Differenza, identità, violenza. Conversazione con René Girard

Professor Girard, lei ha elaborato una teoria mimetica del desiderio. In che cosa consiste?

Un esempio straordinario di desiderio mimetico si trova nel quinto canto dell’Inferno di Dante — nell’episodio di Paolo e Francesca.

Come sappiamo, è Francesca a raccontare la storia del loro innamoramento. Francesca è la sposa del fratello di Paolo e inizialmente sembrano non essere affatto innamorati l’uno dell’altro. Passano il tempo a leggere il romanzo cavalleresco «Lancillotto del Lago», dove la regina Ginevra, spinta da un traditore, Galeotto, si innamora dell’eroe Lancillotto. Nel momento in cui il cavalier Lancillotto bacia la regina, anche Paolo e Francesca si baciano. Così ha inizio il loro amore… Una spiegazione di Dante sta nella frase «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse». Vale a dire che i libri non sono innocenti, dietro ogni libro c’è un autore che cerca di sedurti, che fa sì che tu voglia imitarlo. Nella mia terminologia il libro svolge la funzione di mediatore, di modello di Paolo e Francesca: il loro amore è dunque in un certo senso un amore copiato.

Anche Don Chisciotte imita i romanzi cavallereschi. Don Chisciotte afferma che il miglior cavaliere errante è Amadigi di Gaula e decide di imitarlo. Così fa tutto quello che ci si aspetta da un cavaliere errante. È dall’altro che Don Chisciotte attinge i suoi desideri, anche se lo fa con un impulso così tenace e originale che secoli di critica lo hanno confuso con uno spirito perfettamente autonomo, come una sopraffina volontà di essere se stesso. Perché quella della mimesi è una lezione semplice da apprendere, ma alla quale la nostra cultura oppone ogni resistenza possibile.

Soprattutto nell’Ottocento, la lettura di Paolo e Francesca — da parte di intellettuali come George Sand — era quella di un modello di amore romantico, cioè assolutamente spontaneo, originale. Paolo e Francesca sono diventati gli archetipi dell’amore puro e autentico; quindi non copiato. Un amore talmente autentico da continuare anche all’inferno.

Il paradosso è che per essere a loro volta spontanei Paolo e Francesca avevano bisogno di un modello, il che è l’esatto contrario della spontaneità. E così si trascurava il fatto che, piuttosto che curarsi l’uno dell’altro mentre si stavano innamorando, Paolo e Francesca si concentravano su un libro e si comportavano come i personaggi del libro. Erano cioè del tutto mimetici. La critica insomma non vedeva affatto che il vero deus ex machina della storia era il libro — è il libro a sedurre.

Ciò che non si coglie mai è il desiderio mimetico, vera fonte del desiderio di entrambi. In effetti sappiamo una sola cosa sull’origine del loro amore: il libro. Dante non descrive quest’amore, ci parla soltanto del libro. Siamo stati vittime di un vero lavaggio del cervello da parte del romanticismo: accecati, perdiamo di vista il mediatore.

È vero, gli intellettuali hanno sempre riconosciuto l’esistenza di un desiderio imitato, ma la maggior parte di loro, specialmente quando pensa al proprio desiderio, vorrebbe credere che al di là della mimesi esiste pur sempre un desiderio autentico, veramente nostro. A mio avviso quel desiderio non esiste. È proprio questa dimensione sociale, inter-individuale, del desiderio che crea conflitti — conflitti suscettibili di estendersi a tutta quanta la comunità, conflitti che hanno la tendenza a diventare contagiosi. Più gente c’è che desidera lo stesso oggetto, più ce ne sarà: è una moltitudine che si moltiplica all’infinito, come avviene nelle borse finanziarie, straordinario microcosmo del puro desiderio. Perciò le società umane sono minacciate da una violenza radicalmente diversa da quella tipicamente animale.

Lei ha più volte ripetuto che i grandi romanzieri ne sanno più di tutti i nostri specialisti di scienze umane a proposito di desiderio.

Ne sono convinto. Quando ho cominciato a insegnare letteratura negli Stati Uniti, non avevo alle spalle una formazione letteraria, e mi domandavo che orientamento dovessi dare al mio insegnamento. Tuttavia nutrivo in me tendenze scientifiche abbastanza forti per ricercare quello che accomuna le opere, anziché ciò che le separa, come tende a fare oggi la critica letteraria, col risultato che essa non vede l’essenziale — il carattere mimetico del desiderio, il potenziale rivalitario della società — queste cose invece sono la vera ossessione della letteratura.

Gli autori su cui ho lavorato — Stendhal, Proust ma soprattutto Dostoevskij — ci mostrano, in un modo che a nessuno psicologo o sociologo è mai riuscito, come non ci sia mai un desiderio semplice che colleghi un oggetto a un soggetto con una linea retta, ma ci sia sempre di mezzo un terzo; e questo terzo non è necessariamente un padre, o un membro della famiglia, come vorrebbe Freud, ma un modello, di cui si tenta di imitare il desiderio. Spesso è un modello sociale, la società nel suo complesso, l’opinione pubblica. Ma può essere anche un modello individuale: qualcuno che ammiriamo profondamente e di cui imitiamo il desiderio, finendo poi per desiderarne l’oggetto.

Un periodo particolarmente significativo nella rivelazione del desiderio mimetico è proprio l’Ottocento, quando comincia a delinearsi in Europa un universo democratico, in cui le differenze scompaiono, le gerarchie si dissolvono. Qualcosa che rassomiglia alle crisi di indifferenziazione sacrificale nelle società primitive, benché in forma molto più dilatata. Allora diviene evidente ciò che nella letteratura precedente è ancora solo un fatto eccezionale, cioè che l’uno desidererà lo stesso oggetto dell’altro, così da diventare suo rivale. La rivalità generalizzata delle nostre società è una conseguenza diretta del desiderio mimetico. La concorrenza, il sale delle nostre società, può produrre un gran numero di effetti positivi, favorevoli all’economia; ma sul piano psichico, affettivo, produce una continua tensione nei rapporti umani. E se quella tensione sparisce, sparisce anche il desiderio e di conseguenza prevalgono l’anomia, l’apatia, la noia…

Questo è l’aspetto caratteristico dell’infelicità del nostro universo democratico. Se il rivale non è capace di resisterci, di toglierci l’oggetto o di serbarlo per sé, quel rivale non ci interessa più — e pure l’oggetto finisce per non interessarci più. Se invece il rivale è capace di resisterci, l’oggetto ci interessa, ma allora siamo infelici, perché non possiamo conquistarlo. In ogni caso, come si vede, l’infelicità è il nostro destino. È stato Stendhal a riprendere nelle sue opere questa questione: perché non si può essere felici in democrazia, come aveva promesso Montesquieu.

Anche lo snobismo in Proust ci porta verso questo stesso precipizio. Vuoi essere ammesso in un salotto dove non ti si vuole ricevere: meno si vuol saperne di te in quel salotto, più cresce il tuo desiderio di accedervi.

Ma a partire dal momento in cui vi siamo ammessi, tutto l’incanto della cosa svanisce, l’oggetto una volta posseduto perde gran parte del suo valore.

C’è un magnifico testo di Goethe, nelle sue Memorie, su questo problema. Goethe, innamorato di non so più quale donna, ritrova uno dei suoi amici e gliela presenta. Ma poi resta deluso dell’incontro e in seguito fa questa osservazione che trovo molto pertinente: «non dobbiamo mai presentare la donna che ci interessa all’amico, perché delle due l’una: o l’amico si interessa troppo alla donna e noi non siamo contenti, o non si interessa abbastanza e restiamo anche in questo caso scontenti…».

Non trova che queste sue osservazioni sul desiderio mimetico siano in sintonia con quelle di Lacan, quando afferma che per gli esseri umani il desiderio è il desiderio dell’Altro?

Non c’è dubbio. Ma allo stesso tempo Lacan ha trattato questa tematica con una retorica poco concreta. Usa in modo estremamente metaforico questa problematica, parla di Altro, specchi, immaginario… Perché invece non cita mai Dante?

Lacan distingue tra il simbolico, che consiste nella differenza-dobbiamo considerarci diversi-e l’immaginario, che è un effetto di specchi. In questo effetto si rimane intrappolati nell’identità. Ma per lui è un’identità non reale, è un’identità immaginaria. Per me è il contrario. Quello che Lacan chiama il simbolico è in realtà la cultura, in quanto viviamo secondo le categorie differenziali della cultura. Lacan non coglie quella che chiamo «crisi sacrificale». In Lacan manca la storia: la simbolicità c’è e basta, una volta e per tutte. Per Lacan l’immaginario è come un altro aspetto della vita, e l’uomo o riconcilia questi due aspetti oppure si nevrotizza.

Nella terminologia lacaniana quella che io chiamo «crisi sacrificale» è il dissolversi della simbolicità nell’identità pura. Lacan è come un decostruzionista: non vuole nessun tipo di identità vera, non vuole che ci sia una reciprocità nei rapporti umani. Ammette solo la differenza. Tutto quello che è reciproco diventa nel suo linguaggio soltanto immaginario.

Per me, invece, il reale dei rapporti umani è sempre reciprocità. Se abbiamo un buon rapporto con qualcuno, ci scambiamo segni di amicizia, di cortesia, dei doni magari, gesti comunque reciproci. Anche l’inimicizia è sempre reciproca. Ci scambiamo segnali di conflitto, di ostilità: pugni, bombe atomiche, ecc. Tutta la scuola teorica francese-è stato Lévi-Strauss a dare veramente origine a questo modo di pensare-vuole fare a meno dell’identità, non vuole il reale.

Nel loro rifiuto dell’identità reale, perpetuano uno dei più profondi misconoscimenti ingenerati dalla cultura. La cultura cerca di negare le proprie origini violente: l’esistenza della crisi sacrificale e la sua risoluzione vittimaria.

Eppure l’idea diffusa tra tutti noi è che invece le lotte, le guerre, si fondino su un’idea forte d’identità — nazionale, religiosa, etnica, o altro. È l’identità degli italiani che li mette contro i francesi, quella degli islamici che li mette contro i cristiani…

Ma non è così. Siamo entrati in una fase nuova: tutti sappiamo che ormai le nostre identità nazionali stanno crollando, in tutto il mondo. Che piaccia o no, l’Europa unita è la dissoluzione delle identità nazionali.

La parola identità è ambigua: significa sia «identico» che il suo opposto. Quando diciamo di uno che «ha un problema d’identità», intendiamo che non si sente abbastanza diverso dagli altri, è confuso. Credo che gli psichiatri non risolveranno mai i nostri problemi d’identità, perché sbagliano in partenza: usano una parola che significa due cose contemporaneamente e non hanno ancora risolto il problema di questo doppio significato.

Ma questa ambivalenza dovrebbe illuminarci su un punto: l’identità e la differenza hanno sempre la tendenza a sprofondare nella reciprocità, nell’indifferenziato. Lévi-Strauss afferma che la cultura non è in grado di parlarci d’identità: non c’è identità nella cultura. Ma la mitologia mondiale è popolata di esempi di reciprocità. Si prendano dei gemelli: Eteocle e Polinice sono sempre in lotta e non riescono a riconciliarsi, e alla fine diventano dei super-gemelli. Si uccidono a vicenda nello stesso momento.

L’ispirazione tragica mette sempre in luce le similitudini al di sotto delle differenze. Queste differenze spesso sono delle strategie della rivalità. La tragedia, potremmo dire, si oppone alla teoria francese: a Lévi-Strauss, a Lacan e al decostruzionismo. Ad esempio, Lévi-Strauss nel suo mito differenzia i gemelli: non si rende conto che il significato sta nella mancanza di differenza. È su questo punto… che sono differente da lui. La cultura ha talmente paura dell’identità che non ne parla mai. E il nostro sistema di segni riesce a esprimere l’identità solo usando le 12 scatole di minestra «Campbell’s», come fece Andy Wahrol.

Non crede che qualcuno possa dire che il conflitto edipico nel senso freudiano — desiderio sessuale del bambino per la madre e desiderio di uccidere il padre — possa essere interpretato secondo la sua logica mimetica? Non possiamo dire che il figlio ama incestuosamente la madre perché questa è oggetto d’amore del padre, e che quindi il piccolo Edipo imita il padre?

Proprio così, è quanto ho provato a dimostrare nelle mie opere. Il funzionamento dell’Edipo, almeno in una parte del pensiero freudiano, è del tutto riconducibile a un triangolo mimetico. Tuttavia, credo ci sia qualcosa di profondamente sbagliato in Freud nel dire che l’origine, il locus principale-il luogo di rivalità mimetica-sia il rapporto tra padre, madre e figlio.

A forza di ripeterci questa storia ci dimentichiamo che esiste una paternità sana. Penso a quello che vedo nei miei figli. Se uno di questi ha molto successo, non ne può parlare ai suoi coetanei perché sono dei potenziali rivali mimetici, hanno gli stessi obiettivi. Se si vanta del suo successo sono solo guai, perderà gli amici. Ma poi va dal padre, che appartiene a una generazione diversa, e il padre è fiero di lui. Dire che la struttura della paternità si riduca al conflitto significa ribaltare la verità.

Alcuni psicoanalisti — come Winnicott ad esempio — hanno detto che durante l’adolescenza sia i maschi che le femmine desiderano inconsciamente uccidere i genitori perché è l’unico modo per loro di crescere.

Non sono d’accordo, sono categorie che vedo messe fortemente in crisi dall’andamento delle nostre società. Oggi la paternità sta diventando talmente debole che, come dice Jean-Michel Oughourlian,1 oggi gli psicoanalisti parlano una lingua che Freud non comprenderebbe. Per rimettere in piedi le categorie freudiane coi loro pazienti dicono che bisogna «iniettare più Edipo», il che ha dell’incredibile!

In generale lei rifiuta qualsiasi teoria dell’inconscio e dice che preferisce parlare di «méconnaissance». La stessa parola fu adottata dai fenomenologi francesi, e da Sartre in particolare. Lei si sente più vicino alla tendenza fenomenologia del pensiero francese? È per questo che preferisce questo termine?

È un’ottima osservazione. È indubbio che ci siano alcuni aspetti della fenomenologia nel mio approccio non-freudiano a questi problemi. Inoltre, il mio tentativo di reintrodurre l’identità, nonostante quello che dicono di me alcuni decostruzionisti, si discosta molto dal positivismo. Per un positivista l’identità è innocua ed è una cosa buona. È l’identità dei concetti, degli oggetti e così via. Io invece parlo d’identità del conflitto: reciprocità, indifferenziazione.

E il suo rapporto con Lévi-Strauss?

Lévi-Strauss è per me un autore molto importante. Il concetto di differenza non è suo, deriva da de Saussure e dalla linguistica strutturale. Ma l’uso che ne fa Lévi-Strauss è il più originale, perché è riuscito a usare il termine differenza per descrivere moltissime cose diverse e per leggere vari testi, in particolare il testo mitico, liberandosi dell’identità che gli sta dietro. Quando parla di me, Lévi-Strauss dice: «Girard! Lui cita Totem e tabù di Freud. Quindi torna indietro di molti decenni, non capisce… Crede che sia possibile una genesi della cultura, è un positivista come Freud. E non ha una teoria del sistema o dei segni e della significazione, che gli farebbero capire che il ricorso alla genesi non porta a nulla».

Lévi-Strauss non comprende la mia nozione d’identità. Pensa che io sia un lettore ingenuo di Totem e tabù, perché non mi ha veramente letto. La conseguenza del pensiero di Lévi-Strauss, anche sugli antropologi non levi-straussiani, è stata quella di distogliere tutta la ricerca etnologica dal tema delle origini della religione, cosa che invece aveva letteralmente ossessionato l’antropologia del primo ’900. Lévi-Strauss dice che la problematica delle origini non ha senso; che non si possono cercare le origini, perché così si entra semplicemente in un circolo vizioso. Poi arriva Derrida, che con la sua «logica del supplemento» ha meglio precisato la nozione di circolo vizioso. Fondamentalmente questa si può fare risalire all’idea heideggeriana del circolo ermeneutico. In conclusione: imboccare la strada delle origini è una pia illusione.

Questa affermazione è allo stesso tempo vera e falsa. Non si possono avere delle origini se si rimane all’interno del sistema sacrificale. Non vi può essere un’origine del mito di Edipo se si accetta la colpevolezza di Edipo e tutti i significati che si trovano in questo mito.

Ma se rompessimo con la logica mitica? Se provassimo a ragionare uscendo dal mito, come se Edipo fosse innocente, come se il mito fosse un testo di accusa contro di lui? Se leggessimo quel processo in termini di fenomeno aleatorio dove si ha in realtà a che fare con una partita di biliardi, dove la vittima è più o meno casuale, è solo un uomo che zoppica e così niente parricidio e niente incesto? Credo sia possibile una genesi che vada oltre il circolo ermeneutico, il che mostra che si può avere un’ipotesi talmente forte da poter dare conto di tutti quegli aspetti della mitologia, compreso quelli più misteriosi come l’andatura zoppicante di Edipo, la sua regalità, il suo essere straniero. Tutti stereotipi vittimari di capro espiatorio. Questo perché il mito è ciò che dà significazione a un fenomeno arbitrario, alla espulsione collettiva della vittima, facendola diventare cultura. Solo il testo giudaico-cristiano rompe radicalmente con questa tradizione di colpevolezza, affermando che la vittima perseguitata — Isaia, Giobbe, Gesù — è innocente.

Il narratore dei Salmi è il primo che, in quanto vittima, parla in nome della vittima e dice che le cose non sono quello che la folla crede.

Non pensa che a volte le vittime o i capri espiatori siano anche colpevoli? Penso a Milosevic, per esempio: un capro espiatorio per tutto il popolo serbo, eppure egli stesso, parrebbe proprio, colpevole.

Ma questa è un’obiezione tratta dalla nostra realtà, non dalla mitologia. Nel mito la colpevolezza o meno della vittima non interessa. Sono fattori irrilevanti, appartengono a un passato che la folla non prende in considerazione. L’unica questione che al mito interessa è se si possa generare significazione, nel senso moderno del termine, tramite il fenomeno del capro espiatorio. Qualsiasi cosa si dica sul capro espiatorio potrebbe essere oggettivamente vera, e nel mondo moderno riusciamo a vederlo perché non abbiamo più quel fenomeno nel senso arcaico del termine. Ma per il mito si tratta di una pura genesi della significazione.

Questa obiezione, a proposito per esempio di Milosevich o di bin Laden, potrebbe essere vera, ma non ha a che vedere con la genesi pura del significato e della ricerca. Così fondamentalmente il mio compito è quello di cercare un varco aldilà delle proibizioni imposte dallo strutturalismo, da Lévi-Strauss e così via.

Io in parte condivido alcune posizioni degli strutturalisti-hanno ragione, per esempio, a criticare Totem e tabù. Qui Freud si dimostra molto ingenuo quando pensa che si possa avere qualche tipo di storia a partire dal parricidio originario. Bisogna prima eliminare il significato, e questo lo fa la crisi sacrificale. All’inizio c’è solo pura casualità, a parte qualche segno di vittimizzazione: l’andatura zoppicante e così via-cose già per altro presenti nel mondo animale, ad esempio nella caccia. Mentre quando Freud inserisce il padre, si infila in un circolo vizioso.

Tratti come l’andatura zoppicante, in effetti, si ritrovano nel mondo animale, e in particolare nella caccia. Quindi in questo caso non si può parlare di significato umano. Quando le tigri o i leoni scelgono le loro prede, di solito scelgono quella con qualche menomazione fisica, perché è più facile da catturare. Gli animali che si comportano in questo modo sono quelli che hanno le più alte probabilità di sopravvivenza. E ritroviamo questo nella mitologia. Perché se pensiamo agli dei greci come a quelli indiani, molti sono come le prede degli animali: gobbi, menomati? Lévi-Strauss non sfugge questo problema, ma ne dà una lettura puramente simbolica, immacolata, attraverso lo strutturalismo. Non capisce che si tratta di caccia, e di caccia all’uomo, nel mito di Edipo e altrove.

Noi oggi siamo in grado di riconoscere la caccia alle streghe, grazie all’immensa opera di decostruzione operata nella storia dal testo giudaico-cristiano. Che sta anche a monte della mentalità scientifica. Non abbiamo scoperto che le streghe erano innocenti grazie alla scienza, ma abbiamo scoperto la scienza in senso moderno grazie alla rivelazione dell’innocenza della vittima.

Al di là degli assoluti recentemente crollati, come l’umanesimo, il razionalismo, la rivoluzione, la stessa scienza, non vi è il vuoto totale che fino a poco tempo fa ci veniva annunciato: vi è la cura per le vittime che, nel bene e nel male, domina la monocultura planetaria nella quale viviamo. La globalizzazione stessa, di cui oggi tanto si discute, è il frutto di questo principio, non è il contrario. In tutte le attività economiche, scientifiche, artistiche e anche religiose, è la preoccupazione per le vittime che determina l’essenziale.

Sarebbe giusto dire che lei concepisce l’evento cristiano come vero cambiamento storico?

Dato che penso che dietro la mitologia ci sia una vera crisi, un vero dramma storico, a fortiori credo che lo stesso valga per i Vangeli. All’inizio i Vangeli insistono molto sulla storicità di quello che narrano. Durante il regno del Tal dei Tali, Ponzio Pilato procuratore della Giudea e così via… tutti eventi storici. Alcuni non sono riferiti in modo corretto, ma i Vangeli insistono molto sui dati di fatto storici, che fanno riferimento ad una vera e propria crisi sacrificale, la quale finì con la distruzione di Gerusalemme e del regno ebraico. La comunità che sappiamo trovarsi in una grave crisi è il piccolo Regno di Giudea, all’epoca un protettorato romano. E, dato che siamo a conoscenza dei fatti storici, crediamo nella realtà di quella crisi. E abbiamo la parola del Vangelo di Giovanni: «È meglio che muoia un solo uomo…». Quindi secondo Pilato la morte di Cristo è un tentativo di risolvere la crisi, ce lo dice il testo: un tentativo fallito, perché la morte di Gesù non riuscì a riconciliare gli ebrei con i romani.

Ma è proprio questo il punto di svolta: Gesù è un capro espiatorio che fallisce. Tutti i capri espiatori appartenenti ai miti antichi riescono, nel senso che sono visti come colpevoli, e tutti si adunano contro di loro — e si crea una nuova cultura. Ma con la cristianità il sistema del capro espiatorio fallisce. Si genera allora un mondo aperto dove può succedere di tutto, perché non ci sono più le forme di protezione sacrificali. Da qui la via è aperta a quella strana forma di crisi sacrificale, sempre in funzione ma mai risolta, che è la modernità.

Non a caso uno dei grandi interpreti della modernità è stato Carl Schmitt: il potere in una società si vede nel momento della crisi; il sociale è anche crisi. Miti e riti sono modi di gestire le crisi.

Nel suo saggio sul libro di Giobbe — L’antica via degli empi (pubblicato in Italia da Adelphi) — Lei ha mostrato che nella stessa Scrittura giudeo-cristiana convivono due visioni antitetiche di Dio: il Dio della violenza sacrificale e il Dio di ispirazione giudeo-cristiana…

È vero. Il Dio sacrificale è il Dio degli amici di Giobbe, di quelli che dicono a Giobbe: «se tutti lo affermano in maniera unanime, allora è certo che tu devi certo essere colpevole. Non è possibile che si sbaglino tutti».

Ci sono momenti in cui lo stesso Giobbe vacilla, è quasi pronto ad ammettere la sua colpevolezza, a risprofondare nel sistema arcaico, che tanto assomiglia alle tragiche autocritiche ed autoaccuse novecentesche dei processi totalitari. Ma alla fine Giobbe dice: «il mio difensore è vivo» (Giobbe, 19, 25). In fondo il testo di Giobbe dice che Dio non è dalla parte dei persecutori, che il vero Dio è dalla parte delle vittime innocenti.

Il testo ebraico-cristiano afferma in maniera inequivocabile che ci sono vittime innocenti, diversamente dai miti, che escludono l’idea di una tale innocenza e perpetuano nel testo il meccanismo di capro espiatorio.

Siamo perciò di fronte a un’opposizione formale, assoluta. Per poter comprendere di che si tratta, per cogliere la differenza di cui parlo, che in genere non è intesa bene, bisogna prendere un fenomeno di capro espiatorio moderno. Io prendo sempre come esempio l’affaire Dreyfus.

Coloro che dicono che non c’è differenza tra i miti e i Vangeli sono nella stessa posizione di chi voglia affermare — ma nessuno lo dice, perché non è possibile — che nell’affaire Dreyfus non c’è differenza tra le prove a favore di Dreyfus e le prove contro Dreyfus.

A mio avviso casi come l’affaire Dreyfus sono possibili solo in un universo giudaico-cristiano. Questa affermazione può apparire paradossale o ingiusta, perché la Chiesa tradizionalista era generalmente antidreyfusarda, ma questo, dal mio punto di vista, non ha nessuna importanza. Ciò che intendo dire è che solo nel nostro universo si produce lo spazio storico che consente di rinfacciare ad un’intera società — unanime o quasi — che ha torto, perché sta condannando un innocente. Il nostro universo è il solo che sia capace di qualcosa del genere.

Il grande filosofo Emmanuel Levinas citava sempre una frase del Talmud che è molto vicina allo spirito di quanto vado dicendo, una frase umoristica, tipica di quella tradizione: se sono tutti d’accordo nell’accusare qualcuno, rilasciatelo — vuol dire che costui è innocente. L’unanimità accusatrice è sospetta in quanto tale! Essa suggerisce l’innocenza dell’accusato.

Torniamo alla psicoanalisi. Qual è il suo punto di vista sulla teoria psicoanalitica della proibizione e del Super-io?

Voglio dire provocatoriamente che per me la proibizione è buona e utile. Gli interdetti, le proibizioni, consistono nell’impedire di riprecipitare nella spirale violenta che ha causato la crisi.

Grazie a loro le società possono vivere. Tuttavia molte forme di proibizione in alcune società primitive sono assurde, a causa di errori d’interpretazione. Per esempio, in un gran numero di comunità arcaiche dell’Africa si uccidono i gemelli alla nascita. Non lo si fa senza ragione. Li si uccide perché si confonde la somiglianza fisica dei gemelli con la reciprocità del conflitto. Quindi si ha paura che i gemelli siano come un batterio, che contaminerebbe tutta la comunità creando una crisi sacrificale. Ci sono molte culture, tra cui la greca antica-dove troviamo gemelli tragici-che vedono i gemelli in questo modo.

Ma allo stesso tempo, quello che è superiore a tutto il simbolismo freudiano è che nei gemelli realtà e simbolicità sono una cosa sola.

Infatti non solo sul piano simbolico, ma anche su quello reale si può prevedere che i gemelli si trovino in una situazione di rivalità. Magari al momento della nascita qualcuno ha messo un filo rosso intorno alla caviglia del primo nato, ma poi questo è scomparso. È quindi impossibile distinguere l’uno dall’altro. È il caso di Romolo e Remo, come evidenzia pure Lévi-Strauss. Nessuno può sapere chi sia l’erede legittimo del padre, in caso si creda al diritto del fratello maggiore. Dunque la rivalità mimetica è pronta a spalancarsi. In questo caso insomma realtà e simbolicità si fondono completamente. La teoria mimetica può mostrare in questo caso perché i simboli principali siano anche realtà. Come il simbolo della peste, che significa la distruzione di una comunità: la peste è spesso proprio questa effettiva distruzione di una comunità. Ma è anche il simbolo di una crisi mimetica generalizzata.

E l’incesto, per esempio, viene proibito?

Non troviamo mai «non desiderare tua madre». La risposta al complesso di Edipo si trova in Joyce. Nell’Ulisse, a un terzo del libro, troviamo una lezione di Stephen Daedalus, uno dei protagonisti del libro, su Shakespeare. Si tratta della migliore analisi di Shakespeare mai fatta, perché è un’interpretazione mimetica. Qui Stephen attacca una certa scuola viennese che afferma che la madre settantacinquenne di Amleto sia per lui più un oggetto più desiderabile di Ofelia, e così via… Improvvisamente, l’intera visione scolastica del nostro mondo è infranta dallo humour di Joyce. Ammetto che le tensioni tra genitori e figli sono molto complesse e che Freud ne abbia colto alcuni aspetti. Ma probabilmente nel momento storico in cui viveva il ruolo della paternità era in crisi. All’inizio del ventesimo secolo abbiamo per la prima volta la sparizione del padre, e Freud operava immediatamente prima.

Anche Freud è un effetto della cristianità?

Certo, perché opera in un contesto di dissoluzione della famiglia. Una delle influenze più sensibili della cristianità è la de-enfatizzazione della famiglia. Il Vangelo ci dice che la vera madre, i veri fratelli e sorelle, sono coloro che seguono le regole del Regno di Dio. Quando, in Marco e Matteo, delle persone giungono a Cristo e gli dicono «tua madre e i tuoi fratelli sono arrabbiati con te», Gesù risponde, «non voglio parlare con loro, perché la mia vera madre e i miei veri fratelli sono queste persone qui con cui sto parlando». Sarebbe assurdo dire che Gesù è contro la famiglia, ma il messaggio è: «La famiglia non è tutto, e la famiglia non dovrebbe interferire con la vita spirituale, come invece spesso fa». Nel Vangelo troviamo anche un uomo che a causa della famiglia non segue Gesù. Quindi la famiglia, un’istituzione come tante altre, deve stare al suo posto.

Lei pensa ovviamente anche alle famose parole di Cristo: «Vi porto la spada per mettere il padre contro il figlio, ecc…» Perché questa famosa citazione suona così strana per molti cristiani? Che significa esattamente?

Non significa che sia Cristo stesso a volerlo fare. Lui dice: «io vi porto la pace che va oltre la pace del mondo, che è incomprensibile nei termini del mondo». E la pace del mondo è sempre la pace dei capri espiatori. E in qualche modo anche nell’unità della famiglia ci sono degli aspetti da capro espiatorio. Quando la famiglia si riunisce, si passa spesso molto tempo a ridere dei parenti più lontani, di quelli che si trovano al di fuori del clan familiare ristretto. Non è un uso troppo spietato di questi capri espiatori, ma si raccontano storie più o meno da mito, nelle quali c’è quasi sempre un capro espiatorio, magari divertente, perché un capro espiatorio spassoso è molto importante. Molti miti sui vari bricconi sono miti su capri espiatori divertenti. E molto spesso una famiglia ha una mitologia tutta sua, che si articola secondo l’uso di capri espiatori. L’unità della famiglia è debole, ma è anch’essa un microcosmo sacrificale.

Cristo annuncia una situazione di crisi: crisi all’interno della famiglia, crisi tra le nazioni. Una crisi forse più grande di tutte quelle dei tempi antichi, perché le protezioni sacrificali stavano per indebolirsi o sarebbero scomparse del tutto.

Ci può dire qualcosa sulla sua concezione di scandalo, skandalon? Credo che ci siano qui anche implicazioni psicoanalitiche. Anche Lacan parla degli ostacoli…

Il principio dello skandalon può effettivamente essere definito come il principio della ripetizione in Freud, qualcosa che si ripete costantemente, sintomaticamente. L’ostacolo in cui ti imbatti è anche oggetto del tuo desiderio, perché entra in gioco il desiderio mimetico: si desidera l’oggetto del proprio modello, che oltre una certa soglia si fa ostacolo, pietra d’inciampo, skandalon. Da un certo punto in avanti si confonde l’ostacolo con l’oggetto o si cerca proprio l’ostacolo in quanto tale, la sofferenza, il masochismo.

Questa ripetizione sorda, che sta oltre il principio del piacere, è in effetti ciò che ha anche affascinato Freud.

Qual è il significato delle famose parole di Cristo nei Vangeli, quando parla dello scandalo? «Se la tua gamba o la tua mano ti scandalizza è meglio tagliarla, ecc.»

Credo che, seguendo la teoria mimetica, ciò significhi l’ingresso in un circolo vizioso, in cui è facile entrare ma da cui è molto difficile uscire. Quando ci si entra il desiderio aumenta, dato che l’ostacolo oppone sempre resistenza al desiderio, e se la resistenza dell’ostacolo ha successo, chi desidera desidera sempre di più, e comincerà a scontrarsi con l’ostacolo in modo sempre più forte.

E se invece si conquista l’oggetto? Freud non parla della morte del desiderio. Se batti il tuo modello ottieni l’oggetto, ma poi l’oggetto non avrà più modello, non sarà più trasfigurato dalla luce trascendentale emanata dal modello. Perderà allora valore. Questo oggi è un fenomeno decisivo, dato che viviamo in un mondo di totale disincanto. La psicoanalisi e tutte le psicologie hanno dimenticato uno dei fenomeni più tristi nel nostro mondo: la morte del desiderio. Secondo Freud il desiderio è eterno perché abbiamo una sola madre e desideriamo sempre nostra madre.

Ma il desiderio può cambiare oggetto, secondo Freud. La madre non resta quasi mai, per fortuna, oggetto del desiderio maschile (anche se si cerca qualcosa di materno in ogni donna).

Ma non basta a frenarne il declino. La morte del desiderio — una delle esperienze più rivelatrici del mondo moderno, tante volte descritta dai grandi romanzieri — non gioca alcun ruolo nella psicologia o nella psicoanalisi. Molto dipende anche dal fatto che ci si concentra su un solo paziente, lo si considera una sorte di monade, senza concentrarsi propriamente sulla dimensione interindividuale della psicologia che io ho provato a richiamare. Se uno invece si concentra sul rapporto, come fanno gli scrittori di romanzi, si capisce che il desidero è una strada a senso unico. Se va da una parte non può tornare dall’altra. E chi desidera desidera sempre di più e sempre più invano. Shakespeare è particolarmente bravo a descrivere questo processo.

Perché è importante nascondere il desiderio? Il desiderio è umiliante perché col desiderio si confessa la propria debolezza: si ha sempre bisogno del mondo esterno. E il desiderio è sempre desiderio di narcisismo. Freud coglie alcuni aspetti di questo. Quindi l’altro deve dimostrarsi più narcisistico di te, e il gioco della seduzione consiste nel sembrare sempre più indifferente dell’altro. La psicoanalisi non parla nel modo giusto di questa indifferenza e degli aspetti correlati. Ma qualsiasi grande scrittore di teatro classico sì.

Tornando al tabù dell’incesto, sia la psicoanalisi che Lévi-Strauss ne hanno fatto seppur in maniere differenti uno degli snodi essenziali del proprio paradigma.

L’ambizione di Lévi-Strauss in Le strutture elementari della parentela è quella di interpretare il tabù dell’incesto non come tabù dell’incesto, ma come regola dello scambio. Quindi dice che gli uomini decidono di scambiarsi le donne così come decidono di scambiare le merci.

Oltre alle donne, si scambiano doni e parole.

Sì. Ci sono alcune società totemiche nelle quali si scambiano i cadaveri. Nella comunità qualcuno muore. Nessuno vuole seppellirlo. Potrebbe essere pericoloso, tutti si accuserebbero a vicenda di averlo ucciso. Allora si va dalla tribù vicina e si chiede a loro di farlo. In cambio si seppelliranno i loro morti, così che anche loro non avranno problemi.

Seppellire i nostri defunti ci potrebbe portare a litigare sul passato, ad accusarci l’un l’altro di essere responsabili di quella morte, e così via. Per le donne è la stessa cosa. Le donne della tua comunità — specialmente le sorelle — sono quelle sulle quali potresti litigare in quanto saranno oggetto di rivalità mimetica.

Quindi la legge dello scambio è il risultato di molte crisi sacrificali, di molti sistemi di capri espiatori, nei quali l’uomo fa quello che nessun altro animale fa. Invece di procurarsi da solo il cibo o le donne e altre cose, l’uomo non prende la via più semplice, quella più a portata di mano, come fanno tutti gli altri animali. In verità anche nel mondo animale ci sono dei sistemi di dominio per cui un animale si serve per primo, e gli altri riceveranno qualcosa se l’animale dominante lo permette… Ma gli uomini seguono un sistema completamente diverso, quello degli scambi, il cui scopo principale è di proteggere dalla crisi mimetica. Da qui la volontà di liberarsi delle proprie donne, fonte intollerabile di conflitto, dandole alla tribù più vicina. E il tutto si trasforma in doni. In molte lingue, in tedesco ad esempio, la parola dono significa anche veleno — l’idea è che tutti i doni tradizionali siano veleno. Questo significa che vogliamo dare agli altri quello che a noi causa troppi problemi. Se provassimo invece a dividerci le nostre donne, allora lotteremmo tra noi fino al giorno del giudizio.

Per questa ragione, l’uomo si sposta in terre straniere, cosa che non fa nessun altro animale. L’uomo si apre al mondo per ottenere in un luogo lontano quello che gli animali ottengono il più vicino possibile. Ma, al contrario di Lévi-Strauss, penso anche che questa scelta sia dovuta al terrore della violenza della crisi sacrificale. Si può pensare solo un grande sforzo abbia permesso che una razza respinga con orrore l’oggetto più vicino per spostarsi verso quello più lontano. Per questo tutte le storie di scambio sono anche storie di conflitto interno ed esterno, perché inizialmente coloro con cui si devono effettuare gli scambi non lo consentono. Oppure lo consentono con grande difficoltà, e molto spesso sono necessari dei riti per accompagnare il processo.

C’è qualche somiglianza tra l’accento posto da Lévi-Strauss sulla funzione dello scambio primitivo (di donne, doni, oggetti, parole) e l’idea di reciprocità che lei sostiene?

Non credo, perché Lévi-Strauss concepisce la razza umana come se fossimo tutti studiosi strutturalisti. Secondo Lévi-Strauss un bel giorno gli umani hanno deciso che volevano classificare, mettere ordine nelle cose, e quindi cominciarono a scambiarsi le cose e a dare loro dei nomi, a separarle. Ma tutto ciò assomiglia troppo alla voglia degli studiosi di classificare.

Insomma, Lévi-Strauss non considera la violenza.

Il suo strutturalismo si fonda in ultima analisi sull’esclusione di quella violenza che il sistema dei capri espiatori incanala verso la costruzione culturale.

Pensi a quella famosa massima di Anassimandro che Heidegger definisce la più antica della cultura occidentale: «In ciò da cui gli esseri traggono la loro origine, ivi si compie altresì la loro dissoluzione…». E gli esseri traggono la loro origine da apeiron, che si può tradurre anche con caos, che a sua volta può essere tradotto con indifferenziazione. E aggiunge: «… secondo necessità: infatti reciprocamente scontano la pena e pagano la colpa commessa, secondo l’ordine del tempo». Per me questo scontare la pena, questo reciproco punirsi per la cattiveria e l’ostilità, è la crisi sacrificale. È una visione ciclica della società che scaturisce dal caos. Anassimandro non ci dice perché, ma torneranno al caos mentre la pace che c’era stata all’inizio diventa violenza reciproca, punirsi reciprocamente secondo l’ordine del tempo. Se si considerano altre massime come quella di Eraclito sulla violenza, polemos — «il conflitto, o la lotta è il padre e il re di ogni cosa» — si vede bene come il pensiero presocratico giri intorno all’origine violenta. Io colloco la mia ricerca in continuità con i presocratici.

Per questo m’interessa molto Heidegger. Proprio gli aspetti più inquietanti di Heidegger, anche il suo riferirsi alla violenza, sono quelli più interessanti. Anche se le mie conclusioni sono completamente diverse da quelle di Heidegger, mi sento molto vicino alle sue preoccupazioni. È il caso di Freud, ma anche quello di Nietzsche, l’autore che considero più vicino alla scoperta della discontinuità introdotta nel mondo dal giudaico-cristiano. Ma il grande paradosso di Nietzsche è che davanti a questa scoperta egli inverte lucidamente le conclusioni.

Intervista fatta a Parigi nel novembre 2001, in collaborazione con Maurizio Meloni. Traduzione dal francese di G. Joele.


  1. Psichiatra, coautore con Girard di Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, e autore di Hystérie, Transe, Possession [Nota del curatore]. ↩︎