1. La falsa fama di Nietzsche filosofo dell’ateismo
Nietzsche è indubbiamente uno dei filosofi più famosi tra il grande pubblico, forse il più famoso. La sua fama è fortemente connessa con l’interpretazione prevalente della sua personalità filosofica come grande distruttore, filosofo «del martello», e soprattutto come banditore della «morte di Dio», sommo scardinatore della credenza nell’esistenza di Dio. Di qui la communis opinio che Nietzsche sia un filosofo «ateo».
Io credo che questa interpretazione sia tanto riduttiva da indurre in buona sostanza al fraintendimento.1 La mia tesi è che Nietzsche è (anche) un teologo nel senso letterale del termine, ovvero che il problema di Dio è quanto meno uno dei fili conduttori decisivi del suo vulcanico e travagliato pensiero — se non la vexata quaestio dal cui tentativo di risoluzione scaturiscono le sue grandi creazioni filosofiche (Übermensch, eterno ritorno, volontà di potenza).
Con ciò non voglio dire — sarebbe palesemente banale e del tutto in linea con la riduzione ermeneutica che pretendo di contestare — che Nietzsche fosse ossessionato dalla missione di annientare la credenza nel Dio della teologia cristiana e che di conseguenza ne scandagliò tutti i risvolti allo scopo di evidenziarne limiti, incongruenze e aporie. Di più e meglio, intendo sostenere che Nietzsche ingaggiò una furibonda lotta filosofica con il Dio cristiano allo scopo di intuire, sviluppare e diffondere una nuova concezione di «Dio», a partire dall’allarmata consapevolezza dell’essenzialità della sua funzione per l’esistenza dell’uomo (leggi: per la realizzazione dell’Übermensch) e dall’acuto bisogno di evitare a tutti i costi che la fine di una concezione di Dio sprofondasse nella fine di «Dio», cioè nella sua sostituzione con il nulla — consapevolezza e bisogno che, a mio avviso, costituiscono proprio i costituenti primari della genuina vocazione (Beruf) teologica.
2. Nietzsche contro Dio
Per articolare e argomentare la mia tesi non posso che cominciare dall’aforisma 125 «L’uomo folle» di La gaia scienza. Proprio il luogo (purtroppo sempre più un topos) in cui Nietzsche proclama che «Dio è morto» — più precisamente e significativamente che Dio è stato assassinato dall’uomo moderno — e che costituisce il cavallo di battaglia dell’interpretazione corriva del suo pensiero, proprio quel luogo contiene in nuce tutti gli elementi che, in seguito sviluppati, militano a favore della interpretazione che propongo. Come appare evidente, lo scopo dell’arringa dell’uomo folle non è convincere gli uomini del mercato che Dio non esiste ma provocarli alla comprensione delle possibili conseguenze negative del crollo della fede nel Dio cristiano. La potenza filosofica e retorica dell’aforisma scaturisce dall’intreccio e dalla tensione paradossali tra l’epica e gioiosa rivendicazione dell’assassinio di Dio2 e il nostalgico e preoccupato riconoscimento della perdita subita.3 Come si spiega questa apparente contraddizione? Certamente non (solo) come un dissidio psicologico interno dell’uomo folle, ovvero di Nietzsche, alla maniera del protagonista di Rosmersholm del pur nietzscheano H. Ibsen. Per rispondere fondatamente alla domanda basti rifarsi agli aforismi di Umano troppo umano nei quali Nietzsche, dopo aver spietatamente confutato la metafisica (e la religione cristiana), ne tesse, per così dire, un vero e proprio elogio funebre, sostenendo che essa per secoli ha spronato gli uomini a guardare al di là del proprio naso e a progettare e realizzare opere straordinarie — pur sapendo quegli stessi che le avviavano che non avrebbero mai visto la loro conclusione.4 In breve, ma si tratta di brevità sostanziale, per Nietzsche la credenza in un senso/fine ultraterreno e trascendente della vita ha fornito l’impulso decisivo per lo sviluppo della civiltà occidentale. Tanto è vero che N., in questa fase «illuministica», affida a una scienza rinnovata («gaia») l’arduo compito di svolgere la funzione in passato assolta dalla metafisica.5
Il cruccio, o tarlo, filosofico di Nietzsche è il pericolo, in gran parte da lui avvertito già come realtà, che — crollata la metafisica, e la credenza in Dio/Assoluto suo pilastro, — l’umanità occidentale si appiattisca sulla finitezza immediata, perda ogni slancio vitale allo sviluppo, al potenziamento/miglioramento; che l’uomo moderno diventi «l’ultimo uomo»,6 un uomo a tre dimensioni spaziali, ovvero privo di quella che per noi post-einsteiniani, è la quarta dimensione del cronotopo, cioè la temporalità. Il nemico contro cui Nietzsche si batte non è il Dio cristiano e nemmeno l’uomo metafisico/religioso, ma è l’ateo rozzamente materialista ed edonista, il filisteo, la pecora del gregge, ovvero l’uomo che non credendo più in alcun fine trascendente e universale si accontenta di ciò che è e si pone come unico scopo quello di vivere il più a lungo possibile pascendosi della mera soddisfazione dei suoi bisogni naturali.
3. Le funzioni positive e negative della credenza in Dio
Dunque l’aforisma 125 esprime l’esigenza se non già di un nuovo «Dio» quanto meno di qualcosa/qualcuno che ne eserciti quelle funzioni che Nietzsche giudica positive per l’uomo (si continui a leggere Übermensch). Un riscontro di tale interpretazione l’abbiamo nell’aforisma 108 nel quale Nietzsche sostiene che la morte di Dio ci ha lasciato il retaggio negativo della sua ombra. Che può essere interpretata sia come il vuoto di senso cui si alimenta il nichilismo nella sua ultima fase virulenta; sia come le secolarizzazioni filosofiche (hegelismo), scientifiche (positivismo, evoluzionismo) e politiche (socialismo marxista) della teologia cristiana, ovvero i surrogati dissimulati di Dio, nuove visioni globali che apparentemente negano Dio, ma in realtà ne cambiano solo il nome e ne variano superficialmente le caratteristiche mantenendone intatta la sostanza negativa. A questa seconda ipotesi ermeneutica si potrebbe obiettare che le nuove Weltanschauungen laiche dovrebbero calzare a pennello con l’esigenza Nietzscheana di sostituire il Dio morto. Oppure, assumendo la validità dell’ipotesi, lo stesso argomento potrebbe essere utilizzato per contestare l’effettiva presenza in Nietzsche di questa stessa esigenza. Tale obiezione bipenne è interessante perché ci sprona ad approfondire il pensiero di Nietzsche. La dialettica soddisfazione/nostalgia per l’assassinio di Dio dell’aforisma 125 rimanda a una sorta di separazione tra il grano e il loglio, ovvero tra funzioni negative e positive di Dio. Quelle positive le abbiamo esaminate. Quelle negative — molto più citate — sono essenzialmente la mortificazione della «terrestrità» e della libertà dell’individuo umano. Nietzsche rigetta le ideologie pseudoteologiche ottocentesche perché mantengono questa duplice e convergente mortificazione. (Senza peraltro essere capaci, almeno in tutti i casi, di svolgere la funzione positiva di Dio: altra interessante questione che però esorbita dai limiti di questo scritto). Ne concludiamo che l’effettiva presenza in Nietzsche dell’esigenza di un «sostituto» valido del Dio morto è confermata dal suo avvertimento del rischio che esso continui a proiettare la sua cupa ombra sull’uomo.
4. Come sostituire Dio?
Ma ne concludiamo soprattutto che il problema di Nietzsche era che il «sostituto» del Dio morto doveva avere alcune delle sue caratteristiche ma altre opposte. Chi/cosa può essere questo sostituto? Per il momento, ovvero sempre in relazione all’aforisma 125, l’indicazione più esplicita in questa direzione è quella del dovere degli uomini di diventare «dei»7 per assumersi l’onore e l’onere dell’omicidio di Dio. In altre parole, il sostituto di Dio deve essere l’uomo-dio, ovvero quello che nella Gaia Scienza è chiamato «spirito libero» e che diventerà poi l’Übermensch di Così parlò Zarathustra. È chiaro che l’Übermensch, in quanto uomo-dio, da un lato è completamente libero e totalmente radicato nella dimensione terrena, dall’altro è sempre slanciato oltre se stesso, nella propria trascendenza futura, poiché la sua essenza è il perenne aumento della propria potenza.
5. La volontà di potenza come principio ontologico unico
Evidentemente negli anni successivi a Così parlò Zarathustra Nietzsche si sentì sempre più insoddisfatto di questa soluzione e volle svilupparla e correggerla. Non si spiega altrimenti il progetto e la realizzazione quasi completa, ancorché comunque incompiuta, della sua ultima opera,8 che era sua intenzione titolare La volontà di potenza. Saggio di una transvalutazione di tutti i valori. In quest’opera — più precisamente nei materiali predisposti per la sua pubblicazione — Nietzsche propone esplicitamente la volontà di potenza non solo e non tanto come il principio dell’Übermensch quanto soprattutto come il principio di ogni cosa, di tutta la realtà, cioè come un principio ontologico. Poiché siamo così entrati nel cuore del discorso mi sembra accettabile e anzi necessario riportare per intero alcuni Frammenti postumi. I primi due sono del giugno-luglio 1885.
(7 [36]) Il vittorioso concetto di «forza», con cui i nostri fisici hanno creato Dio e il mondo, ha ancora bisogno di integrazione: gli si deve attribuire un mondo interiore che io definisco «volontà di potenza», ossia un insaziabile desiderio di esibire potenza; o impiego, esercizio della potenza, istinto creatore ecc. I fisici non possono eliminare dai loro principi l’«azione a distanza» e neppure una forza di repulsione (o attrazione). Non c’è niente da fare: bisogna intendere tutti i movimenti, tutti i «fenomeni», tutte le «leggi» solo come sintomi di qualcosa che avviene internamente e servirsi sino in fondo dell’analogia con l’uomo. Nell’animale è possibile derivare tutti i suoi istinti dalla volontà di potenza; e così pure, da quest’unica fonte, tutte le funzioni della vita organica.
(7 [38]) E sapete voi cosa è per me «il mondo»? Devo mostrarvelo nel mio specchio? Questo mondo è un mostro di forza, senza principio, senza fine, una quantità di energia fissa e bronzea, che non diventa né più grande né più piccola, che non si consuma, ma solo si trasforma, che nella sua totalità è una grandezza invariabile, un’economia senza profitti né perdite, ma anche senza incremento, senza entrate, circondata dal «nulla» come dal suo limite; non svanisce né si sperpera, non è infinitamente esteso, ma inserito come un’energia determinata in uno spazio determinato, e non in uno spazio che in qualche punto sia «vuoto», ma che è dappertutto pieno di forze, un gioco di forze, di onde di energia che è insieme uno e molteplice, di forze che qui si accumulano e là diminuiscono, un mare di forze che fluiscono e si agitano su se stesse, in eterna trasformazione, che scorrono in eterno a ritroso, un mondo che ritorna in anni incalcolabili, il perpetuo fluttuare delle sue forme, in evoluzione dalle più semplici alle più complesse; un mondo che da ciò che è più calmo, rigido, freddo, trapassa in ciò che è più ardente, selvaggio, contraddittorio, e poi dall’abbondanza torna di nuovo alla semplicità, dal gioco delle contraddizioni torna al gusto dell’armonia e afferma se stesso anche nell’uguaglianza delle sue vie e dei suoi anni, e benedice se stesso come ciò che deve eternamente tornare, come un divenire che non conosce né sazietà, né disgusto, né stanchezza. Questo mio mondo dionisiaco che si crea eternamente, che distrugge eternamente se stesso, questo mondo misterioso di voluttà ancipiti, questo mio «al di là del bene e del male», senza scopo, a meno che non si trovi uno scopo nella felicità del ciclo senza volontà, a meno che un anello non dimostri buona volontà verso di sé — per questo mondo volete un nome? Una soluzione per tutti i suoi enigmi? E una luce anche per voi, i più nascosti, i più forti, i più impavidi, o uomini della mezzanotte? Questo mondo è la volontà di potenza — e nient’altro! E anche voi siete questa volontà di potenza — e nient’altro!9
6. «Dio» come sostituto di Dio
Alla posizione della volontà di potenza come principio ontologico unico corrisponde la ripresa della problematica teologica. Nietzsche conferma la sua gioia per la morte del vecchio Dio denunciandone con uguale se non maggiore incisività le funzioni negative, come risulta chiaramente da questo frammento:
10 [137] Necessità di una determinazione oggettiva dei valori.
[…]
L’errore fondamentale sta sempre nel fissare la coscienza — invece che come strumento e dettaglio della vita complessiva — come criterio, come stato sommamente pregevole della vita: insomma l’errata prospettiva dell’a parte ad totum — perciò tutti i filosofi mirano istintivamente a fantasticare di una coscienza universale, di una comune vita e volontà coscienti di tutto ciò che accade, di uno «spirito», di un «Dio». Ma bisogna dir loro che proprio per questo l’esistenza diventa una mostruosità; che un «Dio» e un sensorio universale sarebbero assolutamente qualcosa per cui si dovrebbe condannare l’esistenza… Proprio l’avere noi eliminato la coscienza totale che pone fini e mezzi costituisce il nostro grande sollievo — in tal modo cessiamo di dover essere pessimisti… Il nostro maggior rimprovero all’esistenza era l’esistenza di Dio…10
Ancora più significativo però è che, proprio nello stesso momento in cui Nietzsche ribadisce il suo rigetto del Dio cristiano, egli connetta alla ridefinizione della volontà di potenza la delineazione di una nuova concezione di «Dio», cioè proponga la sostituzione del vecchio Dio morto, con un nuovo «Dio» vivo, così caratterizzato:
9 [8] Per il piano. […] «Dio» come momento culminante: l’esistenza una continua divinizzazione e sdivinizzazione. Ma in ciò non un culmine di valore, bensì un culmine di potenza.
[…]
Il regresso dal culmine nel divenire (dalla suprema spiritualizzazione della potenza sulla base massimamente servile) da presentare come conseguenza di questa forza suprema che, rivolgendosi contro se stessa, poiché non ha più niente da organizzare, adopera la sua forza a disorganizzare… a) Il sempre maggiore assoggettamento delle società e soggiogamento delle medesime da parte dei pochi, ma dei più forti, b) il sempre maggiore assoggettamento dei privilegiati e dei forti, e quindi avvento della democrazia, infine anarchia degli elementi.11
10 [138] L’unica possibilità di mantenere un senso al concetto di «Dio» starebbe nel concepire Dio non come forza efficiente, ma come stato massimo, come un’epoca… un punto nello sviluppo della volontà di potenza, in base al quale si spiegherebbe tanto lo svolgimento ulteriore quanto il prima, ciò che è stato fino a lui.
Considerata meccanicamente, l’energia del divenire totale rimane costante; considerata economicamente, sale fino a un vertice e ridiscende da esso in un eterno circolo; questa «volontà di potenza» si esprime nell’interpretazione, nel modo di usare l’energia — la meta appare pertanto la trasformazione dell’energia in vita, vita in massima potenza. Lo stesso quantum di energia significa, nei diversi gradi dello sviluppo, cose diverse.
Ciò che fa l’incremento della vita è l’economia sempre più parsimoniosa e che calcola sempre più lontano, la quale raggiunge ogni volta di più con una forza ogni volta minore… Come ideale, il principio della minima spesa…
Che il mondo non tenda a una situazione permanente, è la sola cosa che sia provata. Quindi bisogna pensare il suo stato culminante in modo che non sia uno stato di equilibrio…12
7. «Dio» come condizione di possibilità dell’Übermensch
Potrà dirsi forse solo un abbozzo ma resta che gli elementi essenziali del nuovo «Dio» sono nettamente definiti. «Dio» è la volontà di potenza totale di tutto il cosmo al suo più alto grado, consistente nella massimizzazione dell’uso dell’energia cosmica — ovvero nell’ottenerne il massimo risultato con il minimo consumo — e coincidente con l’attimo fuggente in cui raggiunge tale culmine. In altre parole si tratta di un «Dio» istantaneo, che si distrugge nell’attimo, unico, in cui è per poter tornare a costruirsi e così via in una successione eterna di costruzioni e distruzioni, meglio, come afferma Nietzsche, di «divinizzazioni» e «sdivinizzazioni». Tale alternanza eterna, che ovviamente rimanda alla teoria dell’eterno ritorno, è inevitabile dal momento che la volontà di potenza è per definizione «incremento» e dunque giunta al suo culmine non può accettare la quiete, non può essere paga del risultato raggiunto, altrimenti sopprimerebbe se stessa. D’altra parte non può nemmeno crescere, perché ha raggiunto il tetto della possibilità di crescita. Dunque non le resta altro che distruggersi per poter ricominciare da capo a perseguire il suo massimo. L’autodistruzione (sdivinizzazione) non è incompatibile con la volontà di potenza perché è pur sempre movimento e perché è funzionale alla ricostruzione, ovvero al gioco della volontà di potenza (il genitivo è più soggettivo che oggettivo: il gioco in cui consiste la volontà di potenza, che ne è determinazione essenziale). Insomma il contraddittorio annichilente della volontà di potenza, l’anti-volontà di potenza, non è la sua distruzione/sminuizione, ma è la stasi, la quiete, la pace, l’esser-paghi. Da qui l’esaltazione del «divenire», la determinazione a promuovere il «divenire» al rango passato dell’«essere». È la volontà di potenza che fonda il primato del divenire, non viceversa.
«Dio», come culmine istantaneo della volontà di potenza, è un attimo del divenire che rende possibile la sua eternità ricorsiva. È un «Dio» in sé minimo che proprio per questo «crea» il divenire cosmico, in quanto ne è la condizione suprema di possibilità. Perché? Perché se l’essenza del cosmo è la volontà di potenza, cioè l’incremento, «Dio» in quanto massimo incremento effettivo ne costituisce insieme la giustificazione, la meta e il senso.
Cosa ha guadagnato — filosoficamente parlando — Nietzsche sostituendo il primo sostituto di Dio — l’Übermensch — con «Dio»? Una maggiore determinazione concettuale e una maggiore forza propulsiva del principio primo. In altri termini «Dio» può costituire meglio dell’Übermensch la molla del continuo incremento di potenza, e quindi dello sviluppo storico, non solo perché è più globale — coinvolge l’intero cosmo — ma anche e soprattutto perché agisce in tal senso sugli stessi Übermenschen. «Dio» diventa così il fondamento della possibilità dell’Übermensch.
8. La scelta strategica di Nietzsche per il finito
Il presupposto di questa concezione di «Dio» è ovviamente la sua finitezza, corrispondente alla finitezza della volontà di potenza, dell’energia cosmica. È chiaro che una volta stabilito che il cosmo è volontà di potenza, cioè incremento, ci sono solo due vie di sbocco: incremento finito o infinito. Ovvero il dilemma è: la volontà di potenza è finita o infinita? Nietzsche risponde decisamente che è finita. Perché questa scelta netta a favore del finito? Perché altrimenti non si giustificherebbe l’eterno ritorno dell’uguale? Sarebbe un’argomentazione circolare, una petizione di principio: l’eterno ritorno già presuppone la finitezza, cioè proprio quello che dovrebbe legittimare.
Piuttosto perché Nietzsche ha compreso che l’infinitezza è il requisito decisivo di Dio, del Dio cristiano, del Dio giustamente assassinato, e come tale è l’ingrediente essenziale della sua trascendenza antiterrena e della sua contrapposizione rispetto all’uomo. Il Dio cristiano, in quanto qualitativamente infinito, rimane sempre trascendente rispetto all’uomo e a ogni altro essente finito, un’alterità irraggiungibile, una superiorità non solo ineguagliabile ma perfino inapprossimabile, che svaluta ipso facto la dimensione terrena in quanto finita e relega l’uomo in una posizione di dipendenza e subordinazione. Nietzsche intuisce che l’ingrediente decisivo della metafisica è l’infinitezza. Il «Dio» nietzscheano è finito perché in questo modo può attuare la sua funzione positiva di sprone al raggiungimento del massimo grado di volontà di potenza senza svolgere quelle negative di Dio. Esso è infatti una trascendenza relativa, cioè un di più non ancora raggiunto ma approssimabile e raggiungibile, un trascendente-immanente, che si distingue dall’(Über)Mensch ma non gli si contrappone perché l’(Über)Mensch può diventare «Dio», può coincidere con esso. Dunque è dall’opzione strategica per la finitezza di «Dio»-volontà di potenza che deriva la scelta tattica dell’eterno ritorno.
9. «Dio» e Dioniso
Ma Nietzsche non si era già occupato di un dio finito, terreno e ricorsivo? Fin troppo facile rispondere Dioniso e rimandare alla sua prima opera filosofica, La nascita della tragedia. Dioniso, il dio dei campi, e quindi della Terra, della ciclicità stagionale, della nascita, della morte e della rinascita, e quindi della finitezza e insieme dell’eternità. Dioniso-Zagreo (= il grande cacciatore), versione greca di Osiride, è infatti il dio che, nato da Zeus e Persefone, viene ucciso, smembrato e sbranato dai Titani. Il suo cuore è però salvato e Dioniso rinasce una prima volta come figlio di Zeus e Semele. Avendo Zeus incenerito Semele per la sua superbia, salva Dioniso asportandolo dal ventre materno e cucendolo nella sua coscia da dove rinasce per una seconda volta dopo una nuova gestazione. È dunque chiaro che quando N., di nuovo proprio nei suoi ultimissimi scritti, parla, come si è visto, di «dionisiaco», allude immediatamente al ciclo di divinizzazione (nascita), sdivinizzazione (morte) e ridivinizzazione (rinascita) dell’universo ma implicitamente alla sua finitezza e alla sua eternità del tutto «terrene». «Dio» dei frammenti di La volontà di potenza è dunque uno sviluppo o, se vogliamo, una attualizzazione di Dioniso; è la visione contemporanea dell’antico dio greco, di ancor più antica origine egizia; è Dioniso così come può e deve concepirlo un uomo del XIX secolo sulla base delle conoscenze acquisite e dello sviluppo civile raggiunto. A suggello di questa tesi la conclusione di Ecce homo, le ultime parole ufficiali di Nietzsche: «— Sono stato capito? — Dioniso contro il Crocifisso…».13 Ecco allora che la fine del filosofare di Nietzsche viene a coincidere col suo inizio assumendo la forma dell’anello dell’eterno ritorno, ovvero del giro di danza, della lieve piroetta su se stessi. Più ancora che con il contenuto delle sue opere Nietzsche ci comunica il suo pensiero con la forma che gli ha impresso, anzi con lo stile coreografico della sua stessa vita.
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Mi capitò in un’oasi tunisina, se non ricordo male, di vedere una T-shirt con una scritta che trovai e trovo assai divertente: «Nietzsche è morto. Dio». Al di là dell’umorismo, riducendo Nietzsche all’interpretazione letterale (ovvero al misunderstanding) del «Dio è morto», la sapida battuta assume la stazza di un’efficace confutazione. ↩︎
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«Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di quest’azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!» (Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, II ed., Mondadori, Milano 1978, p. 126). ↩︎
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«Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue?» (Friedrich Nietzsche, La gaia, cit. alla nt. 1, II ed., p. 126). ↩︎
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Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, I ed., Mondadori, Milano 1970, vol. I, pp. 20-22-292. ↩︎
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Friedrich Nietzsche, Umano, cit. alla nt. 3, I ed., vol. I, pp. 24-25. ↩︎
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«C’è il piacerino per il giorno e il piacerino per la notte: ma sempre badando alla salute» (Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, VIII ed., Mursia, Milano 1978, p. 24). ↩︎
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«Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa?» (Friedrich Nietzsche, La gaia, cit. alla nt. 1, II ed., p. 126). ↩︎
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Per un necessario aggiornamento su questa intricata e bistrattata questione vedi il saggio «Storia della volontà di potenza» di M. Ferraris pubblicato a mo’ di epilogo nella riedizione di Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza, II ed., Bompiani, Milano 1994, p. 563. ↩︎
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Friedrich Nietzsche, La volontà, cit. alla nt. 7, II ed., p. 340 e p. 561. All’inizio di ogni frammento è riportata la numerazione dell’edizione del 1911 e tra parentesi quella dell’edizione critica di Giorgio Colli — Mazzino Montinari, Opere di Friedrich Nietzsche, II ed., Adelphi, Milano 1979. ↩︎
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Giorgio Colli — Mazzino Montinari, Opere, cit. alla nt. 8, II ed., vol. VIII, p. 177. ↩︎
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Giorgio Colli — Mazzino Montinari, Opere, cit. alla nt. 8, II ed., vol. VIII, p. 6. ↩︎
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Giorgio Colli — Mazzino Montinari, Opere, cit. alla nt. 8, II ed., vol. VIII, pp. 177-8. ↩︎
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Friedrich Nietzsche, Ecce homo, I ed., Mondadori, Milano 1977, p. 101. ↩︎