Jean-Luc Nancy, Il peso di un pensiero, l’approssimarsi, Sesto San Giovanni (MI) 2009, € 14.
1. Pensare e toccare
Le poids d’une pensée, l’approche è stato pubblicato da Jean-Luc Nancy nel 2008 e tradotto in italiano nel 2009 per i tipi di Mimesis con il titolo Il peso di un pensiero, l’approssimarsi con traduzione e cura di Daniela Calabrò.
In esso vengono ripercorsi i temi più caratteristici del pensiero nancyano legati alla decostruzione e al concetto del toccare che indusse Derrida a dedicargli il monumentale Le toucher, come testimonianza d’affetto, di amicizia e stima per aver sviluppato in maniera assolutamente originale ed innovativa il senso del decostruzionismo.
A differenza di quanto la tradizione filosofica abbia sostenuto nel ritenere pensiero e realtà categorie separate da un dislivello ontologico, Nancy ritiene che il pensiero sia intimamente legato alla realtà in virtù del suo toccare; il toccare del pensiero ha a che fare con la sua natura estatica, con il suo costitutivo alienarsi da sé per esprimere il senso stesso delle cose. Che il pensiero tocchi significa che ogni qualvolta si pensa, si pensa qualcosa, la si tocca, anzi, la si sfiora. Lo sfiorare, l’approssimarsi è la vera natura del toccare. Non c’è tocco, non c’è contatto ma solo sfioramento, un approssimarsi.
Nancy ricorda l’etimologia latina di pensare che significa pesare, soppesare e, infatti un pensiero pesa nella misura in cui esercita su di noi una pressione che, a certi livelli, diventa palpabile, percepibile. In questi casi si ha la sensazione che il pensiero sia quasi-materiale. Si tratta di un’esperienza limite perché questa sensazione è tipica di certi stati emotivi quando un pensiero si impone in maniera così forte da condizionare e orientare la nostra fisicità, stabilendo una «curvatura palpabile».1 In ogni caso il peso del pensiero consiste nella capacità di fare senso perché non esiste realtà se non in quanto pensata.
Il nodo problematico della pesabilità del pensiero resta l’inappropriabilità del pensiero pesante; a tal proposito Nancy scrive: «noi non abbiamo accesso al peso del senso, non più di quanto abbiamo (di conseguenza) accesso al senso del peso»2 e aggiunge che proprio questo non accesso ci rende pesanti. Il pensiero pesa perché il senso del mondo non ci si dona una volta per tutte e la pesantezza risiede in questa difficoltà, in questo sforzo di fare senso, di costruire forme, paradigmi, orizzonti di senso. L’inappropriabilità del pensiero pesante consiste in questa sfuggevolezza del senso, dell’essenza, nell’irriducibilità del senso a sostanza. Quando si pensa di aver accesso al senso, di poterlo dominare, il senso si eclissa ritorna ad essere qualcosa che ha a che fare con la morte, con l’irriducibile, l’ineffabile. L’essenza del senso e la morte hanno una matrice comune riconducibile alla chora platonica e di cui Derrida aveva fornito una interessante interpretazione etimologica e filosofica, connettendo chora a kaino, lo sbadiglio originario, lo spalancamento a partire dal quale ogni cosa ha luogo. Chora, kaino anche nel senso di finitezza originaria, e dunque di morte. La finitezza, la morte è così assoluta e ineludibile, da essere qualcosa che non finisce e che rinvia ad un’apertura, ad un senso che però, è sempre un ritaglio di quel nulla originario che non può essere cancellato. L’esistenza si configura come quell’essere esposto, quell’erranza che sosta tra questa finitezza originaria e un’erranza es-peau-sta. Il tema dell’es-peau-sizione curato da Nancy in Essere singolare plurale3 riflette sulla pelle (peau in francese) in quanto costitutivamente aperta al contatto con altri esseri al tempo stesso singolari plurali, perché interconnessi da una relazione di rimandi, di sfioramenti. Non c’è mai contatto perché la pelle, la parte più esposta del corpo non tocca altri corpi, non li possiede, non li domina né li tematizza riducendoli ad oggetto del toccare; la pelle sfiora la pelle degli altri esseri lasciando la relazione, l’«entre» il «fra» non tematizzabile, che costituisce il senso vero della differenza ontologica o della decostruzione. A tal proposito Nancy scrive: «il peso di un pensiero è esattamente l’inappropriabilità dell’appropriazione, o l’improprietà del proprio (assolutamente del proprio stesso) ».4 Il peso di un pensiero è in definitiva la semplicità dell’esistenza e la sua inquietudine, la sua densità, la sua matericità, la sua visceralità, lo sforzo di abitare il mondo a partire da un senso che si situa nelle pieghe degli esseri singolari-plurali, in quell’«entre» che sembra voler ammonire gli individui della propria non autosufficienza nell’abitare il mondo e, al tempo stesso, nell’irriducibilità degli individui negli schemi sociali.
La società, per Nancy, è quanto di più distante da uno schema chiuso fatto di regole dettagliate e definite una volta per tutte. Le regole, pur necessarie, devono essere espressione di una pluralità dinamica e irriducibile di scambi e confronti in cui non esiste un punto di vista o dei punti di vista più veri di altri; piuttosto esiste una trascendenza, un’etica dell’ascolto in cui gli esseri singolari-plurali interagiscono e si scoprono in un caleidoscopico relazionarsi di cui l’entre resta l’unica presenza sicura. Tutto il resto non è che prevaricazione e dominio. Ogni qualvolta che un individuo tematizza il senso, afferra il senso non fa che comprimere il senso, tematizzarlo esercitando una violenza. . Afferrare il senso significa esercitare una violenza, irrigidire l’entre in uno schema che si vuole certo ed eterno. Se Eraclito ricordava l’impossibilità di bagnarsi due volte nello stesso fiume, Levinas sosteneva l’impossibilità di bagnarsi anche una sola volta nella stessa acqua.
2. La voce
C’è una parte del pensiero che è la voce la cui funzione è ante predicativa in quanto esprime un’intenzione di significare e nulla più. La voce precede il significato e lo rende possibile; infatti si può riconoscere l’identità della persona dalla sola voce oppure la voce può esprimere delle tonalità emotive che precedono la formulazione di enunciati significativi. La voce non è propriamente l’esecuzione perché quest’ultima appartiene al sistema della langue alla stregua della parole; pertanto la voce precede la distinzione tra langue e parole e la rende possibile. Citando Roland Barthes Nancy dice che «la voce umana è in effetti il luogo privilegiato (eidetico) della differenza»5 e, in un passo successivo, riprendendo alcune riflessioni di Jean-Jacques Rousseau, Nancy ricorda i tre tipi di voce che contraddistinguono l’uomo: la voce parlante, la voce cantante, la voce patetica. La voce è quanto di più intimo e particolare si trova in un individuo, essa è, per così dire, la traccia antepredicativa di quella che, in una fase successiva, sarà la parole (Saussure). La voce è sempre spartita, esprime l’entre della relazione dei singolari plurali. La voce è quanto di più intimo caratterizza l’individuo, quella parte che emerge «nel deserto dell’assenza derelitta preda della mancanza e dell’assenza».6 È chiaro che la dialettica non appartiene alla sfera della voce ma del linguaggio. La polifonia è insita dentro ogni voce e questa polifonia esprime il prima del linguaggio e su cui il linguaggio ritorna attraverso un sistema di rimandi. Come, ad esempio, avviene nel dialogo, nei grandi dialoghi platonici, aristotelici, galieiani, cartesiani, heideggeriani. Non perché il dialogo sia assimilabile alla voce ma perché nel dialogo si imprimono le spie di quello sforzo, frutto della finitezza originaria, che contraddistingue la voce. In Hegel la voce precede il linguaggio e il principio di non contraddizione che ne è a fondamento. C’è un bellissimo passo in cui Hegel parla con Schelling e Hölderlin senza che in realtà si assista ad un vero e proprio dialogo. Piuttosto sembra una polifonia di voci in cui si dice che la voce inizia con il suono che è uno stato di tremore in cui oscilla la consistenza del corpo e la negazione di quella coesione unitaria. Si dice anche che l’anima è questo stato di tremore presente nel bambino quando è ancora nel ventre della madre, il «vocalizzo balbettato dell’accesso all’essere, l’esistenza singolare che trema al suo prima manifestarsi e il cui tremore è il suo modo di manifestarsi».7 In questa messinscena sulla voce ha spazio anche Giorgio Agamben che dice: «E questa voce che, senza significare nulla, significa la significazione stessa, coincide con la dimensione più universale della significazione, con l’essere».8 La voce è un tremito che non dice nulla, è sempre rivolta all’altro, risuona nel deserto come una pura vibrazione differenziale. La voce è questo «entre», questa spazialità pura che apre il nome dell’altro, apre l’altro al suo nome; la voce è un’indicazione di senso, un’attesa prima della risposta. La voce chiama a diventare nomadi nel deserto perché il deserto esprime metaforicamente lo spalancamento originario, l’apertura senza bocca, la chiamata dell’altro indipendentemente dalla sua risposta. La voce non è che l’invito a parlare prima che l’altro possa insediarsi come soggetto del discorso. La voce è il precedere del soggetto, è il suo prima e il suo non ancora perché quando il soggetto si insedia, la voce è rimossa così come il senso.
C’è un nesso tra la voce e l’arte, tesi discussa nel capitolo Ritratto dell’arte come fanciulla. Il richiamo è a Hegel e al suo celebre pensiero sulla «morte del’arte». Secondo Nancy con Hegel il concetto di arte avrebbe il suo inizio per diverse ragioni. Intanto per Hegel la bellezza «non è un’astrazione dell’intelletto, ma il concetto assoluto in se stesso concreto, o, più precisamente, l’idea assoluta nella sua apparizione conforme a se stessa»;9 inoltre secondo Hegel l’arte è lo spirito stesso colto nella sua forma sensibile, un modo singolare di sospensione della vita, di esistenza sincopata. Questo appare evidente nello stato di diritto incarnato dal mondo romano nel quale le statue appaiono ora dei cadaveri che hanno perduto l’anima vivificante del pantheon greco; «esse appaiono bei frutti distaccati dall’albero; un destino amico ce li porse, come una fanciulla suol presentarli, non c’è la vita effettuale della loro esistenza, non l’albero che li produsse, non la terra né gli elementi che costituirono la loro sostanza, né il clima che costituì la loro determinatezza, né l’avvicendarsi delle stagioni che dominarono il processo del loro divenire».10 Queste riflessioni spiegano il richiamo al concetto «Dio è morto» e così come muore la religione, anche la religione artistica del mondo greco sembra scomparire. Nancy spiega che se il contenuto divino dell’arte muore, tuttavia l’arte si presenta come tale, in quanto espressione dello spirito. Questo passaggio è chiarito, spiega Nancy, dalla reminiscenza delle forme di religione estetica. La reminiscenza delle opere d’arte annebbia la percezione viva dell’opera d’arte, impedendoci di toccarla. Scrive Nancy: «l’arte è ritratta nell’istante in cui avviene come arte: staccata dall’ufficio sacro, ridotta all’opera vuota: ma questo vuoto non è niente meno che la presentazione «artistica» assoluta».11 L’arte appare in un istante assoluto e immobile; si tratta di un istante che supera il tempo e il divenire e fa apparire l’opera d’arte in una sospensione priva di ogni dialettica.
3. Le iridi
Anche Le Iridi come Ritratto dell’arte come fanciulla è apparso per la prima volta nel volume di Nancy del 1991 intitolato Le poids d’une pensèe. Nell’incipit del saggio Nancy dice di non istituire nessun rapporto tra l’articolo e il nome, lesiris; lo iato, si sa, somiglia ad uno sbadiglio. A tal proposito Nancy scrive: «È che uno iato non è altro che uno «sbadiglio»: la bocca spalancata nell’articolazione delle vocali ammassate. La lingua non vuole sbadigliare. La lingua è continuamente occupata, indaffarata, si dà continuamente da fare, inquieta o allegra; non molla quello che trattiene. Leiris è trattenuto dalla lingua, giorno dopo giorno e passo dopo passo; infinitamente, intimamente, minuziosamente, preziosamente trattenuto».12 E aggiunge che a simile trattenimento non vi è alcuna possibilità di accedere, nel senso che non tutto quello che è contenuto nella lingua è afferrabile. Wittgenstein parlava, in tal senso, di irrappresentabilità della forma logica e che le proposizioni filosofiche sono prive di senso nella misura in cui cercano di dire quello che, solamente, può mostrarsi. Ebbene se si dice leiris invece che lesiris, l’insistere sullo iato indica la permanenza sulla matericità della lingua, quella sua imperfezione rispetto alla eleganza dell’elisione che introduce un elemento di significatività, di forma, di cultura. Intendere lo iato come uno sbadiglio vuol dire riportare la lingua alla sua dimensione originaria che non è quella di comunicare quanto piuttosto di esprimere, di aprirsi, di differire. Iride è la parte dell’occhio che, attorno alla pupilla, ne consente la visione. Nancy paragona l’iride alla messaggera degli dei non in quanto l’iride porti con sé i messaggi, ma perché ne rende possibile la fruizione. Infatti quando la pupilla si apre, si spalanca, simile allo iato, per afferrare l’immagine sensibile, l’iride nel favorire lo spalancamento della pupilla non vede la propria visione, cioè non vede se stessa nell’atto di vedere, di conseguenza l’iride è causa di uno spossessamento dell’immagine. Nancy, a tal proposito, scrive: «ciò che mi ha afferrato si è spossessato da me».13 Vedere l’iride significa operare un’autopsia, cioè vedere se stessi con i propri occhi, afferrare se stessi nell’atto del vedere, dell’aprirsi al mondo, cogliere se stessi nell’atto del differire perché è chiaro che la ragione arriva sempre in ritardo rispetto a tutto ciò che accade. Accadere è tutt’altro che afferrare quel che accade. Quando l’iride crea alla pupilla la possibilità di catturare l’immagine, già si è operato uno spossessamento dell’immagine. E questo spossessamento è l’autentico accadere. Ciò che si cela è ciò che più autenticamente accade. Vedere me stesso nell’atto in cui io stesso vedo, comporta uno spossessamento di me stesso; devo scomparire affinché possa vedermi. Da qui deriva la definizione platonica dell’istante, del momento (Timeo) come quell’essere strano (àtopon) che sta tra il movimento e la quiete e, uscendo da esso, ciò che è in quiete passa in movimento. Perciò il momento diventa la categoria del passaggio per eccellenza; infatti il momento ha la stessa importanza per il passaggio dall’unità alla pluralità e dalla pluralità alla unità. L’istante è il punto di contatto tra la quiete dell’iride e la mobile plasticità della pupilla.
La complessità del linguaggio filosofico, come già Hegel aveva spiegato, si spiega con la necessità di catturare il pensiero nell’atto di concepire le proprie cogitationes. È chiaro che il pensiero non è la summa dei propri pensieri ma quell’attività autogenerativa che coglie se stessa se non per differimento. In alter parole non si può fotografare il pensiero nel momento in cui pensa; infatti quello che ne resterebbe non sarebbero che le stesse cogitations, i pensieri costituiti. Per questa ragione nancy dedica un capitol del suo libro al Taglio di stile in cui si parla del rifiuto della filosofia a possedere uno stile, lo stile filosofico. La filosofia consiste nel prendere le distanze dallo stile ma non per negarlo quanto per crearne le condizioni d’uso, di applicabilità. Lo stile appartiene a chi ha operato una scelta; la filosofia precede la scelta, ne crea le condizioni. È per questo che la filosofia non può avere uno stile proprio.
4. Psyche ist ausgedehnt
Una delle citazioni che ricorre più di frequente nell’opera di Nancy è la freudiana Psyche ist ausgedehnt, (La psyche è estesa) collegata a quella cartesiana rivista dallo stesso Nancy, cogito ergo extendor, penso dunque sono una cosa estesa, oppure cogito ergo sum res extensa, penso dunque sono una cosa estesa. Il senso del pensare è, dunque, quello di essere esteso. Cosa significa? L’estensione del pensare deve essere intesa come espansione e trascendenza del pensiero. Il pensiero pensa attraverso cogitaziones che si riferiscono a cose. La materialità delle cose non è che un aspetto estremo del loro apparire. Che le cose ci appaiano come materiali (nello spazio e nel tempo) non è che un aspetto del loro modo di essere. Pensare in modo originario un ente significa dotarlo di senso e dotare di senso un ente significa illustrane I possibili campi semantici o, se si vuole, le infinite possibilità applicative. Nancy dice che pensare è «una velocità di cui nessun tempo può rendere conto. E dunque non una velocità. Uno scarto, una dislocazione: ecco un altro luogo, un altro topos».14 L’espressione del pensiero si colloca in un intervallo che si può chiamare istante, come l’istante di una foto istantanea che esprime uno spazio di tempo dispiegato. Insomma la temporalità del pensiero si esplica nello spazio. A sua volta lo spazio è da intendersi non come cristallizzato bensì come un aver luogo, un andare e venire nello spaziamento del presente. Lo spazio materiale indica una resistenza rispetto al flusso temporale cosicchè lo spazio materiale può essere spiegato heideggerianamente come un venire alla presenza più che come un presente; Nancy scrive che il «venire è lo spaziamento del tempo»15 volendo intendere per spaziamento quel venire alla presenza anche esprime, altresì, la natura inestricabilmente spaziale ed estesa del tempo.
5. Fotografia
Inevitabile appare per Nancy una riflessione sulla fotografia come spazializzazione del tempo. Queste meditazioni le troviamo nel capitolo dedicato alle istantanee effettuate a Georges. Scrive Nancy: «La fotografia mostra perdutamente il reale, la sua fragilità, la sua grazia, la sua fugacità. Da qualche parte, in un certo istante, qualcosa o qualcuno è apparso. La fotografia, ci mostra che ciò ha avuto luogo, e che ciò resiste ai nostri dubbi, alle nostre dimenticanze, alle nostre interpretazioni. Ci offre questa evidenza» .16 La fotografia mostra l’evento nella sua durata, il suo accadere, non il fatto che sia accaduto. La vera presenza dell’azione è una presenza imperfetta. L’imperfezione di un’azione che, accaduta, dura nel tempo. Inoltre la foto ha il potere di istituire l’evidenza della relazione. L’oggetto della foto non vede se stesso quando viene fotografato; nè, d’altra parte, colui che effettua la foto domina la realtà. Al contrario colui che scatta la foto, deve, per così dire, escludersi, abbandonarsi all’incontro con l’oggetto fotografato. Solo in questo modo l’oggetto fotografato si decompone per riapparire in una dimensione di assoluta purezza. Questa dimensione di assoluta purezza dell’apparire è l’entre (il fra), la spaziatura tra due singolarità che scompaiono per riapparire nella sintesi dell’entre. L’entre è la foto. La foto è pur sempre un’immagine rubata, una violenza rispetto all’accadere della realtà. Come il pensiero giunge sempre in ritardo, rispetto alla realtà, così la foto, nel suo accompagnare l’eventuarsi della realtà, arriva con un attimo di ritardo. Questo differire della foto l osi può notare nella smorfia di Georges di fronte allo scatto; una smorfia per cui, dice Nancy, si ha l’impressione che la foto lo disturbi di fumare. La foto ha il potere di potenziare lo sguardo con cui colui che è guardato, a sua volta, guarda. Colui che, attraverso la foto, guarda, sembra vedere tutto perché in quello sguardo si condensa l’essenza stessa del guardare. Lo sguardo nella foto, della foto istituisce la fondazione del singolare plurale; attraverso lo sguardo, la realtà affiora nella sua estesa leggerezza. Psyche ist ausgedehnt: la psyche è estesa; riferita alla foto si può dire che essa è il punto di contatto tra guardante e guardato; è la spaziatura, l’entre, la stringa che rende possibile il guardare. Colui che guarda e colui che è guardato non sono che epifenomeni di un apparire che li precede. Georges (l’uomo fotografato) è l’essenza della manifestazione.
6. Rive, bordi e limiti (della singolarità)
Appare chiaro che la presenza, in Nancy, assume il carattere di un venire alla presenza mantenendo così il carattere differenziale. La presenza autentica rinvia sempre ad un’assenza. Tanto più una presenza è forte quanto più mette in gioco il proprio rapporto con l’assenza, con la morte, con l’indeducibile. Il fatto che la presenza sia un epifenomeno della morte significa depotenziare il senso dell’intera metafisica occidentale che ha fatto del linguaggio e della sua identità con l’essere e con il pensiero, il suo motivo dominante. La stessa parola Occidente, dice Nancy, esprime semanticamente un limite che non è solo di natura geografica; si tratta di un limite di significato. L’Occidente ha istituito l’identità tra presenza e parola. La presenza coincide con la parola detta, pronunciata il cui senso è, in qualche misura, definito. Ma la parola non è che la traccia, il residuo di uno spalancamento originario, di un caogito, di un prima del pensiero che lo stesso pensiero stenta a riconoscere e che rimuove. Scrive Nancy: «nascere: trovarsi esposto: ek-sistere. L’esistenza è una imminenza di esistenza. Ogni giorno, ogni istante espone alla sua necessità, alla sua libertà, alla sua legge, al suo capriccio. L’esistenza non è, ma è l’esistere dell’essere — in cui si riassume ogni ontologia»;17 la natura estatica dell’essere in quanto presenza ci costringe a fare i conti con quella parte della presenza che è il suo «ek». Questo ek è, altresì, l’entre, invisibile e irrappresentabile, la natura transitiva dell’essere, il suo caleidoscopico attraversare, dove ogni ente si configura come un cortocircuito dell’entre, dell’ek. Il da come il fra, sono particelle pronominali la cui funzione è deittica, di riferirsi a qualcosa che non è propriamente un ente ma alla morte, all’inafferrabile e irrappresentabile senso originario. La morte dell’ente è, come per ciascun ente, il ritorno a quell’originario orizzonte differenziale rispetto a cui il pensiero rappresentativo getta la spugna, ammette la propria sconfitta e cede il passo ad un pensiero fenomenologico che sospende le ontologie tradizionali e «invita solamente ad un pensiero semplice, ritirato, esso stesso veniente e preveniente. Si tratta di prevenire le appropriazioni pensanti, le filosofie — e di quel godimento, di quel giubilo «più largo» di cui parla Dante alla fine del suo poema».18
La presenza rinvia sempre ad un ci su cui il pensiero si perde. Il pensiero è sempre radicato nel ci e il ci è la traccia di un abisso che viene scoperto solo per differenza, nel double bind che indebita il ci eternamente nei confronti del mondo in un caleidoscopico gioco fatto di rimandi che non si concludono. È il nulla da intendersi non come prius cronologico bensì come scarto, differenza tra la contingenza del ci e il suo abisso. L’abisso del ci è la sua morte e l’esistenza è l’ermeneutica di questa morte. Il limite del logocentrismo è stato quello di esorcizzare la morte, rimuoverla, tenerla lontano grazie alla potenza taumaturigca del logos. Ora, invece, si tratta di guardare la morte, avere a che fare con l’assenza di senso; il che non vuol dire naufragare nel misticismo ma incespicare nel linguaggio, ragionare con le categorie con cui Wittgenstein chiude il Tractatus.19 La filosofia è piena di proposizioni prive di senso le quali premono per poter afferrare la forma logica della realtà. Il compito della filosofia è invece proprio quello di espungere dal linguaggio quelle anomalie che imprigionano il linguaggio.
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Jean-Luc Nancy, Il peso di un pensiero, l’approssimarsi, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2009, 2009, p. 12. ↩︎
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Jean-Luc Nancy, IPDUPA, p. 13. ↩︎
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Jean-Luc Nancy, Essere singolare plurale, Einaudi, Torino, 2001. ↩︎
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Jean-Luc Nancy, IPDUPA, p.17. ↩︎
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Jean-Luc Nancy, IPDUPA, p. 26. ↩︎
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Jean-Luc Nancy, IPDUPA, p. 27. ↩︎
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Jean-Luc Nancy, IPDUPA, p. 30. ↩︎
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Jean-Luc Nancy, IPDUPA, p. 32; il riferimento si trova in Giorgio Agamben, La Potenza del pensiero, Neri Pozza, Vicenza, 2005, pp. 29ss. ↩︎
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Jean-Luc Nancy, IPDUPA, p. 40, il riferimento si trova in Hegel, Estetica, Einaudi, Torino, 1997, p. 108. ↩︎
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Jean-Luc Nancy, IPDUPA, p. 49, Hegel, ibidem, p. 255-257. ↩︎
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Jean-Luc Nancy, IPDUPA, p. 56. ↩︎
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Jean-Luc Nancy, IPDUPA, p. 63. ↩︎
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Jean-Luc Nancy, IPDUPA, p. 65. ↩︎
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Jean-Luc Nancy, IPDUPA, p. 82. ↩︎
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Jean-Luc Nancy, IPDUPA, p. 83. ↩︎
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Jean-Luc Nancy, IPDUPA, p. 85. ↩︎
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Jean-Luc Nancy, IPDUPA, p. 103. ↩︎
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Jean-Luc Nancy, IPDUPA, p. 105, il riferimento è a Dante, Paradiso, canto 33, vv. 91-93: «la forma universal di questo nodo / credo ch’i vidi, perché di più largo, / dicendo questo, mi sento ch’io godo». ↩︎
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Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-philosophicus, Einaudi, Torino, 1981. ↩︎