opere. Un titolo che a prima vista potrebbe suonare banale (chi non vive, bene o male?) Ma che, terminata la lettura, si rivela quanto mai pregnante, se si considera ciò che dice Adriana Zarri: “lasciano cadere l’eremitismo, il monachesimo, la cascina, la campagna, perfino la preghiera: preferisco dire che vivo, mi sembra più semplice e più ricco”. Ella definiva la propria come una “teologia impura”, o anche scherzosamente come “l’impura teologia del topo”, contrapponendola ad una “teologia pura”, fatta di trattati costruiti tramite una rigorosa, sistematica ed articolata concettualizzazione, ove assai spesso, ella nota, “la copertura accademica” dell’autore “compensa un’inconfessata carenza creativa” perché non nutrita dalla concretezza esistenziale della propria fede. “Una pessima teologia, che mai vorrei fare”, aggiunge, perché “la teologia va scavata nella teologalità della vita di fede”, “nella lettura sotterranea dell’esistenza propria e di quella degli altri”. Se si elude questo “solco terrigno e sanguigno dello scavo”, il volume viene “consegnato alla carta” e “messo in biblioteca”; talvolta questa “carta la rosicchiano i topi; ed è di nuovo il sopravvento della vita , della teologia vissuta. Meglio un topo vivente che una pagina morta”. Ma, come ben evidenzia l’autrice di questo volume, la suddetta “teologia impura” non equivale affatto ad una teologia naïve, rapsodica ed impressionistica. Infatti, in questa affermazione della priorità, nell’indagine teologica, della fides qua creditur sulla fides quae creditur, si potrebbe cogliere una reviviscenza originale del medioevale credo ut intelligam, il quale, alla luce di certi esiti della cultura filosofica contemporanea, non può essere certo ridotto ad un fideismo acritico. Basti pensare al circolo ermeneutico gadameriano tra pre-comprensione e comprensione, già preannunciato dall’Heidegger di Essere e tempo nel radicare ogni “comprensione” (Verstehen) in uno “stato affettivo” (Befindlickheit), il che evoca l’agostiniano non intratur in veritatem nisi per caritatem, non a caso citato da Heidegger.
L’autrice in questo volume sottolinea giustamente un tema che è centrale nella teologia della Zarri: la frase di Cristo nel Vangelo di Marco: “solo chi perderà la propria vita la salverà”. Un paradosso per il senso comune, che potrebbe essere superato adducendo un intervento miracoloso di Dio nella restituzione della vita che si è disposti a perdere. Ma la Zarri non ama i miracoli (come testimonia anche il titolo del suo ultimo libro, Vita e morte senza miracoli di Celestino VI) se intesi come manifestazione della potenza schiacciante di un Dio capace di sospendere le leggi naturali, la quale suscita quasi sempre nelle folle una fede massificata e isterica (“la folla è la menzogna” dice Kierkegaard) che predispone ad una passività acritica verso ogni dominio autoritario. Cristo raccomandava ai discepoli di non divulgare i suoi miracoli, e tra le tentazioni di Satana a Cristo nel deserto c’è il miracolo (“tramuta queste pietre in pane”), intimamente connessa all’altra tentazione, di potere esercitare un dominio assoluto su tutta la terra. La Zarri potrebbe piuttosto condividere ciò che Agostino dice del miracolo: che esso non fit contra naturam, sed contra quam est nota natura. Vale a dire: in ciò che chiamiamo miracolo, Dio, in quanto creatore della natura, fa agire in essa forze naturali che sfuggono ancora alla nostra conoscenza della natura stessa.
Questo nostro deficit di conoscenza riguarda sicuramente anche, e soprattutto, la natura umana. Proprio per questo S. Weil dice che i Vangeli, oltre che una valenza teologica, hanno una profonda valenza antropologica. Potrebbe celare in sé tale intima conoscenza dell’umano anche il paradosso della suddetta frase evangelica prediletta dalla Zarri. Se si fa dialogare la sua teologia con la filosofia contemporanea, su tale frase potrebbe gettare un’ulteriore luce una risposta di E. Mounier al sartriano l’enfer, c’est les autres. L’“inferno” nelle relazioni umane, per Sartre, sta dal fatto che nel mio rapportarmi ad un altro, invece di riconoscere e rispettare la sua libertà espressa dal suo mondo esistenziale, irriducibile al mio, lo riduco a mero oggetto entro il mio mondo. Già il semplice regard de l’autre su di me assume questo potere pietrificante. Risponde Mounier: certo lo sguardo dell’altro mi pietrifica, ma ciò che ancora prima mi pietrifica è lo sguardo che abitualmente mantengo su me stesso e che determina il mondo esistenziale in cui sono rinchiuso. Per cui l’urto su di me di uno sguardo altrui potrebbe essere accolto come qualcosa che “mi sconvolge, mi inquieta, mi rimette in discussione”. Solo così potrei essere sospinto a chiedermi: che cosa c’è dietro questo suo sguardo, qual è il vero volto che si cela dietro di esso, chi è veramente colui che mi guarda? E chi sono io in rapporto a tale sguardo? Solo l’intervenire in me di questa postura esistenziale, se resa manifesta all’altro, potrebbe suscitare in lui un pari atteggiamento verso di me, avviando così un vivificante reciproco dialogo. Dunque in entrambi è solo una disponibilità a frantumare il proprio mondo avvertito come una gabbia opprimente, in sostanza a perderlo, che permette di essere restituiti ad una autentica vita personale, in cui un vero incontro con se stessi (che può essere fortemente drammatico perché ci fa perdere quella che credevamo essere la nostra vita) conduce anche ad un vero incontro con l’altro. Ecco dunque qui emergere quella dialettica di perdita di vita/restituzione di vita cui allude la frase evangelica prediletta dalla Zarri. L’identità personale si radica, per Mounier, in una “vocazione” irripetibile che vive nel profondo di ognuno di noi, che eccede sempre la prigione di ogni nostro mondo esistenziale, che equivale ad “un richiamo silenzioso in una lingua che richiederebbe tutta la nostra vita per essere tradotta” e di cui la nostra vita dovrebbe essere “una interpretazione incessante”. Una “vocazione” suscitata soprattutto in virtù dell’urto su di noi di un “evento”, quale può essere appunto lo sguardo dell’altro: l’évènement sera notre maître intérieur. Scrive Mounier: “ma ecco che sorge davanti a me, in me, un punto oscuro, un enigma, lo sbarramento di uno sconforto, la resistenza di un essere, lo strazio di una solitudine, la stranezza di un avvenimento, e con esso una sorda protesta contro l’ordine delle mie idee, delle mie ragioni, delle mie parole, della mia vita. La passione della notte mi afferra, una passione di distruggere l’abitudine e l’evidenza, di far silenzio, per lasciare che quelle cifre insolite comunichino il loro messaggio inatteso”.
Questa dialettica di perdita/restituzione di vita può essere espressa da un ulteriore apparente paradosso (il paradosso, dice G.K. Chesterton, è “la verità che si mette gambe all’aria per attirare l’attenzione”) di cui parla parla D. de Rougemont e che può anche aiutarci anche a comprendere meglio la scelta eremitica della Zarri. Rougemont dice che la vera “solitudine” è la vera “comunione”. Per solitudine qui non va inteso uno stato di abbandono in cui si è costretti a vivere, o un orgoglioso, ritrarsi dagli altri, bensì una condizione in cui, frantumando la piatta, nevrotica e opaca banalità del nostro mondo abituale, si perviene ad un intimo rapporto con la propria identità personale. Questa solitudine neppure ha niente a che vedere con un ripiegamento interiore ottenuto tramite tecniche ascetiche orientali occidentalizzate (stile New Age) intese ad attingere uno ‘star bene con se stessi” refrattario alle irruzioni del mondo esterno. Si tratta invece di una solitudine personalizzante che Mounier chiama “conversione intima su di sé” (sur soi) alla ricerca in se stessi di un “in sé” (en soi) che permetta poi di abitare “presso di sé” (chez soi), il che (egli prosegue) più che un “raccoglimento” (“termine troppo pacato”) equivale ad uno “sradicamento”, ad una dimensione di inquietudine agonica. Già M. Scheler aveva rilevato che senza un tale chez soi (termine che egli, anticipando Mounier, mutua dal francese) ogni frenetico attivismo altruistico non genera una vera comunione con l’altro, rischia di derivare solo da una “angoscia” a “guardare se stessi” che spinge ad una “fuga da sé”. Ciò può anche gettare una nuova luce su quel “come te stesso” che il precetto evangelico dell’amore ci addita quale misura dell’amore per il prossimo: una misura che esula da ogni egoistico amor proprio, ma che consiste nel porre il radicamento nella propria vera identità personale quale condizione dello slancio agapico verso l’altro. Come si diceva, tutto ciò può aiutarci a meglio comprendere la scelta eremitica della Zarri: circa la quale F. Occhetto (un altro studioso della sua telogia) parla di “solitudine abitata”. Scrive infatti la Zarri che “la solitudine è la forma eremitica dell’incontro; non che l’eremita non possa incontrarsi fisicamente con gli altri”, anzi, anche se “il dialogo lo si vive primariamente nel silenzio”, ciò fa poi sì che “l’incontro” con gli altri “scenda a livelli più profondi”. E l’autrice di questo volume sottolinea giustamente come il trasferimento della Zarri da Molinasso a Ca’ Sassino sia stato come una sistole/diastole in cui pulsa una identica, unitaria esperienza di vita. Qui, scrive la Zarri “il silenzio” è ormai “conquistato dentro”, si è fatto “più interiore e più sicuro”. Ma, ella aggiunge, “mentre a Molinasso ho vissuto soprattutto la solitudine, in questa mia nuova casa posso esercitare una ospitalità più numerosa e organizzare incontri. Ho scoperto che per me sono adesso due dimensioni ugualmente importanti: come non vorrei non aver vissuto la solitudine, così non vorrei non aver vissuto tutti questi nuovi incontri”.
Ma per la Zarri, come evidenzia questo volume, il vero incontro con se stessi è essere restituiti ad un vero incontro non solo con gli altri, ma anche con le cose che ci circondano nella nostra quotidianità. Sartre ed Heidegger hanno certo avuto il merito di mostrare come ciò che chiamiamo il mondo, in realtà è sempre un nostro mondo esistenziale, un orizzonte unitario di senso entro il quale attribuiamo alle cose particolari significati. Ma R. Girard ha evidenziato come entro ogni nostro mondo esistenziale vi è sempre una entità privilegiata che lo struttura, assimilabile ad un ens realissimum, cui attribuiamo una assoluta pienezza d’essere, e che confondiamo con l’essere stesso: dimentichi, si potrebbe dire con Heidegger, della “differenza ontologica” tra ente ed essere, che però Girard intende come un un oblio non tanto della temporalità, quanto della spazialità dell’essere. In altri termini, per Girard ogni nostro mondo è sempre strutturato da un idolo che determina, egli dice, non solo una fermeture del nostro spazio esistenziale rendendolo incapace di una ouverture alla ricchezza polifonica della realtà, ma anche uno stravolgimento nichilistico di questa. L’idolo diventa infatti un “sole finto” che, in quanto dà senso alle cose nel nostro mondo, proietta su di esse uno “splendore fallace”. Come nel caso di Don Chisciotte, il cui mondo esistenziale è strutturato da Amadigi di Gaula, il principe dei cavalieri erranti, ed è una ossessiva imitazione di lui che trasforma ai suoi occhi i mulini a vento in giganti da combattere, o una catinella con cui un barbiere si ripara dalla pioggia nel magico elmo di Mambrino. E Girard rileva che tra questo Don Chisciotte e l’uomo contemporaneo succube dei social media la differenza non è poi così grande. In effetti soprattutto oggi i nostri mondi esistenziali sono strutturati da idoli: i quali possono essere gli influencers venerati, anche nelle loro fake news, da folle di followers isterici e intolleranti, i leaders politici i cui slogans ci paiono semplificare miracolosamente le realtà più complesse, i modelli di bellezza, di successo, di salute fisica che introiettiamo dagli spots pubblicitari, tutti gli stereotipi mimetici da noi religiosamente sacralizzati perché traiamo da essi la misura di ogni nostro rapporto con le cose. Da cui l’opacità del nostro sguardo nei confronti di esse.
Un’opacità dissolta dalla solitudine eremitica qual è scelta e vissuta dalla Zarri, dato che questa non è affatto un ascetico distacco fine a se stesso, una mortificazione dei sensi, un rigetto della realtà impastata di carne e materia. Non è neppure (come scrive il teologo M.D. Chenu in una sua lettera alla Zarri) una fuga “romantica”, ma un saldo radicamento nella realtà assimilabile a quella “fedeltà alla terra” invocata da Nietzsche che affascinava il cristianesimo non religioso di D. Bonhoeffer. Anche qui è una dialettica di perdita/restituzione che porta al recupero di una pienezza di vita. All’eremita, che frantuma tutti i mondi illusori edificati su idoli, è restituita una “verginità di sguardo” (come dice l’autrice di questo volume) che ha come esito una rieducazione dei sensi resi torpidi da nevrosi ossessivamente protese ad un possedere vorace. Ciò persino a livello alimentare, per cui la Zarri poteva notare che la golosità non è affatto un “mangiar troppo”, bensì un “mangiar poco”: nel senso di non sapere “assaporare sino in fondo tutti i messaggi che passano in quel cibo”. L’esperienza eremitica, così intesa, ha come esito il saper cogliere la “definitività nel provvisorio, l’essenzialità di ciò che ci parrebbe inutile, il vivere il quotidiano come qualcosa di straordinario il che è anche vivere l’insolito in modo consueto”, “il vivere il ripetuto senza l’usura della ripetizione, il grigio senza la noia del grigiore, nella coscienza che niente è grigio, niente è ripetuto, ma tutto è nuovo e inedito”, perché “non esistono realtà banali, esiste solo la nostra banalità”. Si potrebbe dire che per la Zarri, come per l’ebraismo chassidico di M. Buber, la relazione autentica non solo con l’altro, ma anche con ogni cosa, nella sua “dimensione sacramentale” in quanto creata da Dio, sta nel superare nei suoi confronti l’oggettivazione reificante del pronome “esso”, e viverle come un “tu”.
Ogni idolo che per Girard struttura i nostri mondi esistenziali e al quale, a fronte della sensazione di un nostro deficit d’essere, attribuiamo una presunta, assoluta pienezza d’essere, è in realtà irrigidito in una inerte staticità monolitica, espulsiva di tutto ciò che possa incrinarla, dalla quale, come assiso su un trono, esercita un assoluto dominio su tutte le cose, pietrificandole entro una presunta oggettività irrevocabile. Dice M. Scheler: “l’uomo ha o Dio o un idolo”. Ma è lo stesso Dio cristiano assai spesso ad essere vissuto, dice la Zarri, come un “Dio monolitico”, assimilabile ai nostri idoli terreni. Ciò accade anche se si privilegia unilateralmente, nella trascendenza del Dio cristiano, una assoluta separatezza sacrale rispetto all’umano. Il che contraddice la sua Incarnazione, resa possibile da quella kenosis di cui parla Paolo. Eppure, per la Zarri, è riduttivo intendere la kenosis unicamente nella sua valenza cristologica, comprendendola come antitetica ad una maestosa sacralità di cui il Verbo incarnato si sarebbe privato. Per lei la kenosis, come “kenosis trinitaria”, costituisce anche l’intimo essere del Dio cristiano e può dirsi l’archetipo della dialettica personalizzante di perdita/restituzione che fonda l’autenticità esistenziale dell’uomo.
Nel ritmo trinitario ogni Persona è come se si svotasse kenoticamente di un’autonoma auto-sufficienza, di una identità auto-sussistente, in quanto il suo essere è proteso a donarsi totalmente alle altre Persone, ma è proprio e solo da ciò che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo attingono la propria distinta identità di personale. Se il teologo anglicano W. Temple dice che il Dio cristiano è tale solo perché seeks Himself in another, la Zarri parla di un “riversarsi”, con tutto il suo essere, di ogni Persona nelle altre. Il Figlio, ella dice, è “l’eterno Tu del Padre” il quale è tale solo in quanto è eternamente proteso a penetrare, a celebrare e con ciò a suscitare l’identità abissale, inesauribile del Figlio. E anche il Figlio è tale solo in quanto accoglie, si apre totalmente a questo amoroso protendersi del Padre verso di Lui, reciprocamente proteso a penetrare, celebrare e suscitare l’identità parimenti abissale e inesauribile del Padre. Anche nella nostra vita terrena, la paternità autentica, come l’autentico essere figlio, vanno ben oltre la generazione biologica: un padre è veramente tale solo se riesce a cogliere e valorizzare, in qualche modo a generare, la profonda identità personale del figlio. E reciprocamente, se il figlio risponde al padre in questo intimo dialogo, si può dire che è egli a generare il padre, nella sua autentica identità di padre. Quanto allo Spirito, nel ritmo trinitario, anch’egli trae la sua identità solo nel suo totale donarsi al Padre e al Figlio suscitando la loro reciprocità agapica, la quale a sua volta può anche intendersi come un donarsi totale del Padre e del Figlio allo Spirito: di cui la Zarri parla poeticamente come del “nido”, del “grembo”, del “talamo” di Dio. In tal modo, paradossalmente, nel ritmo trinitario, un’assoluta intimità agapica tra le tre Persone si coniuga con una assoluta alterità di ogni Persona rispetto alle altre, e ogni Persona vive in virtù di una assoluta apertura auto-oblativa verso tale alterità.
Non che con questa teologia, che pure è assolutamente originale e innovativa, la Zarri ritenga di aver dissipato il mistero trinitario. Ella soleva dire, con uno humour segnato da grande umiltà intellettuale, di aver solo “rosicchiato” il mistero. Ella avrebbe potuto condividere ciò che K. Jaspers e E. Mounier dicono del mistero, in termini apparentemente antitetici, in realtà complementari. Se per il primo “la domanda che non si inchioda più di fronte al mistero perde stupidamente la propria esistenza nella risposta”, per il secondo “il mistero ama la luce”. Solo così il mistero, al pari del miracolo, intesi in un senso autenticamente cristiano, non suscitano una passività acritica, assecondando forme di dominio autoritario, ma si volgono all’integralità dell’uomo, nelle sue possibilità come nei suoi limiti di comprensione. Va anche sottolineato come alla luce della kenosis trinitaria, l’unità di Dio, nel Dio uno e trino, cessa di essere, come spesso si è portati a credere, un qualcosa di immediatamente e facilmente intuibile, quasi fosse una unità meramente aritmetica. L’unità del Dio cristiano deve essere invece compresa, per la Zarri, solo come esito di ciò che la patristica greca chiamava perichoresis trinitaria (un termine difficilmente traducibile: esso esprime l’intima penetrazione, in un tutto, di ogni parte entro tutte le altre, in virtù come di un vortice, di un vertiginoso movimento circolare). Vale a dire: l’Unità, nel Dio Trino, sta nel fatto che ogni Persona vive entro tutte le altre, pur mantenendo la propria distinzione, anzi è solo da ciò che ogni persona attinge la propria distinta identità personale. Per questo Gioacchino da Fiore, rivolgendosi agli ebrei, parlava di un magnum mysterium unitatis nel Dio cristiano, pari, non certo inferiore, al mysterium Trinitatis. In un monoteismo esasperato, dentro e fuori il cristianesimo, rivive il “Dio monolitico” di cui parla la Zarri, che porta, su piano socio-politico, a forme spaventose di violenza intollerante: non solo l’Allah akbar dell’odierno fondamentalismo islamico salafita, ma già nel Medioevo il Deus vult delle Crociate, e quel Gott mit uns che a partire dai cavalieri dell’ordine teutonico ha una lunga, sinistra storia in Europa e finisce per essere ereditato dal nazismo ad ulteriore giustificazione della shoah. M. Buber dice che “Dio”, sulle labbra umane, finisce quasi sempre per essere una parola costitutivamente idolatrica. Per questo Girard sostiene che quella del Dio cristiano va intesa come una “sovratrascendenza” rispetto alla trascendenza sacrale cui si inginocchia l’homo religiosus, ed è per questo che egli parla anche del cristianesimo come della “fine del sacro”. Parimenti P. Tillich dice che occorre cercare “un Dio che è al di sopra di Dio” del Dio idolatrico che quasi sempre lo offusca. Gli fa eco, con una formula che parrebbe ancor più enigmatica e paradossale, D. Bonhoeffer, quando afferma che si deve vivere “davanti a Dio e con Dio, ma senza Dio”. Ma li anticipa tutti il grido disperato di Giobbe, anch’esso apparentemente paradossale. I suoi amici sembra che siano venuti per consolarlo delle sventure che l’hanno colpito, in realtà sono venuti per costringerlo a confessare una sua grave colpa che sicuramente ha commesso e che ha scatenato l’inflessibile retribuzione penale di Dio. Al centro di questo cerchio vittimario, la cui violenza viene proiettata nella violenza trascendente di un Dio vendicativo cui si appellano i suoi presunti “amici”, la vittima Giobbe rivendica la propria innocenza con il suo grido: “sia Dio a difendere l’uomo contro Dio”.