Agostino e la «semantizzazione» del Tempo: il linguaggio di Dio che parla all’uomo

1. Agostino e l’ermeneutica del tempo: breve sintesi dello stato attuale della ricerca e presentazione della proposta interpretativa di questo studio

Agostino nella sua opera è tornato ad occuparsi più volte del problema tempo, il quale diviene per lui il luogo esistenziale in cui si svolge il mistero della Redenzione dell’uomo.1 Anzi, secondo il nostro autore, la principale ragione del tempo sembra risiedere, come credo si comprenderà anche da quanto verrà detto, nella volontà divina di salvare la sua creatura.2

Ora, nella storia dell’esegesi molto si è riflettuto sull’interpretazione di tale concetto e sul valore da dare alle affermazioni agostiniane riguardo a questo argomento.

Generalmente si ritiene da parte della critica, sebbene con sfumature diverse, che l’Ipponate sia il padre dell’ermeneutica del tempo in chiave soggettiva. Gli studi a tal proposito sono tantissimi e qui sarebbe impossibile analizzarli tutti; di solito si fondano però sui libri undicesimo e dodicesimo delle Confessioni, anche se ve ne sono alcuni di più ampio respiro.3 Vi sono tuttavia alcuni contributi, nei quali è stata tentata un’interpretazione in chiave oggettiva del tempo;4 in questi lavori però la riflessione ha il suo perno soprattutto nell’interpretazione della distensio mentre qui io mi propongo di analizzare il problema da un altro angolo di visuale: lo statuto di oggettività, infatti, verrà riconosciuto al tempo soprattutto in virtù della sua funzione di relazione tra Dio e uomo, e questo grazie a quella che chiameremo semantizzazione del tempo, semantizzazione operata per l’appunto da Agostino.

Un ruolo fondamentale lo ricoprirà allora la dimensione linguistica,5 la quale, insieme al tempo, costituisce uno dei due elementi chiave di questa breve riflessione. Tempo e linguaggio si incontrano e in un certo senso si assimilano attraverso l’Incarnazione, la quale, come si vedrà, ridona un nuovo statuto semantico al tempo, che può così divenire il linguaggio comune a Dio e all’uomo6 e assumere pertanto uno status soprattutto oggettivo, sebbene restino certamente presenti alcuni elementi di matrice soggettiva.

2. L’interpretazione del tempo: Agostino ed il pensiero precedente

Se da una parte l’interpretazione in chiave soggettiva ha il merito di far risaltare la novità della speculazione agostiniana riguardo al senso del tempo, dall’altra, sembra sradicare in modo troppo brusco la riflessione del Nostro dal contesto storico-speculativo del quale è figlia.

Nella storia del pensiero antico, infatti, non esiste se non una interpretazione del tempo in senso oggettivo7 e, anche nei secoli immediatamente precedenti il nostro autore, la riflessione da parte del pensiero greco, espressa soprattutto dal Neoplatonismo, si è sempre mantenuta fedele ad una visione del tempo caratterizzata in senso oggettivo.8

Ma un tale atteggiamento ermeneutico non connota unicamente la speculazione della filosofia antica: perfino dall’antico come dal nuovo Testamento è possibile dedurre una concezione rigorosamente oggettiva del tempo.9 Pertanto, il nostro autore, quando propone il suo pensiero riguardo al tempo, si trova colpito da suggestioni, sia che gli provengano dalla filosofia, sia che gli derivino dalla Scrittura, le quali gli rivelano una chiara percezione oggettiva della temporalità. Bisogna, tra l’altro, aggiungere che la stessa riflessione Patristica precedente ad Agostino si muove sempre lungo lo stesso binario ermeneutico: basti pensare alla soluzione proposta da Gregorio Nisseno, il quale, prima di Agostino, propone la riflessione più compiuta sul tempo. Egli, profondo conoscitore della Scrittura e del Pensiero antico, vede nel tempo il «ripristinatore della pienezza dell’Essere», traducendo l’economia della Redenzione della Scrittura secondo le categorie filosofiche del pensiero greco.10

3. La memoria-immagine decodificatore del linguaggio-tempo e fondamento del suo statuto oggettivo

Il nostro autore vive, perciò, in un clima intellettuale ben lontano dall’accogliere istanze soggettivistiche o intimistiche riguardo al nostro specifico argomento.

In Agostino, infatti, anche se a mio avviso viene recuperata la dimensione dell’interiorità, non sembra possibile rinvenire un aspetto propriamente soggettivo della dimensione tempo. Una tale affermazione si fonda, anzitutto, su una costante di ordine teologico e antropologico sempre efficace nell’opera del Nostro. Secondo l’Ipponate l’uomo si rivela come immagine del suo Creatore,11 ed il suo essere-immagine risiede nella capacità di giudicare,12 poiché risiede nell’essere, nel conoscere e nel volere: «Alludo all’esistenza, alla conoscenza e alla volontà umana. Io esisto, so e voglio; esisto sapendo e volendo, so di esistere e volere, voglio esistere e sapere. Come sia inscindibile la vita in queste tre facoltà e siano un’unica vita, un’unica intelligenza e un’unica essenza, come infine non si possa stabilire questa distinzione, che pure esiste, lo veda chi può» (trad. Carena);13 ma di tutto ciò l’uomo ha piena coscienza in virtù della memoria,14 la quale si costituisce come il luogo di incontro tra Dio e l’uomo.15

Ora, l’uomo misura il tempo nella propria anima,16 o meglio in quella dimensione dell’anima che è appunto la memoria, per la quale la creatura può avere coscienza di essere plasmata ad immagine del Creatore. Infatti per Agostino la coscienza coincide con la memoria, ovvero, con quell’aspetto dell’anima dove è possibile porre in essere qualsiasi operazione, come appunto misurare il tempo: «Io, Signore, certamente mi arrovello su questo fatto, ossia mi arrovello su me stesso. Sono diventato per me un terreno aspro, che mi fa sudare abbondantemente. Non stiamo scrutando le regioni celesti, né misurando le distanze degli astri o cercando la ragione dell’equilibrio terrestre. Chi ricorda sono io, io lo spirito (ego sum qui memini, ego animus). Non è così strano che sia lungi da me tutto ciò che non sono io; ma c’è nulla più vicino a me di me stesso?» (trad. Carena).17 Sebbene, perciò, il tempo possa rivestirsi in Agostino di una dimensione di intimità, in quanto è nell’anima che esso viene misurato, mantiene pur sempre quell’aspetto di oggettività di cui dicevamo: infatti, il tempo, come si è visto, viene misurato dalla memoria, la quale è uno degli elementi di raccordo tra Dio-Trinità e l’uomo trinità riflessa; essa, perciò, si struttura secondo un parametro di assoluta oggettività, poiché è presente in ogni uomo come immagine di Dio, come concretizzazione contingente dell’Eternità vera e della Verità eterna. La memoria è, perciò, l’espressione più autentica della verità ed è aliena da qualsiasi suggestione strutturalmente soggettivistica.

V’è anche un’altra motivazione, la quale depone per l’oggettività del tempo. Questo, infatti, deve riposare nella memoria come intuizione globale e oggettivamente valida, in quanto contenente il codice genetico dell’uomo, il suo essere immagine di Dio: l’uomo, infatti, quale immagine di Dio riemergente, nella sua esplicitazione, dalla memoria (che si configura come immagine della eterna Verità e della Eternità vera e, quindi, come immagine dell’assoluta oggettività), si ricorda della sua reale essenza e, con ciò stesso, fa assurgere il tempo a reconditorio di questa possibilità di ritorno a Dio, possibilità che, per divenire realtà, ha bisogno di un libero atto della volontà.18

Il tempo si ridisegna così, nel pensiero di Agostino, come il luogo nel quale è possibile attingere la redenzione dalla quale viene in ultima istanza motivato.

D’altro canto, l’anima, anche dopo la morte, può avere coscienza degli intervalla temporis ed essere capace di ricordo solo perché la memoria, la quale misura il tempo, è immagine riflessa di Dio e non è perciò soggetta ad alterazione nella propria facoltà di «misuratrice» del tempo.19 Il tempo, in realtà, non può essere definito da Agostino se non in relazione alla sua misurazione, la quale avviene nella memoria, poiché esso non è una quiddità tangibile ma è piuttosto la concatenazione degli eventi, i quali restano presenti all’uomo attraverso la memoria. La memoria, però, è sì propria ad ogni singolo uomo, ma è allo stesso tempo la medesima in tutti per identità di struttura, poiché è l’estrinsecarsi del riflesso della Divinità nella creatura. La memoria sembra, perciò, costituirsi nell’uomo anche come ponte tra tempo ed eternità, ponte che gli permette di continuare ad essere sempre se stesso e, insomma, di avere un’identità personale ma insieme oggettiva.

Il tempo poi ha come suo fondamento la possibilità per la creatura di essere redenta. Se, infatti, si scorrono le pagine del De Genesi ad litteram, risulta subito chiaro come il tempo non sia considerato tanto il luogo in cui si svolgono degli eventi, quanto lo spazio temporale in cui è attuabile la salvezza.

Gli stessi primi sei giorni della creazione non assumono, per Agostino, importanza pari a quella del settimo giorno, nel quale Dio si riposò: con ciò, infatti, l’autore vuole sottolineare come il tempo non sia tanto il luogo in cui vengono posti in atto degli eventi, quanto piuttosto quello in cui l’uomo si prepara ad attingere la pace, ovvero, il luogo in cui si può entrare in relazione con Dio. Questo porre una maggiore attenzione sul settimo giorno è, infatti, indice di tale convinzione: dal momento che la creazione è avvenuta col tempo secondo la sua ragione seminale,20 ovvero come concretizzazione della volontà divina per la quale ogni realtà (in quanto compiuta nell’eternità) è realizzata in un eterno presente, il racconto della fattualizzazione temporale del mondo in sei giorni ha chiaramente un valore simbolico; la creazione per ragioni seminali, dunque, non ammette una successione cronologica: essa è una creazione atemporale, perché fattualizzazione della volontà efficace trascendente eterna ed acronica. Pertanto, lo stesso tempo è creato attraverso la volontà eterna di Dio e per questo, creato con la creazione (in quanto anch’esso creazione) e secondo la stessa dinamica seminale.21

Stando così le cose, l’insistere sul settimo giorno che mai tramonta è motivato dal fatto che questo rappresenta il compimento e, in un certo qual modo, anche l’inizio dell’età del cammino di redenzione, cammino scandito dal trascorrere del tempo (finché questo avrà ragione di esistere) e destinato a concludersi con l’ingresso nell’eternità. Mentre i sei giorni della creazione affondano le radici nel fondamento dell’essere stesso, in quanto esplicitazione della realtà, il giorno settimo, che si prolunga nell’eternità, è in un certo modo il tempo del pellegrinaggio verso la salvezza. In un certo senso, tuttavia, mi pare possibile parlare di tempo anche a proposito del settimo giorno in quanto esso viene a significare la sintesi della perfezione donata dalla grazia, la quale, attraverso lo Spirito, inizia la sua funzione efficace nel tempo della redenzione:

Forse allora, per interpretare questo riposo, non ci resta nessuna soluzione se non questa: Dio ha donato alla creatura spirituale (e l’uomo è una creatura spirituale!) di trovare in lui il suo riposo, dopo che sarà resa perfetta attraverso il dono dello Spirito santo, che spande la sua carità nei nostri cuori, affinché il desiderio ci trascini laddove, una volta giunti, noi troveremo il nostro riposo, senza avere più nient’altro da cercare? Come infatti è legittimo affermare che Dio fa tutto ciò che, con lui che opera in noi, noi avremo fatto (sicut enim recte dicitur Deus facere, quidquid ipso in nobis operante fecerimus), così è legittimo dire che egli si riposa, quando la sua grazia ci dona di riposarci (ita recte dicitur Deus requiescere, cum eius munere requiescimus). Quest’interpretazione è legittima.22

Infatti, l’uomo può pervenire alla pienezza del riposo proprio in quanto, nel tempo della redenzione, in questo tempo, viene diffusa (diffunditur) la grazia. Il riposo eterno è quindi già presente, potenzialmente, in questo tempo. In questo senso il settimo giorno è il luogo nel quale l’uomo viene redento e, perciò, esso è inaugurato dalla storia, quando il Verbo si fa uomo e l’eternità entra nel tempo. Il settimo giorno dunque rappresenta non solo il riposo eterno dell’uomo nel suo Dio, e quindi l’eternità, ma anche il «tempo della redenzione», il quale è l’inizio continuo dell’eterno. Il giorno settimo, insomma, è senza tramonto e dura eternamente,23 ma l’eternità altro non è che l’attualizzazione del tempo salvifico della redenzione, nel quale è realmente presente in potenza. Ciò che comunque qui interessa è osservare come per Agostino assuma maggiore importanza la dimensione redentiva insita nella creazione, piuttosto che quella stricto sensu costitutiva.24

Perciò, secondo Agostino, il tempo della storia, quello percepibile dalla memoria, è anche rappresentato, in un certo modo dal settimo giorno. Questo giorno, che, così inteso, si prolunga fino all’inizio dell’era escatologica dove diviene eternità, più che essere visto come l’insieme degli avvenimenti, secondo l’Ipponate, è vissuto dall’uomo come il luogo in cui è possibile raccogliere ciò che ancora è conservato nella divina volontà.

Tutto questo è stato detto non solo per evidenziare come sia nel tempo che la grazia incontra l’uomo,25 quanto piuttosto per manifestare come secondo il Nostro il tempo è la situazione nella quale Dio continua a parlare con l’uomo. Se, come abbiamo visto, è vero che Dio mantiene nascoste nella sua volontà quelle realtà che verranno manifestate alla creatura nel tempo della storia, -quella storia, cioè, che accoglie la redenzione (concretizzantesi nell’inizio potenziale del giorno settimo)-, allora risulta evidente come il tempo sia il veicolo attraverso il quale Dio entra in rapporto con l’uomo: il tempo è quel linguaggio parlato dall’uomo e da Dio.

Questo è possibile perché tale linguaggio viene decodificato dalla memoria, la quale, essendo parte dell’immagine, rende la creatura simile al Creatore. Pertanto, secondo Agostino, Dio comunica con l’uomo nel tempo, o meglio, attraverso il tempo, perché Egli non ha riposto ogni ragione causale nella creazione ma l’ha mantenuta nella sua volontà per trasmetterla successivamente alla creatura; tale trasmissione avviene, appunto, nel tempo,26 il quale è misurato e perciò decodificato dalla memoria, che si configura come una dimensione oggettiva e comune ad ogni uomo, in quanto riflesso di Dio nella creatura.

Ma, se la memoria si struttura secondo la dimensione oggettiva dell’immagine ed è essa a misurare il tempo, il quale è il luogo in cui Dio continua a parlare alla creazione e a comunicarle le ragioni della propria esistenza, allora mi pare che sia possibile, rimanendo sempre nel quadro del pensiero agostiniano, rinvenire anche una dimensione interiore del tempo: il tempo, infatti, viene misurato nell’anima umana, in interiore hominis per dirla con un’espressione agostiniana. Tuttavia, pur con questa dimensione interiore, mi pare che esso rimanga inserito in modo strutturale in una dimensione di oggettività, in quanto il tempo è pur sempre il luogo nel quale vengono a manifestarsi le esplicitazioni delle rationes causales, ovvero ciò che appartiene alla creazione, ma che viene manifestato e proposto ad essa nel tempo. Questo tempo viene percepito dall’uomo nella sua dimensione oggettiva della memoria, ovvero in una interiorità che rimane pur sempre oggettiva. Affermare che il tempo si manifesta come dimensione soggettiva significa per Agostino negare a Dio la capacità di continuare ad intervenire nella storia, poiché tale intervento non potrebbe essere efficace su ogni uomo.

La motivazione principale per la quale, credo, Agostino insiste sull’aspetto oggettivo della memoria è da rinvenirsi nell’essere questa il luogo di misurazione del tempo e, in ultima analisi, il mezzo attraverso il quale Dio può continuare ad agire efficacemente sulla creatura, perché costituente il decodificatore del linguaggio comune ad entrambi.

L’insistenza poi sul leggere nel tempo la dimensione in cui la redenzione viene partecipata all’uomo, penso abbia le sue ragioni nella convinzione che la grazia si comunichi alla creatura umana attraverso il tempo. L’Incarnazione è, infatti, un evento storico ed ha un valore cosmico, perché la morte di Cristo è stata offerta per ogni uomo.27

Dalla universalità del sacrificio discende la necessità di una sua comunicazione ad ogni uomo (almeno come possibilità della capacità di percepirla), comunicazione la quale non può che realizzarsi nel tempo, in quanto esso si determina come dimensione oggettiva, presente alla coscienza attraverso la fattualizzazione dell’immagine che è la memoria.

Ritengo perciò che l’insistenza di Agostino sul voler identificare con la memoria il luogo di misurazione del tempo, risulti motivata dalla consapevolezza che l’Incarnazione debba essere partecipata, a parte Dei, ad ogni creatura: non si dimentichi che per l’Ipponate il tempo è il luogo che può continuare ad accogliere l’intervento di Dio, piuttosto che lo spazio nel quale si snodano gli avvenimenti. Diciamo pure che Agostino preferisce rimarcare la dimensione della operatività divina piuttosto che la capacità di agire della sua creazione:

Se qualche spirito leggero, vagolando tra le immagini del passato, si stupisce che tu, Dio che tutto puoi, tutto crei e tutto tieni, autore del cielo e della terra, ti sia astenuto da tanto operare, prima di una tale creazione, per innumerevoli secoli, si desti e osservi che il suo stupore è infondato. Come potevano passare innumerevoli secoli, se non li avessi creati tu, autore e iniziatore di tutti i secoli? Come sarebbe esistito un tempo non iniziato da te? E come sarebbe trascorso, se non fosse mai esistito? Tu dunque sei l’iniziatore di ogni tempo, e se ci fu un tempo, prima che tu creassi il cielo e la terra, non si può dire che ti astenevi dall’operare. Anche quel tempo era opera tua e non poterono trascorrere tempi, prima che tu avessi creato un tempo. Se poi prima del cielo e della terra non esisteva tempo, perché chiedere cosa facevi allora? Non esisteva un allora dove non esisteva un tempo (non enim erat tunc ubi non erat tempus)» (trad. Carena).28

Agostino, dunque, cerca di riflettere sulla realtà contingente, regolandosi secondo una visuale più divina che umana. Ecco perché il Nostro preferisce far sempre emergere quegli aspetti univoci e realmente veri insiti nel contingente: è lontano dal suo pensiero aggredire la realtà da un angolo di visuale che sia altro dal divino e che perciò si sgretoli in una pluralità di orizzonti.

Mi pare che con questa ermeneutica, inoltre, concordi la riflessione agostiniana intorno al prima della creazione: secondo il Nostro, non può esistere un tempo precedente la creazione, e ciò per la semplice ragione che un intervallo nel quale Dio possa fattualizzare la propria volontà non ha ragione di essere, visto che in tale intervallo non esisterebbe ancora il soggetto (la creazione), il quale dovrebbe percepirlo.

Il tempo affonda la sua ragione di esistenza, perciò, nella possibilità di perfezionamento data all’uomo ed ad ogni uomo,29 per cui il tempo risulta, in un certo senso, la continuazione, a parte hominis, dell’atto creativo di Dio, il quale si rivolge a tutti secondo la stessa essenza, condizione dell’unità e della coerenza intangibili da cui è caratterizzata sensu stricto la creazione. Visto in quest’ottica, cioè come propaggine della creazione, il tempo non può essere considerato una realtà soggettiva, perché la creazione non è una realtà soggettiva essa stessa.

Un’altra notazione che deve essere fatta, per una migliore comprensione della riflessione proposta da Agostino intorno al tempo, riguarda la sua personalizzazione.

Quello che qui si vuole mostrare è, come si è detto, che il tempo, nonostante mantenga uno statuto oggettivo, contempla in sé una dimensione di interiorità, la quale rende questa realtà (il tempo) oggettiva, e allo stesso momento una realtà personale; intendo personale nel senso che esso può essere vissuto secondo una dimensione morale, anche come luogo in cui la creatura umana può esplicitare la propria volontà. Se, perciò, da una parte, il tempo conserva la sua oggettività nell’essere lo spazio cronologico, nel quale Dio continua a concretizzare ciò che da sempre è nascosto nella sua volontà manifestandolo alla coscienza-memoria, immagine della Trinità, dall’altra, esso si personalizza e si interiorizza per un duplice ordine di ragioni: non solo perché misurato in questa memoria, la quale è autenticamente anche dell’uomo, bensì anche perché in esso la volontà, in un certo modo, si autodetermina.30 Secondo l’Ipponate, infatti, le ragioni causali, le quali si esplicitano attraverso il tempo e continuano a parte hominis a prolungare la creazione,31 contengono in loro la stessa concretizzazione della libertà, che è la volontà della creatura: «Colui che ha previsto (praescivit) tutte le cause delle cose, certamente non ha potuto ignorare fra tali cause le nostre volontà, che ha previsto (praescivit) essere le cause delle nostre azioni».32 Si noti, infatti, come molto sottilmente Agostino, in questo luogo, non dice creavit (ha creato) bensì praescivit (ha previsto), ad indicare in Dio la volontà profonda di tenere in considerazione la libertà della creatura.

Chiaramente l’utilizzo del verbo praescire nulla sottrae alla realtà del rapporto di causalità esistente tra Dio e la sua creazione, poiché secondo l’Ipponate la conoscenza divina è assolutamente efficace33 e la sua prescienza si fonda su una tale conoscenza e risulta perciò pur essa perfetta. Tuttavia tale prescienza, contemplando in sé la libertà dell’uomo, non diviene costringente nei confronti del libero arbitrio e di conseguenza il tempo, dove l’attività divina continua a manifestarsi all’uomo, non depotenzia affatto la volontà umana, ma permette piuttosto alla creatura razionale di personalizzarlo, consentendole così di agire come padrona autentica dei propri atti.

La personalizzazione del tempo, insieme alla sua oggettivazione, permettono così che il fine stesso del tempo, ovvero il continuo manifestarsi di Dio all’uomo, non trovi la creatura passiva nei confronti della ricezione della Parola divina. Il continuo agire di Dio nella creazione si realizza, infatti, attraverso la sua parola, parola la quale non si manifesta solo nelle Scritture, ma che diviene sostanza nel Verbo incarnato, il quale è, secondo Agostino, la prolazione della volontà trascendente nel tempo e, perciò, completamento ontologico, sempre a parte hominis, della creazione: è infatti il Verbo incarnato la via che nel tempo conduce all’eternità che è Dio stesso:

Discese nel mondo la nostra vita, la vera, si prese sulle sue spalle la nostra morte e l’uccise con la sovrabbondanza della sua vita, ci gridò tuonando di tornare dal mondo a lui, nel sacrario onde venne a noi dapprima entrando nel seno di una vergine, ove gli si unì come sposa la creatura umana, la nostra carne mortale per non rimanere definitivamente mortale (trad. Carena).34

La fede, la quale sta alla base di questo dialogo (l’agire di Dio attraverso la sua parola che si comunica all’uomo), è una potenzialità vicina alla ragione35 e per questo ha bisogno di alcuni segni che permettano la decifrazione della sua validità.36 Ebbene, ciò è possibile solo nel tempo vissuto come personalizzazione (è infatti nella persona che si esercita la libertà di discernimento)37 ma insieme come evidenza oggettiva (poiché solo in una dimensione oggettiva è possibile percepire un messaggio universalmente valido).38 Per questo Dio può parlare all’uomo, nel tempo, nella sua interiorità, ma insieme anche nell’universalità del suo genere.39 Questo linguaggio è, infatti, recepibile nella individualità universalmente, perché comprensibile a tutti: la memoria, come decodificatore di questo linguaggio, è una realtà oggettiva, non lo si dimentichi, in quanto essa è «parte» costituente della natura-immagine: tale linguaggio, come si è visto, è il tempo, l’unica dimensione dell’esistente reale contemporaneamente personale ed oggettiva; personale, perché costituente proprio di ogni singolo; oggettiva, in quanto riflesso della natura divina perché sua esplicitazione.

4. Conclusioni

Il tempo è, perciò, secondo Agostino, innanzitutto tempo di grazia, dove Dio incontra l’uomo per redimerlo, ed è quindi testimone indiretto della sua universale volontà salvifica: questo tempo è, infatti, un dono offerto ad ogni uomo, poiché ogni uomo possiede la memoria, in quanto possiede l’immagine, e per questo resta sempre capace di Dio.40

Ma, a prescindere dal contenuto specifico di questo linguaggio, ciò che a noi importa è la profondità di una tale concezione del tempo.

Agostino, pur non rinnegando l’oggettività quale proprietà del tempo, e, perciò, mostrandosi continuatore di una linea ermeneutica rimontante alle stesse origini della speculazione filosofica, riveste questo concetto così complesso di una dimensione specificamente personale ed interiore. Credo che una tale concezione debba il suo strutturarsi, secondo queste sue peculiari caratteristiche, alla necessità di leggere il rapporto Dio-uomo in maniera personale ma allo stesso tempo universale.41

Lo stesso concetto di tempo non è, perciò, un mero portato della ragione riflettente, ma l’espressione di un pensiero che sottomette la stringente logica della conoscenza filosofica alle proprie esigenze di fede.

Da questo atteggiamento, mi pare, nasce la non completa intelligibilità della sua operazione interpretativa.

Agostino, infatti, da una parte non vuole rinnegare il fondamento logico della sua riflessione, rappresentato dalla speculazione precedente, dall’altra parte, invece, non si fa scrupolo almeno di piegare tali esigenze a quelle della fede, la quale parla un linguaggio, per alcuni contrario, per altri superiore, ma comunque diverso da quello della ragione umana. Per questo, nonostante la riflessione agostiniana sembri altamente interessante e certamente innovativa per i suoi tempi, tuttavia non mi pare di poter leggere in essa un reale testimone di una modalità radicalmente altra di intendere il problema tempo: non ritengo, in sostanza, che essa si mostri come la prima testimonianza del concetto di tempo della filosofia moderna.

L’incapacità di separarsi completamente dalla riflessione precedente ha, a mio avviso, reso impossibile il realizzarsi di un compiuto rinnovamento teoretico.

Pertanto, se è vero che attraverso un’analisi parziale della sua opera è possibile formulare un’ermeneutica, la quale si muove verso una dimensione interpretativa soggettivistica, una riflessione di più ampio respiro, la quale tenga conto della globalità del portato che questo concetto riveste per Agostino, non può, a mio avviso, non concludere per una visione più moderata e meno innovativa in senso moderno.

Nonostante ciò, l’opera dell’Ipponate resta pur sempre un tentativo di conciliazione tra esigenze della ragione filosofica e quelle della fede: un tentativo non compiutamente riuscito quanto a rigore teoretico, ma di grande valore per la profondità e la sottigliezza del pensiero, del quale è una sublime espressione. D’altronde non esiste, penso, un pensiero, seppur grande, che possa risultare alla fine compiutamente ed integralmente coerente: ciò che soprattutto importa è cercare di comprendere cosa un autore abbia veramente voluto dire e cercare di ascoltare le sue ragioni, anche se queste non sono sempre compiutamente armonizzabili tra loro.


  1. I testi agostiniani riportati in quest’articolo sono tratti: dall’edizione del Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum (CSEL), Wien 1896 ss., vol. XLI e vol. LXXX (rispettivamente per il De Trinitate e il De doctrina christiana); dalle edizioni presenti nel Corpus Christianorum, Series latina, Turnhout 1953 ss., vol. XXVII e voll. XLVII- XLVIII (rispettivamente per le Confessiones e il De Civitate Dei); dalle edizioni presenti nella collana «Scrittori greci e latini», Fondazione Lorenzo Valla (per le Enarrationes in Psalmos, Milano 1988); dall’edizione dei Maurini, Parigi 1679-1700, voll. 18 (per: De Genesi ad litteram, De fide rerum quae non videntur, De vera Religione, De correptione et gratia, De praedestinatione Sanctorum, Epistula 166, De Musica). ↩︎

  2. Che la ragione prima del tempo risieda nell’amore provvidenziale di Dio è già pienamente chiaro fin dagli inizi dell’episcopato di Agostino: cfr. De doctrina christiana I, 35, 39: «Affinché, dunque, conoscessimo e attuassimo ciò, dalla divina Provvidenza è stata costituita tutta la presente economia temporale per la nostra salvezza (facta est tota pro nostra salute per divinam providentiam dispensatio temporalis). Di questa economia noi dobbiamo servirci non con un amore e un godimento che in essa si fermi, ma piuttosto che sia transitorio, come una via, come un veicolo di qualsiasi genere, o come un qualsiasi altro mezzo di trasporto… basta che comprendiamo che le cose, che ci portano, dobbiamo amarle in vista di colui al quale siamo portati» (corsivo mio). Naturalmente il tempo non solo è il luogo dove la creatura può essere salvata ma è anche il luogo in cui l’uomo può perdersi: cfr. pure R. Jordan, Time and Contigency in St. Augustine, in Augustine. A Collection of Critical Essays, a cura di R.A. Markus, New York 1972, p. 257: «Augustine, on the other hand, thinks that time is important for quite another reason-it is in time that a soul is saved or lost». Il tempo, quindi, svolge una funzione decisiva per ogni uomo. . ↩︎

  3. Tra i più interessanti sono certamente da enumerare i contributi di R. Berlinger, “Il tempo e l’uomo”, Année théologique Augustinienne, 1953, pp. 260-279; J. Chaix-Ruj, Les dimensions de l’être e du temps, Lyon 1953; dello stesso autore, S. Augustin temps et histoire, Paris 1955; J. Moreau, “Le temps et la création selon Saint Augustin”, Giornale di Metafisica (1965), pp. 276-290; W. Schmidt-Dengler, “Die «aula memoriae» in den Konfessionen des heiligen Augustin”, Revue des Études Augustiniennes (da ora Rev. Aug.) 13 (1968), pp. 69-89; H.J. Kaiser, Augustinus Zeit und Memoria, Bonn 1969; G. O’Daly, “Time as Distensio and St. Augustine s’exegesis of Philippians 3, 12, 14”, Rev. Aug. 22 (1977), pp. 265-271 (dove l’autore scorge una dimensione chiaramente religioso-esistenziale, che in ogni caso, mi sembra, si armonizza con un’interpretazione soggettiva); S. Bohm, La temporalité dans Saint Augustin, Paris 1984; E.A. Schmidt, Zeit und Geschichte bei Augustin, Heildelberg 1985; K. Flasch, Was is Zeit? Augustinus von Ippo, Francoforte 1993. Di differente taglio lo studio di J. Guitton, Le temps et l’éternité chez Plotin et saint Augustin, Paris 1971 (4a ed.), il quale seppur non arriva a proporre una interpretazione in chiave oggettiva del tempo, pone tutte le premesse perché si possa iniziare a considerare una tale ipotesi. Per una riflessione generale sui testi appena citati si veda il mio L’Orizzonte dell’Assoluto: il tempo della libertà, Axa ed., Botosani 2000, pp. 113-117. ↩︎

  4. Si veda R. Jordan, op. cit.; L. Alici, La funzione della Distensio nella dottrina agostiniana del tempo, Augustinianum 15 (1975), pp 325-345. Il primo di questi contributi limita l’analisi quasi esclusivamente a Confessiones (da ora Conf.) XI-XII, e non giunge ad una chiara affermazione dell’oggettività del tempo, anche se mi pare di poter individuare nell’articolo delle sfumature, le quali possono essere intese in tal senso. Nel lavoro di Alici invece è possibile rintracciare chiaramente alcuni elementi deponenti contro un soggettivismo assoluto (vedi anche quanto scrivo nella nota 16), ma anche qui l’analisi dei testi è limitata, in quanto l’autore intende soffermarsi esclusivamente su un aspetto particolare della questione. ↩︎

  5. Riguardo all’importanza fondamentale del linguaggio in Agostino e alle sue fonti, si veda J.M. Rist, Augustine. Ancient Though Baptized, Cambridge 1994 (trad. it., Agostino. Il battesimo del pensiero antico, Milano 1997), soprattutto le pp. 30-40 della trad. it. Una significativa parte di questo lavoro è dedicata al problema linguistico. Per noi, di fondamentale importanza è la constatazione che, secondo Agostino, il linguaggio è immagine del rapporto essere-esistere o essere-divenire. Da questa constatazione, traslata qui sul piano teoretico-morale-esistenziale, infatti, noi prenderemo le mosse per una interpretazione che veda in Dio (l’Essere) e nell’uomo (la creatura che diviene) i due poli dell’azione linguistica, compientesi nella dimensione tempo, tempo che sembrerà anzi divenire, attraverso la sua semantizzazione, il linguaggio stesso, quel particolare linguaggio comune al Creatore e alla creatura: un linguaggio di salvezza. ↩︎

  6. Non mi sembra necessario soffermarmi, stricto sensu, sulla constatazione che l’Incarnazione è legata nel modo più stretto con il problema della parola: per questo si veda H.G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it. Milano 1972, soprattutto p. 480. Si confronti anche con profitto G. Bavaud, “Un thème augustinien: le Mystère de l’Incarnation, à la lumière de la distinction entre le verbe intérieur et le verbe proféré”, Rev. Aug. 9 (1963), pp. 95-101. Per una buona sintesi del problema del linguaggio in Agostino vedi L. Alici, “I segni e il linguaggio, in La Dottrina Cristiana”, Nuova Biblioteca Agostiniana (NBA) vol. VIII, Roma 1992, pp. XX-XL. ↩︎

  7. Guardando alle origini del pensiero greco è già evidente come non si possa concepire un’idea soggettiva del tempo. Se, infatti, si volge lo sguardo alla preistoria della speculazione greca, tale atteggiamento risulta chiaro: anche quando la ragione si confonde ancora con il mito e perciò la soggettività ritaglia per sé uno spazio notevole, ogni attributo di soggettività viene sottratto al tempo. Cfr., ad esempio, Omero, Iliade, I, 70 (nell’edizione di T.W. Allen, Oxford 1931) e Esiodo, Theogonia, 38 (nell’edizione di M.L. West, Oxford 1966). In entrambi i luoghi, infatti, è evidente come l’esperienza temporale altro non sia se non l’oggettivazione dell’esistente reale. Si capisce bene, perciò, come al sorgere di una speculazione filosofico-razionale, il tempo venga percepito dall’uomo come una realtà pienamente oggettiva. In Talete, infatti, il principio di unificazione del reale, e perciò l’espressione piena dell’oggettività, è manifestato proprio dal tempo (cfr. E. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, 6a edizione a cura di W. Kranz, Berlino, Weidmann, 1951-1952 [da ora D-K], fr. A1) e secondo Parmenide il reale oggettivo avanza nell’orizzonte di due dimensioni bipolari, una delle quali è appunto il tempo (cfr. D-K 8, 5). In Platone il tempo è l’immagine stessa dell’eternità dell’essere (Timeo 37e) e per Aristotele esso costituisce la misura stessa del divenire (Fisica IV, 10-14). Si veda per una riflessione più approfondita il mio L’Orizzonte…, pp. 10-21. Una analisi sufficientemente esaustiva sul tempo nell’antichità classica è presente nello studio di R. Sorabji, Time, Creation and the Continuum. Teories in Antiquity and the Early Midle Ages, Londra 1983, dove si riflette soprattutto sulla realtà del tempo e sul rapporto esistente tra tempo ed eternità e tra tempo e creazione. Forse il pensiero presocratico meriterebbe un maggiore approfondimento, infatti alcuni filosofi, di un certo interesse per la nostra tematica, sono del tutto ignorati. In questo studio è invece dedicato abbastanza spazio ad Agostino, al quale sono consacrate diverse pagine: cfr. pp. 29-32, 163-172, 302-305; vedi pure p. 263 e pp. 289-290, queste ultime interessanti per il rapporto con Gregorio di Nissa (vedi soprattutto la nota 14 a p. 290), anche se l’autore non pare molto propenso ad ammettere una influenza del Nisseno sull’Ipponate, nonostante le evidenti congruenze riguardo allo specifico argomento ivi trattato. A proposito dell’interpretazione di Sorabji del tempo in Agostino si veda il mio L’orizzonte…, p. 115. Interessanti osservazioni sulla concezione del tempo nell’antichità si possono trovare anche nel volume a cura di L. Ruggero, Filosofia del Tempo, Milano 1998. Come è noto, la formazione di Agostino, a prescindere dalla sua effettiva capacità di comprendere un testo in lingua greca, ha preso forma soprattutto nel modellarsi sulla speculazione filosofica greca, anche tramite alcuni autori latini, che gliela resero nota (si pensi a Cicerone). Poiché ogni autore, credo, non può essere compreso a prescindere dalla storia della sua formazione, ritengo abbia una importanza fondamentale considerare il tipo di concezione che gli venne trasmessa anche riguardo al tempo. ↩︎

  8. La stessa memoria per Plotino è l’orizzonte tra il tempo della storia e il tempo dell’eternità: pertanto non è concepibile nessuna interpretazione del tempo e di ogni dimensione di temporalità che non sia proposta secondo un portato oggettivo. Vedi Enneadi V-VI, nonché il mio L’Orizzonte…, pp. 36-43. Si vedano anche G. Gulkowski, “Quid Plotinus de aeternitate sempernitateque atque de tempore docuerit”, Meander 28 (1973), pp. 307-338; A.H. Armstrong, “Eternity life and movement in Plotinus’ account of nus”, Le Néoplatonisme 1972, pp. 67-76; C. Guidelli, “Note sul tema della memoria nelle Enneadi di Plotino”, Elenchos 9 (1988), pp. 75-94. ↩︎

  9. Nell’antico Testamento i luoghi più significativi, dai quali è possibile dedurre la concezione che i sacri Autori ebbero del tempo, sono fondamentalmente Genesi 1-3 e 16-22; Qoelet 1-3, 7, 9; Giuditta 1, 4, 5, 7, 9, 11, 14; Geremia 1-16; 23-25; Daniele 12. In tutti questi passi risulta evidente come il tempo altro non sia che l’oggettivazione nascosta dello sviluppo lineare della Storia e rivesta un valore eminentemente oggettivo. Vedi Il Tempo in Parola, Spirito e Vita, Bologna 1998 e S. Taranto, L’Orizzonte…, pp. 22-28. Nel nuovo Testamento poi il tempo assume una portata cosmica e diviene il luogo oggettivo dove l’uomo può essere partecipe della Redenzione. Cfr. Mc. 2 e 13; Lc. 1, 48; 2, 29; 4, 16-21; 23, 43; Gv. 1; 4, 6 e 21-23; 5, 6; 19, 27; Atti 13, 33 ecc. Si comprende bene, perciò, come non sia possibile ammettere nel nuovo Testamento se non che una visione eminentemente oggettiva del tempo. Vedi anche O. Cullmann, Christ und die Zeit, Zurigo 1946 (trad. it., Cristo e il Tempo, Bologna 1965); H. Logkommer, “Christus mediator Creationis! ”, Verb Dom 45 (1967), pp. 201-208; W. Trilly, Jésus devant l’histoire, Paris 1967; M. Grilli, “Il tema dell’Oggi nell’opera lucana”, Parola Spirito e Vita (1997) 2, pp. 139-147; G. Zenini, “L’ora di Gesù nel Vangelo di Giovanni, ” ibidem, pp. 148-169. Vedi pure S. Taranto, L’Orizzonte…, pp. 29-35. ↩︎

  10. Cfr. Oratio Catechetica Magna V-VIII; De Opificio Hominis 22-23; De Anima et Resurrectione 69c; In Exaemeron 85d; Contra Eunomium I, 361-363. Vedi anche J. Daniélou, L’être et le temps chez Grégoire de Nysse, Leiden 1970 e S. Taranto, L’orizzonte…, pp. 49-55. In vero la posizione di Gregorio è molto vicina a quella di Agostino: per entrambi, infatti, il senso profondo del tempo risiede nel suo essere condizione di possibilità della redenzione di ogni creatura, vivente nel tempo della storia, e del suo ritorno all’Essere-Bene. Il peccato per i due Padri altro non è che l’allontanamento dall’Essere, prodotto dall’inclinazione della volontà verso il nulla. Per tutto questo vedi S. Taranto, Gregorio Nisseno: una possibile fonte di Agostino?, Atti dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti, 75 (1999), in corso di stampa. ↩︎

  11. A questo proposito, De Civitate Dei XI, 28 è estremamente chiaro: «Poiché, dunque, siamo uomini, creati ad immagine del nostro Creatore, del quale è vera l’eternità, eterna la verità, eterna e vera la carità, ed egli stesso è Trinità eterna, vera e cara, senza confusioni e senza separazioni, anche nelle realtà inferiori, quasi attraversando tutto ciò che egli ha creato nella sua mirabile immutabilità, raccogliamo le tracce che vi ha lasciato più o meno profonde. Anche queste realtà, infatti, non potrebbero esistere in altro modo, non sarebbero legate ad alcuna forma e non tenderebbero ad alcun ordine né lo conserverebbero, se non fossero create da colui che possiede l’essere, la sapienza e la bontà nella pienezza. Contemplando poi la sua immagine in noi stessi… ci risolleviamo per ritornare a colui dal quale ci eravamo separati con il peccato». La natura ontologica dell’uomo, perciò, si struttura sulle eterne proprietà del Divino. Ora, la presenza di tale “divisione trinitaria” indica che la memoria, per la quale questa è vividamente presente alla coscienza, è un aspetto primordiale dello spirito. Vedi anche J. Alcorta, “La imagen de Dios en el hombre segun S. Agustín”, Miscellanea Capanaga I (1965), pp. 29-38. Cfr. pure, riguardo all’uomo-immagine, Conf. VI, 3, 4; XIII, 22, 32; 23, 34; 24, 35; 32, 47; De Genenesi contra Manichaeos I, 17, 28. . ↩︎

  12. È questo un concetto espresso chiaramente dal Nostro in Enarrationes in Psalmos 42, 6: «Ergo intelligimus habere nos aliquid ubi imago Dei est, mentem scilicet atque rationem. Ipsa mens invocabat lucem Dei et veritatem Dei. Ipsa est qua capimus iustum et iniustum; ipsa est qua discernimus verum a falso; ipsa est quae vocatur intellectus quo intellectu carent bestiae; quem intellectum quisquis in se negligit et posponit caeteris, et ita abicit quasi non habeat, audit ex Psalmo: nolite esse sicut equus et mulus quibus non est intellectus». Pertanto, la facoltà di giudizio è propria di ogni uomo in virtù della presenza dell’immagine, la quale è in ogni uomo, a prescindere dal suo stato ontologico-morale. Poiché la memoria, come diremo meglio in seguito, costituisce il tessuto connettivo della stessa immagine, in quanto rende presente all’uomo la stessa possibilità di giudizio, essa è necessariamente una dimensione oggettiva nella creatura, poiché, anzi, fonda la possibilità del giudizio stesso, ovvero, dona la capacità di discernere il giusto dall’ingiusto; ciò che è giusto come ciò che è ingiusto, è giusto e ingiusto universalmente secondo Agostino, poiché il loro statuto, come si è visto, si fonda sulla aeterna Veritas↩︎

  13. Conf. XIII, 11, 12. Il testo originale suona così: «Dico autem haec tria: esse, nosse, velle. Sum enim et scio et volo: sum sciens et volens et scio esse me et velle et volo esse et scire. In his, igitur, tribus quam sit inseparabilis vita et una vita et una mens et una essentia, quam denique inseparabilis distinctio et tamen distinctio, videat qui potest». ↩︎

  14. La memoria è, infatti, l’essenza della mens e, quindi, della capacità di giudizio, il quale ha, in quanto capacità di discernere il bene dal male, una valenza universale, poiché, per Agostino, non è naturalmente immaginabile una relativizzazione di tali concetti. Ecco la conferma tratta da De Trinitate X, 11, 18: «Haec igitur tria: memoria, intelligentia, voluntas, quoniam non sunt tres vitae, sed una vita, nec tres mentes, sed una mens, consequenter utique nec tres substantiae sunt sed una substantia. Memoria quippe, quae vita et mens substantia dicitur, ad se ipsam dicitur; quod vero memoria dicitur ad aliquid relative dicitur». ↩︎

  15. A conferma di ciò si veda quanto il Nostro afferma in Conf. X, 17, 26: «Supererò anche la memoria, ma per trovarti dove, o vero bene, o sicura dolcezza, per trovarti dove? Trovarti fuori della mia memoria significa averti scordato. Ma neppure potrei trovarti, se non avessi ricordo di te» (trad. Carena). È chiaro come per Agostino è la memoria il “luogo” dell’incontro dell’uomo con Dio. E ciò è naturale se si considera che l’immagine risiede proprio nella coscienza-memoria: l’uomo allora incontra Dio nella memoria-immagine. ↩︎

  16. L’Ipponate lo afferma esplicitamente in Conf. XI, 27, 36: «È in te, spirito mio, che misuro (metior) il tempo». Interessantissimo per noi quanto, a proposito della distensio, scrive L. Alici (“La funzione… ”, cit., soprattutto le pp. 341-342) che in qualche modo si pone sulla linea di C. Carena, il quale afferma che Agostino «rivendica una funzione di oggettivazione d’una realtà mutevole, contro l’esasperazione soggettivistica di Kant» (cfr. la nota a commento di Conf. XI, 27, 36: C. Carena a cura di, Le Confessioni, ed. CDE, Milano 1986, p. 340). Sebbene Alici non si esprima proprio così chiaramente, tuttavia dal suo contributo si comprende come vi siano delle valide motivazioni per affermare che secondo l’Ipponate la distensio non si riveste affatto di una “soggettività integrale”. Cfr. anche M. Nicolodi, “Formalismo agostiniano”, Augustinus Magister, vol. I, Paris 1954, p. 378. Per una riflessione più compiuta, riguardo all’oggettività del tempo e del suo “misurante”, si veda il mio L’orizzonte…, cit., p. 58 ss. ↩︎

  17. Conf. X, 16, 25. Cfr. anche Conf. X, 14, 21 dove Agostino dice essere la memoria «il ventre dello spirito». ↩︎

  18. Si legga pure De Trinitate XI, 12: «Unde intellegi potest, voluntatem reminiscendi ab iis quidem rebus quae memoria continetur procedere, adiunctis simul eis quae inde per recordationem cernendo exprimuntur, id est, ex copulatione rei cuiusdam recordati sumus. Sed ipsa quae utrumque copulat voluntas requirit et aliud quod quasi vicinum est atque contiguum recordanti». Non si dimentichi che per Agostino il tempo è sempre misurato dall’anima. ↩︎

  19. Ecco perché Agostino può essere certo che il suo amico Nebridio, che si trova ormai nella pace eterna, si ricorda di lui. Cfr. Conf. IX, 3, 6, dove il Nostro afferma chiaramente di non credere che il suo amico «tanto si inebri della sorgente divina, da scordarsi di me, poiché tu, Signore, da cui attinge, di noi ti ricordi». L’uomo, perciò, anche nella dimensione altra, è in grado di ricordare, ovvero, la sua memoria è sempre efficace: ciò si spiega perché è questa uno degli elementi oggettivi del composto umano, il cui parametro è perciò universale, poiché la sua struttura è sempre la medesima. Nell’anima, o meglio nella coscienza-memoria, sono, infatti, presenti alcune nozioni innate che permettono all’uomo di risvegliare le verità eterne attraverso le sensazioni. La memoria, misuratrice del tempo, è, perciò, il decodificatore dell’eternità, eternità, che, attraverso essa, diviene tempo e come tempo può essere misurata. Cfr. Conf. VII, 10-16 e 20-26. Vedi pure L. Cilleruello, “Pro memoria Dei”, Rev. Aug. 12 (1966), pp. 65-84. ↩︎

  20. La conferma la troviamo in De Genesi ad litteram V, 12: «Cum primam conditionem creaturarum cogitamus, a quibus operibus suis Deus in die septimo requievit, nec illas dies sicut istas solares, nec ipsam operationem ita cogitare debemus, quemadmodum nunc aliquid Deus operatur in tempore: sed quemadmodum operatus est omnia simul, praestans eis etiam ordinem, non intervallis temporum sed connexione causarum, ut ea quae simul facta sunt, senario quoque illius diei numero praesentato perficerentur. Non itaque temporali sed causali ordine prius facta est informis formabilisque materies et spiritalis et corporalis de qua fieret quod faciendum esset». Ogni ragione causale è però nascosta nella divina volontà ma viene concretizzata nel tempo, perché è il tempo il luogo in cui soprattutto viene effusa la grazia. A questo proposito si legga quanto Agostino afferma in De Genesi ad litteram IX: «Servavit in se ipso ad effundenda in tempus ordinatim» e VI, 18: «Quapropter si omnium futurorum causae mundo sunt insitae, cum ille factus est dies, quando Deus creavit omnia simul, non aliter Adam factus est, sicut est credibilius iam perfectae virilitatis, quam erat in illis causis, ubi hominem in sex dierum operibus fecit… Si autem non omnes causas in creatura primitus condita praefixit, sed aliquas in sua voluntate servavit, non sunt quidem illae, quas in sua voluntate servavit, ex istarum quas creavit necessitate pendentes; non tamen possunt esse contrariae, quas in sua voluntate servavit, illis, quas sua voluntate constituit: quia Dei voluntas non potest sibi esse contraria. Istas ergo sic condidit, ut ex illis esse illud cuius causae sunt possit, sed non necesse sit; illas autem sic abscondit, ut ex eis esse necesse sit hoc, quod ex istis fecit ut esse possit». Ciò che comunque qui è importante rilevare è come l’importanza del tempo non risiede tanto nel suo essere misuratore degli eventi, quanto nel suo rivelarsi realtà possibilitante l’intervento della Trascendenza nella storia (nello specifico attraverso la Redenzione). Ecco perché, credo, viene attribuita al settimo giorno un’importanza maggiore rispetto ai sei giorni della creazione, e, perciò, al tempo della storia una rilevanza più grande rispetto alla stessa costituzione ordinata del creato. Riguardo al rapporto che viene ad instaurarsi tra creazione e redenzione cfr. L. Orbetello, “Creazione e redenzione nel pensiero di Sant’Agostino”, in Fede e Sapere, a cura di A. Geroso, Genova 1986, pp. 71-92. ↩︎

  21. Cfr. Conf. XI, 13, 15-16 e XIII, 33, 48. ↩︎

  22. De Genesi ad litteram IV, IX, 16-17. ↩︎

  23. Cfr. Conf. XIII, 36, 51. ↩︎

  24. Per una buona riflessione intorno all’ interpretazione del settimo giorno vedi P. Agaësse e A. Solignac (a cura di), La Genèse au sens Littéral, Paris 1972, note complementari 19, 20 e 21, pp. 639 ss., soprattutto 19, 2 (p. 639). ↩︎

  25. Qui, infatti, non interessa ancora vedere quale sia l’oggetto specifico della comunicazione tra Dio e uomo. Ciò che importa è che il Creatore abbia ancora qualcosa da rivelare alla creazione e che questa rivelazione avviene nel tempo. Tuttavia si ricordi che, da quanto chiaramente risulta dai capitoli IV-V del De Genesi ad litteram, l’oggetto di tale dialogo è la grazia che viene profusa nella storia attraverso il Cristo. Cfr. soprattutto De Genesi ad litteram IV, 39, 41, 46, 48. ↩︎

  26. Cfr. nota 20. ↩︎

  27. Significativo, per esempio, il De correptione et gratia 16, 49: «E chi amò i deboli più di colui che per tutti si fece debole e per tutti, a causa della sua stessa debolezza, fu crocifisso?». Il valore universale della morte del Cristo è chiaramente indice che tale intervento di Dio nel tempo deve essere rivolto, almeno potenzialmente, ad ogni uomo. Il tempo diviene perciò il veicolo di comunicazione della proposta universale di salvezza. Si ricordi che la funzione maggiore attribuita al tempo da Agostino è quella di essere il luogo in cui l’uomo può entrare in relazione con Dio. Riguardo alla volontà universalmente salvifica di Dio vedi anche Contra Iulianum VI, 4, 8 e Contra Iulianum opus imperfectum II, 174, 175. ↩︎

  28. Confessiones XI, 13, 15. ↩︎

  29. Perfezionamento come categoria ontologica. Perciò non deve necessariamente essere inteso come progresso verso il bene, ma più semplicemente come completamento del proprio statuto ontico. Sebbene bisogna dire che il corso del tempo, nella sua distensione, agli occhi del Nostro, acquista senso, perché permette l’azione operante dell’evento rigenerativo, che veramente salva: il Cristo presente. Cfr. De civitate Dei XII, 21, in cui si dice: «Seguendo perciò la retta via, che per noi è il Cristo, sotto la sua guida salvifica allontaniamo la nostra mente e il cammino della fede dai vuoti e stupidi cicli degli empi… Dopo esserci liberati di questi ingannevoli cicli, non c’è più nessuna necessità che ci spinga a pensare che il genere umano non abbia avuto un inizio della sua esistenza nel tempo, perché è superfluo il pretesto secondo cui per quegli inqualificabili cicli niente di nuovo avvenga che non sia esistito prima e non esisterà poi, secondo intervalli definiti di tempo. Se infatti l’anima viene liberata, senza che possa tornare ad essere infelice, come non era mai stata liberata prima, avviene in essa qualcosa che non era avvenuto prima e qualcosa di veramente grande, cioè una felicità eterna che non ha mai fine». È nel tempo, infatti, che il Cristo ci guida verso la liberazione e, dunque, verso la salvezza. ↩︎

  30. Non posso qui entrare per ragioni di spazio nel merito del rapporto esistente tra libertà e grazia e delle aporie interne allo stesso pensiero di Agostino che tale rapporto genera. Mia intenzione è analizzare il significato che il tempo riveste per Agostino aldilà dei problemi di congruenza interna alla sua opera, dei quali, come diremo, il senso da lui attribuito al tempo può essere uno dei possibili indici. ↩︎

  31. È chiaro che con prolungamento della creazione non intendo dire che Dio continua a creare sostanzialmente, ma più semplicemente che egli continua a manifestare con il suo intervento efficace la sua presenza nella storia. Sebbene una sostanziale creazione risulti l’Incarnazione del Verbo, poiché attraverso di essa viene all’esistenza una alterità sostanziale differente da tutto l’esistente reale. Ecco perché Agostino si riferisce preferibilmente all’evento dell’Incarnazione, quando scorge (lo si è visto soprattutto a proposito del De genesi ad litteram) nel tempo la propaggine della creazione: il tempo, appunto, in quanto luogo, dove si realizza la redenzione, il cui fondamento è l’incarnazione stessa. Ecco anche perché egli pone la sua attenzione soprattutto sul settimo giorno significante il tempo della storia, piuttosto che sull’esamerone. ↩︎

  32. De civitate Dei V, 9. Ecco l’originale latino: «Qui omnes rerum causas praescivit, profecto in eis causis nostras voluntates ignorare non potuit, quas nostrorum operum causas esse praescivit». ↩︎

  33. Il De Trinitate XV, 13 afferma: «Tutte le sue creature, tanto quelle spirituali quanto quelle corporee, non è che, poiché sono, per questo Egli le conosce, al contrario esse sono poiché Egli le conosce (Universas creaturas suas tam spiritales quam corporales, non quia sunt, ideo novit sed ideo sunt quia novit)». Naturalmente qui si tratta di una conoscenza causativa. In Agostino, infatti, i verbi novit, praescivit indicano sia tale modalità di conoscenza causale, quanto una conoscenza semplicemente noetica. Non è però possibile qui approfondire questo argomento. Comunque Agostino non vuole con questo dire che Dio non tiene conto della libertà dell’uomo. Vedi pure M. Barret, Sources Chrétiennes 132, Paris 1967, p. 336 nota 2. ↩︎

  34. Confessiones IV, 12, 19; vedi pure De doctrina christiana I, 10, 11. Il tempo, quindi, va inteso come luogo dell’epifania del Divino: è il Cristo che ha realizzato la salvezza nel tempo per l’eternità, riconciliando l’uomo con Dio. Cfr. anche E. Bailleux, “La Sotériologie de saint Augustin”, Mélanges de Science Religeuse 23 (1966), pp. 149-173. ↩︎

  35. Il De praedestinatione sanctorum 2, 5 spiega: «Credere non è altro che pensare assentendo (credere nihil aliud est quam cum assensione cogitare)». ↩︎

  36. Cfr. De fide rerum quae non vid. 5: «Multum autem falluntur qui putant nos sine ullis de Christo indiciis credere in Christum. Nam quae sunt indicia clariora, quam ea quae nunc videmus praedicta et impleta? Proinde qui putatis nulla esse indicia cur de Christo credere debeatis quae non vidistis, attendite quae videtis. Ipsa vos Ecclesia ore maternae dilectionis alloquitur». Naturalmente qui si discute della fede in Cristo, poiché è appunto Cristo-Verbo il soggetto del dialogo efficace di Dio con l’uomo. ↩︎

  37. L’uomo è, infatti, libero perché ha sempre la possibilità di volere ciò che vuole, poiché egli vuole in funzione della capacità che ha di conoscere e di discernere ciò che vuole: la ratio, infatti, insieme all’amor, costituisce un’unità ontologico-strutturale sempre costante nell’uomo, per cui egli è sempre in grado di poter conoscere e, dunque, di scegliere: è perciò nell’uomo, nella profondità della sua stessa struttura, che si esercita tale possibilità di conoscenza. Si veda anche De Trinitate IX, 4, 5: «Simul etiam admonemur, si utcumque videre possumus, haec in anima existere, et tamquam involuta evolvi ut sentiantur et dinumerantur substantialiter, vel, ut ita dicam, essentialiter, non tamquam in subiecto, ut color, aut figura in corpore, aut ulla alia qualitas aut quantitas. Quidquid enim tale est, non excedit subiectum in quo est. Non enim color iste aut figura huius corporis potest esse et alterius corporis. Mens autem, amore quo se amat, potest amare et aliud praeter se. Item non se sola cognoscit mens sed et alia multa. Quamobrem non amor et cognitio tamquam in subiecto insunt menti, sed substantialiter etiam ipsa sunt, sicut ipsa mens; quia et si relative dicuntur ad invicem, ut color in subiecto colorato sit, non habens in se ipso propriam substantiam; quoniam coloratum corpus substantia est, ille autem in substantia». Ora, tale status è il fondamento della decodificazione dei segni presenti nel tempo: il linguaggio della fede, infatti, parla alla ratio e si rende credibile attraverso elementi giudicabili dall’intelletto umano, giudicabili secondo un criterio ben ordinato, poiché inerente ad una realtà sostanziale che, come si è visto, si rivela essere immagine di Dio e, perciò, univoca ed oggettiva. ↩︎

  38. Non a caso Agostino è solito porre in atto un paragone tra lo svolgersi del tempo e la musica: il tempo è, infatti, un cantico meraviglioso, poiché obbedisce alle leggi del numero, del ritmo e dell’ordine (in numero et sapientia): il tempo è una realtà profondamente ordinata e perciò strutturalmente oggettiva. A tal proposito, si legga Epistula 166, 5: «Moderatio Dei scimus omnibus temporaliter transeuntibus rebus, cursum ornatissimum et ordinatissimum dare; sed non ista sentire non posse, quae si sentiremus, dilectatione ineffabili mulceremur. Unde musica, id est, scientia sensumve bene modulandi, ad admonitionem magnae rei, etiam mortalibus rationales habentibus animas Dei largitate concessa est. Unde si homo faciendi carminis artifex novit quas quibus moras vocibus tribuat, ut illud quod canitur decedentibus ac succedentibus sonis pulcherrima currat ac transeat; quanto magis Deus, cuius sapientia per quam facit omnia longe omnibus artibus praeferenda est, nulla in naturis nascentibus et occidentibus in temporum spatia, quae tamquam syllabae ac verba ad particulas huius saeculi pertinent, in hoc labentium rerum tamquam mirabili canticum vel brevius vel productius quam modulatio praecognita et praefinita deposcit praeterire permittit?» (corsivo mio). Vedi pure De musica VI, 29, dove Agostino presenta un paragone tra l’ordine superiore e quello del tempo, il quale, nel riferirsi all’eternità, diviene eternità esso stesso, abbandonando la mutabilità propria del tempo nella storia: «Quae vero superiora sunt nisi illa in quibus summa inconcussa, incommutabilis, aeterna manet aequalitas? Ubi nullus est tempus, quia nulla mutabilitas est, et unde tempora fabricantur et ordinantur aeternitatem imitantia, dum (coeli) conversio ad idem redit, et caelestia corpora ad idem revocat, diebusque et mensibus et annis et lustris, caeterisque siderum orbibus, legibus aequalitatis et universitatis et ordinationis obtemperat. Ista coelestibus terrena subiecta, orbes temporum suorum numerosa successione quasi carmini universitatis associant». Il divenire del tempo, perciò, conserva in sé, in virtù della sua struttura oggettiva, la capacità di uniformarsi alle leggi ordinate della stabilità: il tempo si associa al ritmo armoniosamente ordinato dell’universo. Si legga anche il De musica VI, 22 e 25 dove Agostino mostra come dalla musica possono essere sussunte le leggi regolanti le proporzioni tra i diversi tempi della melodia e, per analogia, possono essere comprese le leggi di misura del tempo cosmico. Ebbene, se è possibile instaurare una analogia, ciò avviene proprio perché esistono delle leggi universalmente valide, le quali regolano il tempo come la musica e si fondano sul fondamentale concetto del numero-ritmo. Per questo vedi S. Taranto, L’orizzonte…, pp. 61-68. . ↩︎

  39. Significativo ciò che Agostino afferma nel De vera religione 46: «Quoniam igitur divina Providentia non solum singulis hominibus quasi privatim sed universo genere humano… consulit. Quid autem agatur cum genere humano per historiam commendari voluit et per prophetiam. Temporalium autem rerum fides sive praeteritorum, sive futurarum magis credendo quam intelligendo valet». La fede, quindi, diviene la categoria di precomprensibilità dello stesso tempo. Infatti, in ultima analisi, la vera religio, scelta liberamente grazie alla fede, altro non è, per Agostino, che questo tempo, il quale si tinge dei colori della grazia, la cui comprensione è segno di salvezza ma insieme di oggettività anche in quanto aperta, secondo il medesimo senso, ad ogni uomo. Si legga pure De vera religione 13: «Huius religionis sectandae caput est historia et prophetia dispensationis temporalis divinae Providentiae pro salute huius generis in aeternum vitiorum reformandi atque reparandi. Quae cum credita fuerit, mentem purgabit, vitae motus divinae divinis praeceptis conciliatus et idoneam facit spiritualibus percipiendis quae nec praeterita fuit nec futura, sed eodem modo semper manentia nulli mobilitati obnoxia». ↩︎

  40. In De Trinitate XIV, 8, 11 il Nostro spiega: «Quamvis mens humana non sit eius naturae cuius est Deus, imago tamen naturae eius qua natura melior nulla est, ibi quaerenda et invenienda est in nobis, quo etiam natura nostra nihil habet melius. Sed prius mens in se ipsa consideranda est antequam sit particeps Dei, et in ea reperienda est imago eius. Diximus enim eam etsi amissa Dei partecipatione obsoletam atque deformem, Dei tamen imaginem permanere. Eo quippe ipso imago eis est, quo eius capax est, eiusque particeps esse potest». E risiede proprio nell’essere capaci di Dio la possibilità di quella memoria Dei, la quale mostra come per Agostino non importi tanto la definizione metafisica dell’uomo, quanto l’orientazione verso il suo fine. Questo atteggiamento accomuna ancora di più l’Ipponate a Tommaso d’Aquino. ↩︎

  41. E l’universalità comporta il suo valore oggettivo, in quanto decodificabile da tutti secondo le medesime modalità, il che presuppone una medesima capacità di comprensione. Ma questo è stato detto. ↩︎