Il naturalismo biologico di John R. Searle: il problema della costruzione degli atti mentali

1. Introduzione

Il naturalismo biologico di John Searle costituisce un approccio al problema dei rapporti tra mente e cervello innovativo rispetto a quelli tradizionali, costituiti da dualismo e materialismo nelle loro molteplici versioni. Egli muove, infatti, da una critica a questi approcci che lo porta a sostenere che «la filosofia della mente si distingue dagli altri ambiti filosofici per il fatto che tutte le sue teorie più famose sono false»:1 il loro principale limite è l’incapacità di conciliare fisico e mentale, cervello e mente, senza incorrere in una serie di gravi errori: il materialismo nega l’esistenza del mentale o lo riduce al fisico, mentre il dualismo ne fa due categorie ontologicamente distinte e dunque inconciliabili. L’obiettivo di Searle è invece quello di mostrare come la mente sia un fenomeno biologico al pari della fotosintesi o della digestione e come essa, pur essendo irriducibile a stati cerebrali, ha specifici e importanti rapporti causali con essi.

2. Una critica alle teorie tradizionali della filosofia della mente

Searle ritiene che ciò che invalida gli approcci tradizionali, tanto materialistici quanto dualistici, è l’assunzione dello «stesso insieme di categorie ereditate dalla storia per la descrizione dei fenomeni mentali, in particolare della coscienza e, con esse, un certo insieme di assunzioni su come la coscienza e gli altri fenomeni mentali entrino in relazione tra loro e con il resto del mondo»:2 le categorie cui fa riferimento sono quelle del fisico e del mentale e le assunzioni erronee alla base di questi approcci consistono nel sostenere una netta distinzione tra fisico e mentale, per cui essi devono escludersi reciprocamente. Il problema mente-corpo nasce proprio da questo modo di vedere: se mentale e fisico non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro, come è possibile che da particelle fisiche possano avere origine «esperienze mentali»? E al contrario: come può il mentale agire sul fisico?

2.1. Contro il dualismo

Searle fa risalire questo modo di impostare il problema a Cartesio:3 egli, infatti, afferma che il mondo è costituito da due sostanze, res cogitans e res extensa, tra le quali esiste una profonda differenza ontologica. Essenza della prima è la coscienza: essa è conoscibile direttamente, è indistruttibile e indivisibile; essenza della seconda è l’estensione: essa è conoscibile indirettamente, è divisibile e corruttibile. Le due sostanze sono pertanto irriducibili l’una all’altra e possono esistere l’una indipendentemente dall’altra. Ciò, tuttavia, non esclude che esse interagiscano, come accade nell’uomo, composto di anima e corpo, nel quale l’interazione tra le due sostanze avviene mediante la ghiandola pineale. Questa soluzione, però, non riusciva a spiegare in modo soddisfacente l’interazione tra le due sostanze. Dando questa impostazione al problema, pertanto, Cartesio lasciava in eredità ai posteri un importante problema, «uno dei nuclei essenziali del dibattito attuale sulla natura della mente e degli stati mentali»:4 il problema del rapporto mente-corpo.

Le difficoltà in cui incorre il dualismo di stampo cartesiano sono le stesse di una forma di dualismo più debole, detta dualismo delle proprietà: esso sostiene che non esistono due sostanze diverse, bensì due tipi di proprietà: fisiche e mentali, ma ciò non facilita il compito di spiegare in che modo le une agiscano sulle altre e viceversa.

Searle propone, contro il dualismo, «un’immagine metafisica alternativa»:5 viviamo in un solo mondo, per descrivere il quale è preferibile abbandonare le categorie di fisico e mentale, perché molti suoi aspetti non vi rientrano, basti pensare, per citare alcuni esempi, al denaro, ai punti segnati durante una partita di calcio, alle rate di interessi.

2.2. Contro il materialismo

Dagli insuccessi del dualismo, sono scaturiti tentativi di risolvere il problema mente-corpo che sostengono l’esistenza di un solo tipo di entità nell’universo e per questo motivo ci si riferisce ad essi con il termine monismo. Ne esistono due tipi: quello mentalistico o idealismo e quello materialistico, o semplicemente, materialismo. Per quanto queste due forme di monismo siano diverse, esse commettono lo stesso errore poiché «both try to eliminate something that really exists on its own right and cannot be reduced to something else».6 Secondo il monismo mentalistico, infatti, esistono soltanto le nostre idee e «l’Universo è completamente mentale e spirituale».7 Searle non si occupa molto di questa posizione che, sebbene abbia avuto grande importanza nei secoli, ha avuto poca influenza nell’ambito della filosofia della mente, nel quale, invece, ha riscosso maggior successo il materialismo, la concezione secondo la quale «la sola realtà che esiste è quella materiale o fisica; di conseguenza, se gli stati mentali hanno un’esistenza reale, devono essere in qualche modo riducibili a, non devono essere altro che, stati fisici di qualche tipo».8 Le varie forme di materialismo sono accomunate proprio dal fatto che negano l’esistenza del mentale o lo riducono alla realtà fisica. Per Searle, invece, è un dato di fatto che esistano stati mentali, in quanto ne abbiamo esperienza quotidianamente e pertanto ogni spiegazione materialistica deve tenerne conto. Searle analizza alcune forme di materialismo, mettendone in evidenza i punti deboli.

La prima forma di materialismo che egli prende in considerazione è il comportamentismo, secondo il quale «la mente non è altro che il comportamento del corpo. Non c’è nulla al di là del comportamento del corpo che costituisca il mentale».9 Esistono due forme di comportamentismo: quello metodologico e quello logico. Il primo non propone una vera e propria spiegazione della mente ma si limita a fornire alla psicologia un metodo che le garantisca una maggiore scientificità; tale metodo consiste nello studiare solo «il comportamento oggettivamente osservabile» con l’obiettivo di scoprire le leggi che legano «gli stimoli in entrata dell’organismo con la risposta comportamentale in uscita»10 (è per questo che si parla di psicologia stimolo-risposta). Ciò che si obietta al dualismo non è che non esistano stati mentali bensì che «le affermazioni scientifiche devono essere oggettivamente controllabili»11 e le uniche affermazioni controllabili sulla mente riguardano il comportamento. La seconda forma di comportamentismo assume una posizione più forte riguardo agli stati mentali. Il comportamentismo logico, infatti, ritiene che «un’asserzione su uno stato mentale di una persona […] non significa altro che, può essere tradotta in, un insieme di enunciati sul comportamento effettivo o possibile di quella persona»;12 la mente, quindi, non sarebbe altro che «comportamento e disposizione al comportamento»,13 intendendo per disposizione al comportamento il fatto che saremmo disposti a comportarci in un certo modo in una certa situazione. Searle osserva che questo approccio va incontro ad una serie di difficoltà. Problematica è, innanzitutto, la nozione di disposizione: in che modo intenderla? Quali elementi possiamo considerare necessari per un’analisi disposizionale adeguata? C’è, in secondo luogo, un problema di circolarità: se tentiamo di analizzare uno stato mentale da un punto di vista comportamentale, sarà necessario presupporre altri stati mentali che a loro volta dovranno essere spiegati facendo appello ad altri stati mentali e così via. Searle ci fornisce il seguente esempio: dire che John crede che stia per piovere significa dire, per il comportamentista, che sarà disposto a chiudere le finestre per evitare che la casa si bagni e a prendere un ombrello nel caso in cui voglia uscire. Bisogna però considerare delle «ipotesi addizionali», come il fatto che egli non voglia bagnarsi. In caso contrario avrebbe un comportamento del tutto diverso. Questo desiderio dovrebbe a sua volta essere analizzato e spiegato in termini di altri stati mentali, generando una sorta di regresso all’infinito. Altra importante mancanza del comportamentismo consiste nel fatto che trascura le relazioni causali intercorrenti tra stati mentali e comportamento: nell’analizzare il dolore, per esempio, in termini esclusivamente comportamentali, si trascura il fatto che il dolore stesso è causa di, e non solo si traduce in, certi comportamenti. Le difficoltà incontrate dal comportamentismo hanno portato ad una sua sostituzione da parte del fisicalismo (o teoria dell’identità) , secondo il quale ogni stato mentale si identifica con un preciso stato del cervello e del sistema nervoso centrale. Una prima obiezione a questo approccio si basa sulla legge di Leibniz, secondo la quale due cose sono identiche se hanno in comune tutte le loro proprietà e ciò non accade nel caso di stati mentali e stati cerebrali: i primi infatti sono soggettivi e qualitativi mentre i secondi sono oggettivi. Una seconda obiezione si basa sul fatto che sembra improbabile che uno stato mentale si identifichi con un unico stato neurofisiologico. Si è tentato di ovviare a quest’ultima difficoltà sostenendo che «ogni occorrenza di uno stato mentale è identica ad una occorrenza di un evento neurofisiologico corrispondente»;14 in questo caso però sorgerebbe un altro problema, quello di spiegare in che modo stati fisici diversi possano corrispondere allo stesso stato mentale. Proprio dal tentativo di dare una soluzione a quest’ultimo problema si è sviluppato un nuovo approccio, il funzionalismo, secondo il quale «due diversi stati neurofisiologici sono occorrenze dello stesso tipo di stato mentale se svolgono, nella vita complessiva di un organismo, la medesima funzione».15 Gli stati mentali sono dunque definiti in termini di funzione, ossia «in termini di relazioni causali con gli stimoli esterni, gli altri stati mentali e il comportamento esterno»;16 due diversi stati neurofisiologici, pertanto, saranno occorrenze di uno stesso stato mentale se intratterranno le medesime relazioni causali con stimoli esterni ricevuti dall’organismo, altri suoi stati mentali e il comportamento esteriore in reazione a quegli stimoli. Il funzionalismo, secondo Searle, avrebbe voluto mostrare che parlare di stati mentali «significava semplicemente parlare di insiemi neutrali di relazioni causali»,17 mostrando che in essi non vi è «nulla di specificamente mentale».18 A questo approccio vengono mosse delle obiezioni: esso non tiene conto dell’aspetto qualitativo che caratterizza gli stati mentali, aspetto che non può essere affatto spiegato in termini di relazioni causali; in secondo luogo esso non spiega quali proprietà fanno si che due diversi stati neurofisiologici intrattengono le medesime relazioni causali. La risposta a quest’ultima domanda venne dal funzionalismo computazionale o intelligenza artificiale forte (nozione, quest’ultima, coniata dallo stesso Searle e contrapposta a quella di intelligenza artificiale debole: mentre per la prima un calcolatore opportunamente programmato può possedere effettivamente una mente, la seconda si propone l’obiettivo più modesto di studiare la mente avvalendosi dell’aiuto di simulazioni informatiche), secondo il quale «strutture materiali differenti potevano risultare equivalenti sotto il profilo mentale se implementavano, seppur attraverso differenti sistemi hardware, il medesimo programma per calcolatore»;19 questa definizione porta così a dire che «la mente sta al cervello come il programma sta all’hardware».20 Una importante conseguenza di questa affermazione fu ritenere che, essendo la mente un programma ed essendo un programma eseguibile da ogni hardware abbastanza potente, la mente poteva essere studiata indipendentemente dal cervello, in quanto quest’ultimo non è l’unico hardware che può implementare il programma mente. Nonostante annoveri l’intelligenza artificiale forte tra le varie forme di materialismo, Searle ritiene che «è meglio considerare l’IA forte come una sorta di tentativo estremo di dualismo. Secondo l’IA forte, infatti, la mente e la coscienza non sono processi concreti, fisici, biologici come la crescita, la vita o la digestione, ma sono qualcosa si forma ed astratto»21 ed in quanto tali non dipendono «da alcuna particolare concretizzazione fisica»;22 è proprio sulla base di queste considerazioni che l’IA può pretendere, secondo Searle, di equiparare la mente ad un programma implementabile da ogni hardware abbastanza potente per farlo. Le obiezioni mosse al funzionalismo computazionale riguardano innanzitutto il problema di programmare calcolatori in grado di superare il test di Turing, in base al quale si può dire che una macchina è intelligente se un individuo non riesce a distinguere il suo comportamento dal comportamento umano, comunicando con essa attraverso un computer, per esempio, e ponendo ad essa delle domande. Searle replica al test di Turing con l’argomento della stanza cinese: immaginiamo che un individuo, che non conosce il cinese, si trovi chiuso in una stanza con delle scatole contenenti simboli cinesi e con un manuale che gli spieghi come usare questi simboli. L’individuo riceve dei simboli cinesi senza sapere che si tratta di domande, legge il manuale e sceglie, in base alle istruzioni in esso contenute, dei simboli dalle scatole, ignorando che sono risposte a quelle domande; un osservatore esterno, ignaro del fatto che l’uomo nella stanza non conosce il cinese, potrebbe invece dire che lo comprende; analogamente una macchina ben programmata potrebbe ingannare un individuo senza che si possa dire che essa è intelligente. Un’altra importante obiezione mossa da Searle mostra come questo approccio non tenga conto del fatto che alcuni aspetti della mente, come la coscienza e l’intenzionalità, sono semantici, ossia hanno a che fare con significati, non soltanto con simboli; una macchina opera, invece, sulla base di programmi sintattici; una corretta manipolazione di simboli di cui non si conosce il significato (sintattica) non implica una loro comprensione (semantica), come mostra l’argomento della stanza cinese; ciò perché, spiega Searle, «la sintassi non è la stessa cosa e non è di per sé sufficiente per la semantica».23

Un ultimo approccio materialistico considerato è il materialismo eliminazionista, secondo il quale, poiché le neuroscienze non hanno mostrato alcuna correlazione tra processi cerebrali e mentali, i termini mentali dovrebbero essere sostituiti con «termini vertenti su stati cerebrali. Più precisamente, il materialismo eliminazionista sostiene che non esistono fenomeni mentali e che coloro che pensano esistano commettono un errore»;24 è questa una affermazione insostenibile per chi, come Searle, considera l’esistenza degli stati mentali un dato di fatto, del quale abbiamo «esperienza diretta».

Le assunzioni errate che sono alla base del materialismo nelle sue varie forme risultano, dunque, essere le seguenti:

  • nel tentativo di fornire uno studio scientifico della mente, il materialismo considera secondarie la coscienza e la soggettività; questo perché
  • «la scienza è oggettiva»,25 non solo nel senso che deve dare spiegazioni indipendenti da opinioni personali e pregiudizi, ma anche nel senso che la realtà di cui si occupa è oggettiva; applicare questo punto di vista allo studio della mente significa
  • studiare il comportamento esteriore in quanto dato oggettivamente osservabile; ciò implica che
  • si possono attribuire stati mentali ad un altro individuo, ma anche ad un altro sistema sulla base del suo comportamento; inoltre
  • la realtà è solo fisica e quindi
  • non c’è posto per entità che non siano fisiche, come gli stati mentali.

Sono assunzioni che Searle non condivide in alcun modo: la coscienza e la soggettività sono aspetti fondamentali della mente, che devono essere presi in considerazione da ogni indagine su di essa. Ciò implica che non tutta la realtà sia oggettiva: parte di essa è soggettiva. Questo errore deriva da una confusione tra livello epistemologico, a cui va collocata l’oggettività delle affermazioni scientifiche, e livello ontologico, a cui vanno collocate «differenti categorie della realtà empirica»:26 è falso dire che la realtà è oggettiva perché l’ontologia degli stati mentali è soggettiva. Livello ontologico ed epistemologico non devono dunque essere in alcun modo confusi in quanto «l’oggettività epistemica del metodo non richiede l’oggettività ontologica del soggetto».27

Dire che l’ontologia degli stati mentali è soggettiva significa dire che gli stati mentali sono sempre di qualcuno che ne ha esperienza;è un’ontologia, scrive Searle, «essenzialmente in [o di] prima persona».28 L’ontologia di prima persona si contrappone a quella di terza persona, che indica «qualsiasi modo di esistenza indipendente da qualsiasi soggetto esperiente».29 La soggettività degli stati mentali è, da un punto di vista epistemologico, un dato oggettivo. A queste considerazioni si deve aggiungere il fatto che non è in virtù del comportamento delle persone che attribuiamo loro stati mentali; in realtà sono «le capacità di sfondo grazie alle quali ci confrontiamo con il mondo [che] ci consentono — se si fa eccezione per i casi anomali — di trattare le persone diversamente dalle automobili, senza essere per questo costretti ad introdurre ipotesi addizionali relative al fatto che le prime, diversamente dalle seconde, sono coscienti».30 Il rapporto tra stati mentali e comportamento è inoltre contingente, in quanto si possono avere i primi senza i secondi, come avviene nel caso della sindrome di Guillame-Barre: chi ne è affetto ha una vita interiore cosciente del tutto normale ma non può in alcun modo esprimerla, essendo completamente paralizzato.

Ritenere, infine, che la realtà sia solo fisica spinge a cercare soluzioni al problema della mente che neghino l’esistenza di stati mentali o che li riducano a stati cerebrali, che sono fisici, ignorando l’ontologia in prima persona degli stati mentali.

3. «Naturalizzare» la mente

Il materialismo e il dualismo non danno soluzioni corrette e soddisfacenti al problema della mente. Dove andrà allora cercata tale soluzione? Se è sbagliato il modo tradizionale di intendere il rapporto tra il fisico e il mentale, in che modo andrà inteso? Come conciliare la soggettività del mentale con l’oggettività delle spiegazioni scientifiche? Quale rapporto esisterà tra stati mentali e stati cerebrali? Quale rapporto sarà tale da conservare l’esistenza dei primi senza ridurli ai secondi? Quale spazio ci sarà per gli stati mentali in un mondo costituito di particelle fisiche?

Prima di mostrare il nuovo approccio che Searle propone in risposta al problema mente-cervello, osserviamo che sin qui abbiamo parlato della mente senza chiederci cosa essa sia. Non è certo facile darne una definizione esauriente e solo cercare di dire cosa essa sia richiederebbe una riflessione a se stante. In questo lavoro assumiamo con Searle che essa sia «la sequenza di pensieri, sensazioni ed esperienze, tanto consce, quanto inconsce, che vengono a formare la nostra vita mentale».31 abbiamo già osservato che gli stati mentali sono interiori, qualitativi e soggettivi. A queste caratteristiche se ne aggiungono altre, come la coscienza, l’intenzionalità, il fatto cioè che gli stati mentali siano diretti ad un oggetto diverso da loro, la causazione mentale, ossia la capacità di avere effetti causali sul mondo fisico. Sono tutti aspetti problematici, materia di numerosi dibattiti, dei quali qui non ci occuperemo ma che abbiamo menzionato per render conto della ricchezza e della problematicità della nozione in esame.

3.1. Il naturalismo biologico

Searle chiama la soluzione che intende fornire al problema mente-cervello naturalismo biologico «perché costituisce una soluzione naturalistica al ‘problema mente-corpo’tradizionale mettendo in rilievo il carattere biologico degli stati mentali ed evitando tanto il materialismo quanto il dualismo».32 Si tratta, scrive, di una soluzione naturalistica della mente in due sensi: da un lato «tratta i fenomeni mentali come parte della natura»33 e dall’altro «l’apparato esplicativo usato per fornire una spiegazione in termini causali dei fenomeni mentali è necessario per spiegare la natura in generale»;34 la spiegazione che fornisce del rapporto mente cervello, cioè, funziona anche per molti fenomeni naturali; anzi Searle, come vedremo, guarda proprio alla natura come esempio di questa spiegazione.

Searle suggerisce, inoltre, che si può guardare al naturalismo biologico come ad un tentativo di recuperare quanto di buono c’è nel materialismo e nel dualismo, tralasciando quanto vi è di erroneo. A proposto di quanto vi è di buono e di cattivo in questi due approcci, egli scrive che:

the materialist is trying to say, truly, that the universe consists entirely of material phenomena such as physical particles in fields of force. But he ends up saying, falsely, that irreducible states of consciousness do not exist. The dualist is trying to say, truly, that ontologically irreducible states of consciousness do exist, but he ends up saying, falsely, that these are not ordinary parts of the physical world.35

Recuperare quanto di positivo vi è in materialismo e dualismo significa pertanto mostrare che esistono stati mentali irriducibili che sono parte del mondo fisico, abbandonando una concezione che vede fisico e mentale come due categorie ontologiche inconciliabili. In questo modo Searle mostra che tra fisico e mentale non esiste quell’«abisso metafisico»36 che per molto tempo si è ritenuto li separasse.

Il naturalismo biologico si basa sulle seguenti quattro tesi:

  1. gli stati mentali, caratterizzati da una ontologia di prima persona, «sono fenomeni reali del mondo reale»:37 non possono essere eliminati o ridotti a stati cerebrali, perché effettuando tale riduzione si tralascerebbe l’ontologia di prima persona;
  2. tutto ciò che fa parte della nostra vita mentale è causato da processi che avvengono nel cervello;
  3. tutti i fenomeni mentali sono «semplicemente caratteristiche del cervello (e forse del sistema nervoso centrale)»;38
  4. essendo fenomeni reali di un mondo reale, gli stati mentali hanno «efficacia causale».

Abbiamo già detto che per Searle l’esistenza di stati mentali è un dato di fatto; abbiamo esperienza di tale esistenza ogni giorno e pertanto non vede in che modo si possa affermare il contrario. Proprio per questo, non ritiene necessario approfondire tale questione; scrive, infatti, che «si dovrebbero dare per scontati i fenomeni mentali — e quindi fisici — allo stesso modo dei fenomeni digestivi dello stomaco».39 Detto che il mentale esiste, si pone il problema di spiegare come si collochi nella realtà fisica e come interagisca con essa. Ce lo dice la seconda tesi. Riportiamo innanzitutto un esempio di Searle: le varie sensazioni di dolore sono causate da una «serie di eventi che iniziano da terminazioni nervose libere e finiscono nel talamo e in altre regioni del cervello»;40 le sensazioni di dolore, in altre parole, sono causate dalla stimolazione di determinate aree del cervello. In realtà, tutto il processo che riguarda la percezione del dolore avviene nel cervello. Siamo abituati a pensare che le nostre sensazioni corporee siano localizzate nella zona del corpo dove le percepiamo; non è tuttavia così. È nel cervello che ha luogo la percezione cosciente del dolore: il cervello elabora una immagine corporea, cioè un’immagine di tutto il nostro corpo e, quando proviamo una qualsiasi sensazione, «l’occorrenza reale dell’esperienza avviene nell’immagine corporea del cervello […] l’incontro tra l’apparenza della sensazione e il reale corpo fisico è interamente costruito nel cervello».41 Quello che avviene nel caso del dolore avviene nel caso degli altri fenomeni mentali. Fondamentale, dunque, per quanto riguarda la formazione di stati mentali è ciò che avviene nel cervello. Come si articola questo rapporto tra stati mentali e cerebrali? Ce lo dice la terza tesi, sebbene essa appaia incompatibile con la precedente: come può, infatti, la mente, causata da quanto avviene nel cervello, essere allo stesso tempo la caratteristica di ciò che la causa? In realtà, spiega Searle, questa domanda sorge da un «fraintendimento della causazione»:42 quando pensiamo a due eventi tra cui intercorre una relazione causale, pensiamo a due eventi «discreti», cioè separati e distinti tra loro, uno dei quali è la causa, l’altro l’effetto; immaginiamo che funzioni come una palla da biliardo ne colpisce un’altra. Nel nostro caso però, spiega, abbiamo bisogno di un’accezione più «sofisticata» di causazione. Guardando alla fisica, Searle chiama in causa la distinzione tra livello microscopico e livello macroscopico di un sistema: consideriamo, per esempio, l’acqua. A livello microscopico troviamo molecole, atomi e particelle subatomiche; a livello macroscopico, invece, osserviamo che l’acqua è liquida: è questa una proprietà detta caratteristica di superficie o globale. Una proprietà di superficie, detta anche proprietà emergente, è «qualcosa che è spiegato causalmente dal comportamento degli elementi del sistema; ma non è una proprietà di qualsiasi elemento individuale [del sistema] e non può essere spiegata semplicemente come la somma delle proprietà di quegli elementi».43 Spiega efficacemente Searle che «la caratteristica di superficie è sia causata dal comportamento dei microelementi, sia allo stesso tempo realizzata nel sistema costituito da quei microelementi. C’è una relazione di causa ed effetto, ma allo stesso tempo le caratteristiche di superficie sono caratteristiche di più alto livello di quello stesso sistema il cui comportamento al microlivello causa quelle caratteristiche».44 Le stesse considerazioni vanno fatte per la mente e per il cervello: è in questo senso che i processi cerebrali causano gli stati mentali, che a loro volta sono realizzati nel sistema costituito di neuroni. Aggiunge, inoltre, Searle che, come possiamo dire di un sistema di particelle, e non delle singole particelle, che è liquido o solido, allo stesso modo possiamo dire di un cervello che è cosciente, ma non possiamo dirlo di un neurone. Searle elabora così una teoria della mente «che va nel senso di una ‘naturalizzazione’non riduzionista»:45 naturalizzazione perché, come detto, gli stati mentali esistono e fanno parte della natura quanto la digestione e la fotosintesi; non riduzionista perché questi stati non vengono identificati, come avveniva in alcune forme di materialismo, con stati cerebrali, sebbene diano causati da essi. Va aggiunto che la forma di riduzionismo condannata da Searle è quella ontologica, consistente nel mostrare che oggetti di un certo tipo, nel nostro caso stati mentali, non sono altro che oggetti di un altro tipo, ossia stati cerebrali; non critica, ma anzi fa sua, quella che viene detta riduzione causale: si può dire che «fenomeni di tipo A sono causalmente riducibili a fenomeni di tipo B, se — e solo se — il comportamento degli A è completamente spiegabile in termini causali mediante il comportamento dei B, e gli A non hanno capacità causali in aggiunta a quelle dei B»:46 la liquidità dell’acqua è causalmente riducibile al comportamento della molecole e gli stati mentali sono causalmente, e non ontologicamente, riducibili agli stati cerebrali. Si potrebbe obiettare, nota Searle, che come nel caso dell’acqua possiamo ridurre la liquidità ai moti e alla struttura delle molecole che la compongono, allo stesso modo si potrebbe ridurre la mente agli stati cerebrali: si potrebbe operare, cioè, in entrambi i casi, in passaggio da una riduzione causale ad una riduzione ontologica. È un passaggio che si verifica spesso in campo scientifico e che consiste nel «togliere di mezzo le proprietà di superficie ridefinendo la nozione originaria nei termini delle cause che producevano quella stessa proprietà».47 In questo caso, la riduzione ontologica ha la funzione di eliminare l’esperienza soggettiva dai fenomeni studiati: un corpo caldo non è quello che ci appare tale ma quello composto da particelle la cui energia cinetica assume un certo valore. In questo modo il fenomeno viene ridefinito «sulla base della ‘realtà’e non dell’’apparenza’».48 Non è possibile operare, però, una riduzione ontologica nel caso dei fenomeni mentali, in quanto non si può distinguere in questi casi tra realtà e apparenza: «se ho la sensazione cosciente di essere cosciente, allora sono cosciente»;49 posso ingannarmi sui contenuti dei miei stati ma non sulla loro coscienza. Questo è un altro modo, scrive Searle, per dire che il mentale possiede un’ontologia di prima persona e pertanto non può essere ontologicamente ridotto a ciò che possiede un’ontologia di terza persona. Se, infatti, volessimo ridurre ontologicamente gli stati mentali a configurazioni di neuroni, perderemmo le proprietà essenziali di tali stati:

nessuna descrizione oggettiva e impersonale dei fatti fisiologici sarebbe in grado di rendere il carattere soggettivo del dolore [e degli altri stati mentali] vissuto in prima persona, semplicemente perché proprietà vissute in prima persona e proprietà impersonali sono le une differenti dalle altre.50

Ritornando alle tesi su cui si basa il naturalismo biologico, la quarta segue dalle precedenti: una volta che si è assunta la mente come parte reale di un mondo reale, non sembra più così inconcepibile che essa possa avere una qualche azione sulla realtà fisica. Come potrebbe però uno stato mentale, che è incorporeo, agire sulla «parte» fisica del mondo? Ciò è possibile perché, scrive Searle, «i pensieri non sono né incorporei né eterei. Quando si ha un pensiero, sta in realtà avendo luogo dell’attività cerebrale. L’attività cerebrale causa i movimenti del corpo attraverso processi fisiologici. Dunque, poiché gli stati mentali sono caratteristiche del cervello, essi hanno due livelli di descrizione -un livello più alto [quello che sopra abbiamo chiamato macrolivello di un sistema] in termini mentali, e un livello più basso [microlivello] in termini fisiologici»;51 una stessa azione può essere descritta ad entrambi i livelli. Consideriamo per esempio l’azione di alzare il braccio: al livello più alto, mentale, di descrizione, è la mia intenzione che causa il movimento del braccio, mentre al livello più basso, fisiologico, una serie di scariche neuronali provoca una catena di processi che culminano nelle contrazioni dei muscoli e, quindi, nel sollevamento del braccio.

Nonostante Searle abbia più volte sottolineato che la sua posizione non ha nulla a che vedere con materialismo e dualismo, gli è stato spesso obiettato che con il naturalismo biologico non ha fatto altro che riproporre una variante delle teorie da lui criticate. A chi lo accusa di essere un materialista, risponde che egli rifiuta il materialismo in quanto quest’ultimo nega l’esistenza del mentale come «parte reale e irriducibile del mondo reale».52 Se è difficile vedere in Searle un materialista, forse è più forte la tentazione di considerarlo un sostenitore del dualismo delle proprietà; egli sostiene, infatti, l’irriducibilità del mentale, «ma che cos’è il dualismo delle proprietà se non la visione per cui la coscienza [e il mentale in generale] è una proprietà che non è riducibile a proprietà materiali?».53 Searle riconosce che l’irriducibilità ontologica del mentale è ciò che lui e il dualismo delle proprietà hanno in comune ma nega che da ciò segua che il mentale sia «un’entità metafisica, che non appartiene al mondo fisico ordinario»,54 «something ‘over and above’, something distinct from, its neurobiological base»;55 pertanto, dal suo punto di vista, si può ammettere l’irriducibilità del mentale senza cadere nel dualismo.

3.2. Ricerche sul rapporto cervello-mente

Abbiamo dunque visto che gli stati mentali sono causati dal cervello ma rimangono ancora molte domande senza risposta:

in che modo esattamente i processi neurobiologici causano la coscienza? […] Che cosa esattamente collega la stimolazione dei nostri recettori all’esperienza cosciente e in che modo i processi intermedi [ossia i processi neurobiologici, che si collocano tra lo stimolo esterno e gli stati mentali causati] causano gli stati coscienti?56

Sappiamo che ciò che avviene a livello di neuroni e sinapsi è fondamentale per la genesi degli stati mentali ma non sappiamo nulla di come ciò avvenga; disponiamo di molte conoscenze sul funzionamento del cervello ma «non abbiamo ancora una descrizione teorica unitaria di che cosa succeda a livello neurobiologico, che permette al cervello di fare ciò che fa determinando la causazione, la strutturazione e l’organizzazione della nostra vita mentale».57 Le difficoltà che ostano all’elaborazione di tale teoria sono diverse. Ci sono innanzitutto problemi pratici: il cervello è costituito da più di cento miliardi di neuroni collegati tra di loro da un numero ancora più alto di connessioni, il tutto in uno spazio piuttosto ristretto ed è difficile lavorare su questi elementi senza danneggiarli. C’è poi una certa riluttanza da parte dei neurobiologi ad affrontare il problema del mentale e questo per vari motivi: alcuni ritengono che non siamo ancora pronti perché dovremmo prima disporre di maggiori conoscenze sul cervello; altri pensano che non sia una questione di pertinenza della scienza, ma soltanto della filosofia e della teologia; altri ancora pensano che non sia possibile dare una spiegazione biologica della coscienza. Non mancano però neurobiologi che tentano di capire in che modo gli stati mentali sono causati dal cervello. Si possono distinguere due approcci al problema: l’approccio particolaristico o «a blocchi di costruzione» e l’approccio globalistico, o «del campo unificato».58 Il primo approccio «considera il complesso del campo cosciente costituito da unità coscienti più o meno indipendenti, i ‘blocchi da costruzione’»;59 esempi di questi blocchi sono l’esperienza di un colore, di un suono di un sapore. L’idea alla base di questo approccio è che se riuscissimo a capire come funziona anche solo uno di questi blocchi, disporremmo di una soluzione per risolvere il problema della causazione del mentale nella sua globalità. Questi blocchi sono a volte chiamati unità o moduli: «un modulo è un circuito neuronale, di dimensioni e struttura diverse in diverse regioni cerebrali […] che ha funzione di ricezione, elaborazione e trasmissione del messaggio neurale»;60 l’approccio modulare nasce dall’aver osservato che lesioni in certe aree cerebrali lasciano intatte funzioni localizzate in aree diverse. L’approccio globalistico, invece, non cerca di capire «come il cervello produca certi specifici blocchi da costruzione all’interno del campo cosciente, ma come anzitutto produca il campo cosciente nella sua globalità»;61 non si pensa che le singole esperienze percettive creino blocchi di coscienza, ma che intervengano a modificare un campo di coscienza ad esso preesistente. Searle ritiene che quest’ultimo approccio avrà probabilmente più successo perché pensa che una singola esperienza cosciente possa realizzarsi solo in un cervello già cosciente.

4. Costruire la mente?

Abbiamo visto che il cervello causa la mente anche se non sappiamo come ciò avvenga effettivamente. Ora analizzeremo la posizione di Searle di fronte alla possibilità di creare artificialmente la mente; se quest’ultima, infatti, è causata dal cervello, non potremmo essere in grado di produrre un sostrato, organico o inorganico, che, come il cervello, causi la mente?

4.1. L’intelligenza artificiale

Searle si dimostra fortemente critico, come già detto, nei confronti dell’intelligenza artificiale forte, ma questa è una questione diversa dalla possibilità di costruire macchine pensanti. Vediamo perché. Ciò che egli critica non è la possibilità di costruire macchine pensanti; scrive, infatti, che, «per quanto ne sappiamo, sarebbe forse possibile costruire una macchina pensante servendosi di materiali del tutto diversi»62 da quelli di cui è fatto il cervello; non sappiamo ancora come e se ciò sarà possibile, ma non possiamo escludere questa possibilità. L’IA forte sostituisce alla domanda se sia o meno possibile costruire macchine pensanti la domanda «una macchina può pensare semplicemente in virtù del fatto che esegue un programma per calcolatori?»;63 è, cioè, sufficiente implementare il programma giusto per costruire una mente? È a questa domanda che Searle risponde negativamente in maniera assoluta perché, come detto, un programma è esclusivamente sintattico mentre la mente è semantica; è impossibile che una macchina possa pensare solo in virtù dell’implementazione del programma giusto. L’approccio dell’IA viene inoltre definito da Searle «profondamente anti-biologico»:64 essendo, infatti, indifferente l’hardware che implementa il programma che dovrebbe riprodurre la mente, il cervello viene a perdere la sua importanza, in quanto diventa soltanto uno di questi hardware. Si tratta di una considerazione errata perché non tiene conto della «specificità» della struttura del cervello, del fatto, cioè, che quando abbiamo a che fare con fenomeni mentali, «sono in gioco processi neurobiologici specifici»65 che li causano: ciò significa che non è affatto irrilevante ciò che avviene nel cervello ma, al contrario, quando abbiamo a che fare con la mente, «il cervello ha un’importanza cruciale».66 Se ciò non implica che possano pensare solo sistemi biologici, implica però che «qualunque sistema artificiale in grado di produrre fenomeni mentali, ossia qualunque cervello artificiale, dovrebbe essere in grado di riprodurre gli stessi poteri causali specifici del cervello umano e non potrebbe farlo svolgendo un programma formale»,67 dovrebbe, cioè, «essere in grado di causare ciò che causano i cervelli».68

4.2. Il Connessionismo e il problema della simulazione

Mentre Searle si confrontava con l’IA mettendone in evidenza i limiti, veniva elaborato un nuovo approccio agli stessi problemi e anch’esso critico nei confronti dell’IA. Ci stiamo riferendo al Connessionismo che, vedremo, cerca di «ricreare» i processi mentali attraverso reti neurali artificiali che si ispirano a quelle reali. Parisi riassume l’essenza del Connessionismo con la seguente uguaglianza: «materialismo e operazionismo = reti neurali e simulazioni».69 Per materialismo egli intende «la tesi secondo cui per studiare il comportamento e la vita psichica in quegli organismi che, come gli esseri umani, ce l’hanno, bisogna usare gli stessi concetti che le scienze della natura usano per studiare la natura, concetti che non postulano entità mentalistiche non osservabili quali rappresentazioni, credenze, scopi e intenzioni, ma si riferiscono unicamente ad entità fisiche, osservabili direttamente o con strumenti, soggette soltanto a processi di causalità fisica, e aventi natura intrinsecamente e fino in fondo quantitativa».70 Così inteso, il materialismo ha poco in comune con quello criticato da Searle e che nega l’esistenza di stati mentali irriducibili alla realtà fisica. Questa forma di materialismo implica il riduzionismo nella sua forma ontologica, mentre Parisi stesso spiega che, «se il materialismo volgare tradizionale implicava il riduzionismo»,71 oggi le cose stanno diversamente. Distinguendo tra riduzionismo ontologico, per il quale esistono solo le entità studiate dalla fisica e le altre devono essere ridotte ad esse, e riduzionismo esplicativo, stando al quale «per spiegare un certo tipo di entità, di processi e di fenomeni, studiati da una certa disciplina, è utile fare riferimento ad altre entità, altri fenomeni, altri processi studiati da atre discipline»,72 conclude che «la scienza è oggi fortemente riduzionista in senso esplicativo».73 Questa forma di riduzionismo non fa altro che sottolineare la necessità di conferire allo sviluppo delle scienze un carattere interdisciplinare, carattere da cui deriva la possibilità di ricorrere allo studio del cervello per cercare di fornire una spiegazione della mente. In questo modo, ciò che Parisi intende con materialismo e riduzionismo appare concordare, in linea di massima, con il naturalismo di Searle, ove si intenda, appunto, che: «l’apparato esplicativo usato per fornire una spiegazione in termini causali dei fenomeni mentali è necessario per spiegare la natura in generale».74 Parisi, inoltre, parla di «naturalizzazione degli esseri umani, dove naturalizzazione significa studiare gli esseri umani e i loro prodotti (il loro comportamento e la loro vita mentale, le società umane e il loro cambiare storico, le loro culture e tecnologie, l’arte, la filosofia, la religione, la stessa scienza) come oggetti naturali, in continuità con le scienze della natura, senza introdurre nessuna essenziale diversità tra gli esseri umani e il resto della realtà studiata dalla scienza»;75 è ciò che si propone lo stesso Searle ed è proprio questo processo di «naturalizzazione» che dà il nome al suo naturalismo biologico. Nonostante questi punti in comune, questa forma di materialismo rappresenta il punto di partenza per il superamento dell’approccio searliano. Vediamo perché. Finora abbiamo considerato il materialismo in relazione alle scienze in generale, accennando soltanto alle implicazioni relative allo studio della mente. Ora ci soffermeremo su questo aspetto, che apre la strada agli altri caratteri salienti del Connessionismo, in primis le reti neurali. Questo perché «oggi il materialismo nello studio della mente è rappresentato dalle reti neurali, modelli che sono ispirati al modo in cui è fatto e funziona fisicamente il sistema nervoso, modelli di cui si serve per spiegare la vita psichica e il comportamento degli organismi».76 In contrapposizione ai modelli dell’IA, le reti neurali «riproducono in forma semplificata quello di cui è fatto fisicamente il sistema nervoso, cioè neuroni e sinapsi, e il modo in cui funziona il sistema nervoso, cioè propagando eccitazioni e inibizioni attraverso le sinapsi che uniscono i neuroni, determinando in questo modo il livello di attivazione posseduto in ogni determinato istante da ogni singolo neurone e modificando il comportamento attraverso la modifica dei ‘pesi sinaptici’77».78 Una rete neurale riproduce in modo semplificato la struttura del cervello in quanto è composta da una serie di unità che corrispondono ai neuroni collegate tra di loro da connessioni che corrispondono a quelle sinaptiche dei cervelli reali. Il modo di operare delle reti neurali è detto, inoltre, «parallel distributed processing (PDP) »79, sottolineando ulteriormente la somiglianza con i cervelli biologici: «parallel» perché l’elaborazione avviene, come nel sistema nervoso in parallelo, ossia vengono trattati più dati contemporaneamente e «distributed» perché l’elaborazione è distribuita su più unità, più elementi della rete neurale, cioè, lavorano alla stessa operazione o partecipano a più operazioni contemporaneamente, proprio come fanno i neuroni. A questo punto entrano in gioco operazionismo e simulazione. Per operazionismo dobbiamo intendere «la tesi che il significato di un concetto sono le operazioni che effettivamente compiamo quando usiamo il concetto, e non cose come la definizione verbale del concetto o entità astratte di altro tipo»;80 nell’ambito degli studi sulla mente ciò si traduce nelle simulazioni: ecco apparire, nelle parole di Parisi, «un nuovo metodo di ricerca che mira a spiegare i fenomeni della realtà riproducendoli in sistemi artificiali»;81 tali simulazioni esprimono i concetti e i modelli della scienza in forma di programmi informatici che, una volta eseguiti, forniscono come risultato «le predizioni empiriche derivate dai concetti e dai modelli incorporati nel programma. In questo modo il significato dei nostri concetti e nostre teorie viene a consistere nelle operazioni che compie il programma e nei risultati di tali operazioni, e in nient’altro».82 Nella prospettiva connessionistica, operazionismo e simulazione si fondono insieme con materialismo e reti neurali in quanto queste ultime «sono modelli simulativi, cioè modelli espressi sotto forma di programmi di computer».83 questi modelli simulativi permettono al ricercatore di manipolare e controllare i fenomeni simulati, studiandone le conseguenze. L’uso della simulazione, inoltre, è particolarmente utile nello studio della mente perché «le simulazioni permettono di incorporare in una stessa simulazione aspetti biologici, aspetti comportamentali e aspetti dell’organizzazione sociale degli esseri umani»:84 se si vuole studiare la vita mentale senza tralasciare alcun aspetto importante è necessario ed utile semplificare questi aspetti e riprodurli in una simulazione, in modo da valutarne le reciproche relazioni ed interazioni. Non c’è più bisogno di suddividere l’immenso territorio della vita mentale in molteplici campi di studio, oggetto di diverse discipline che si avvalgono di metodologie diverse, in quanto le simulazioni permettono di studiare questo territorio, ovviamente semplificandolo, nel suo insieme: il metodo delle simulazioni permette, infatti, di simulare tutto, dal sistema nervoso ai comportamenti sociali. Le simulazioni sono particolarmente utili quando si ha a che fare con un sistema complesso, quale è appunto il sistema nervoso. Un sistema complesso è costituito da un elevatissimo numero di elementi tra loro collegati in modo che non si può distinguere il ruolo di ogni elemento nel produrre un certo effetto; ha poi caratteristiche globali che non possono essere previste dalla configurazione dei singoli elementi e dalle loro interazioni; è in gradi di adattarsi all’ambiente in cui vive, modificandolo e modificandosi in funzione di esso e cambia nel tempo in modo non prevedibile e non graduale. Le reti neurali, inoltre, mostrano di saper apprendere dall’esperienza, modificando i pesi sinaptici in funzione degli esempi loro presentati. Il computer, con le sue enormi capacità di calcolo, facilita lo studio dei sistemi complessi e permetti di simularli. Questi sistemi, inoltre, permettono di risolvere i problemi del riduzionismo, perché mostrano come la vita mentale emerga «dalle interazioni tra i numerosissimi elementi che sono le cellule del sistema nervoso, le diverse componenti del corpo (molecole, cellule, organi, sistemi), i segmenti di materiale genetico che costituiscono i geni»,85 senza però ridurla a questi: essendo la vita mentale una proprietà emergente di un sistema complesso non può essere affatto prevista a partire dalla sua configurazione e dalle relazioni tra le sue componenti. È quanto intende affermare Searle quando parla di proprietà emergenti e definisce la mente una proprietà emergente del cervello. Nonostante questa forte vicinanza tra i due approcci, il Connessionismo si spinge più avanti di Searle: le simulazioni consentono, infatti, di andare oltre l’aspetto puramente teorico, cercando di trovare una soluzione al problema, rimasto in sospeso in Searle, di come i processi cerebrali possano produrre la nostra vita mentale. Non si sta sostenendo che il Connessionismo abbia risolto il problema ma che, avvalendosi delle reti neurali e delle simulazioni, abbia unito la prassi alla teoria laddove, invece, Searle si è fermato alla sola teoria. Questo «superamento» non comporta alcun rifiuto delle sue tesi, in quanto esse condividono con il Connessionismo il punto di partenza biologico, consistente nell’individuare l’approccio più valido al problema della mente in quello che passa per lo studio di quanto avviene nel cervello, in contrapposizione all’IA. Si potrebbe a questo punto pensare che il Connessionismo potrebbe costituire non solo un superamento ma anche un completamento del naturalismo biologico, fornendo ad esso la dimensione «pratica» di cui manca. Ricordiamo che Searle non aveva escluso la possibilità di costruire macchine pensanti, purché esse disponessero degli stessi «poteri causali» di un cervello biologico; il Connessionismo sembra soddisfare questa richiesta in quanto le reti neurali ricalcano la struttura e il funzionamento di neuroni e sinapsi. Searle, tuttavia, ritiene che «l’argomento della stanza cinese confuta tutte le ipotesi di tipo IA forte costruite a proposito delle nuove tecnologie parallele ispirate alle reti neuroniche»86 e, nonostante i modelli connessionistici posseggano «interessanti proprietà che consentono loro di simulare processi cerebrali in modo più preciso delle tradizionali architetture seriali […] la natura parallela, ‘cerebrale, dell’elaborazione, tuttavia è irrilevante per gli aspetti computazionali del processo»,87 in quanto funzioni calcolabili da una macchina parallela lo sono anche da parte di una macchina seriale tradizionale. L’argomento della stanza cinese usato contro il Connessionismo è una variante di quello proposto contro l’IA: Searle usa l’immagine di una «palestra cinese», nella quale si trovano uomini che parlano solo inglese, che corrispondono alle unità di una rete neurale e che manipolano ideogrammi come l’individuo singolo nella stanza cinese; il risultato è lo stesso che nell’esempio originario, ossia nessuno conosce il cinese, neppure il sistema composto da tutti gli individui, dai simboli che manipolano e dalle regole attraverso le quali operano. Si potrebbe obiettare che il Connessionismo, diversamente dall’IA, non paragona la mente ad un programma e, come già detto, riconosce l’importanza del cervello ai fini dello studio della mente; tuttavia, per Searle, la strada delle simulazioni non può portare lontano: nel cervello hanno luogo «processi neurobiologici specifici» e la capacità di causare stati mentali dipende fortemente dalla struttura biochimica del cervello mentre le simulazioni «forniscono modelli degli aspetti formali di questi processi»88 e, ammonisce Searle, la simulazione non va affatto confusa con la riproduzione. Scrive, pertanto, che. «i neuroni possono davvero essere simulati da un programma di computer, ma l’imitazione delle scariche neuronali non assicura il potere dei neuroni di causare la coscienza, più di quanto la simulazione al computer di un temporale o dello scoppio di un incendio non garantisca i poteri causali della pioggia o del fuoco. Un programma che simula il cervello non causa di per se stesso la coscienza più di quanto un programma che simula un incendio non bruci casa o il programma che simula la pioggia ci lasci tutti fradici».89 Parisi è di ben altro avviso: non si può dire che i modelli simulativi connessionistici hanno gli stessi limiti di quelli dell’IA, solo perché si avvalgono dei computer: «in un computer tutto può essere simulato senza per questo assumere che quello che viene simulato è simboli o lavorare sui simboli».90 Egli distingue quindi tra due diversi usi del computer: uno che individua in esso stesso un modello della mente, trascurando la nostra struttura cerebrale, e uno che vede in esso «uno strumento per fare simulazioni»91 e che riconosce la centralità della biochimica cerebrale per lo studio della mente. Ciò non basta a preservare il Connessionismo dalle critiche di Searle, in quanto, a suo avviso, «non è possibile ottenere contenuti di pensiero semanticamente pregnanti tramite semplici computazioni formali, che siano eseguite in serie [come nell’IA tradizionale] o in parallelo [come in alcune simulazioni connessionistiche]».92 Il Connessionismo, pertanto, non procede molto oltre l’IA e finisce per chiudersi in un modello simbolico, divenendo bersaglio delle stesse critiche mosse ad essa. È vero, come dice Parisi, che quando si simula qualcosa non si assume che questa sia una semplice manipolazione di simboli, ma è altrettanto vero che le simulazioni sono realizzate con macchine che lavorano manipolando simboli e pertanto ciò che deve essere simulato deve essere prima ridotto ad un programma, che è sintattico.

Il Connessionismo potrebbe costituire una valida alternativa all’IA solo se potesse avvalersi di macchine su cui operare simulazioni diverse da quelle usate da essa. Searle non propone però una strada alternativa da seguire. Ci dice solo che qualsiasi macchina pretenda di essere un cervello artificiale deve avere gli stessi poteri causali di un cervello reale e ciò non può avvenire attraverso la sola esecuzione di programmi da parte di un computer, in quanto questa non è in grado di catturare una dimensione fondamentale della vita mentale, quella del senso. L’uso del computer è però imprescindibile quando si tratta di elaborare modelli e metterli alla prova, soprattutto, come abbiamo visto, quando si ha a che fare con sistemi complessi quali il cervello. La critica di Searle, condannando in partenza ogni tentativo di costruire modelli del cervello che passi attraverso il computer apre un nuovo problema: elaborare modelli della mente che non passino attraverso i programmi per computer tradizionali, che lavorano in serie. Come costruire questi strumenti? Questi modelli eviteranno il riduzionismo? Il problema è forse di più ampia portata: se la mente è una proprietà emergente del cervello, se essa, cioè, è causata da esso pur non riducendosi alla somma di neuroni e connessioni, come si può pensare di creare una mente ricreando il cervello? Cosa potrebbe, vale a dire, garantirci che, avendo ricreato in tutto e per tutto la struttura del cervello, avremo al contempo creato una mente? Se la mente è qualcosa in più della somma delle parti che la causano, come potrà essere racchiuso in un modello questo «qualcosa in più», senza rischiare di ridurlo a ciò che lo causa?

5. Il problema della natura delle rappresentazioni mentali

Attraverso l’analisi critica del Connessionismo svolta da Searle, siamo giunti ad interrogarci su quale debba essere la natura di studi e ricerche che vogliano interrogarsi, in modo approfondito, sulla natura della mente e sui suoi rapporti con il cervello. Abbiamo visto come il Connessionismo sembrasse costituire un approccio promettente. Abbiamo inoltre accennato al fatto che le reti neurali sono in grado di apprendere dalle proprie esperienze e di modificare, quindi, le proprie «conoscenze» di partenza. C’è però un elemento da tener presente. Quando noi ci confrontiamo con l’ambiente in cui viviamo, non lo facciamo come se la nostra mente fosse una tabula rasa, in quanto siamo portatori di un bagaglio di conoscenze acquisite sia nel corso della nostra vita, sia nel corso dell’intera evoluzione dell’essere umano; noi vediamo il mondo attraverso una serie di concetti, di significati dai quali ci è impossibile prescindere e che condizionano il nostro modo di rapportarci ad esso. Una rete neurale è si in grado di apprendere, ma essa non dispone di questa conoscenza previa con la quale ci avviciniamo al mondo e dall’interazione col quale viene modificata continuamente. Non si tratta di un problema tecnico: il problema, in altre parole, non consiste soltanto nel non essere in grado di dotare un sistema di una proprietà ben definita; il problema, al contrario, è ben più complesso, in quanto riguarda la natura stessa del tipo di conoscenza messa in gioco. Si può in qualche modo delimitare questa forma di pre-conoscenza? Possiamo definire quali assunti, giusti o sbagliati, rientrino in essa? La nostra mente è il risultato di migliaia di anni di evoluzione, biologica e culturale assieme; come si può immaginare di creare una mente prescindendo da questo elemento? La mente, inoltre, è in continuo contatto con altre menti, che a loro volta hanno un patrimonio di conoscenze molto diverso, dovuto ad esperienze diverse, avute in contesti diversi. Come tener conto di tutto ciò a livello di una singola simulazione? E se anche ciò fosse possibile, fornire ad una rete neurale questo tipo di conoscenza sarebbe la stessa cosa che acquisirla attraverso un lungo processo evolutivo e attraverso un continuo confronto con l’ambiente? A questi problemi se ne aggiunge un altro, di portata non inferiore: la nostra conoscenza è linguisticamente articolata; come possiamo fornire ad una rete neurale priva di linguaggio, conoscenze sul mondo e sugli altri che passano attraverso il linguaggio? Alla luce di tutto ciò, si potrebbe chiedere, dobbiamo forse concludere che programmi e simulazioni non hanno alcuna pertinenza con la mente? No, a giudizio di Searle, quanto detto comporta solo che non si può pensare di utilizzarli come spiegazioni esclusive o riproduzioni soddisfacenti della mente; essi possono, tuttavia, essere considerati come validi strumenti di indagine. Essi, infatti, ci forniscono dei modelli attraverso i quali possiamo studiare la mente e i suoi rapporti con il cervello. Ciò appare ancora più evidente se ricordiamo che il rapporto tra mente e cervello è un rapporto di emergenza della prima dal secondo. Searle ha mostrato che quando si ha a che fare con proprietà emergenti non si può in alcun modo ridurle alla somma delle parti del sistema dal quale emergono ed è questa emergenza che rende impossibile ogni forma di riduzione. Ciò che emerge porta con sé pochissime tracce di ciò da cui emerge e, pertanto, non è affatto evidente quale rapporto ci sia tra mente e cervello. Questo spiega perché Searle sia così scettico di fronte alle prospettive di IA e Connessionismo, che hanno indubbiamente il merito di aver proposto delle vie per tentare di costruire la mente e di aver delineato dei modelli che tentano di individuare il rapporto tra mente e cervello. Egli, invece, criticando le posizioni tradizionali, ha mostrato, con il naturalismo biologico, che questo rapporto è molto più complesso di quello indicato dal riduzionismo e dal dualismo, anche se non ha proposto, da un punto di vista effettivo, alcun modello per spiegare come si articoli. Ciò non toglie nulla alla sua posizione che è riuscita ad andare oltre il secolare contrasto tra materialismo e dualismo, entrambi incapaci di render conto di due aspetti essenziali ed apparentemente inconciliabili della mente: l’emergenza e il rapporto con il cervello. Ma, detto questo, a nostro giudizio occorre anche rilevare come vi sia il bisogno di strumenti che ci consentano di studiare questi aspetti, di comprenderne le dinamiche ed è per questo che abbiamo appunto affermato dianzi che le simulazioni e le reti neurali sono validi strumenti di indagine. Sempre a nostro giudizio, va evitato sia l’atteggiamento eccessivamente ottimistico di chi crede che le reti neurali e i robot siano la versione artificiale di quello che siamo noi, sia l’atteggiamento eccessivamente critico di chi ritiene che essi siano del tutto non pertinenti ad uno studio dell’uomo. Le simulazioni, abbiamo visto, possono essere molto utili per studiare sistemi complessi ma, ammonisce Searle, la simulazione non va confusa con la riproduzione: simulare il funzionamento dei neuroni non significa automaticamente riprodurre la mente. Proprio per questo non si deve temere che le simulazioni e le reti neurali implichino, una volta considerate strumenti di indagine, una qualche forma di riduzione della mente ad un programma: così intese, infatti, esse non pretendono di cogliere esaurientemente l’essenza del mentale ma si offrono come tentativi di avvicinarsi e dar forma ad una realtà tanto complessa, preservando, tuttavia, il suo carattere di proprietà emergente. Ed è da questo punto di vista che il Connessionismo può essere considerato come un ampliamento della prospettiva searliana, che rimane ad un livello puramente filosofico. La costruzione di modelli della mente è fondamentale per saggiare la validità delle teorie in gioco e permette, inoltre, di passare da un discorso generale sulla mente e sui suoi rapporti col cervello, quale è quello di Searle, ad una indagine più dettagliata di questi stessi rapporti: la strada della costruzione di modelli ci aiuta a capire quali possono essere le strade giuste da seguire e quali quelle da evitare. Questi modelli forniscono alla mente uno specchio in cui osservare il proprio funzionamento: anche se tale specchio risulta imperfetto, è pur tuttavia l’unico di cui disponiamo. Questa imperfezione non va considerata come un limite ascrivibile alla nostra capacità di costruire teorie e modelli della mente; essa, a nostro giudizio, potrebbe essere ascrivibile alla natura stessa della mente: lo specchio in cui si rispecchia la mente potrebbe, cioè, essere imperfetto proprio a causa del suo carattere emergente. Se, infatti, essa cresce in continuazione, in virtù della sua interazione con altre menti e con l’ambiente, non si arriverà mai ad un punto in cui potremmo dire, in modo definitivo, «questa è la mente» e in cui, quindi, potremmo chiuderla in una simulazione. Da ciò consegue che non è affatto detto che un aumento delle nostre conoscenze ci porterà ad una spiegazione esauriente della mente in quanto, andando avanti, questa emergenza potrebbe delinearsi in maniera sempre più evidente davanti a noi. L’emergenza è una caratteristica fondamentale della mente ed è per questo che abbiamo più volte sottolineato la sua importanza. Proprio per questa sua caratteristica, potremmo dire che essa «è come il bagliore dell’acqua: lo si può inseguire, ma si allontana sempre di tanto quanto uno gli si fa più vicino».93


  1. Searle J. R., La mente, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002, p. 3. ↩︎

  2. Ibidem↩︎

  3. Searle è consapevole del fatto che Cartesio non sia stato l’unico a sostenere questa tesi ma, scrive, la «sua concezione della mente è stata quella che più ha influenzato la filosofia nell’età moderna, ovvero la filosofia del XVII secolo e quella successiva». Ivi, p. 14. ↩︎

  4. G. Fornero & S. Tassinari, «La filosofia della mente» & «Intelligenza artificiale e filosofia», pp. 1423-1466, in Le filosofie del Novecento, Bruno Mondatori, Milano 2004, p. 1425. ↩︎

  5. Searle J. R., Il mistero della coscienza, Raffaello Corina Editore, Milano 2004, p. 71. ↩︎

  6. Searle J. R., Why I am not a property dualist, in http://socrates.berkeley.edu/~jsearle, p. 2. ↩︎

  7. Searle J. R., La mente, op. cit. n.1, p. 43. ↩︎

  8. Searle J. R., Ivi, pp. 43-44. ↩︎

  9. Ivi, p. 45. ↩︎

  10. Ibidem↩︎

  11. Ivi, p. 46. ↩︎

  12. Ibidem↩︎

  13. Searle J. R. , La riscoperta della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 49. ↩︎

  14. Ivi, p. 55. ↩︎

  15. Ivi, p. 56. ↩︎

  16. Searle J. R., La mente, op. cit. n.1, p. 57. ↩︎

  17. Searle J. R., La riscoperta della mente, op. cit. n.13, p. 57. ↩︎

  18. Ibidem↩︎

  19. Ivi, p. 59. ↩︎

  20. Ibidem↩︎

  21. Searle J. R., Il mistero della coscienza, op. cit. n.5, p. 157. ↩︎

  22. Ibidem↩︎

  23. Ivi, p. 9. ↩︎

  24. Bechtel W., Filosofia della mente, Il Mulino, Bologna 1992, p. 169. ↩︎

  25. Searle J. R., La riscoperta della mente, op. cit. n.13, p. 26. ↩︎

  26. Ivi, p. 35. ↩︎

  27. Ivi, p. 92. ↩︎

  28. Ivi. p. 36. ↩︎

  29. Searle J. R., La mente, op. cit. n.1, p. 89. ↩︎

  30. Searle J. R., La riscoperta della mente, op. cit. n.13, p. 38. ↩︎

  31. Searle J. R., Mente, cervello, intelligenza, Bompiani, Milano 1984, p. 4. ↩︎

  32. Searle J. R., La mente, op. cit. n.1, p.102 ↩︎

  33. Ivi, p. 265. ↩︎

  34. Ibidem↩︎

  35. Searle J. R., Why I am not a property dualist, op. cit. n.6, p. 6. ↩︎

  36. Searle J. R., La mente, op. cit. n.1, p. 105. ↩︎

  37. Ivi, p. 102. ↩︎

  38. Searle J. R., Mente, cervello e intelligenza, op. cit. n.31, p. 13. ↩︎

  39. Searle J. R., La riscoperta della mente,op. cit. n.13, p. 45. ↩︎

  40. Searle J. R., Mente, cervello e intelligenza, op. cit. n.31, p. 12. ↩︎

  41. Searle J. R., Il mistero della coscienza, op. cit. n.5, p. 152. ↩︎

  42. Searle J. R., Mente, cervello e intelligenza, p. 12. ↩︎

  43. Searle J. R., Il mistero della coscienza, p. 14. ↩︎

  44. Searle J. R., Mente, cervello e intelligenza, p. 14. ↩︎

  45. G. Fornero & S. Tassinari, op. cit. n.4, p.1436. ↩︎

  46. Searle J. R., La mente, op. cit. n.1, p. 107. ↩︎

  47. Searle J. R., La riscoperta della mente, op. cit. n.13, pp. 134-135. ↩︎

  48. Ivi, p. 137. ↩︎

  49. Searle J. R., La mente, p. 111. ↩︎

  50. Searle J. R., La riscoperta della mente, pp. 132-133. ↩︎

  51. Searle J. R., Mente, cervello e intelligenza, op. cit. n.31, p. 18. ↩︎

  52. Searle J. R., Il mistero della coscienza, op. cit. n.5, p. 175. ↩︎

  53. Ibidem↩︎

  54. Ivi, p. 178. ↩︎

  55. Searle J. R., Why I am not a property dualist, op. cit. n.6, p. 4. ↩︎

  56. Searle J. R., Il mistero della coscienza, op. cit. n.5, p. 1. ↩︎

  57. Ivi, p. 163. ↩︎

  58. Searle J. R., La mente, op. cit. n.1, p. 137. ↩︎

  59. Ibidem↩︎

  60. Loeb C. & Poggio G. F., Le basi cerebrali della mente, Universo, Roma, 1998, p. 74. ↩︎

  61. Searle J. R., Il mistero della coscienza, p. 139. ↩︎

  62. Searle J. R., La mente è un programma?, in www.neuroingegneria.com ↩︎

  63. Ibidem↩︎

  64. Searle J. R.. Il mistero della coscienza, op. cit. n.5, p. 156. ↩︎

  65. Searle J. R., La mente è un programma? ↩︎

  66. Searle J. R., Il mistero della coscienza, p. 157. ↩︎

  67. Searle J. R., La mente è un programma? ↩︎

  68. Searle J. R., Il mistero della coscienza, p. 157. ↩︎

  69. Parisi D., Materialismo e operazionismo = reti neurali e simulazioni, in «La nuova critica», 45-46 (2005), pp. 149-159. ↩︎

  70. Parisi D., «Materialismo e operazionismo = reti neurali e simulazione», op. cit. n.59, p. 149. ↩︎

  71. Ivi, p. 155. ↩︎

  72. Ivi, p. 156. ↩︎

  73. Ibidem↩︎

  74. Searle J. R., La mente, op. cit. n.1, p. 265. ↩︎

  75. Parisi D., Mente.Ii nuovi modelli della vita artificiale, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 183. ↩︎

  76. Parisi D., Materialismo e operazionismo = reti neurali e simulazioni, p. 149. ↩︎

  77. Il peso sinaptico indica il modo in cui una unità influenza un’altra unità ad essa collegata, favorendone o inibendone l’attività. ↩︎

  78. Ivi, p. 151. ↩︎

  79. Churchland P., On the nature of explanation; a PDP approach, in «Emergent computation», J. Forrest Editor, MIT 1991, p. 281. ↩︎

  80. Parisi D., Materialismo e operazionismo = reti neurali e simulazioni, op. cit. n.59, p. 149. ↩︎

  81. Ivi, p. 150, ↩︎

  82. Ibidem↩︎

  83. Ivi, p. 151. ↩︎

  84. Parisi D., Mente. I nuovi modelli della vita artificiale, op. cit. n. 75, p.70 ↩︎

  85. Ivi, p. 76. ↩︎

  86. Searle J. R., La mente è un programma?, op. cit. n. 52. ↩︎

  87. Ibidem↩︎

  88. Ibidem↩︎

  89. Searle J. R., Il mistero della coscienza, op. cit. n.5, p. 45. ↩︎

  90. Parisi D., Materialismo e operazionismo = reti neurali e simulazione, op. cit. n.59, p. 153. ↩︎

  91. Ibidem↩︎

  92. Searle J. R., La mente è un programma?, op. cit. n. 52. ↩︎

  93. Calasso R., «Ka», Adelphi, Milano 2002. ↩︎