Heidegger e il kairós. Alle origini della concezione heideggeriana della temporalità come Ereignis

Resti immobile, splendida nell’animo Tu grande orante del tempo della fede invincibile. Come ti illumina lo splendore del giorno quando a lungo indugia incandescente il suo chiarore, così voglio pregare e custodire il sacro che tu irradi nella lotta e voglio essere una torre nell’oscurità, che porta la luce con cui il mondo rifiorisce. E se in una grande tempesta dovessi cadere, sia il mio un sacrificio perché ancora si elevino torri e perché il mio popolo diventi la fiaccola della verità. Ma tu non cadrai, mia adorata torre. Anche quando ti colpiranno i fulmini dell’apocalisse, ti innalzerai in estrema preghiera su questa terra.

R. Schneider, Alla torre del duomo di Friburgo.1

1. «Una stella caduta» — Il fallimento

La sera del 27 novembre 1944 le squadriglie dei bombardieri anglo-americani sferrano un violentissimo attacco contro la città di Friburgo; solo il duomo, se pure gravemente danneggiato, resta in piedi e la sua torre, miracolosamente intatta, diviene da allora il simbolo della resistenza e della speranza, muta e solenne sentinella della verità e del sacro nella «grande tempesta» che travolge la Germania e l’Europa intera. Pochi giorni dopo Martin Heidegger; sulla via che da Friburgo, la città che lo aveva visto raggiungere la notorietà e il prestigio accademico, lo conduce a Meßkirch, il paese natale nel cuore dello Schwarzwald, chiede accoglienza ad un suo allievo, Georg Picht, che così riferisce di questa singolare ed inaspettata visita:

Un giorno, nel dicembre 1944, bussarono alla nostra porta quando era già buio. Fuori c’erano Heidegger, la nuora e la sua assistente. Erano in fuga da Friburgo, bombardata e minacciata dall’ingresso degli alleati, verso Meßkirch. Non c’erano mezzi di trasporto. Ci chiesero di poter alloggiare da noi quella notte. Trascorremmo una serata tranquilla e distesa. Per desiderio di Heidegger, mia moglie eseguì la sonata postuma in si bemolle-maggiore di Schubert. Quando la musica finì, egli mi guardò e disse: «Questo noi non possiamo farlo con la filosofia».2

In quella notte angosciosa solcata da oscuri ed infausti presagi ed in cui le traiettorie luminose dei bombardieri squarciavano il cielo come «fulmini dell’apocalisse», Heidegger mestamente esprime, nell’ultimo svanire delle note della sonata postuma di Schubert, il senso di un fallimento ormai sentito con lucida ed inequivocabile consapevolezza: il suo fallimento, il fallimento del pensatore che aveva creduto, prima, di poter assumere la guida spirituale di un movimento politico rivoluzionario suscitando, sulla scorta dei versi di Hölderlin, il risveglio del popolo tedesco, poi, di poter circoscrivere, con la sola potenza del pensiero, la violenza e l’aberrante deriva del nazionalsocialismo nell’ambito metafisico della scatenata volontà di potenza — sono questi gli anni del tormentato confronto con il pensiero di Nietzsche — e dell’intera tradizione filosofica occidentale. Insieme al fallimento del pensatore risuona, poi, in quelle sibilline parole di Heidegger, anche il fallimento dell’uomo e del credente: il congedo dal «sistema del cattolicesimo» che egli aveva annunciato per la prima volta all’amico sacerdote Krebs nel 19193, lungi dall’essere solamente una pregiudiziale ateistica necessaria per ogni retto filosofare, è, ormai, divenuto una ‘decisione’ irrevocabile.

Ma un altro ben più grave fallimento si annuncia negli ultimi concitati accordi della sonata schubertiana: il ‘fallimento’ del pensiero stesso. Al cospetto della armonia aphanes della musica, il pensiero fa esperienza del suo intimo ‘fallimento’; qui, tuttavia, fallimento non va inteso nel senso di esito negativo, insuccesso o errore, ma, secondo l’etimologia latina, come insolvenza, mancanza, e soprattutto come venir meno, rimanere nascosto4.

Il «pensiero dell’essere», che, se pure in una formula sommamente equivoca, può caratterizzare l’intera meditazione heideggeriana, non sarebbe altro, allora, che il ‘fallimento’ del pensiero al cospetto dell’armonia invisibile dell’essere che solo la musica riuscirebbe a percorrere ed illuminare? Il destino del pensiero, rivelatosi in un istantaneo baleno nei frammenti dell’antichissimo inizio greco, e, poi, ripetutamente coperto e rimosso dal trionfale incedere della filosofia e della scienza moderna, sarebbe quello di perire, andare in rovina5, svanire, estinguersi nell’attraversamento dell’essere? Il «cuore che non trema» dell’aletheia, confitto nell’origine sempre a-venire dell’umanità greca ed occidentale, sarebbe, allora, la lontana ed ineluttabile condanna al tramonto e alla morte che reclama la sua apocalittica esecuzione nei giorni ultimi della modernità?

Quella notte di dicembre del 1944, in quelli che allora sembravano gli «ultimi giorni dell’umanità», Heidegger scrive nel libro degli ospiti della famiglia Picht queste parole: «Il tramontare è diverso dal perire. Ogni tramonto resta al sicuro nel sorgere»6. Tramontare è l’estrema accettazione e l’intimo superamento del fallimento; il pensiero si ritrae nell’invisibile, sprofonda nel ventre della terra, assentandosi dal mondo. Non si tratta di una vile ritirata, di una fuga opportunistica che rimette ogni responsabilità e sacrificio a chi resta sul campo di battaglia dove imperversa la morte; è qui, piuttosto, in gioco una posta ancora più alta e rischiosa: la dignità stessa dell’uomo, che nessuna arma può ferire, si misura nella disponibilità con cui egli, ed il pensiero che in lui agisce, riescono a seguire il caduco dispiegarsi ed il ‘fallimentare’ destinarsi [Schicken], fecondo di storicità [Geschichtlichkeit], dell’essere stesso, accordandosi, così, alla sua fuga musicale.

Il destino ineludibile d’Europa, allora come ancora oggi, è il fallimento inteso come tramonto. Nei Beiträge zur Philosophie, l’opera segreta cui Heidegger lavorò nella seconda metà degli anni Trenta, destinandola ad una pubblicazione postuma — opera ab origine ‘fallita’ —, nella sezione dedicata agli Ad-venienti [Zu-künftige], si legge: «La nostra è l’epoca del tramonto [Unsere Stunde ist das Zeitalter des Untergangs]. Tramonto [Unter-gang], inteso in senso essenziale, è il passo [Gang] che conduce alla silenziosa preparazione del veniente [des Künftigen], dell’attimo e del luogo, in cui cade [fällt] la decisione sull’avvento o il rimanere assente degli dèi. Questo tramonto è il primissimo inizio»7. Condurre il pensiero al proprio tramonto-fallimento significa, esaurite le possibilità storiche della filosofia — che per Heidegger si identifica con la metafisica —, ritornare alla decisione-apertura [Entschlossenheit] iniziale che dischiude quel versante in ombra e sempre a-venire dell’origine che solo da ultimo si mostra;8 cercare un altro passaggio [Übergang] che trasformi il tramonto in trapasso verso l’altro inizio. I tramontanti [Untergehende] possono divenire gli Ad-venienti [Zu-künftige] solo in quanto, nell’inquieto contegno del loro interrogare, assecondano il tramonto, decidendosi per esso.9

Per discendere nella oscurità densa di presagi del tramonto è, quindi, necessario ri-volgersi all’origine, ri-orientarsi verso quella dimensione mattutina che, significativamente, parla dal frammento nietzscheano sull’avvenire dell’Europa;10 è necessario attraversare la notte, percorrere fino in fondo, fino alla rovina, il «viaggio al termine della notte» che l’intero Novecento ha messo drammaticamente in scena, per scorgere, infine, la stella del mattino.

Il ritorno all’origine [Heimkunft], cui tende ogni esodo, è un lento e periglioso attraversamento delle estranee profondità della notte, un cammino di svuotamento e di rinuncia, in cui iniziano ad apparire i segni di un altro pensiero.

Tutto il pensiero di Heidegger si potrebbe interpretare come il tentativo di approssimarsi all’origine, di raggiungere l’archi-originario attraverso un continuo oltrepassamento dei bordi, sempre più dilatati, della metafisica, alla ricerca di un ‘proprio’ [Eigene] del pensiero, della cosa del pensiero [Sache des Denkens] stesso balenata forse solo nei frammenti dei presocratici. Ma sarebbe sbagliato pensare ad una vertigine dell’appropriazione; essa è, al contrario, ciò che vi è di più estraneo al pensiero dell’essere e al suo andamento [Gang], dal momento che l’origine, verso cui questo pensiero è sempre in cammino, è costitutivamente inappropriabile in quanto radicale scissione, fenditura, squarcio ‘polemico’, scaturigine di tutte le opposizioni essenziali.

Nessuna patria, in quanto fissa e rassicurante dimora, è concepibile e quindi nessuna idea di nostos è davvero sostenibile; Ulisse non conclude mai le sue peregrinazioni ed il «ritorno a casa» è solo ritorno nella vicinanza dell’origine. Il luogo in cui poter sentirsi a casa [die Heimat] non è, dunque, l’origine, ma «il luogo della vicinanza al focolare e all’origine».11 Tornare in patria significa divenire di casa [heimlich] nella vicinanza all’origine inappropriabile ed irraggiungibile, abitare nella vicinanza dell’essere.12

2. L’Apocalisse — Heidegger lettore di Paolo

È soprattutto nella lettura di Paolo, svolta nei corsi friburghesi sulla Fenomenologia della vita religiosa del 1920-2113, che Heidegger, per la prima volta, incontra un esempio concreto di questa esperienza esistenziale della ‘vicinanza’. Per le prime comunità cristiane, infatti, il compimento dell’esistenza risiedeva nell’abitare la vicinanza della fine dei tempi, nell’attesa del supremo ‘fallimento’, il ‘fallimento’ del mondo e del tempo: ego vici mundum (Gv 16, 33), «il tempo [kairós] è vicino» (Ap 22, 10). Il tempo, di cui si attende la fine, è il tempo del mondo, il tempo della creazione che già declina verso il tramonto e che sta per ‘compiersi’; il tempo che si avvicina, il tempo la cui imminenza ed incombenza segna le esistenze sospese dei primi cristiani è, invece, il tempo senza tempo del Regno che sarà inaugurato dal definitivo ritorno del messia ed in cui si adempiranno tutte le promesse escatologiche. Nel ‘fallimento’ del tempo creaturale si avvicina il tempo apocalittico e si annuncia la parusia; nel tragico naufragio del mondo si illumina il Regno.

In modo analogo, per il pensiero dell’essere, che proprio a partire dal tema della ‘vicinanza’ sarà rivolto a tracciare una «topologia dell’essere», il ‘fallimento’ dell’essere, e dell’intera Seinsgeschichte, sempre più chiaramente identificata con la storia della metafisica, si dispiega come Ereignis-Enteignis, come evento appropriante-disporpirante, come rivelazione e ‘fallimento’. Il compito che viene ora assegnato al pensiero è, dunque, quello di confrontarsi con il tramonto e con il ‘fallimento’ intesi come destinazione ontologica e destino storico del nostro tempo.

È proprio il disconoscimento radicale di questo ‘fallimento’ che costituisce il supremo pericolo, quello cioè, per cui l’uomo smarrisce la sua propria essenza di ‘attendente’ [der Wartende] dell’essere14, di vigile custode della sua trasparente radura [Lichtung]. Questa vigilante attesa è la medesima di quella cui Paolo invita la comunità dei Tessalonicesi e su cui Heidegger a lungo si sofferma nel suo corso del 1920/2115: «Quanto ai tempi e ai momenti, non avete bisogno, fratelli, che qualcuno ve ne scriva. Sapete voi stessi esattamente che il giorno del Signore viene come un ladro nella notte. […] Non apparteniamo alla notte e alla tenebra: dunque non dormiamo come gli altri, ma rimaniamo svegli e sobri» (1 Ts 5, 1-7).16

L’esortazione di Paolo alla vigilanza e all’attesa è, senz’altro, il monito decisivo di tutta la sua predicazione; scrivendo ai Tessalonicesi egli si compiace di constatare che l’attesa del ritorno di Gesù occupa l’intero orizzonte esistenziale della comunità: essi vivono servendo Dio «nell’attesa di suo figlio che verrà dai cieli, che egli ha resuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene» (1 Ts 1, 10). All’epoca in cui Paolo scrive ai fedeli di Tessalonica, i destinatari delle sue lettere ed egli stesso vivono l’imminenza dell’evento escatologico, della fine dei tempi, a tal punto da non dubitare che si troveranno ancora in vita al momento della parusia del Signore (1 Ts 4, 15-17).17 La vita cristiana è posta essenzialmente sotto il segno dell’attesa e della trepidazione per l’incombente manifestarsi dei segni della fine, tanto che Paolo fa derivare anche gli impegni morali e spirituali delle prime comunità da questa estrema tensione escatologica. Se, infatti, nella prospettiva evangelica il ritorno di Gesù è vissuto come il compiersi definitivo delle promesse di pace e felicità, non viene mai meno l’aspetto catastrofico che precede ed accompagna il manifestarsi della parusia del Signore.

L’approssimarsi dell’éschaton è, infatti, preceduto da eventi luttuosi e da immani catastrofi, cui l’uomo è sottoposto come a prove estreme: la confusione, il dolore, lo smarrimento, la morte nel linguaggio biblico sembrano raffigurare quel destino di declino della nostra civiltà, in cui, non a caso, sempre più insistenti risuonano i proclami apocalittici: «Il giorno del Signore si avvicina […] Tutte le mani cascano / Tutti i cuori si liquefanno // Terrori e crampi li strizzano / Dolori di parto li storcono // Ha ciascuno paura del vicino / L’incendio è sui loro visi / Ecco tremendo viene il giorno del Signore! // Collera immensa furibonda ira» (Is 13, 6-9). La creazione geme nei tormenti del suo ‘fallimento’, della sua ‘dissoluzione’ fisica e morale, ma questi terribili dolori sono, allo stesso tempo, le doglie dell’avvenire, della nuova creazione: il popolo di Dio che, avrà resistito alle piaghe dell’apocalisse, sarà sorpreso da «dolori di partoriente».

Le doglie del Messia, che culminano con la comparsa dell’Anticristo, occupano un posto centrale in tutta la tradizione apocalittica18 sia giudaica che cristiana: in esse si consuma il tempo che precede la visione apocalittica, il disvelamento delle verità ultime e del Regno di Dio in cui i giusti saranno accolti. Durante questo tempo intermedio, che già precipita verso il compimento escatologico, si manifestano dei segni che ritroviamo puntualmente in tutti i racconti apocalittici: il verificarsi di spaventosi prodigi che rimandano ad un radicale sovvertimento della creazione e dei popoli, la diffusione del dolore e della paura, l’apostasia e il trionfo dell’ingiustizia.

È questo il tempo della massima frammentazione, del ritorno di potenze ed energie primordiali che disgregano la creazione: il caos primigenio fa di nuovo irruzione, il tempo si esaurisce, la sua fine è morte della stessa creazione, sua intima consumazione come compimento di un immanente processo di senescenza.

Ma prima che questo processo di dissoluzione si compia e la storia, sottoposta all’urto del tempo della fine, si spezzi, dovranno manifestarsi due fenomeni: l’apostasia e la comparsa del grande avversario di ogni dio. Già nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi Paolo introduce questo «fattore di ritardo» della venuta del giorno del Signore, e per scongiurare il pericolo di un vano agitarsi nella spasmodica attesa della fine o di un lassismo attendista dalle disastrose conseguenze morali e sociali, egli rassicura i credenti, forse eccessivamente turbati dall’imminenza ed imprevedibilità dell’avvento del Regno proclamate nella Prima Lettera, affermando che «prima dovranno avvenire l’apostasia e manifestarsi l’uomo del peccato, il figlio della perdizione, l’avversario che s’innalza sopra tutto ciò che porta il nome di Dio o riceve culto, tanto da sedersi nel tempio di Dio, mostrandosi come se fosse Dio» (II Tes 2, 3-4).

Se si deve vivere attendendo il ritorno imminente del Signore, che senso ha compiere gesti che si situano in una prospettiva a lunga scadenza, come ad esempio, arare e seminare nell’attesa di un raccolto che verrà solo tra diversi mesi, o piantare l’albero che darà frutti per la generazione successiva? Come «lavorare tranquilli» (2 Ts 3, 12) e organizzare un’operante comunità quando la fine del tempo si approssima? Per far fronte alla paralisi che minaccia la vita delle comunità cristiane, Paolo è, dunque, costretto ad introdurre un «tempo intermedio», relativamente stabile e definito, se pure breve.19 Questo tempo è caratterizzato dal dominio di potenze avverse al compiersi della promessa messianica, dal tradimento della fede, dall’empietà e dall’ingiustizia: i segni e i «prodigi menzogneri» di questo tempo creano, con ogni specie di seduzione, la più grande confusione in cui le potenze anticristiche delle tenebre cercano di usurpare il nome e la potenza di Dio.

Il mysterium iniquitatis, con la sua terribile e spettrale forza di attrazione e di anestetizzazione dell’attesa, trattiene la rivelazione del giorno del Signore, «affinché non avvenga che a suo tempo [kairó]» (2 Ts 2, 6).20 Il manifestarsi del mistero dell’iniquità costituisce la storia, ormai bimillenaria, del tempo intermedio che è, nel frattempo, divenuto il tempo storico: in esso si compie il venir meno, il ‘fallimento’ del messia e della speranza del suo ritorno.21 Ma il suo fallimento storico, che culmina con la ‘parusia’ dell’Anticristo, è l’unica possibile forma in cui la promessa messianica si può manifestare in questo mondo; essa si dispiega proprio attraverso l’usura del tempo, i tormenti e gli abbandoni, la fragilità e la precarietà di un mondo avvolto dalla notte dell’assenza di Dio. Essa prende corpo nella bufera che soffia dal paradiso e si impiglia nelle ali dell’angelo benjaminiano il quale, rivolgendo lo sguardo alla storia, ne vede l’inesorabile ‘fallimento’: «Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi».22

Vorrebbe l’angelo di Klee, che ispira la IX tesi di Benjamin, redimere la storia, conciliare il tempo e compiere la promessa, ma il suo sguardo è stanco, le sue ali non hanno la forza di opporsi alla bufera paradisiaca che lo travolge e lo sospinge verso il futuro con la potenza irresistibile del progresso; vorrebbe, l’angelo, ripiegarsi su ciò che è perduto, su ciò che è andato in rovina ed è in frantumi, e poter confortare il «pianto e lo stridore di denti» (Mt 24, 51), ma egli non è il Messia e tutta la sua forza, la sua debole forza, consiste nel raccogliere nel suo sguardo ‘apocalittico’ il cumulo di macerie che cresce sempre di più verso il cielo.

Come l’angelo della storia, anche noi spiriamo nella bufera del progresso, travolti dal corso inarrestabile degli eventi, incapaci di abbandonarci all’attesa del Regno che sempre più svanisce nell’orizzonte cronolatrico del tempo intermedio, divenuto ormai l’unico tempo.

Per la cristianità primitiva la storia scandita dal trascorrere di chronos è, invece, storia di decadenza, peccato, espiazione e redenzione che ha un inizio in Adamo, un suo culmine decisivo nella morte e resurrezione di Cristo e un suo epilogo necessario nell’avvento del Regno di Dio: l’orizzonte storico è essenzialmente uno scenario apocalittico-escatologico, in cui già nel principio si annuncia la fine: «come per un uomo esiste la morte, così per un Uomo esiste la resurrezione dei morti; e come in Adamo tutti muoiono, così anche nel Cristo tutti saranno vivificati» (1 Cor 15, 21-23).23 Cristo, dunque, non è solo l’annuncio della salvezza, ma è già egli stesso la salvezza: il tempo in cui egli ha vissuto in questo mondo è il tempo della decisione ultima, decisione sulla sua persona che determina il futuro del singolo. Chi ha condiviso con Lui il tempo, chi ha camminato al suo fianco è già entrato a far parte del «paesaggio dell’evento». Il compimento della promessa messianica che si incarna in Gesù è da lui stesso predicato come imminente. La delusione di questa attesa costituisce il primo di una lunga serie di rinvii della parusia24 del messia; Gesù si convince, allora, che la sua morte e resurrezione siano eventi necessari per il compiersi della promessa, stadi di un drammatico processo messianico in cui l’intera creazione si dissolverà per fare spazio all’avvento del Regno.

La comunità delle origini che, dopo questi eventi, si raccoglie intorno alla famiglia di Gesù, attende nell’incessante preghiera l’irrompere del Regno25, ma più aumenta l’attesa e più la sua situazione diviene disperata. A questa disperazione Paolo reagisce non solo attraverso l’introduzione di una sospensione del tempo messianico — il tempo intermedio — ma anche con l’affermazione, decisiva per tutto il cristianesimo, che, nonostante il perdurante ritardo della parusia, il nuovo eone è già cominciato. Ciò è possibile solo grazie ad una spiritualizzazione della promessa messianica, ovvero ad una interiorizzazione del Regno. La crisi dell’escatologia determinata dal ritardo della parusia, diventa per Paolo una «crisi di coscienza». Questo gesto, decisivo non solo per il futuro del cristianesimo ma per l’intera tradizione occidentale, è stato, invece, trascurato dall’interpretazione di Heidegger che, forse, avrebbe potuto, alla luce della sua successiva decostruzione del pensiero metafisico, leggere Paolo come un precursore di Cartesio e della modernità, la quale, almeno fino a Nietzsche, della coscienza ha fatto la chiave di volta del rapporto tra l’uomo e l’essere. Come acutamente nota Jacob Taubes, «volgendo l’esperienza messianica all’interno, Paolo apre la porta alla coscienza introspettiva dell’Occidente».26

Tale gesto consente a Paolo di fondare l’esistenza cairologica27 dei primi cristiani nell’essere attuale in Cristo; ciò comporta una indifferenza ed estraneità tipicamente gnostica nei confronti del mondo: in questo catacombale ritiro ascetico le comunità cristiane resistono nei secoli delle persecuzioni; ma l’angoscia e il dubbio crescono nell’intimo di una coscienza gravata da un carico insopportabile, si diffondono gli «schernitori beffardi» che urlano ciò che nessuno aveva ancora avuto il coraggio di confessarsi: «Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione» (2 Pt 3, 4). Ci si avvia allora gradualmente verso quel dissolvimento dell’escatologia nella costituenda teologia che segnerà l’intera tradizione cristiana successiva, consacrando, sotto il potente influsso della sensibilità gnostica28, la centralità dell’aspetto psicologico della redenzione. È attraverso la gnosi, prima, e il neoplatonismo, poi, che si compie quella ellenizzazione del cristianesimo — su cui Heidegger punta il dito già nel suo corso su Agostino29 — responsabile dell’occultamento delle originarie determinazioni esistenziali che erano alla base dell’esperienza di vita delle comunità cristiane cui Paolo si rivolgeva, unico modello in Occidente di una effettiva realizzazione della temporalità cairologica.

Con lo svanimento dell’attesa del Regno che è insieme celeste e terrestre30, che è pianto ricoperto di consolazione, lacrima avvolta nella carezza, diviene lacerante la separazione tra l’anima del singolo, tutta dedita alla preghiera e agli esercizi ascetici di redenzione dal peccato e dal mondo delle tenebre in cui è imprigionata, e il trascorrere della vita nella caducità e mutevolezza di una creazione in cui, sempre più invisibili si celano i semi del Regno a-venire; nell’originario annuncio cristiano, invece, il mondo vinto non era altro che il mondo reso trasparente dalla luce del messia; non, dunque, un altro mondo, ma questo stesso mondo, se pure trasfigurato, incrinato, spezzato, sconvolto dal rivolgimento escatologico.

3. «Come un ladro nella notte» — La veglia

Nel suo studio su San Paolo, Alain Badiou definisce Paolo un «pensatore-poeta dell’evento».31 È proprio a partire dalla vigile attesa dell’accordo armonico dell’evento dell’essere che va interpretata la lettura heideggeriana della tematica apocalittico-escatologica in Paolo, così decisiva per l’intero suo cammino di pensiero. Se, infatti, l’interpretazione heideggeriana del cristianesimo delle origini è apparsa ai primi commentatori32 come una strumentale appropriazione di un particolare fenomeno esistenziale funzionale al progetto dell’«ontologia fondamentale» poi sviluppato in Essere e tempo, con il rischio, dunque, di un processo di svuotamento e di formalizzazione dei tratti peculiari dell’attesa messianica, ad una analisi più attenta, aperta agli sviluppi ulteriori del pensiero di Heidegger e, soprattutto, consapevole della successiva elaborazione dell’Ereignisdenken (dai Beiträge fino a Tempo ed essere), i rapporti di Heidegger con il cristianesimo paolino e, tramite esso, con la tradizione apocalittico-gnostica e con l’ebraismo, risultano assai più complessi e degni di indagine.

L’esigenza che spinge Heidegger ad interrogare l’esperienza di vita delle prime comunità cristiane, non è propriamente religiosa. Egli ricerca un fenomeno esistenziale che porti alla luce quella effettività della vita attraverso cui realizzare una nuova determinazione della fenomenologia e della filosofia in generale: l’esperienza della fede deve diventare decisiva nell’abbandono da parte del pensiero dello sguardo oggettivante sul mondo e nel suo rivolgersi alle determinazioni storico-temporali dell’esistenza.

Tutto il cammino di pensiero di Heidegger è segnato da questa lettura di Paolo, quasi ‘impressionato’ dalla caratterizzazione dell’esistenza cristiana come preoccupazione e cura [Bekümmerung], urgenza della chiamata [Berufung], vigilanza e attesa, a tal punto che è possibile rintracciare i segni della temporalità cairologica in tutta la successiva elaborazione della questione della temporalità come orizzonte generale di manifestazione dell’essere intorno a cui il suo pensiero si aggira come uno spettro inquieto dal periodo di Essere e tempo fino agli ultimissimi anni. La parusia, in quanto traccia originaria del destino di «presentificazione» dell’essere, diviene lo spettro della sua meditazione, cui l’estremo ed arduo sentiero dell’Ereignis cercherà infine di corrispondere.

Nelle pagine conclusive di Totalità e infinito Emmanuel Lévinas si sofferma sulla questione del tempo, dandone una interpretazione messianica che si richiama chiaramente alla religiosità paolina, e che, nonostante l’ennesima polemica sferrata contro la filosofia della finitezza di Heidegger, coglie — solo casualmente? — il senso ‘infinito’ della concezione della temporalità cairologica sviluppata da Heidegger a partire dal confronto con Paolo. Dopo aver criticato il tempo matematico e la durata continua di Bergson, Lévinas individua il tratto peculiare del tempo nel suo essere incessante rottura della continuità e dell’immanenza dell’essere:

L’essenza del tempo consiste nell’essere un dramma, una molteplicità di atti in cui l’atto successivo risolve il primo. L’essere non si produce più in un solo istante, irremissibilmente presente. La realtà è quella che è, ma sarà ancora una volta, un’altra volta liberamente ripresa e perdonata. […] La risurrezione costituisce l’evento principale del tempo. Non c’è quindi continuità nell’essere. Il tempo è discontinuo. Un istante non esce dall’altro senza interruzione, con un’estasi. L’istante nella sua continuazione trova una morte e risuscita. Morte e risurrezione costituiscono il tempo.33

L’esperienza della cristianità delle origini è per Heidegger la grande immagine storica della discontinuità del tempo, il primo atto di radicale sovversione ‘esistenziale’ della temporalità così come essa si era costituita all’interno della metafisica platonico-aristotelica poi dominante in tutta la storia dell’Occidente. Il kairós paolino è l’in-cisione dell’eternità nel tempo cronologico, è lo squarcio, l’intima ferita e la sanguinante lacerazione dell’essere: l’istante34 è morte e rinascita del tempo, esposizione dolorosa del suo vulnus, ostensione dello scandalo della morte e del dono supremo del perdono, ovvero della resurrezione. Vivere intimamente questa temporalità significa, come nelle prime comunità cristiane, de-cidersi per il più radicale «abbandono del tempo», abbandono al suo costitutivo ‘fallimento’ così come al suo dono estremo. Ma ciò necessita una peculiare determinazione dell’esistenza che, sospendendola nell’incertezza dell’abbandono, nel «tempo morto» dell’interruzione d’essere, dispieghi la sua essenziale apertura all’evento in quanto avvento della promessa; tale decisiva determinazione è la «vigilanza estrema»: «Il compimento del tempo non è la morte, ma il tempo messianico nel quale il perpetuo si muta in eterno. Il trionfo messianico è il trionfo puro. […] Questa eternità è una nuova struttura del tempo od una vigilanza estrema della coscienza messianica?».35

L’intima struttura del tempo appare essere di tipo messianico solo nell’atteggiamento esistenziale dell’estrema vigilanza, quella stessa vigilanza a cui Paolo richiama incessantemente i fedeli: «Non apparteniamo alla notte e alla tenebra: dunque non dormiamo come gli altri, ma rimaniamo svegli e sobri!».36 Anche noi, come i primi cristiani, siamo consegnati, oggi più che mai, all’ingiunzione dell’estrema vigilanza: il nostro tempo febbrile, in cui tutto è tenebra rischiarata dalla fredda luce dell’Aufklärung, è il tempo della veglia. Grande è il rischio, allora, di cedere alla tentazione del sonno, di adagiarci nel torpore delle tenebre che sempre di più si addensano. In quanto occidentali, noi siamo, infatti, gli abitatori della terra della sera [Abendland]; ma siamo anche coloro che nella notte, nella «sovrabbondanza, […] non ancora decisa, del giorno che essa tiene in serbo»37, devono restare svegli e vegliare nell’attesa della stella del mattino; coloro che nella notte e per oscuri sentieri, sopra ponti vacillanti, preparano e ad-tendono al lampo del passaggio del dio:

La notte è il tempo che serba il divino trascorso e cela gli dèi che vengono. Giacché la notte, in tale annottare che serba e nasconde non è «niente», essa possiede anche la sua propria, ampia chiarezza e la quiete della tacita preparazione di un qualcosa che viene. Di ciò fa parte un vegliare peculiare, che non essendo insonnia, non dipende dal sonno, ma veglia sulla notte e la protegge. La lunghezza di questa notte può certo spossare a volte la capacità dell’uomo, spingendo così a desiderare di sprofondare nel sonno. Ma la notte, come madre del giorno che porta il sacro, è notte sacra.38

Il restare «svegli e sobri» non è, quindi, semplicemente un essere ‘insonni’, ma un vegliare sulla notte, proteggendo il suo luminoso segreto e custodendo in essa la silenziosa maturazione [Zeitigung] dell’essere e la venuta imprevedibile del dio.

L’incessante veglia, che caratterizza l’uomo dell’epoca finale della modernità, in quanto insonne «funzionario della tecnic»39, è, alla fine della modernità, l’estremo sovvertimento della veglia dei primi cristiani, la quale era, allo stesso tempo, veglia funebre per la morte di Cristo e veglia di speranza e di attesa per il suo imminente ritorno. L’interesse di Heidegger si concentra proprio su questo riflesso escatologico che egli cerca di scandagliare, allo stesso modo in cui nei decenni successivi cercherà di ritrovare un possibile varco al di là dell’ultimo declinare della modernità nel primissimo inizio del pensiero greco. In questo senso il fenomeno esistenziale delle prime comunità cristiane, collocandosi in una zona d’ombra della metafisica, costituisce un presagio dell’aurora di un altro pensiero.

L’aspetto che, della religiosità del protocristianesimo, più sollecita l’interesse di Heidegger — la cui interpretazione, a dispetto del titolo del corso, non può essere inclusa nella tradizione degli studi di fenomenologia della religione — è quello della totale coincidenza del fenomeno religioso con la temporalità messianica e la vigilanza estrema. Egli, infatti, così enuncia preventivamente le due determinazioni fondamentali della religiosità del protocristianesimo: «1. La religiosità protocristiana si dà nell’esperienza protocristiana della vita ed è essa stessa un’esperienza siffatta. 2. L’esperienza effettiva della vita è storica [historisch]. La religiosità cristiana vive la temporalità in quanto tale».40

Il fenomeno centrale che, agli occhi di Heidegger, consente l’esplicazione di questi due tratti fondamentali della religiosità e dell’esperienza di vita dei primi cristiani è l’annunciazione [die Verkündigung], attraverso cui è anche possibile cogliere i rapporti vitali che Paolo intrattiene con le sue comunità. In particolare Heidegger si sofferma sulla modalità dell’annunzio, sul modo in cui esso viene pronunciato, potremmo quasi dire, sulla sua peculiare ‘sonorità’; ma ciò non vuol dire che egli trascuri il contenuto dell’annunciazione per concentrarsi solo sulla sua forma o sul suo senso trascendentale, dal momento che qui si tratta di un’annunciazione di per se stessa ‘pura’, anche se ciò non va inteso in senso kantiano. L’annuncio della parusia non è altro che la manifestazione di un angoscioso presagio che precipita l’uomo in una situazione di necessità [Not] e di assoluta estraniazione dal mondo, sospendendolo sull’abisso del nulla e del possibile.

L’annuncio di Paolo, la buona novella di Gesù, non sono forse altro che promesse indeterminate di un’apertura, di un avvenire. Nell’accoglienza che ognuno concede a tale annuncio e nella trasformazione che da essa scaturisce nella propria esistenza, Heidegger vede il carattere fondamentale dell’esperienza di vita del protocristianesimo. In ciò consiste la decisiva attuazione della vita [Vollzug des Lebens].41 Il significato fondamentale risiede, per Heidegger, nel come di tale attuazione che indirizza la ricerca fenomenologia verso quella originarietà dello storico nella sua assoluta unicità e irripetibilità.42 Perché sia possibile cogliere l’essenziale storicità dell’esistenza è necessario attuare una radicale trasformazione in senso fenomenologico della concettualità filosofica che sarebbe, invece, rimasta sostanzialmente immodificata fin dai tempi di Socrate.43 È attraverso lo sguardo fenomenologico che la «situazione»44, cui si rivolge l’indagine, perde la sua determinazione storico-oggettiva [objektgeschichtlich] per assumere quella storico-attuativa [vollzugsgeschichtlich], avvicinandosi così al terreno dell’esperienza concreta della vita effettiva.

Mediante l’applicazione del metodo fenomenologico alla storicità dell’esperienza della vita, Heidegger crede di poter combattere le tendenze teoreticiste della filosofia del suo tempo, soprattutto del neokantismo45, e le tentazioni idealistiche che andavano affiorando nello sviluppo del pensiero del suo stesso maestro Husserl. Il suo scopo è quello di riportare la filosofia alle fonti primarie dell’esistenza, dal momento che essa non è altro che «ritorno allo storico-originario [Rückgang ins Urspünglich-Historisch ist die Philosophie]».46

La comprensione della storicità originaria dell’esistenza non è, però, qualcosa di ulteriore e di estrinseco rispetto alla concreta esperienza di vita, ma è radicata in essa come sua costitutiva determinazione esistenziale. Anche questo Heidegger lo esperisce tramite l’analisi di quel particolare tipo di sapere che caratterizza — come testimoniano le parole di Paolo — la comunità dei Tessalonicesi. Secondo Heidegger, infatti, Paolo, nel suo rapportarsi ai fedeli, fa esperienza della loro mutata condizione esistenziale [das Gewordensein] e, contemporaneamente, della loro consapevolezza circa tale mutazione.47 Questo particolare tipo di sapere, che scaturisce dalla «situazione» dell’esperienza cristiana di vita, determina il senso della effettività, su cui Heidegger sarebbe tornato nel semestre estivo del 1923 dedicato all’eremeneutica dell’effettività. Così Heidegger esprime l’intima connessione tra l’esperienza esistenziale dell’annuncio e l’attuale condizione di vita dei primi cristiani: «L’essere divenuti [das Gewordensein] non è un avvenimento qualsiasi nella vita, bensì è costantemente coesperito, in modo che il loro essere attuale è il loro essere divenuti. Il loro essere divenuti è il loro essere attuale».48 Il Gewordensein viene, quindi, identificato con l’accettazione dell’annuncio che avviene nella «più grande afflizione», ma tale accettazione consiste per i cristiani anche nel ricevere, come dono insperato, la gioia dello Spirito Santo (1 Ts 1, 6).

L’accogliere l’annuncio comporta, dunque, nient’altro che un radicale rivolgimento [Umwendung] del modo di comportarsi nella vita effettiva e Paolo attribuisce ciò alla nuova posizione che i credenti assumono al cospetto di Dio. Questo rivolgimento che si può realizzare, pertanto, solo dentro l’orizzonte di senso dell’attuazione [Vollzugsinn] dell’esistenza, si esplica in due direzioni: «duleuein e anamenein, un mutare dinanzi a Dio e un’attesa [erharren49 ansiosa dell’avvento del suo Regno.

Accogliere l’annuncio consiste, infine, nell’accedere ad una condizione di emergenza, necessità e bisogno della vita [Not des Lebens] che sopraggiunge immancabilmente non appena si è prestato ascolto alla chiamata. La mutazione che, allora, colpisce coloro che sono stati chiamati è un rivolgimento, una svolta nella necessità [Wende in die Not] che si compie con assoluta necessarietà [Not-wendigkeit].50 Il divenire sensibili all’appello della chiamata, il prestare ascolto alle parole dell’annuncio, non dischiude immediatamente un orizzonte di pace e sicurezza, ma, al contrario, precipita in uno stato di angustia ed apprensione [Bedrängnis] in cui l’attesa della parusia diviene assillo ed angoscia. Questa angustia, in quanto preoccupazione ed inquietudine [Bekümmerung], è una caratteristica fondamentale del protocristianesimo che ha continuato a stimolare la meditazione di Heidegger, fecondandola di un vero e proprio pathos dell’emergenza.

Il tema della Not ritorna in vari luoghi delle opere di Heidegger, soprattutto nei Beiträge e nei corsi degli anni Trenta e Quaranta, ma raggiunge la sua più radicale formulazione in uno scritto della metà degli anni Quaranta51, nel momento, cioè, in cui l’emergenza e l’apprensione si manifestavano come un irrevocabile destino planetario e Heidegger stesso scivolava nell’abisso del ‘fallimento’. In queste pagine Heidegger parla di necessità dell’essere [Not des Seins] stesso, come della sua più intima essenza, misconosciuta ed occultata nell’epoca in cui il nichilismo dispiega la sua massima potenza e assume il predominio sulla totalità degli enti. La necessità e l’urgenza [Dringlichkeit] dell’essere non sono altro che il suo incessante aver bisogno di asilo, di custodia e di salvaguardia nell’apertura del Dasein; ma, nell’epoca della «notte del mondo», questo bisogno viene sistematicamente disatteso dall’uomo, disperso e distratto dai suoi trionfi tecnico-umanistici; così l’estrema necessità [Not] dell’essere si manifesta paradossalmente proprio come assenza di necessità, come apparente calma e sicurezza:

L’assenza di necessità, come la velata necessità estrema dell’essere, domina tuttavia proprio nell’epoca dell’oscuramento dell’ente e dello scompiglio, della violenza dell’umano e della sua disperazione, dello sconvolgimento del volere e della sua impotenza. Sconfinate sofferenze e smisurato dolore annunciano, apertamente e tacitamente, che lo stato del mondo è ovunque lo stato colmo di necessità. Nondimeno, nel fondamento della sua storia esso è privo di necessità. Ma questa è, secondo la storia dell’essere, la sua necessità somma e al tempo stesso più occulta. È infatti la necessità dell’essere stesso.52

Nell’epoca dell’erramento del mondo, in cui l’uomo rischia di smarrire la sua stessa essenza, anche la necessità, intesa come costrizione e impellenza, come imperiosa incombenza dell’appello, scompare dall’orizzonte del pensiero; eppure, proprio dall’apparente mancanza di necessità si leva l’appello estremo che, come un’inquietante richiamo, accenna nella direzione dell’evento dell’essere, ovvero dell’essere come evento. Ma corrispondere all’estrema necessità dell’assenza di necessità [Not der Notlosigkeit] significa innanzi tutto riuscire ad esperire l’assenza di necessità come la necessità stessa che essa è essenzialmente, cioè scorgere il pericolo supremo dell’abbandono dell’essere e avere la forza di andare incontro ad esso. Il pensiero che scorge l’assenza di necessità come la suprema emergenza, è quel pensiero capace di pensare andando incontro all’essenza del nichilismo, ovvero all’«avvento del sottrarsi dell’essere in riferimento all’occupazione del suo asilo, cioè dell’essenza dell’uomo storico»; ciò significa «lasciarsi coinvolgere nell’estrema messa in pericolo dell’uomo, cioè nel pericolo dell’annientamento della sua essenza».53

Il mutamento di cui i Tessalonicesi sono consapevoli e di cui Paolo si rallegra (1 Ts 2; 3) indica l’essere divenuti sensibili a tale angosciosa emergenza che si esprime nell’apprensione per il ritardo del ritorno del Signore. Questa apprensione [Bedrängnis], in cui risiede l’essenziale della cristianità al di là di qualunque principio teologico, e che può apparire come insicurezza, smarrimento e debolezza, è, invece, la sua vera potenza rivoluzionaria, poiché in essa si concentrano i germi della rivolta (heideggerianamente della «svolta») escatologica del mondo; attraverso di essa il debole sguardo dell’angelo cade come folgore sulla «notte del mondo» della moderna Endzeit ed ogni ente viene rinnovato, ricreato e trasfigurato [verklärt]. Il compimento della potenza si dispiega nella «debolezza» dello sguardo estatico della fremente attesa, in grado di sostenere tutte le catastrofi della storia e la storia stessa in quanto catastrofe e ‘fallimento’.

A Paolo, che invoca il Signore perché lo liberi dall’insopportabile tormento della «spina nella carne», ovvero dalle resistenze del mondo, questi replica: «Ti basti la mia grazia, poiché la potenza ha compimento nella debolezza» (2 Cor 12, 9). E Paolo aggiunge: «Per questo mi compiaccio delle mie debolezze, delle prepotenze, delle costrizioni, delle persecuzioni e delle angustie per Cristo, poiché quando sono debole, allora sono potente» (2 Cor 12, 10) .54

Ma «fino a quando» durerà tale angustia?55 Quanto lunga sarà la costrizione, l’angoscia e l’im-potenza che gli ad-tendenti sperimentano nel mondo? Fino a quando la morte agiterà la sua falce sul campo delle nostre esistenze? Quanto ancora crescerà il deserto della terra violentata e devastata? Quando cadrà Babilonia e l’orrore del mondo? Fino a quando echeggerà ancora l’urlo nel silenzio? «Guardia! Che cosa porta la notte? / Guardia! Che cosa porta la notte?». E ancora la stessa risposta di sempre: «La guardia dice: / Il mattino che sta venendo / È altra notte» (Is 21, 11-12).

La resurrezione di Cristo, così come ogni gesto di tenerezza che ci sottrae all’angustia e all’apprensione del mondo56, è, per i credenti, solo una «primizia» del Regno; ma quando arriverà il raccolto, quando verrà il compimento [Vollendung] del tempo? Quando si attuerà la parusia?

A questa domanda Paolo non risponde attraverso un calcolo cronologico del tempo che ancora manca all’avvento del giorno del Signore, piuttosto egli si limita ad ammaestrare sul modo in cui va vissuta l’attesa e sostenuta l’angustia del tempo della fine (1 Ts 5, 1-12): «Decisivo è il modo in cui mi rapporto a ciò nella vita autentica [eigentlichen]. Ne risulta il senso del “quando”, il tempo e l’attimo».57 La domanda sul «quando» della parusia non è una questione conoscitiva; essa, piuttosto, rimanda a quel particolare sapere dell’autocomprensione esistenziale che i Tessalonicesi posseggono in quanto Gewordene, ossia in quanto colpiti e trasfigurati dall’annuncio, per cui ciò che è decisivo in tale domanda dipende dalla vita nella sua irriducibile effettività:

Mediante la semplice analisi della coscienza di un evento futuro non giungeremo mai al senso del riferimento della parusia. La struttura della speranza cristiana, che in verità è il senso del riferimento nei confronti della parusia, è radicalmente diversa da ogni attesa [Erwartung]. […] Nella misura in cui è concepito nel senso di un tempo «obiettivo» conforme all’atteggiamento, il «quando» è già pensato in modo non originario. […] Paolo non dice «quando», perché tale espressione è inadeguata a ciò che va espresso, è insufficiente.58

Il «quando» della parusia viene riassorbito nel «come» della vita effettiva; esso rimanda sempre ad una decisione sul proprio esserci che può esplicarsi secondo due modalità corrispondenti a due forme dell’attuazione della vita, una autentica e l’altra inautentica. Scrive Heidegger, commentando il celebre quinto paragrafo della Prima Lettera ai Tessalonicesi:

Coloro che in questo mondo trovano quiete e sicurezza sono coloro che si attaccano al mondo, poiché esso offre loro pace e sicurezza. […] Il loro attendere si assorbe in ciò che la vita arreca loro. E poiché vivono in questa attesa, la rovina li colpisce in modo che non possono sfuggirle. Non possono salvare se stessi perché non hanno se stessi, perché hanno dimenticato il proprio sé; perché non hanno se stessi nella chiarezza del sapere autentico.59

Coloro che invece posseggono la luce del sapere su loro stessi (1 Ts 5, 5) non si dis-perdono nella «cattiva infinità» dell’attesa proiettandosi in un futuro dimentico della cogenza e decisività del Vollzug. Essi, piuttosto, riconducono la parusia all’attuazione della vita stessa, alla de-cisione in cui si articola la connessione tra passato e futuro, tra annuncio e promessa; così facendo sperimentano una temporalità affatto particolare, del tutto estranea a qualunque concetto oggettivo di tempo. I primi cristiani, nella loro religiosità, che, peraltro, coincide con la loro esperienza di vita, vivono una temporalità escatologica; vivere tale temporalità significa rinunciare a qualunque sicurezza e accettare la più assoluta precarietà ed irrisolvibile problematicità. Coloro, infatti, che vivono nella pace e nella sicurezza, si impegnano in compiti chiari e precisi affidandosi a ciò che la vita loro concede; così facendo, essi consumano i frutti del presente che il loro fecondo progresso laboriosamente produce, senza riuscire, però, a riconoscere il gusto della «primizia» della parusia, il profumo della promessa. Essi restano nell’oscurità, sordi all’appello della chiamata, e con passo automatico misurano i sentieri, grevi d’ansia, della «notte del mondo».

Al loro vuoto entusiasmo si contrappone il passo lento dei vegliardi della Terra, i «figli della luce e del giorno» (1 Ts 5, 5), coloro che, nell’estrema lucidità del tramonto del mondo, nel fallimento di ogni vana attesa di redenzione che si consuma nella follia del progresso e nell’inquietudine della volontà di potenza, restano sobri e vegliano sulla promessa dell’Ultimo che si annuncia nell’apparire dell’Estremo.

Alla disperata angoscia che coglie chi affannosamente ricerca la quiete e la sicurezza del presente, all’ammiccante smorfia dell’ultimo uomo avido di felicità, si oppone la vigilante attesa di chi, invece, ha rinunciato ad ogni illusione di sicurezza e sostiene l’inquietudine dello smarrimento e del buio con il debole presagio della vicinanza all’origine, della prossimità del volto luminoso del tempo che i primi cristiani chiamavano parusia. Essi sono quei «pochi e rari» che a passi lenti seminano d’attesa il campo dell’essere perché in esso si illumini l’Ereignis, sono i pastori che «abitano, invisibili, fuori del deserto»; seguono sentieri tracciati nella terra, solchi invisibili che solo il loro rispettoso ad-tendere sa riconoscere; a passi lenti, camminano sulle vie del destino in attesa di un cenno, in ascolto di una voce che li chiami. Solo nel cammino, infatti, può ad-venire la parusia, in quel movimento in cui la tensione dell’attesa si incontra con l’infigurabile dell’evento, che pure — come il Cristo risorto che appare ai discepoli — si manifesta nel mondo.

È proprio sulla visibilità nel tempo dell’evento escatologico che metterà fine al tempo, che si concentra la Seconda Lettera ai Tessalonicesi. Nell’interpretarla Heidegger critica la tradizione esegetica che ha sempre visto nell’introduzione dei segni preliminari della parusia del Signore e del katéchon un venir meno dell’angosciosa incombenza della parusia, quasi uno stratagemma che Paolo avrebbe escogitato per tranquillizzare i fedeli e mitigare l’annuncio dirompente della Prima Lettera. Per Heidegger, invece, nella Seconda Lettera non vi è nessun ridimensionamento del messaggio escatologico, anzi in essa si trova una tensione ancora maggiore: «Tutta la lettera è ancora più angustiante della prima, e non comunica un ripensamento, bensì un’accresciuta tensione».60

Gli eventi che precedono la parusia, e soprattutto l’apparizione dell’Anticristo, sono momenti decisivi che sollecitano una presa di posizione da parte di ciascuno e che accrescono la necessità dell’attesa. Ma l’annuncio della Prima Lettera secondo cui «il giorno del Signore viene come un ladro nella notte» (1 Ts 5, 2), è stato solo da alcuni compreso correttamente; gli altri abbandonano il lavoro e passano il tempo a cianciare nella noia di una continua attesa. Coloro che, invece, lo hanno compreso devono essere disperati, poiché la necessità [Not] cresce ed ognuno sta solo davanti a Dio. A questi Paolo adesso risponde che la necessità è un indizio della chiamata. «L’evento [das Ereignis] della parusia secondo il senso del suo accadere è dunque riferito agli uomini, che possono essere distinti in chiamati e reietti».61 L’aspetto teoretico-dogmatico di questa lettera è del tutto dipendente dall’attuazione dell’esperienza cristiana di vita e dal suo contesto spirituale. È su questo piano, infatti, che i cristiani si rapportano agli eventi escatologici e non su un piano meramente teoretico-dottrinale. L’accettazione o il rifiuto della chiamata avvengono sempre con una decisione che si colloca all’interno della situazione determinata dalla tensione dell’attesa e dalla cura [Bekümmerung]62 che tale situazione richiede.

Proprio in quanto l’Anticristo con i suoi prodigi e sconvolgimenti dà la «sensazione» della parusia63 — così come gli idoli si spacciano per Dio — esso costituisce l’estrema prova cui i credenti sono sottoposti. La sua apparizione illumina la tendenza deiettiva [abfallende] della vita, quella cioè, secondo cui, l’attesa della parusia viene intesa solo in termini oggettivi; essa, allora, non è solo un accadimento temporaneo, ma qualcosa in cui si decide il destino di ognuno. Coloro che si abbandonano [sich verfallen] all’Anticristo, vanno in rovina [verfallen] in quanto perdono la possibilità di esperire pienamente l’effettività della vita. Coloro, invece, che vivono l’attesa secondo il senso dell’attuazione [Vollzugssinn] della vita effettiva riescono a riconoscere l’inganno dell’Anticristo.

È proprio nel confronto con la concezione paolina dell’avvento dell’Anticristo come decisivo «segno del tempo»64 e del suo ‘fallire’, che maturano i primi germi della nozione heideggeriana di Ereignis la quale, nei decenni successivi, costituirà la questione decisiva, se pure quasi mai pubblicamente enunciata, del suo pensiero. Per Paolo, infatti, l’evento, a differenza dei semplici «fatti», non rientra nella storia ma è grazia [charis], donazione pura; esso non può essere né conosciuto né previsto in alcun modo, ad esso si può solo prestare fede.65 L’evento è consegnato all’incertezza dell’accettazione da parte dei fedeli che da esso vengono interpellati: esso è nudo, senza prove, senza miracoli, senza segni irrevocabilmente probanti. La precarietà e fragilità dell’evento, così inteso, è felicemente descritta dalla celebre immagine che si trova in 2 Cor 4, 7: «Ma questo tesoro l’abbiamo in vasi di coccio, affinché questa potenza smisurata sia quella di Dio e non provenga da noi». Il tesoro è l’evento della grazia che coloro che sono stati chiamati devono umilmente custodire e mantenere proprio nella sua estrema fragilità, senza credere di poter fondare su di esso una qualunque solida certezza o legge vincolante. La supremazia della grazia sulla legge, su cui insiste in più luoghi Paolo, si realizza tramite la sua «sovrabbondanza» nei confronti del peccato.

Questo carattere di sovrabbondanza, di eccedenza della grazia rispetto alle costrizioni della legge, che Paolo scorge soprattutto nell’evento fondante della resurrezione di Cristo, diverrà, attraverso la mediazione del ripensamento della aletheia, uno dei tratti più importanti della figura heideggeriana dell’Ereignis. Heidegger, però, sin dal corso su Paolo, si concentra, non tanto sull’evento già avvenuto della morte e resurrezione di Cristo, ma su quello atteso della parusia del Signore alla fine dei tempi e in un’annotazione pone schematicamente i termini di un possibile confronto tra parusia ed Ereignis: «Parusia — Ereignis, ‘come’, ‘chi’? Il riferimento nei loro confronti — un veniente [ein kommendes]. Com’è presente, quale obiettività ha nel conoscere? Questo stesso una fede!! Il ‘come’ del riferimento trova la sua motivazione essenzialmente nell’attuazione (vita effettiva)».66 Tale rapporto con cui l’evento imprevedibile ed improvviso della parusia si annuncia nel «come» della vita effettiva, nella sua emergenza ed angustia, si fonda su un’elezione che, a sua volta, si esplica nella chiamata che incombe sull’esistenza dei primi cristiani.

4. Parusia e Anwesenheit

Ciò che, tuttavia, nel contesto del protocristianesimo è determinante, rispetto alla venuta della parusia e al suo appello, è il «chi» che Heidegger significativamente accosta al «come» della vita effettiva. Se, infatti, sarà proprio a partire dalla modalità esistenziale rinvenuta nella vita dei primi cristiani, che Heidegger svilupperà la sua ermeneutica dell’effettività e poi l’analitica del Dasein, ciò che resta estraneo all’orizzonte di pensiero heideggeriano, e che, sempre più, gli si rivelerà come il nucleo dell’intera tradizione onto-teologica, è la presupposizione di un’entità — sia esso il Dio personale della tradizione cristiana piuttosto che l’idea platonica o la sostanza aristotelica — a fondamento della parusia e quindi dell’evento. Le descrizioni evangeliche della parusia esemplificano la venuta del Figlio dell’uomo nel giorno del Signore come il ritorno inaspettato del padrone di casa (Mt 24, 42-51) o l’arrivo dello sposo nella notte (Mt 25). Nessuno, tranne il Padre, conosce «il giorno e l’ora» del suo avvento, ma nessuno dubita che quando il Figlio dell’uomo verrà «sulle nubi con grande potenza e gloria» (Mc 13, 26) la sua presenza sarà piena, inequivocabile e a tutti manifesta.

La veglia, che segna l’intera esistenza del cristiano — trasformandola in una perpetua vigilia — e lo destina incessantemente all’orizzonte escatologico, ha come sicuro — se pure temporalmente incerto ed indeterminabile — compimento il darsi in presenza della parusia del Signore. L’evento che sollecita l’attesa dei cristiani e infuoca la predicazione di Paolo è il pieno esaudimento della promessa, vita beata ed eterna in quanto sempre presente, con cui l’inquietudine della vita effettiva viene definitivamente placata.

Anche la concezione paolina della parusia rientra, dunque, per Heidegger, in quella determinazione fondamentale dell’essere dell’ente che, formulata per la prima volta da Platone e Aristotele, ha dominato l’intero corso del pensiero occidentale, secondo cui l’essere viene pensato come presenza. Tale determinazione fondamentale è, tuttavia, rimasta non interrogata in quanto sommamente manifesta. Conseguentemente «tutta la storia della metafisica […] si articola come la successione delle differenti forme fondamentali dell’essere dell’ente che poggia sul terreno della determinazione iniziale, secondo la quale l’“essere” viene inteso come parusia».67

Il primo impiego filosofico di questo termine lo troviamo nella dottrina platonica delle Idee, secondo cui tra le Idee intelligibili e le cose sensibili sussiste un rapporto di imitazione, partecipazione, comunanza ma anche di presenza [parusia]68, nel senso che l’intelligibile è presente nel sensibile, come la causa è presente nel causato, il principio nel principiato, la condizione nel condizionato. La parusia, secondo Platone, indica, dunque, il grado di adeguazione della cosa alla «normatività ontologica» dell’Idea, ed essendo, inoltre, le Idee il vero essere, si viene a creare una strettissima connessione, quasi un’identificazione, tra essere ed essere-presente.

Tale determinazione dell’essere come esser-presente è anticipata già nel linguaggio poetico arcaico: Heidegger, commentando un passo dell’Iliade, tenta di scorgere il senso greco originario della presenza, soffermandosi sulla figura del veggente Calcante che «conosceva ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu», raccogliendo nel suo sguardo tutto l’essente-presente [Anwesende]69 nel suo non-esser-nascosto [Unverborgenheit], a prescindere dalla suddivisione cronologica in passato, presente e futuro. Tale determinazione dell’esser-presente [Anwesen] che si concentra nel significato intrinsecamente ambiguo del participio eon, «essente»70, e che è all’origine della metafisica, è stata progressivamente sovvertita dallo sviluppo successivo del pensiero filosofico ed è quasi irriconoscibile agli occhi dei moderni, ultimogeniti di quell’inizio principiale:

Quando noi, oggi, ultimogeniti, parliamo di qualcosa di «presente» intendiamo l’istantaneo e ce lo rappresentiamo come qualcosa che è nel tempo; l’istante vale come una fase del corso del tempo. Oppure intendiamo il ‘presente’ sulla scorta di ciò che ci sta innanzi come un oggetto, vedendo nell’oggetto l’oggettivo d’un soggetto rappresentantesi l’oggetto. Ma se usiamo ‘presente’ come la determinazione più rigorosa degli eonta, saremo tenuti a intendere il ‘presente’ a partire dall’essenza degli eonta, e non viceversa. Ma eonta è anche il passato e il futuro. L’uno e l’altro sono maniere dell’essente presente [Anwesende].71

L’esser-presente in quanto Anwesen connota il manifestarsi, in sé inapparente, dell’essere negli enti, siano essi passati, presenti o futuri. Ciò che, invece, segna l’abbandono della concezione greca-originaria degli eonta in quanto Anwesende è l’identificazione, che avviene, secondo Heidegger, già in Platone ma soprattutto in Aristotele, dell’esser-presente con il «presente» [Gegenwart] inteso come stabile e perdurante presenza, la riduzione degli eonta a ta pareonta. Ed è proprio attraverso la lettura dei «testimoni della fede» come Paolo, Agostino e Lutero che Heidegger riuscirà a scorgere questa decisiva declinazione in senso metafisico dell’esser-presente, decostruendo, a partire dalla determinazione escatologica della parusia rinvenuta nei testi paolini, la concezione aristotelica dell’ousia, fondamento dell’intera ontologia occidentale.72

Già nel sistema aristotelico l’ambiguità dell’eon è risolta nel senso del predominio della presenza come Gegenwart e quindi dell’enticità. Da allora il senso dell’essere sarà canonicamente determinato come ousia, substantia, praesentia, Anwesenheit: una cosa partecipa all’essere nella misura in cui si presenta [west an], permane in se stessa e così si propone [dar-stellt]. Questa determinazione fondamentale, responsabile di una certa interpretazione del concetto greco di physis, costituisce il senso greco classico — ma non più originario — della comprensione dell’essere come stabilità [Ständigkeit]: «Per i Greci ‘essere’ significa stabilità, e ciò in un duplice senso: 1. Lo stare in sé nel senso del prodursi, del pro-cedere [Ent-stehen]: physis. 2. Lo stare in sé come tale, come qualcosa di ‘stabile’, che rimane, di permanente [Verweilen]: ousia».

La decostruzione del concetto aristotelico di ousia è decisiva per tutto il cammino di pensiero di Heidegger poiché essa va di pari passo non solo con la «distruzione fenomenologica» dell’ontologia classica, ma anche con la critica del «concetto volgare» e cronologico del tempo da cui scaturisce la possibilità di rinvenire una temporalità originaria che sia l’orizzonte di comprensibilità dell’essere e ne costituisca — come il secondo Heidegger tenderà a pensare — l’intima struttura di manifestazione e di donazione. Si può, dunque, distruggere l’ontologia tradizionale solo mettendo radicalmente in questione il suo intimo e per lo più velato rapporto con il tempo. La centralità della problematica della temporalità è, secondo Heidegger, resa evidente dalla stessa «determinazione del senso dell’essere come parusia o ousia, che ha il significato ontologico-temporale di “presenza” [Anwesenheit]. L’ente è concepito nel suo essere come Anwesenheit, cioè viene compreso in riferimento a un determinato modo del tempo, il presente [Gegenwart]».73

Dal momento che essere vuol dire «persistenza nella presenza», nella comprensione tradizionale dell’essere da parte della metafisica vanno sempre più accumulandosi le determinazioni di carattere temporale. Pensare l’essere in base al tempo è così originario e radicato nella tradizione occidentale che tutte le analisi del tempo, dal momento in cui assumono una forma filosofica, a cominciare da quella decisiva di Aristotele, sono, in qualche modo, dipendenti da quella determinazione dell’essere come presenza e persistenza e dunque segnate irrimediabilmente dalla riduzione dell’essere-presente come An-wesen alla presenza come Anwesenheit e al presente come Gegenwart.

Il superamento della determinazione metafisica dell’essere come presenza, che si esplicherà nello sviluppo del concetto di Seinsgeschichte, si compie, invece, come un ‘mancare’ (al)la presenza che è al contempo ‘fallimento’ del presente e della verità intesa come stabile certezza del rappresentare.

Ma è proprio nel tempo, nella riflessione sul tempo, che si rivela l’intima problematicità della nozione di presenza, in quel circolo supremo del pensiero per cui l’ousia — forma trascendentale dell’essere — viene determinata a partire dal presente e il tempo viene indagato metafisicamente come un qualunque altro ente di cui si ricerca l’essenza ossia l’essere. È proprio questo circolo che Heidegger indaga e tenta di scardinare, soffermandosi sull’aporia che esso genera e che ha accompagnato come un cancro del pensiero l’intera tradizione filosofica da Aristotele a Hegel.

Già Aristotele, infatti, percorre fino in fondo il vicolo cieco della determinazione della ‘sostanzialità’ del tempo, affermando che il tempo è ciò che «non è» o che «è appena, e debolmente».74 Pensando il tempo a partire dall’«ora», dal nyn, bisogna necessariamente concludere che esso appartiene più al non-essere che all’essere, in quanto è composto di «istanti», ovvero di qualcosa che non è più o non è ancora, e dunque di non-enti. Aristotele, pertanto, sottomette la problematica del tempo alla determinazione spaziale del nyn come meros, «parte», e di quest’ultima come stigmé, «punto»: è così aperta la via alla spazializzazione e numerazione del tempo che si compirà nella sua matematizzazione operata dalla scienza moderna. Si trova qui in nuce, inoltre, quel collegamento del tempo con il movimento [kinesis] e il cambiamento [metabolé], in particolare il mutamento dell’anima, che lo stesso Aristotele esporrà poco oltre il passo sopra citato75, secondo cui il tempo diviene la forma di ciò che può trascorrere en tè psychè e ciò, da Plotino ad Agostino a Kant, significherà non solo psicologizzare il tempo ma, ancora più radicalmente, considerarlo la forma «pura» di tutti i fenomeni in generale in quanto forma del senso interno. La coscienza diviene allora il luogo di misurazione e, allo stesso tempo, di fondazione del tempo, e ciò vale per tutta la filosofia moderna almeno fino a Husserl.

Dal momento in cui contiene come suo componente fondamentale il ni-ente, il tempo non può partecipare della presenza, della sostanza e quindi dell’essere metafisicamente inteso.

Questo circolo di essere e tempo mette in atto quella elusione della domanda sul tempo su cui segretamente poggia l’intero pensiero metafisico e che Sein und Zeit per la prima volta porterebbe alla luce. Heidegger, cioè, tenterebbe di pensare il tempo al di là della dialettica trascendentale in cui il circolo si irretisce e della stessa sua fondazione nella coscienza di matrice sia kantiana che fenomenologica76, in direzione di quel margine della metafisica in cui la presenza come Gegenwart e come Anwesenheit lascia spazio, si dirada [sich lichtet], nel venire della parusia, ovvero nella parusia come a-venire. Ma l’origine remota di questo tentativo heideggeriano è celata nelle pieghe della stessa Fisica aristotelica, considerata il luogo inaugurale della determinazione metafisica del tempo e precisamente là dove lo Stagirita discute dell’impossibilità della co-esistenza dei vari «ora» (IV, 218a): ogni nyn, infatti, non può coesistere, come ora attuale e presente, con un altro ora e ciò coincide con la sua stessa essenza come presenza. L’ora è — dunque — l’impossibilità di coesistere con sé. In quanto intima non-co-incidenza con sé, il nyn cela una strutturale incrinatura che perfora la compattezza dell’ousia, producendo una singolare ibridazione — invisibile allo sguardo della metafisica — dell’essenza del tempo.

Tale elementare non-coincidenza con sé del nyn, che rimanda ad un’originaria differenza nel e del tempo, potrebbe interpretarsi come la traccia non metafisica del venire alla presenza, ovvero la prossimità dell’essere in quanto an-wesen, che Heidegger cercherà di pensare nell’Ereignis. La diacronia che si cela nel cuore di ogni «ora» esprime l’intrinseca eccedenza dell’istante rispetto all’immanenza della circolarità ‘sostanziale’ in cui sempre la metafisica ha pensato il trascorrere del tempo. Solo nel senso di prossimità, vicinanza e ‘proprietà’77 va intesa la «temporalità originaria» [die eigentliche Zeitlichkeit] come orizzonte ermeneutico dell’essere di cui parla Sein und Zeit.

Ed è proprio a partire da questa originaria sconnessione e sfasamento dell’unità temporale che è possibile articolare quell’eccedenza dalla presenza, quell’evasione dalla Anwesenheit nella libertà della Lichtung che, oltrepassando la contrapposizione tutta metafisica di assenza e presenza, si dà come in qualche modo significante al di là della questione del senso e di ogni senso del tempo. Lo sforzo richiesto al pensiero è, qui, quello di rinvenire, quasi in controluce, una «traccia», un’impronta chiaroscurale nello stesso corpo ‘sostanziale’ della metafisica. Come scrive Derrida,

Per eccedere la metafisica, bisogna che una traccia sia inscritta nel testo metafisico pur facendo segno, non verso un’altra presenza o verso un’altra forma della presenza, ma verso un testo completamente diverso. […] Il modo di inscrizione di una tale traccia nel testo metafisico è così impensabile che bisogna descriverlo come una cancellazione della traccia stessa. La traccia si produce in esso come la sua propria cancellazione. Ed appartiene alla traccia di cancellarsi da se stessa, di nascondere essa stessa ciò che potrebbe mantenerla in presenza. La traccia non è né percettibile né impercettibile.78

La traccia che si produce all’interno della metafisica come la sua «propria cancellazione» non è, poi, altro che la differenza tra essere ed ente che sarebbe stata obliata nella determinazione dell’essere come presenza [Anwesenheit] e nell’assoggettamento del tempo al presente [Gegenwart]. Nell’oblio della differenza la sua stessa traccia viene cancellata.

La differenza non può essere mai nominata come tale, dal momento che essa non può, in alcun modo, darsi in presenza, non può, cioè, essere illuminata nel linguaggio dell’essere che pure da essa scaturisce. È però possibile che l’an-wesen pervenga alla parola come relazione estatica tra l’ad-venire e ciò che viene, tra l’Aperto e ciò che in esso accede alla presenza. Solo in senso ‘relazionale’ e mai ‘sostanziale’ è pensabile la traccia della differenza: la sua eco è percettibile solo dal pensiero che riesce ad intonarsi alla risonanza del suo anarchico ‘differire’ e si lascia impressionare dalla sua inafferrabile elusione.79

5. Kairós: il «tempo rubato»

L’abbandono della presenza e del tempo come presente, cui Heidegger perviene attraverso il confronto con la temporalità escatologica delle prime comunità cristiane e con l’annuncio della parusia, rimanda non tanto all’esplicazione esistenziale della temporalità che verrà intrapresa in Sein und Zeit, quanto piuttosto alla sua determinazione cairologica che, se pure non compare mai esplicitamente, costituisce la chiave di volta della meditazione heideggeriana sulla temporalità almeno fino alla formulazione della nozione di Ereignis sviluppata nei Beiträge. È proprio attraverso la figura del kairós e la sua tradizione greca e cristiana che Heidegger riesce a pensare in maniera positiva quel ‘fallimento’ della presenza che egli aveva scorto per la prima volta nell’esperienza di vita dei primi cristiani: il «tempo rubato»80 del kairós, il tempo derubato della sua ‘sostanzialità’, ma anche il tempo rubato al calcolo e alla macchinazione della tecnica, diviene da allora il geroglifico della temporalità apocalittica ed escatologica da cui maturerà il pensiero dell’Ereignis.

Fin da Esiodo la letteratura greca ha esaltato le virtù e la potenza del kairós81: per Pindaro niente vale più che conoscere il kairós e Sofocle vanta il kairós come la migliore guida nelle azioni umane. «Opportunità», «occasione», «tempo debito», «giusta misura»: sono questi alcuni dei significati più ricorrenti del kairós nella tradizione greca classica. Solo l’uomo esperto, dotato di prudenza, acutezza e rapidità di decisione riesce a cogliere il kairós che è di per sé fugace, imprevedibile, sfuggente e non offre altra possibilità di essere afferrato se non nell’istante in cui si manifesta. Il kairós è l’ora critica, il momento grave e decisivo, il supremo pericolo in cui tutti i rivolgimenti sono possibili, in cui l’alleato di ieri si può rivelare il più insidioso nemico o, al contrario, il più spietato nemico può divenire il migliore alleato; l’occasione tanto attesa e desiderata che non perdona alcuna esitazione. Favorevole o sfavorevole, buona occasione o funesto annuncio di sciagure, quest’ora decisiva interrompe, comunque, la continuità temporale con la forza incontrastabile dell’irreparabile, cui nessuna volontà umana o divina può opporsi. L’istante cruciale comporta sempre una rottura, un taglio praticato in maniera decisa e tempestiva all’interno di un continuum spaziale o temporale e il kairós può indicare sia l’agente della rottura che la parte tagliata, la divisione, la crepa.

Il kairós è, inoltre, anche il con-veniente, l’appropriato, ciò che si adatta ed è com-misurato alla situazione, ciò che si armonizza e rivela la giusta proporzione; in questo senso, esso è il simbolo della classicità intesa come apollineo equilibrio, misura aurea e simmetrica composizione degli opposti in cui un processo raggiunge il suo compimento, il suo acme.82

Attraverso l’accostamento, proposto per la prima volta da R. B. Onians83, al sostantivo kaíros che designa il filo di una trama e per estensione la trama stessa, il kairós assumerebbe, infine, una spiccata connotazione spaziale indicando un varco, un’apertura, un passaggio, ma anche una disposizione, una tramatura [Fügung].

Grazie alla straordinaria polisemia che il termine kairós racchiude in sé già solamente all’interno della cultura greca, è possibile leggere le ricerche heideggeriane degli anni Venti e Trenta a partire dal kairós, ritrovando un nucleo cairologico non solo nelle analisi della temporalità escatologica del primo cristianesimo, ma anche nel progetto dell’elaborazione di un’ermeneutica dell’effettività, nell’analitica esistenziale di Sein und Zeit e soprattutto nei Beiträge zur Philososphie e negli altri testi, ancora in parte inediti, del decennio a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta.

Già nell’analisi dell’esperienza di vita delle prime comunità cristiane a cui sono rivolte le lettere di Paolo, il «come» dell’attuazione esistenziale e il compimento della Bekümmerung vengono compresi cairologicamente. L’evento escatologico della parusia è designato da Paolo con il termine kairós, che Heidegger traduce con il tedesco Augenblick come l’istante decisivo che esaudirà le promesse messianiche ed il cui annuncio — anch’esso connotato cairologicamente — converte l’esistenza dei credenti in una veglia incessante ed incerta. Il kairós che tutto decide84 non indica, dunque, solo un evento futuro su cui si concentra l’attesa dei cristiani, ma determina il modo, ogni volta unico ed irripetibile, in cui il risuonare dell’annuncio de-cide l’attuarsi della vita effettiva e il risveglio dal mondo e dall’im-proprietà [Uneigentlichkeit] dei rapporti esistenziali.

Ma la determinazione cairologica è ancora più evidente nella concezione della temporalità tipica dei primi cristiani, nella cui esperienza vissuta, secondo Heidegger, consiste la loro stessa religiosità.85 Riprendendo un passo della Prima Lettera ai Corinti86, Heidegger, così scrive: «Kairós synestalménos. Resta ancora soltanto [nur-noch] poco tempo, il cristiano vive costantemente nell’“ancora soltanto”, che accresce la sua angustia. La temporalità concentrata è costitutiva della religiosità cristiana: un “ancora soltanto”; non c’è tempo per rimandare».87 L’inquietudine e l’angoscia dei primi cristiani derivano da questo raccorciarsi del tempo, dal suo progressivo estinguersi e ‘fallire’ che può interpretarsi come il prevalere della dimensione cairologica su quella cronologica ed aioinica: il tempo diventa un varco sempre più stretto e difficile da percorrere, un’apertura, una fessurazione da cui può transitare l’evento. Il «tempo che resta» è un tempo cairologico; esso designa quello che potremmo chiamare il tempo «messianico», ovvero non la fine del tempo, ma il tempo della fine, il tempo povero del deserto che cresce inarrestabile sulla terra e nelle anime, ma anche il tempo della promessa che continua a risuonare sulla soglia dell’impossibile. Ciò che interessa la predicazione di Paolo — ed il commento di Heidegger — non è, infatti, l’istante in cui il tempo finisce, ma il tempo che si contrae e comincia a finire, il tempo, cioè, che resta tra il tempo e la sua fine.

Il tempo cairologico-messianico che annuncia Paolo, eccede, quindi, la distinzione tipica dell’apocalittica giudaica e della tradizione rabbinica tra la durata del mondo dalla creazione alla sua fine e il mondo che verrà dopo questa fine: il tempo messianico, il tempo che l’apostolo vive ed annuncia, non è «né il tempo cronologico, né l’éschaton apocalittico: è […] un resto, il tempo che resta tra questi due tempi, se si divide, con una cesura messianica o con un taglio di Apelle, la stessa divisione del tempo».88

In questo senso il tempo messianico dell’esperienza concreta di vita delle prime comunità cristiane è la più emblematica manifestazione della temporalità cairologica e dei rapporti che essa intrattiene con l’ordine cronologico. Nonostante la loro profonda differenza qualitativa, kairós e chronos sono, infatti, intimamente connessi, come già risulta dalla definizione di Ippocrate, secondo cui il chronos è ciò in cui vi è poco kairós e il kairós è ciò in cui vi è poco chronos, che così Agamben commenta: «Il kairós non dispone di un altro tempo, ciò che afferriamo quando afferriamo un kairós non è un altro tempo, ma solo un chronos contratto e abbreviato. […] La perla incastonata nell’anello dell’occasione è solo una parcella di chronos, un tempo restante».89 Il kairós è l’intima trasfigurazione del chronos, il suo compimento interno che si realizza solo nel «passaggio» della figura di questo mondo, ovvero nel suo ‘fallimento’, che è, però, al contempo, ‘fallimento’ della sua precarietà e caducità. Immagine di questo tempo messianico è nella tradizione ebraica il «sabato», che concede la possibilità di afferrare il kairós nell’intrinseca sconnessione del tempo cronologico.90

Nell’interpretazione di Aristotele del corso del 1921/22 la temporalità cairologica scoperta nel cristianesimo delle origini si manifesta nell’autenticità [Eigentlichkeit] della vita effettiva come prendersi cura91: qui il carattere cairologico concerne quelle determinazioni categoriali riguardo alle relazioni temporali e formali dell’effettività che in Sein und Zeit diverranno gli esistenziali dell’analitica del Dasein, se pure lì scomparirà l’esplicito riferimento al kairós. Ma il carattere cairologico dell’effettività determina anche l’incombere di un ‘annuncio’ che nella vita effettiva si manifesta come tormento, angoscia ed afflizione: qualcosa che rode la vita e che Heidegger chiama Ruinanz, rovinìo.92 Già nel Natorp-Bericht, nucleo teorico dei successivi corsi su Aristotele, la vita effettiva veniva descritta come costantemente esposta ad una caduta, un crollo, un andare in rovina, un ‘fallimento’ in cui si rischia di cedere alla tentazione di sfuggire alla propria finitezza e singolarità, ma in cui può, allo stesso tempo, irrompere il kairós. Esso, infatti, in quanto oc-casione, si manifesta nella concreta esperienza di vita come casus, de-cadenza, come ac-cadere improvviso che sconvolge gli equilibri esistenti senza, apparentemente, disporne di nuovi.

Questa continua esposizione alla Ruinanz comporta una singolare mobilità del Dasein che riprende da un lato la costante incertezza esistenziale dei primi cristiani e dall’altro la motilità della physis aristotelica. Ma qui la mobilità dell’esserci designa una determinazione originaria dell’esistenza in quanto essa si identifica con il «come» della stessa temporalità della effettività93 e, dunque, con il suo carattere messianico-cairologico. L’inquietudine e l’angoscia, che già fin d’ora si rivelano tratti fondamentali della vita effettiva, conducono ad una «crisi cairologica» in cui si dà l’occasione non già di sfuggire al rovinìo e alla decadenza ma di cogliere, attraverso il riferimento al proprio tempo in maniera autentica-appropriata [eigentlich], la deriva deiettiva e rovinante della vita stessa che si manifesta nel continuo «venir meno», nel mancare del tempo.94

Il rovinìo della vita effettiva sottrae (il) tempo95, ossia distoglie l’esserci dalla motilità dell’avvenire, erodendo così la storicità [Geschichtlichkeit] dell’effettività stessa. L’intento che, d’ora in poi, animerà la ricerca heideggeriana sarà proprio quello di analizzare il decadimento della temporalità cairologica che inerisce all’autorappresentazione inautentica dell’esserci, manifestandosi nel predominio della forma deiettiva della temporalità intesa come «intratemporalità» spazializzabile e misurabile.

Nella conferenza tenuta a Marburgo nel 1924 sul concetto di tempo, l’attuazione cairologica della vita effettiva viene messa in rapporto con il precorrimento [Vorlauf] del «non più» della morte e nel «come» di questo «correre incontro» alla morte viene individuata la categoria fondamentale dell’esserci allo stesso modo in cui il «quando» della parusia si manifestava per Paolo nel come dell’attuazione esistenziale. Assistiamo, dunque, all’inserzione della temporalità cairologica in uno schema di «esistenziali» che, tuttavia, non ne rinnega l’originaria derivazione messianico-apocalittica; come l’esistenza religiosa dei primi cristiani consisteva nel vivere la temporalità escatologica, così, l’esserci che precorre l’estrema possibilità del «non più» non vive nel tempo, ma vive il tempo, compiendo una sorta di messianica «ricapitolazione» delle tre estasi temporali: «Nel precorrere l’esserci è il suo futuro, e precisamente in modo da ritornare, in questo essere futuro, sul suo passato e sul suo presente. L’esserci, compreso nella sua estrema possibilità d’essere, è il tempo stesso, e non è nel tempo».96

Il tempo cui l’esserci accede attraverso il precorrimento del «non più» non è un tempo omogeneo e misurabile dal momento che esso è determinato dal «come» della Bekümmerung e dunque non ha lunghezza o durata; è, piuttosto, un tempo cairologico quello che viene colto dal precorrere, in quanto esso porta alla luce la «possibilità autentica» di ogni attimo, ovvero il suo intimo compimento. Questo tempo cairologico è, in un senso diverso da quello consacrato dalla tradizione, il vero principium individuationis97 in quanto «l’esserci è il mio essere di volta in volta, e quest’ultimo può essere tale in ciò che è futuro, nel precorrere che va al non più […]. L’esserci è sempre in una modalità del suo possibile essere temporale. L’esserci è il tempo».98

Dalla domanda sull’essere del tempo si passa dunque ad interrogare il «come» del suo annunciarsi in noi, come già aveva intuito Agostino che Heidegger così traduce:

In te, animo mio, misuro i tempi; quando misuro te, misuro il tempo. […] Le cose transeunti ti mettono in un «sentirsi» [Befindlichkeit] che rimane, mentre esse si dileguano. Io misuro il «sentirmi» nell’esistenza presente, non le cose che passano affinché esso sorga. È il mio «sentirmi» che misuro, ripeto, quando misuro il tempo.99

La determinazione esistenziale della temporalità cairologica in vista del progetto di una riproposizione della Seinsfrage prosegue nel corso tenuto a Marburgo nel semestre invernale 1925/26100, in cui Heidegger, collegando la questione della verità come «venire alla presenza» [anwesen] con il tempo, introduce la decisiva distinzione tra zeitlich e temporal che gli permetterà in Sein und Zeit di elevare l’analisi della temporalità esistenziale ad un livello ontologico: zeitlich indica qualcosa che accade, si compie nel tempo, mentre temporal si addice a quell’ente che è intrinsecamente caratterizzato dal tempo, ossia al Dasein. Ciò che Heidegger si propone qui è una «cairologia fenomenologica»; non si tratta di trovare un’ennesima definizione del tempo, che necessariamente lo ridurrebbe ad ente e quindi a presenza, ma di vedere originariamente il fenomeno stesso del tempo.

È a partire dall’analisi della temporalità cairologica della cura come modo fondamentale dell’essere dell’esserci che Heidegger riesce a mettere radicalmente in discussione la concezione tradizionale del tempo come successione degli «ora», ossia come tempo-adesso [Jetztzeit]. La cura, infatti, pur essendo determinata da caratteri temporali [temporal], non è temporalmente [zeitlich] determinata. Ciò non significa che la cura sia qualcosa che stia al di fuori o al di sopra del tempo, ma essa inerisce al tempo in un modo del tutto diverso da qualsiasi ente che è determinato temporalmente [zeitlich]: è, dunque, necessario rinvenire un senso diverso ed autentico del tempo che sfugga al predominio dell’adesso e della presenza.101

Attraverso l’interpretazione del ‘presente’ come lasciar-venire-incontro [Begegnen-lassen] qualcosa e come render-presente [Gegenwärtigen], il tempo diviene un concetto strutturale dell’esserci stesso, ovvero un «esistenziale» fondamentale, «tale che in esso si esprime il senso dell’essere, in primo luogo dell’essere nel mondo». La concezione tradizionale e la determinazione del tempo come tempo adesso costituisce un’interpretazione basata sul presente, senza però che il presente sia visto come un esistenziale. La determinazione esistenziale del tempo costituisce, invece, l’unico fondamento possibile delle strutture fondamentali dell’esserci e conseguentemente della comprensione dell’essere:

«Il tempo non può assolutamente essere semplicemente-presente, esso non ha un modo d’essere determinato, ma è la condizione di possibilità perché ci sia qualcosa come l’essere (non l’ente). Il tempo non ha il modo d’essere di qualcos’altro, ma il tempo temporalizza [zeitigt]. […] Tutte le proposizioni sul tempo, tutte le proposizioni comprese nella problematica della temporalità [Temporalität] […] sono indizi dell’esserci e delle strutture dell’esserci e del tempo».102

Il render-presente [Gegenwärtigen] è il corrispettivo esistenziale dell’an-wesen e ad esso si rapporta attraverso una più profonda comprensione della logica e dell’ontologia tradizionali come theorein; il puro vedere [anschauen] si riferisce, infatti, all’essere come Anwesen, come presenza essenziale.103 Ma se l’essenza [Wesen] del tempo si dispiega nel temporalizzare [zeitigen], nel dare asilo al manifestarsi dell’essere, ciò non può non avvenire se non nell’apertura [Erschlossenheit] estatica costituita dall’esserci e nella sua decisione [Entschlossenheit]104 ovvero nell’acme e nella compiutezza del suo ex-sistere, nel suo kairós. Alla temporalità apocalittica del theorein subentra, allora, quella cairologica dell’attuazione della vita effettiva nella vigile disposizione all’evento.105

La «maturazione» [die Zeitigung] del tempo è l’ac-cadere del kairós come ciò che de-cide «a tempo debito» la crisi del tempo cronologico dell’esistenza inautentica. La Zeitigung del tempo, il tempo come Zeitigung, è la «maturazione» dell’esistenza stessa. Come il frutto maturo cade a terra a tempo debito e viene ricompreso nel ciclo naturale di distruzione e rigenerazione, così l’esistenza ac-cade cairologicamente nel con-veniente dischiudersi dell’essere come traccia della differenza e custodia della sua promessa.

Il kairós apocalittico non è, allora, fuoriuscita dal tempo cronologicamente e ‘volgarmente’ concepito, ma simbolo del tempo vero, revelatio di un tempo irriducibile alla voracità di chronos, visione escatologica della verità ultima del tempo. La trascendenza del kairós è il segno, il riflesso di Aión; essa si annuncia a coloro che, vigilando e discendendo nel profondo di sé, ricordano [er-inneren] e ad-tendono nell’inquietudine l’ineffabile irraggiare di Aión che ac-cade come kairós, come pienezza del tempo, congiunzione di memoria ed oblio, immemorabile passato ed imprevedibile futuro.

La veglia del ‘fallimento’ del tempo e dello svanire nichilistico dell’essere prepara l’irrompere del kairós in cui un dio potrà ancora una volta transitare attraverso un varco nella aravàh, nella desolazione della notte del mondo: «Al nostro Dio tracciate / Un varco nel desolato! […] Tortuosa viottola sarà pianura / Il dirupo si spianerà // E la Gloria del Nome si rivela / E di colpo ogni carne vede» (Is 40, 3-4).

Questo testo riprende in forma abbreviata il primo capitolo del volume di imminente pubblicazione per la casa editrice Guida di Napoli dal titolo Il tempo che viene. Martin Heidegger: dal *kairós all’Ereignis.


  1. Questa poesia è esposta nella navata centrale del Duomo di Friburgo. ↩︎

  2. G. Picht, «La potenza del pensiero», in AA. VV., Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, tr. it. di C. Tatasciore, Guida, Napoli 1992, pp. 207-208. ↩︎

  3. «Le mie convinzioni sul piano gnoseologico, che si estendono alla teoria della conoscenza storica, hanno reso per me problematico e inaccettabile il sistema del cattolicesimo» (Lettera a Krebs del 9 gennaio 1919 citata in H. Ott, Martin Heidegger: sentieri biografici, tr. it. di F. Cassinari, SugarCo, Milano 1990, p. 97). ↩︎

  4. In alcune espressioni, inoltre, il verbo fallere significa anche rendere inefficace, calmare, alleviare, collocandosi, così, in un’area semantica molto prossima a quella generata dalla figura della Lichtung, intesa come alleggerimento e diradamento, di cui si tratterà in seguito. Degna di attenzione è, inoltre, la vicinanza a questo concetto di ‘fallimento’ del verbo tedesco fallen, cadere, che spesso Heidegger usa con il significato di ac-cadere e del suo importante derivato Verfall, deiezione, decadenza, e del sostantivo Fall, il caso. ↩︎

  5. Significativamente in tedesco l’espressione zugrunde gehen significa andare in rovina, ma anche, letteralmente, andare a fondo [zum Grund], verso il fondamento [Grundlage], ossia perseguire l’obiettivo fondamentale della metafisica, il cui costitutivo carattere fondativo coincide, dunque, con la sua intrinseca ‘perdizione’, con il suo ineluttabile ‘fallimento’. ↩︎

  6. G. Picht, «La potenza del pensiero», cit., p. 208. ↩︎

  7. M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis) (1936-1938), hrsg. F.-W. von Herrmann, 1989 (HG 65), p. 397. ↩︎

  8. «All’uomo l’origine principiale si mostra solo da ultimo. Per questo, nell’ambito del pensiero, uno sforzo di pensare in modo ancora più originario ciò che è stato pensato alle origini non è la volontà insensata di far rivivere un passato, ma invece la lucida disponibilità a meravigliarsi di ciò che è venturo nell’origine» (M. Heidegger, «Die Frage nach der Technik», in Vorträge und Aufsätze (1936-1953), hrsg. von F.-W. von Herrmann, 2000 (HG 7), p. 23 (tr. it. di G. Vattimo, La questione della tecnica in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 16-17). I volumi delle opere complete (Klostermann, Frankfurt a. M.) verrnno citati d’ora in poi con la sigla HG seguita dal numero del volume. ↩︎

  9. Sull’Europa come terra in cui urge la decisione sul tramonto, ha scritto pagine illuminanti ed intense Massimo Cacciari, riprendendo un tema che, a partire da Nietzsche, è diventato classico nella filosofia tedesca del Novecento: cfr. M. Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994, pp. 167-170. ↩︎

  10. «Aspettare e prepararsi: aspettare lo zampillare di nuove sorgenti, prepararsi nella solitudine a voci e volti estranei; lavare la propria anima e renderla sempre più pura dalla polvere e dal chiasso da fiera di quest’epoca; […] diventare gradualmente più vasti, più sopranazionali, più europei, più orientali, infine più greci — giacché la grecità fu la prima grande unificazione e sintesi di tutto il mondo orientale e appunto perciò l’inizio dell’anima europea, la scoperta del nostro ‘mondo nuovo’: — per chi vive sotto tali imperativi, chissà cosa potrà mai capitargli un giorno? Forse appunto ‘un nuovo giorno’» (F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884-1885, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VII, tomo III, a cura di G. Colli e M. Montanari, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1975, 41 [7], pp. 329-330). ↩︎

  11. M. Heidegger, Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung (1936-1968), hrsg. von F.-W. von Herrmann, 1981 (HG 4), p. 23 (tr. it. di L. Amoroso, La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988, p. 28). ↩︎

  12. «L’uomo, nella sua essenza secondo la storia dell’essere, è quell’ente il cui essere, in quanto e-sistenza, consiste nell’abitare nella vicinanza dell’essere. L’uomo è il vicino dell’essere» (M. Heidegger, Wegmarken (1919-1961), hrsg. von F.-W. von Herrmann, 1976 (HG 9), p. 342; tr. it. di F. Volpi, Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 295). ↩︎

  13. M. Heidegger, Phänomenologie des religiösen Lebens, hrsg. von C. Strube, 1995 (HG 60) (tr. it. di G: Gurisatti, Fenomenologia della vita religiosa, Adelphi, Milano 2003). Per un attento e dettagliato commento di questo corso cfr. J. Brejdak, Philosophia crucis. Heideggers Beschäftigung mit dem Apostel Paulus, Peter Lang, Frankfurt a. M. 1996, pp. 77-104 e F. Fédier, Heidegger: Édition Intégrale, tome 60 Phénoménologie de la vie religieuse, «Heidegger Studies», 13, 1997, pp. 145-161. Per il suo significato all’interno del confronto tra filosofia e teologia nel pensiero di Heidegger cfr. M. Jung, Das Denken des Seins und der Glaube an Gott. Zum Verhältnis von Philosophie und Teologie bei Martin Heidegger, Königshausen & Neumann, Würzburg 1990, pp. 41-55. Per un inquadramento dei primi corsi friburghesi all’interno dello sviluppo del pensiero di Heidegger fino ad Essere e tempo cfr. T. Kisiel, The Genesis of Heidegger’s Being and Time, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1993, pp. 149-219. ↩︎

  14. Cfr M. Heidegger, Bremer und Freiburger Vorträge, hrsg. von P. Jaeger, 1994 (HG 79), p. 71 (tr. it. di G. Gurisatti, Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano 2002, p. 101) ↩︎

  15. Cfr. HG 60, p. 98 sgg (tr. it., p. 138 sgg). ↩︎

  16. La medesima immagine la ritroviamo nel vangelo di Matteo: «Vegliate, dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Questo considerate: se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi siate pronti, perché nell’ora che non immaginate, il figlio dell’uomo verrà» (Mt 24, 42-44). Cfr. anche Lc 12, 35-40. ↩︎

  17. Cfr. anche Mt 24, 34. ↩︎

  18. Sull’apocalittica cfr. M. Delcor, Studi sull’apocalittica, ed. it. a cura di A. Zani, Paideia, Brescia 1987; W. Schmithals, L’apocalittica. Introduzione e interpretazione, tr. it. di A. Bonora, Queriniana, Brescia 1976 e, soprattutto, J. Taubes, «La storia dell’apocalittica», in Escatologia occidentale, a cura di E. Stimilli, Garzanti, Milano 1997. ↩︎

  19. Come scrive Sergio Quinzio nel suo commento a questa lettera paolina, «il breve ‘tempo intermedio’ è ritagliato come una piccola nicchia provvisoria nell’incombente montagna della catastrofe apocalittica che domina l’orizzonte» (S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, Adelphi, Milano 1991, p. 730); esso è, comunque, destinato a dilatarsi sempre più con il ritardare dei segni che annunciano la parusia del Signore e ad indurre una sempre crescente spiritualizzazione dell’attesa messianica e del Regno che, secondo Quinzio, caratterizza l’intera storia bimillenaria della Chiesa (cfr. anche Id., Radici ebraiche del moderno, Adelphi, Milano 1990, pp. 93-98). Per Bultmann il tempo intermedio caratterizza in senso gnostico l’esistenza dei primi cristiani come «l’essere dialettico del ‘non più’ e ‘non ancora’. I credenti sono già sottratti al mondo e il loro essere è un essere escatologico, e tuttavia essi vivono ancora nel mondo» (R. Bultmann, Storia ed escatologia, tr. it. di E. Spagnol, Bompiani, Milano 1962, p. 66); ma col tempo esso viene sempre più inteso in senso cronologico e la tensione escatologica viene smorzata dall’affermarsi del sacramentalismo, ossia della possibilità di raggiungere la salvezza individuale dell’anima attraverso i sacramenti amministrati dalla Chiesa. Il cristianesimo primitivo si trasforma, così, in epoca ellenistica, da comunità escatologica in comunità cultuale e la parusia attesa con ansia dai primi credenti diviene la tangibile ‘presenza’ di Cristo nei sacramenti, nella cui celebrazione si realizza l’evento escatologico. La chiesa diventa istituzione di salvezza e l’escatologia viene, da ultimo, neutralizzata in quanto si considera già avvenuto in Cristo l’evento cosmico finale. ↩︎

  20. Qui è da sottolineare come Paolo determini la venuta del Signore in base al concetto greco di kairós che aggiunge, come vedremo, nuove e decisive connotazioni temporali alla fulmineità ed imprevedibilità dell’evento escatologico descritto nella Prima Lettera ai Tessalonicesi (5, 1-2) e nel brano del vangelo di Matteo (24, 27). ↩︎

  21. Secondo Quinzio già «fin dall’epoca apostolica, è iniziato quel processo di allontanamento dalla prospettiva messianica e apocalittica, e di conseguenza dalle categorie bibliche, che doveva poi proseguire lungo il corso dei secoli»; e così, «delusa ogni tangibile promessa, rimasto il mondo teatro degli orrori, la redenzione non poteva che trasformarsi nell’invisibile, intima liberazione dal peccato. […] L’aspettativa della manifestazione escatologica di Dio si dà solo nell’esperienza del fatale perdurare di ogni genere di male nel vecchio eone il cui principe e dio è Satana» (S. Quinzio, Radici ebraiche del moderno, cit., pp. 67-70). ↩︎

  22. W. Benjamin, Sul concetto di storia, ed. it. a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, p. 37. ↩︎

  23. Cfr. K. Rahner, Saggi sui sacramenti e sull’escatologia, Edizioni Paoline, Roma 1969. ↩︎

  24. In greco la parola parusia, su cui si concentrerà l’analisi di Heidegger, indica la presenza in quanto conseguenza di un arrivo, di una venuta, ma nell’uso che ne fa Paolo è presente anche il significato assunto nel periodo ellenistico, per cui essa indica la visita sfarzosa di sovrani e grandi magistrati o qualche strepitosa manifestazione della divinità (cfr. Lettere di San Paolo, a cura di S. Cipriani, Cittadella, Città di Castello, 1971, p. 75). Nel linguaggio del Nuovo Testamento la parola parusia indica, comunque, la seconda e definitiva venuta del Messia. In alcuni luoghi essa viene utilizzata anche per caratterizzare l’avvento dell’Anticristo che precede la fine dei tempi (2 Ts 2, 9). ↩︎

  25. Nelle prime lettere di Paolo ed in altri testi degli Atti degli Apostoli l’avvento del Regno è sentito come imminente: «Adesso la nostra salvezza è più vicina di quando abbiamo cominciato a credere; la notte è progredita, il giorno si è avvicinato» (Rm 13, 12); «Vedete avvicinarsi il giorno» (Eb 10, 25); «La fine di tutte le cose è vicina. Siate dunque moderati e sobri per dedicarvi alla preghiera» (1 Pt 4, 7); «Siate pazienti […], rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina» (Gc 10, 25). ↩︎

  26. J. Taubes, Il prezzo del messianismo, a cura di E. Stimilli, Quodlibet, Macerata 2000, p. 39. ↩︎

  27. Con un utilizzo assai singolare del termine greco kairós, «Paolo definisce il tempo tra la morte di Gesù e la parusia di Cristo come kairós, caratterizzato dall’intreccio tra la condizione ancora naturale del mondo e quella già sovrannaturale» (J. Taubes, Escatologia occidentale, cit., p. 97). Per Taubes il gesto paolino di interiorizzazione della parusia provoca anche una svolta tra apocalittica e gnosi cristiana che conduce ad una sorta di mistica escatologica di cui il kairós, inteso come il tempo in cui questo e quel mondo si intrecciano e si spingono l’un l’altro, è cifra fondamentale (cfr. ibidem). ↩︎

  28. «Tra il II e il IV secolo le speranze escatologiche sfumano sempre più. […] La teologia cristiana entra nel campo di forze della gnosi speculativa. Come il cristianesimo delle origini nasce nel clima dell’apocalittica ebraica, così la teologia cristiana si sviluppa in ambito gnostico. L’imminenza del Cristo che viene si trasforma nella vicinanza del salvatore presente. La salvezza ora significa liberazione del pneuma dal carcere della materia […] Al posto della speranza per il regno del cristianesimo delle origini subentra il destino dell’anima» (J. Taubes, Escatologia occidentale, cit., p. 102). ↩︎

  29. Si tratta del corso successivo a quello su Paolo, tenuto a Friburgo nel semestre estivo del 1921 dal titolo Augustinus und der Neuplatonismus, adesso in HG 60. ↩︎

  30. Commentando l’Apocalisse di Giovanni, Sergio Quinzio scrive: «La nuova Gerusalemme viene ‘dal cielo’, e discende sulla terra perché sulla terra ha il suo luogo definitivo. L’ultima visione dell’Apocalisse (21, 5-22) rappresenta questo compimento di tutte le profezie: l’orizzonte, che era fin qui quello della liturgia celeste, diventa alla fine terrestre, il Signore scende sulla terra per celebrare le sue nozze e abitare per sempre in mezzo al suo popolo» (S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, cit., p. 818). ↩︎

  31. A. Badiou, San Paolo. La fondazione dell’universalismo, tr. it. di F. Ferrari e A. Moscati, Cronopio, Napoli 1991, p. 8. ↩︎

  32. Prima che i corsi friburghesi del semestre invernale 1920/21 su Paolo e il cristianesimo primitivo fossero pubblicati nel 1995 come 60º vol. delle opere complete, alcuni interpreti avevano riferito i contenuti di queste lezioni, insistendo soprattutto sul legame tra l’interpretazione della religiosità protocristiana e la successiva elaborazione dell’ermeneutica dell’ effettività: Otto Pöggeler si sofferma sull’accentuazione heideggeriana di storicità e attualità dell’esperienza di vita dei primi cristiani: «Secondo Heidegger […] l’esperienza di vita protocristiana è un’esperienza reale e storica, un’esperienza della vita nella sua attualità, proprio perché essa vede nel senso del compimento, non nel senso del contenuto, la struttura dominante della vita. […] Attraverso la riflessione sulla religiosità protocristiana come modello dell’esperienza reale della vita, Heidegger si impadronisce di quei concetti-chiave che pongono in luce la struttura della vita reale, o come dirà Heidegger più tardi, della ‘esistenza reale’» (O. Pöggeler, Il cammino di pensiero di Martin Heidegger, tr. it. di G. Varnier, Guida, Napoli 1991, pp. 41-42). Per Thomas Sheehan, Heidegger analizza il fenomeno del cristianesimo delle origini con l’intento di rinvenire quella temporalità originaria e autentica che è al centro del progetto ontologico di Essere e tempo: lo scopo di Heidegger sarebbe, quindi, «l’elaborazione del significato di temporalità dell’escatologia di San Paolo. […] La tesi fondamentale di Heidegger è la seguente: l’autentica relazione cristiana con la Parousía fondamentale non è l’attesa di un evento futuro. […] Riferirsi autenticamente alla Parousía significa “vegliare”, non il mero aspettare con ansia un evento futuro. Il problema del “quando” della Parousía si riduce alla questione del “come” della vita, e cioè wachsam sein, all’essere svegli. […] Il significato della fattività è la temporalità, e il significato della temporalità è determinato nella relazione individuale con Dio. […] La vita religiosa cristiana non è nient’altro che il vivere all’interno di questa unica temporalità» (T. Sheehan, «Heidegger e il suo corso sulla Fenomenologia della religione (1920-21)», Filosofia, XXXI 3, 1980, pp. 443-444). Per Karl Lehmann, Heidegger formalizza l’esperienza di vita del cristianesimo delle origini ricercando le condizioni di possibilità di un tale atteggiamento senza prendere posizione rispetto al suo contenuto, ma la forma della temporalità escatologica che Heidegger vuole estrapolare non può mai essere separata dalla concreta pienezza escatologica che domina l’esperienza temporale del cristianesimo primitivo: «Il kairós non è solo una ‘possibilità’, ma è sentito come una costante ‘minaccia’. […] Se la riflessione filosofica include il kairós e l’’essere’ ad esso collegato nella storia dell’attuazione [Vollzugsgeschichte] della vita umana, allora si presenta il pericolo che i momenti costitutivi di una simile esperienza vengano negati proprio nella loro diversità e ridotti alle usuali strutture soggettive ed immanenti» (K. Lehmann, Christliche Geschichtserfahrung und ontologische Frage beim jungen Heidegger, cit., p. 146). Sul rapporto tra la critica condotta da Heidegger alla soggettività metafisica e la temporalità cairologica del protocristianesimo cfr. D. Thomä, Die Zeit des Selbst und die Zeit danach. Zur Kritik der Textgeschichte Martin Heideggers 1910-1976, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1990, pp. 153-161. ↩︎

  33. E. Lévinas, Totalità e infinito, tr. it. A. Dell’Asta, Jaka Book, Milano 1980, p. 294. ↩︎

  34. In-stans è qui da pensare etimologicamente come in-sistenza nell’effrazione cairologica del tempo. ↩︎

  35. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 295. Con questo interrogativo si conclude Tatalità e infinito. ↩︎

  36. Analoghi appelli alla vigilanza si ritrovano nei vangeli (Lc 12, 35-40; Mt 24, 42-51) e nell’Apocalisse di Giovanni: «Ecco, vengo come un ladro. Beato chi si tiene sveglio» (Ap 16, 15). ↩︎

  37. HG 4, p. 109 (tr. it., p. 132). ↩︎

  38. HG 4, p. 110 (tr. it., pp. 132-133). ↩︎

  39. Cfr. M. Heidegger, «Wozu Dichter?», in Holzwege, hrsg. von F.-W. von Herrmann, 1977 (HG 5), p. 294 (tr. it. di P. Chiodi, «Perché i poeti?», in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 294. ↩︎

  40. HG 60, p. 80 (tr. it., p. 118). In seguito Heidegger utilizzerà il termine geschichtlich per denotare questa costitutiva storicità dell’esistenza, riservando al termine historisch il significato di mera considerazione storiografica del succedersi degli avvenimenti. ↩︎

  41. Il Vollzug che qui Heidegger pone al centro dell’analisi fenomenologica non coincide con l’idea di compimento [Vollendung] a cui pure rimanda, dal momento che il compimento indica la pienezza [Vollbesitz] definitiva ed ultima con cui un processo raggiunge la fine [Ende] delle sue possibilità. Cfr. M. Heidegger, «Das Ende der Philosophie und die Aufgabe des Denkens», in Zur Sache des Denkens, Niemeyer, Tübingen 1969, p. 62 (tr. it. di E. Mazzarella, «La fine della filosofia e il compito del pensiero», in Tempo ed essere, Napoli, Guida 1980, p. 170). ↩︎

  42. Cfr HG 60, p. 88 (tr. it., p. 128). ↩︎

  43. Qui Heidegger polemizza con la fondazione delle scienze dello spirito proposta dal suo maestro Rickert. Sulla concezione della storicità nel giovane Heidegger cfr. G. Ruff, Am Ursprung der Zeit. Studie zu Martin Heideggers phänomenologischem Zugang zur christlichen Religion in den ersten «Freiburger Vorlesungen», Duncker & Humblot, Berlin 1997, cap. III; J. A. Barash, Heidegger et son siècle. Temps de l’Etre, temps de l’histoire, PUF, Paris 1995, cap. V. ↩︎

  44. Heidegger qui utilizza il termine «situazione» come un particolare concetto fenomenologico: «’Situazione’ è per noi qualcosa di inerente al comprendere conforme all’attuazione e non designa nulla di conforme a un ordine» (HG 60, p. 90; tr. it., p. 130). La situazione, cioè, è il modo in cui l’attuazione degli eventi viene compresa storicamente e non la loro connessione estrinseca se pure ordinata. La sua unità non può essere colta in modo logico-formale ma solo attraverso una indicazione formale [formale Anzeige]. Sulla formale Anzeige cfr. HG 60, § 13 e sul ruolo metodico che esso svolge all’interno del corso in questione cfr. F. Gaiffi, L’indicazione formale nei corsi friburghesi, «Teoria», 1997/2, pp. 39-50. Sul rapporto tra l’indicazione formale e le modalità di manifestazione dell’Ereignis nel successivo sviluppo del pensiero heideggeriano cfr. P.-L. Coriando, «Die ‘formale Anzeige’ und das Ereignis: Vorbereitende Überlegungen zum Eigencharakter seinsgeschichtlicher Begrifflichkeit mit einem Ausblick auf den Unterschied von Denken und Dichten», in Heidegger Studies, 14, 1998, pp. 27-43. ↩︎

  45. Sul rapporto del giovane Heidegger con il neokantismo cfr. G. Ruff, Am Ursprung der Zeit, cit., pp. 18-27. ↩︎

  46. HG 60, p. 90 (tr. it., p. 129). ↩︎

  47. Sul Gewordensein e sulle sue varie fasi cfr. J. Brejdak, Philosophia crucis, cit., pp. 81-87. ↩︎

  48. HG 60, p. 94 (tr. it., p. 134). ↩︎

  49. HG 60, p. 95 (tr. it. mod., p. 135. Rendiamo il tedesco erharren con attesa e non con speranza, dal momento che qui si tratta propriamente di un convertirsi all’attesa del giorno del Signore). ↩︎

  50. Seguendo la proposta di Volpi traduciamo Notwendigkeit con «necessarietà» per distinguerla dalla Not il cui significato oscilla tra quelli di necessità, bisogno ed emergenza. Quasi sempre Heidegger sente risuonare nel termine Notwendigkeit il verbo wenden, volgere, rivoltare, attribuendogli, così, il significato di «volgere la necessità» [die Not wenden]. Cfr. F. Volpi, «Glossario», in M. Heidegger, Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 1011. ↩︎

  51. M. Heidegger, «Die seinsgeschichtliche Bestimmung des Nihilismus (1944-1946)», in Nietzsche, Neske, Pfüllingen 1961, (d’ora in poi N), Band II (tr. it. di F. Volpi, «La determinazione del nichilismo secondo la storia dell’essere», in Nietzsche, Adelphi, Milano 1994). ↩︎

  52. N, II, p. 392 (tr. it., p. 856). L’incombere di questa necessità ha la stessa penosa gravità dell’imminente catastrofe che precede la venuta del giorno del Signore: «Al loro dire: pace e sicurezza, li incalzerà subitanea la distruzione come le doglie la puerpera, senza che possano sfuggire» (1 Ts 5, 3). ↩︎

  53. N, II, p. 393 (tr. it., p. 857). ↩︎

  54. Corsivo mio. Sull’accettazione della debolezza di Paolo come condizione necessaria per lo svolgimento della sua missione apostolica cfr. HG 60, p. 100 (tr. it., p. 140). ↩︎

  55. Cfr. Ap 6, 9-11. In un orizzonte escatologico non sono le buone azioni dei credenti a ‘salvare’ il mondo e nemmeno la sofferenza di coloro che invocano la salvezza dall’esilio delle tenebre: «Non sono le nostre opere che possono affrettare la salvezza, ma è il nostro patirne la spaventosa vanità, mentre ogni ora del mondo accumula nuovi orrori, che non abbiamo nemmeno la forza d’immaginare» (S. Quinzio, La fede sepolta, Adelphi, Milano 1978, p. 175). ↩︎

  56. «Per la fede, finché la fede sussiste, la tenerezza, la pietà, la speranza della salvezza, anche se fossero destinate al più radicale scacco, sono piene di senso. Il credente le sperimenta come tali, le vive, infatti, secondo il linguaggio paolino, come primizia, come caparra, come anticipazione, come presenza, vera anche se soltanto incipiente, della realtà escatologica» (S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano 1992, p. 99). ↩︎

  57. HG 60, pp. 99-100 (tr. it., p. 140). ↩︎

  58. HG 60, p. 102 (tr. it., p. 143). Sperare è piuttosto un «fiducioso, amoroso, umile attendere nell’afflizione e nella gioia» (HG 60, p. 151; tr. it., p. 198). Sul concetto di speranza in Paolo cfr. S. Zedda, Escatologia biblica, in AA. VV., Chiesa per il mondo. I. Saggi storico-biblici, EDB, Bologna 1974, pp. 217-229. ↩︎

  59. HG 60, p. 103 (tr. it., p. 144). ↩︎

  60. HG 60, p. 108 (tr. it., p. 149). ↩︎

  61. HG 60, p. 112 (tr. it., p. 154). ↩︎

  62. Il giovane Heidegger impiega questo termine per designare il carattere unitario fondamentale del vivere umano nella sua effettività; più avanti egli lo sostituirà con Sorge. Nel commento a Paolo, la Bekümmerung, in quanto vigile apprensione per l’evento della parusia, «rappresenta in certo qual modo un livello ontologico di rapporto con il mondo, cui non è possibile sfuggire» (L. Savarino, Heidegger e il cristianesimo 1916-1927, Liguori, Napoli 2001, p. 88). Alla luce della Bekümmerung è, poi, possibile determinare il rapporto tra l’annuncio della parusia, che si realizza interamente sul piano dell’attuazione, e i concreti riferimenti al Mitwelt e all’Umwelt in cui si compie l’esistenza storica dei cristiani: le significatività e i contenuti mondani non vengono messi in discussione dall’esperienza di fede, ma vengono vissuti os me, «come se non» (1 Cor 7, 29-32). Heidegger interpreta questa fondamentale espressione di Paolo come un «ancora soltanto»: «Resta ancora soltanto poco tempo, il cristiano vive costantemente nell’ ‘ancora soltanto’ [das Nur-Noch], che accresce la sua angustia. La temporalità concentrata [zusammengedrängte Zeitlichkeit] è costitutiva della religiosità cristiana: un ‘ancora soltanto’; non c’è tempo per rimandare» (HG 60, p. 119; tr. it., p. 162). ↩︎

  63. Cfr. HG 60, p. 113 (tr. it., p. 155). ↩︎

  64. HG 60, p. 155 (tr. it., p. 202). ↩︎

  65. «Diversamente dal fatto, l’evento è misurabile solo secondo la molteplicità universale di cui prescrive la possibilità. […] L’apostolo è allora colui che nomina questa possibilità (il vangelo, la buona novella non è altro che questo: noi possiamo vincere la morte). Il suo discorso è quello di una pura fedeltà alla possibilità aperta dall’evento e non può, dunque, in nessun modo dipendere dalla conoscenza» (A. Badiou, San Paolo, cit., p. 73). Il predominio della grazia nell’evento fonda il venir meno della legge (Rm 6, 14): l’«essere sotto la grazia» indica la via dello spirito come fedeltà all’evento. ↩︎

  66. HG 60, p. 149 (tr. it., p. 196). ↩︎

  67. M. Heidegger, Seminare, hrsg von C. Ochwadt, 1986 (HG 15), p. 378 (tr. it. di M. Bonola, Seminari, Adelphi, Milano 1992, p. 153). Sulle diverse forme che la presenza ha assunto lungo la storia della metafisica Heidegger si è soffermato nella conferenza Das Ende des Denkens in der Gestalt der Philosophie, tenuta ad Amriswil il 30 ottobre 1965 e poi pubblicata con il titolo Zur Frage nach der Bestimmung der Sache des Denkens, a cura di H. Heidegger, Erker, St. Gallen 1984 (tr. it. di A. Fabris, Filosofia e cibernetica, ETS, Pisa 1989). ↩︎

  68. Cfr. Platone, Fedone, 100 c-d. ↩︎

  69. Heidegger utilizza quest’espressione verbale tedesca per indicare il modo in cui l’essere si manifesta negli enti, riservando all’espressione Gegenwart l’usuale significato cronologico di «tempo presente», «attualità», ma anche «realtà». ↩︎

  70. Nell’ambiguità del significato participiale di eon si cela la differenza tra essente ed ente, ovvero tra essere ed ente, dal momento che questa decisiva parola del pensiero greco viene a significare «essere un ente» e al contempo «un ente che è». Cfr. M. Heidegger, «Der Spruch des Anaximander», in HG 5, p. 345 (tr. it., «Il detto di Anassimandro», p. 321). ↩︎

  71. HG 5, p. 346 (tr. it., ivi, p. 322). Sulla questione della «presenza» nel contesto della lettura heideggeriana di Anassimandro cfr. M. Zarader, Heidegger e le parole dell’origine, tr. it. di S. Delfino, Vita e Pensiero, Milano 1997, pp. 124-126. ↩︎

  72. Marlène Zarader ha molto insistito su questo debito di Heidegger, mai pienamente riconosciuto, nei confronti della tradizione ebraico-cristiana. Ciò che egli scopre «sia nella vita cristiana evangelica sia nella fede cristiana successiva (finché non viene indebitamente teologizzata) è un’esperienza della temporalità — alla luce della quale egli può rileggere, in modo critico, la tradizione ontologica» (M. Zarader, Il debito impensato. Heidegger e l’eredità ebraica, tr. it. di M. Marassi, Vita e Pensiero, Milano 1995, p. 148). Soltanto grazie a tale esperienza esistenziale egli riuscirebbe a dubitare che l’essere come costante presenza possa costituire l’orizzonte ontologico adeguato per comprendere la temporalità dell’attuazione della vita effettiva. ↩︎

  73. M. Heidegger, Sein und Zeit, hrsg. von F.-W. von Herrmann, 1977 (HG 2), p. 34 (tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, p. 44). È da notare qui come Heidegger identifichi i due termini greci parusia e ousia per indicare il senso greco classico dell’essere. In considerazione del carattere escatologico della parusia tratto dai testi paolini, questo termine dovrebbe, invece, collocarsi all’interno dell’ambito della Anwesung della Lichtung e quindi sulla scia dell’Ereignis, marcando una sottile ma decisiva differenza nei confronti dell’ousia aristotelica che anche agli occhi di Heidegger è rimasta velata. ↩︎

  74. Cfr. Aristotele, Fisica, IV 217b. ↩︎

  75. Cfr. Aristotele, Fisica, 219a. ↩︎

  76. La «riduzione fenomenologica», portando ad estremo compimento la critica alla concezione naturalistica ed obiettivistica del tempo, lo inserisce nell’ambito dell’assoluta soggettività moderna e della sua autofondata certezza: «Il tempo che inerisce essenzialmente all’Erlebnis, la temporalità dell’Erlebnis in generale, non può in nessun modo essere misurabile, poiché la sua corrente, il suo Fluss, è ‘unità infinita’, che non può darsi obiettivamente […], ma risulta assolutamente indubitabile, nel senso dell’indubitabilità dell’idea kantiana» (M. Cacciari, Chronos e Aión, in Dell’inizio, Adelphi, Milano 1990, pp. 257-258). ↩︎

  77. A partire dalla vicinanza [Nähe] va letta l’intera costellazione semantica che raggruppa tutti i concetti che implicano il valore di «proprio» (Eigen, eigens, ereignen, Ereignung, Enteignis, Eigentlichkeit, Uneigentlichkeit, eigentümlich, Eignen, ecc.) di cui l’Ereignis fa parte a pieno titolo. Sulla Nähe cfr. supra, § 1. ↩︎

  78. J. Derrida, «Ousia e grammé», in Margini della filosofia, a cura di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997, p. 102. ↩︎

  79. Derrida ha cercato in tutta la sua opera di pensare questa differenza che incessantemente differisce e si differisce, indicandola come différance: «Una différance siffatta ci darebbe a pensare, già, ancora, una scrittura senza presenza e senza assenza, senza storia, senza causa, senza archia, senza telos, tale da sconvolgere assolutamente ogni dialettica, ogni teologia, ogni teleologia, ogni ontologia. Una scrittura che eccede tutto ciò che la storia della metafisica ha compreso nella forma della grammé aristotelica, nel suo punto, nella sua linea, nel suo circolo, nel suo tempo e nel suo spazio» (J. Derri«da, Ousia e grammé», cit., p. 104; cfr. anche Id., «La ‘différance’», ibid.). ↩︎

  80. In musica si intende per «tempo rubato» un lieve sfasamento, di solito un piccolo anticipo, rispetto al ritmo della composizione. Similmente il tempo cairologico, non solo è sfasato rispetto all’ordine cronologico del tempo, ma ne costituisce l’incommensurabile eccedenza, il varco segreto che conduce all’evento, ma anche il suo ritmo interno. È da notare, inoltre, che il carattere furtivo con cui avviene il kairós è quello stesso che Paolo attribuisce all’avvento del giorno del Signore (1 Ts 5, 2). ↩︎

  81. Per una accurata e completa analisi filologica della nozione di kairós nella Grecia classica cfr. M. Trédé, Kairos. (L’à-propos et l’occasion. Le mot et la notion d’Homère à la fin du IVe siècle avant J.-C.), Klincksieck, Paris 1992. Cfr. anche P.-M. Schuhl, «De l’instant propice», Revue Philosophique, 152, 1962. Sul kairós nella cultura classica e sulla sua tradizione iconografia cfr. A. Z. Ruggiu, «Aión, Chronos, Kairós. L’immaginazione del tempo nel mondo greco e romano», in AA. VV., Filosofia del tempo, a cura di L. Ruggiu, Bruno Mondadori, Milano 1998. Il kairós indica non solo un istante ma anche un luogo decisivo, un punto critico. ↩︎

  82. Cfr. M. Trédé, Kairos, cit., p. 57 sgg. Da qui discende il ruolo decisivo che il kairós nella cultura greca classica svolge in tutte le arti, in particolare in quella medica, nella musica, nella scultura ma anche nell’etica. Tutte queste caratteristiche del kairós sono raffigurate plasticamente dalla omonima statua di Lisippo che ne rappresenta il più celebre modello iconografico e di cui ci sono rimaste numerose descrizioni e copie (cfr. ivi, pp. 76-80). Sul kairós come accordo, giusta mescolanza, equilibrio e temperanza cfr. G. Marramao, Kairós. Apologia del tempo debito, Laterza, Roma-Bari 1992. ↩︎

  83. Cfr. R. B. Onians, Le origini del pensiero europeo. Intorno al corpo, la mente, l’anima, il mondo, il tempo e il destino, tr. it. di P. Zaninoni, Adelphi, Milano 1998, pp. 419-425. ↩︎

  84. Cfr. HG 60, p. 150 (tr. it., p. 197). ↩︎

  85. Per Cullmann il kairós designa un punto particolarmente significativo della storia della salvezza, un momento di quel tempo lineare e rettilineo che egli ritiene tipico della religiosità del primo cristianesimo, non riconoscendo, così, la centralità della tensione escatologica che diviene invece fondamentale per l’interpretazione di Heidegger: «Il centro del tempo non è più costituito dalla futura venuta del Messia, ma da un fatto storico già realizzatosi nel passato: la vita e l’opera di Gesù» (O. Cullmann, Cristo e il tempo. La concezione del tempo e della storia nel cristianesimo primitivo, il Mulino, Bologna 1965, p. 106) e ancora: «Il Cristo che ritornerà riceve la sua luce soltanto dal Cristo morto e risorto. Egli non è più, di per sé, come nel giudaismo, sorgente di luce» (ivi, p. 115). ↩︎

  86. «Questo vi dico, fratelli: il tempo è ridotto [kairós synestagmenos], e per quel che ne resta, chi ha moglie stia come se non ne avesse, chi piange come se non dovesse piangere, chi gioisce come se non dovesse gioire, chi compera come se non dovesse conservare, e chi usa del mondo come se non avesse da usufruirne: poiché la figura di questo mondo passa» (1 Cor 7, 29-31). ↩︎

  87. HG 60, p. 119 (tr. it., p. 162). Sull’interpretazione heideggeriana della temporalità cairologica nel cristianesimo primitivo cfr. K. Lehmann, Christliche Geschichtserfahrung und ontologiche Frage beim jungen Heidegger, cit., pp. 145-150; U. Regina, «L’esistenza cairologica», in Servire l’essere con Heidegger, Morcelliana, Brescia 1995; J. Greisch, L’arbre de vie et l’arbre du savoir. Le chemin phénomenologique de l’herméneutique heideggérienne (1919-1923), Les Éditions du Cerf, Paris 2000, pp. 185-218; A. Ardovino, Heidegger. Esistenza ed effettività. Dall’ermeneutica dell’effettività all’analitica esistenziale (1919-1927), Guerini, Milano 1998, pp. 85-112. ↩︎

  88. G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 63. ↩︎

  89. Ivi, p. 69. ↩︎

  90. «Il sabato — il tempo messianico — non è un altro giorno, omogeneo agli altri: è, piuttosto, nel tempo, l’intima sconnessione attraverso cui si può — per un pelo — afferrare il tempo, portarlo a compimento» (ivi, p. 71). Sul significato del sabato nella concezione ebraica della temporalità cfr. A. J. Heschel, Il sabato, tr. it. di L. Mortara e E. Moratara Di Veroli, Rusconi, Milano 1972. ↩︎

  91. Cfr. M. Heidegger, Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Einführung in die phänomenologische Forschung, hrsg. von W. Bröcker und K. Bröcker-Oltmanns, 1985 (HG 61), pp. 137-140 (tr. it. di M. De Carolis, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, Guida, Napoli 1990, pp. 167-170). Cfr. M. Jung, Das Denken des Seins und der Glaube an Gott, cit., pp. 63-72. Sullo sviluppo, che Heidegger svolge in questo corso, del concetto di Vollzug e dell’effettività della vita si è soffermato C. F. Gethmann, «Philosophie als Vollzug und als Begriff. Heideggers Identitäts-philosophie des Lebens in der Vorlesung vom Wintersemester 1921/22 und ihr Verhältnis zu Sein und Zeit», Dilthey-Jahrbuch, Band 4, 1986-87, a cura di F. Rodi, pp. 54-71 (questo numero della rivista ospita gli atti del convegno Faktizität und Geschichtlichkeit svoltosi a Bochum nel 1985 e dedicato al concetto di vita in Dilthey e Heidegger). ↩︎

  92. Cfr HG 61, p. 131 sgg. (tr. it., p. 161 sgg). ↩︎

  93. Cfr. M. Heidegger, Ontologie. Hermeneutik der Faktizität, hrsg. von K. Bröcker-Oltmanns, 1988 (HG 63), p. 65 (tr. it. di G. Auletta, Ontologia. Ermeneutica della effettività, Guida, Napoli 1992, p. 67). In seguito Heidegger si soffermerà sui momenti cairologici dell’esserci e del suo essere-nel-mondo su cui si fonda la comprensione della temporalità esistenziale: cfr. HG 63, p. 101 sgg. (tr. it., p. 97 sgg). ↩︎

  94. Sui caratteri cairologici della vita effettiva cfr. M. Haar, «Le moment (kairós), l’instant (Augenblick) et le temps-du-monde (Weltzeit) [1920-1927]», in AA.VV., Heidegger 1919-1929. De l’herméneutique de la facticité à la métaphysique du Dasein, a cura di J. -F. Courtine, Libraire Philosophique J. Vrin, Paris 1996, p. 71 sgg. ↩︎

  95. La temporalità tipica dell’effettività rimanda ad un’interpretazione del tempo dell’essere come tempo dell’assenza ovvero assenza di tempo come suggerisce M. Bonola, «Essere il tempo. Genesi del concetto di tempo negli anni di Heidegger a Marburgo», Filosofia, XXXIX, 1988, p. 331. ↩︎

  96. M. Heidegger, Der Begriff der Zeit, Niemeyer, Tübingen 1989, p. 19 (tr. it. di F. Volpi, Il concetto di tempo, Adelphi, Milano 1998, p. 40). ↩︎

  97. Cfr. T. Kisiel, «Die Zeitbegriff beim früheren Heidegger (um 1925)», in AA. VV., Zeit und Zeitlichkeit bei Husserl und Heidegger, Karl Alber, Freiburg — München 1983, p. 198. ↩︎

  98. M. Heidegger, Der Begriff der Zeit, cit., p. 26 (tr. it., p. 48). ↩︎

  99. Agostino, Confessioni, libro XI, cap. 27. Qui Heidegger traduce con Befindlichkeit il concetto agostiniano di affectio, nel senso di quel «sentirsi situati» in una disposizione «armonica» — e non semplicemente emotiva — che costituisce una determinazione fondamentale dell’esserci. Cfr. HG 2, §§ 29-30, 40. ↩︎

  100. M. Heidegger, Logik. Die Frage nach der Wahrheit, hrsg. von W. Biemel, 1976 (HG 21) (tr. it. di U. M. Ugazio, Logica. Il problema della verità, Mursia, Milano 1986). Su questo corso cfr. T. Kisiel, «Die Zeitbegriff beim früheren Heidegger (um 1925)», cit., pp. 206-211; R. De Monticelli, «Il problema della verità: logica e metafisica (Note sulle Lezioni heideggeriane del ’25)», Nuova Corrente, 76/77, 1978. ↩︎

  101. Cfr. HG 21, p. 243 (tr. it., p. 161). ↩︎

  102. HG 21, p. 410 (tr. it., p. 271). ↩︎

  103. «Tutta la verità di questa logica è verità della visione; visione intesa come render-presente» (HG 21, p. 415; tr. it., p. 275). Si scopre qui il fondo apocalittico della forma tradizionale del pensiero occidentale e della sua tipica concezione della verità come aletheia. Come nota Cacciari, «il simbolo apocalittico sta al culmine di una cultura della visione. La verità ultima è vista apocalitticamente, cioè compresa nella stessa visione direttamente e perfettamente. […] Conoscere è perfetto vedere, poter-vedere. Il chrónos apocalypseos segna il trionfo della visione: la verità manifesta è finalmente vista-conosciuta ad un tempo. Ciò che si vede è finalmente la verità stessa» (M. Cacciari, «Chrónos apocalypseos» in AA. VV., Tempo e apocalisse, a cura di S. Quinzio, SPES, Milazzo 1985, p. 26. Cfr. anche Id., «La morte del tempo», in AA. VV., Dimensioni del tempo, a cura di U. Curi, FrancoAngeli, Milano 1987). ↩︎

  104. Sui concetti di Erschlossenheit e Entschlossenheit determinanti per la costituzione esistenziale della cura cfr. HG 2, §§ 44; 54-60. ↩︎

  105. In questo senso va letta l’affermazione conclusiva del corso del 1925/26 che abbiamo fin qui commentato: «Ma se nella temporalità dell’esserci devono risiedere più radicali possibilità temporali, tali possibilità dovrebbero allora porre alla logica e all’ontologia tradizionali un limite essenziale» (HG 21, p. 415; tr. it., p. 275). ↩︎