1. Una difficile genealogia
Studiare la genesi del pensiero di Luigi Pareyson (1918-1991), significa rintracciare una rete complessa di autori e di scrittori che appartengono al panorama italiano ed europeo a cui il filosofo valdostano ha quasi sempre fatto riferimento. Kierkegaard, Schelling, Fichte, Jaspers, Dostoevskij ma anche i filosofi francesi quali Pascal, Wahl, Marcel, Le Senne, oltre agli italiani Guzzo, Carlini e Mazzantini.1 sono solo alcuni dei maggiori pensatori a cui Pareyson ha attinto durante il suo lungo percorso accademico e con cui si è confrontato per l’elaborazione del suo pensiero. Tuttavia, ci sono anche altri pensatori che pure hanno influito, sebbene in forma più mediata e nascosta, alla costruzione del suo iter speculativo, ora per prenderne le distanze ora per trovare conferma alle sue ipotesi di percorso. Si tratta, ad esempio, di filosofi dello spessore di Barth, Nietzsche e Heidegger, con cui il filosofo di Cuneo non ha mai smesso veramente di confrontarsi, come molti studiosi hanno evidenziato negli ultimi venticinque anni.2 I filosofi di cui parliamo, infatti, sono quelli con cui Pareyson ha parimenti dovuto trovare punti di contatto e di congedo per il suo pensare, tanto per gli studi sull’esistenzialismo, quanto per quelli di estetica e di ermeneutica.
Uno degli studi più recenti, ad esempio, che analizza approfonditamente lo strettissimo nesso tra Pareyson e il pensiero dialettico di Barth, è quello condotto da Andrea Bellocci nel suo saggio Implicanza degli opposti, aporia dell’identico. Luigi Pareyson interprete di Barth (2012).3. Lo studioso romano individua un continuo dialogo, seppure spesso implicito e sottaciuto, tra il pensiero di Pareyson e quello di Barth, soprattutto con la Lettera ai Romani e il testo Dio e il niente del teologo svizzero (quest’ultimo tratto dal terzo volume della Dogmatica Ecclesiale). Da una parte, il Bellocci sostiene la non «unicità» dell’influsso schellinghiano esercitato su Pareyson e al contempo mette in luce le affinità oggettive con le strutture di pensiero di Barth, fino a giungere ai «medesimi esiti oppositivi e annichilenti della dialettica dell’implicanza barthiana» e, quindi, all’aporia dell’identicità e indiscernibilità degli opposti. Dall’altra, egli intende «far scoppiare» dall’interno il sistema pareysoniano, individuando una sorta di «lacerazione interna» al suo iter, scisso tra la libertà e la teologia dialettica di Barth, da una parte, e la libertà dialettica e la concezione spiritualistico-personalistica di Dio, dall’altra; tra la dialettica ontologica dell’esistenzialismo protestante e l’esigenza personalistica dello spiritualismo cattolico, tra il Dio irrelativo barthiano e il Dio relativo spiritualistico. In particolare, Bellocci rintraccia nella teologia barthiana gli strumenti concettuali che condurranno il filosofo valdostano a parlare di «implicanza» di termini opposti, come quella «tra positivo e negativo» e, quindi, del «discorso temerario» sul «male in Dio».4 In questo senso, il tema della sofferenza vicaria e del Dio sofferente non riprende solo elementi dostoevskijani ma la dialettica implicativa barthiana, tanto che «il mondo del pensatore russo e quello del teologo protestante non configgono in alcun modo, né va mai dimenticato che Dostoevskij è stato filtrato per la prima volta proprio attraverso la teologia dialettica»5
Se l’argomentazione di Bellocci si mostra stringente e radicale in alcuni aspetti, quello che noi proponiamo in questo breve articolo è argomentare, sebbene in modo più sintetico che analitico, l’interpretazione heideggeriana da parte di Pareyson elencandone i passaggi salienti della sua lettura.6. Infatti, il primissimo approccio pareysoniano al pensiero del filosofo tedesco negli anni ’30 risulterà determinante dapprima nella scelta di dedicare i suoi studi all’esistenzialismo di Jaspers, poi nella decisione di orientare la sua ricerca verso quello che egli chiamerà «personalismo ontologico»7
La testimonianza di tale «genealogia» si arricchisce oggi anche dei testi inediti del filosofo valdostano che sono custoditi nel Centro «Luigi Pareyson» di Torino e ai quali in parte ci riferiremo.
Nell’intera opera pareysoniana sono ben sei gli appellativi con i quali il filosofo italiano definisce Heidegger e che rivelano, da una parte, l’orizzonte e la profonda visione esistenzialista che Pareyson continua ad avere sul filosofo tedesco e, dall’altra, la complessità della questione che desideriamo qui soltanto accennare. Queste «definizioni» sono dapprima di «filosofo esistenzialista» ma anche di «filosofo ateo e umanista» sia perché il Dasein di Sein und Zeit risulta a Pareyson allo stesso tempo eccentrico ed intimo sia perché la sua filosofia risulta essere senza Dio né trascendenza; quindi, Heidegger è il «filosofo della finitezza» nel senso che la «mondità» del Dasein definisce l’essere-gettato in rapporto alla sua finitezza e storicità. Alla fine della prima maturità pareysoniana, cioè quella in cui il filosofo costruisce finalmente le basi per il «personalismo ontologico» e inizia a confrontarsi coi testi di Schelling, Heidegger non viene più riconosciuto come uno degli «esistenzialisti» ma come il «filosofo dell’esistenza», o meglio come il «filosofo dell’essere», il cui pensiero, però, risulta oscillare tra l’essere e il Nulla, un pensiero troppo «ambiguo», manchevole del nesso essere-libertà: il filosofo tedesco propone, perciò, un’ontologia la cui radicalità, alla fine, rimane «bloccata». Infine, Heidegger gli appare come un «filosofo anticristiano» perché il suo pensiero, risentendo fortemente della filosofia greca e degli influssi anticristiani di Hölderlin, oltre che della sua particolarissima lettura di Nietzsche, è incapace di riconoscere la tragedia cosmoteandrica che si nasconde nel cristianesimo e di realizzare una vera e propria ermeneutica dell’esperienza religiosa. Tuttavia, questa breve e complessa panoramica si risolverà, come vedremo, nel constatare una certa continuità tra il primissimo e l’ultimo Pareyson circa la sua interpretazione del filosofo tedesco.8
2. Heidegger «filosofo esistenzialista»
Nei Quaderni Giovanili (sigla QG), conservati presso il Centro Studi Filosofico-religiosi «Luigi Pareyson» di Torino,9, soprattutto nelle pagine che sono state scritte tra l’estate del 1934 e il 1937 che hanno fatto da canovaccio all’articolo del 1938 «Note sulla filosofia dell’esistenza» pubblicato sul Giornale critico della filosofia10 è possibile evidenziare come si sviluppa l’articolato interesse per gli esistenzialisti tedeschi da parte del giovanissimo Pareyson il quale, appena ventenne e allievo di Guzzo, conosce Jaspers e Heidegger di persona durante la sua permanenza ad Heidelberg:
Jaspers non ama parlare di Heidegger. Dice che, sebbene si trovi d’accordo con lui nella «Radikalität» della dottrina, tuttavia ne differisce soprattutto nella «Menschlichkeit»: Heidegger meridionale, piccolo, cattolico, Jaspers settentrionale, alto (un gigante!), protestante. Ma anche la dottrina ha dei punti di divergenza: Heidegger si ferma al «Dasein», Jaspers lo trascende; per il primo il problema fondamentale e il «Dasein», per il secondo la «Mitteilung» e mentre per Heidegger l’Umgreifende (che Jaspers traduce in greco con perie,con e in francese con l’englobant e il Nichts, per Jaspers e l’Entgergenkommende.11
In particolare, dai Quaderni Giovanili emerge in che modo la sua interpretazione di Heidegger rimane legata a quella del Carlini, rappresentante dello spiritualismo e della cosiddetta «destra gentiliana», nonché una delle voci più autorevoli in Italia sul pensiero di Kierkegaard e di Heidegger negli anni ’30, quando il giovane Pareyson inizia a confrontarsi con l’Existenzphilosophie. È proprio il Carlini che giudica Heidegger alla stregua di un filosofo intellettualista a cui sembra mancare «il senso del divino».12 proprio perché, pur riprendendo il problema dell’essere, non riesce a «trapassare» l’umanismo e l’idealismo. Questo avviene, spiega Carlini, a causa del fatto che la «spiritualità dell’autocoscienza» del Dasein viene riportata in seno a una metafisica che il filosofo napoletano definisce «laica, puramente mondana», tanto che l’esistente «si disperde e perde in quell’essere-esistere cosmico, salvando soltanto la coscienza della nullità fondamentale di sé e del mondo»13. Lo stesso si dica per la trascendenza dell’esistente rispetto al mondo che «nell’atto stesso di porlo e di porre l’uomo in esso», si rivela essere un principio puramente trascendentale, sicché «l’uomo resta puramente mondano»14. Il limite della filosofia di Heidegger consisterebbe, quindi, secondo il Carlini, nel fatto che questi riconduce l’atto dell’interiorità al suo significato puramente umano e preclude la via ad un’interpretazione spirituale e religiosa dell’atto15 Questo spiegherebbe perché l’esistenzialismo ravvisato nel pensiero di Heidegger non permette inizialmente a Pareyson di ritrovare nessuno dei motivi ontologici, assiologici e religiosi voluti dallo spiritualismo italiano dal quale il giovane filosofo riconosce di provenire.
Per quanto riguarda lo Heidegger, tutto in lui è ricondotto all’esistenzialità, che è concepita come la struttura dell’esserci. Il passaggio dall’esistenziale all’esistentivo, che rappresenta il passaggio dalla natura trascendentale alle singolarità empiriche; il passaggio dall’esistentivo inautentico all’esistentivo autentico, che rappresenta la formazione di una autoidentità su di una singolarità empirica; l’essenza della moralità e per conseguenza la costituzione dei valori: tutto si riconduce all’esistenzialità. La quale è il complesso strutturale dell’esserci, e, come tale, implica in sé la necessità e l’indifferenza.16
Un altro importante autore a cui Pareyson si riferisce per lo studio della filosofia di Heidegger, prima del suo viaggio in Germania, è Carlo Mazzantini, il quale nel 1935 pubblica il saggio «Il significato della “realtà” nella filosofia di Martino Heidegger».17. È da questi che il giovane filosofo riprende la traduzione di alcuni termini del vocabolario heideggeriano e che riporta nei suoi Quaderni: Dasein viene tradotto con «esistenza consapevole» o «coscienza esistente», Geworfensein con «essere gettato (in un mondo in una certa maniera già costituito)», Sein zum Tode con «esistere per (verso) la morte», infine, Nichtigkeit come «non un puro non-essere, ma è il non-essere di ciò che esiste senza far parte di un mondo, senza aver verità, senza valere ontologicamente pur avendo un’ontica realtà»18
La figura di Heidegger gli appare così per lo più lontana dai suoi primi interessi spiritualisti ed ecco cosa scrive nella lettera che il giovane Pareyson indirizza a Schill il 10 luglio 1937 pochi giorni dopo il suo arrivo ad Heidelberg:19
Ho ancora molte domande prive di risposta: che cos’è l’esserci? In quale relazione si trova con l’essere? Come si pone il problema del nulla? E come viene risolto? L’esserci è veramente autosufficiente? Come sono in rapporto reciproco Heidegger e Jaspers? Infine che cos’è il pensiero di Nietzsche per Heidegger?20
Nonostante Pareyson precisa di dover ulteriormente approfondire la conoscenza di quest’ultimo, già alla fine degli anni ’30 intravede nell’Existenzphilosophie di Jaspers la filosofia più congeniale a cogliere in senso ancora più ontologico la complessa questione dell’«esistenza» ed è proprio da questa intuizione iniziale che nasce la monografia del 1940 a lui dedicata.
La filosofia dell’esistenza riporta in onore l’intimità della coscienza. Il suo assunto è l’incontro concreto di finito e infinito, tempo e eternità, presenza e invocazione, immanenza a sé e trascendenza oltre di sé. L’esistenzialismo vuol essere la penetrazione dell’angustia del singolo, l’acquisizione, di là dagli stretti limiti dell’individuo, di un’assolutezza che trascenda la relatività del particolare, la scoperta del significato assiologico dei confini individuali e del posto sortito dal singolo.21
In questo testo Pareyson dice di apprezzare dell’esistenzialismo l’esigenza personalista e l’interesse religioso ma, anche, di preferire la profondità dell’Existenz jaspersiano anziché l’eccentricità del Dasein heideggeriano anche a causa del fatto che il linguaggio, i mezzi e gli strumenti utilizzati da Heidegger in Sein und Zeit, ma anche in Was ist Metaphysik? (1929) e Vom Wesen des Grundes (1929), gli risultano sfasati rispetto alle intuizioni speculative iniziali.22 Heidegger parla di storicità dell’«esserci» mentre Jaspers parla di «situazione dell’esistente», definizione quest’ultima che risulterà a Pareyson ben presto anch’essa insufficiente.
E come nello Heidegger la difficoltà, più tosto che consistere nella coincidenza del rinvio all’essere con l’autorelazione o nel passaggio della possibilità esistenziale all’esistentiva concretezza, consiste nell’intendere come la possibilità del passaggio esistentivo dall’inautentico all’autentico sia esistenziale, e cioè indistinta, indifferente, neutrale e anonima; cosi nello Jaspers la difficoltà non sta tanto nella coincidenza di autenticità, autorelazione e inserzione nell’essere con l’esistentivo, quanto più tosto nell’intendere come l’esistentivo si rapporti all’essere. Esso è inserito nell’essere e nello stesso tempo ne è il centro puntuale, in quanto a lui si assimila l’esserci, in lui si risolve l’esistenza, a lui si rivolge la trascendenza..23
Uno degli elementi più importanti della prima interpretazione di Pareyson è, quindi, la questione della mancata trascendenza nell’«existenzial» (esistenziale) heideggeriano. Nell’articolo di Pareyson del 1938 appare subito, infatti, la questione che pone il cosiddetto «trascendimento metafisico» heideggeriano.24 Ma cosa vuol dire «trascendenza» per Pareyson?
3. Heidegger «filosofo ateo e umanista»
Il significato complesso e articolato che assume il termine «trascendenza» nel pensiero di Pareyson oscilla fin da subito tra l’ascendenza spiritualista italo-francese e l’influsso della filosofia tedesca, soprattutto quella di Barth, così come compare già in Karl Jaspers (1940) e in Studi sull’esistenzialismo (1943, 19502). La trascendenza, sulla scia di Carlini e dei filosofi francesi, è legata al significato delle nozioni «iniziativa» e «valore», nel senso che «l’iniziativa come opzione, in quanto è esigenza di valore, è esigenza del Valore; l’individuo insignito di valore, cioè persona, rinvia razionalmente alla Persona assoluta».25. La trascendenza è legata ora alla relatività esistenza-Dio dello spiritualismo, ora all’irrelatività di Dio (sostenuto da Barth e secondo cui Dio è il totaliter alter che fonda la storia e dona identità al finito). La trascendenza indica, in ultima analisi, il richiamo a Dio e al «dono di Dio» ed è ciò che rende possibile la libertà e la costruzione di una filosofia della persona. Non a caso Pareyson si convince che la formula più completa dell’esistenza debba essere «coincidenza di autorelazione e relazione all’altro»26, nel senso che «relazione all’altro» è quella radicale relazione metafisica, costitutiva partecipazione all’essere che rende possibile la trascendenza. Nei suoi Studi sull’esistenzialismo le nozioni di incarnazione e di partecipazione, provenienti dalla filosofia di Marcel, porteranno a sviluppare meglio una nozione più precisa di esistenzialismo e di trascendenza, ma stavolta lontano da Jaspers. Nella coincidenza inscindibile di «incarnazione fisica e sostegno metafisico»27 si spiega, infatti, quell’esperienza metafisica di apertura del singolo all’essere oppure, come viene pure chiamata dal nostro filosofo, di «metafisica esistenzialistica»28, evitando così che la relazione del singolo con l’Assoluto sia destinata alla «necessitazione» e al naufragio29
A partire dai suddetti elementi si capisce, allora, perché Pareyson affermava già nei suoi Quaderni Giovanili perché il Dasein heideggeriano si risolva nella mondità e nell’immanenza,30 al punto da risultare allo stesso tempo tanto eccentrico nel suo «esser-gettato» quanto intimo nel suo «stato di angoscia».
Trascendimento umanistico e nullismo metafisico sono le prime due critiche che Pareyson rivolge a Heidegger, visto che tanto il discorso dell’esserci quanto quello sul finito vogliono sostituire quello sull’essere-trascendente e sull’essere-infinito. Per il filosofo tedesco soltanto a partire dal Nulla è possibile parlare dell’essere e fare riferimento all’esserci, senza alcuna trascendenza al di là del Dasein.
La nozione di trascendenza subirà, così, un ulteriore approfondimento in senso ancor più religioso, nel senso che la trascendenza diviene nel pensiero più maturo di Pareyson un’esperienza attraverso la quale, nell’impotenza dell’uomo, si rende possibile la potenza di Dio; sicché la stessa libertà è ciò che rende incommensurabilmente simili e allo stesso tempo tanto distanti l’uomo e Dio. È nella libertà, in ultima analisi, che l’uomo fa esperienza della sua trascendenza, senza tuttavia «naufragare» come accadeva in Jaspers ma scoprendosi simile a Dio nell’esercizio di essa. Tanto più Pareyson si allontana da Heidegger quanto più sembra avvicinarsi a Barth, perché più vicino alle intuizione kierkegaardiane:31
Il pensiero del Barth ha, nel mondo contemporaneo, assunto ormai un’importanza tale da oltrepassare la cerchia degl’interessi puramente teologici. Anche prescindendo dal fatto che la dottrina barthiana si determina storicamente nel clima della Kierkegaard-Renaissance, e che per questo, oltre che per altre corrispondenze molto significative, essa si può collegare, malgrado la profonda divergenza, con le correnti esistenzialistiche tedesche, si può affermare che il cultore di filosofia non può. Oggi, rimanere indifferente di fronte a una speculazione teologica del genere di quella svolta dal Barth.32
Una parola andrebbe spesa per la diversa interpretazione che Abbagnano propone della filosofia di Heidegger rispetto a Pareyson in quegli anni. Per il filosofo salernitano, infatti, quello di Heidegger si configura come un «esistenzialismo negativo» perché l’esistenza heideggeriana «non si stacca mai dal nulla, in quanto non si identifica mai con l’essere»,33 mentre per Pareyson, il singolo sembra quasi non poter scegliere di essere, staccandosi dal nulla. Se quello di Abbagnano è un «esistenzialismo positivo» perché si differenzia dall’«esistenzialismo negativo» heideggeriano, quello che Pareyson cerca è un «esistenzialismo metafisico» che non fa naufragare il singolo nel «baratro del nulla».
Heidegger appare a Pareyson come il filosofo dell’esistenza la cui analisi sul Dasein non gli permette di uscire né da un’esistenzialità formale (la persona è pensata ancora in termini troppo astratti) né da un soggettivismo temporale (la relazione del Dasein con l’essere lo fa naufragare nella mera temporalità e nella mondità). Ne consegue che Heidegger viene visto dal filosofo valdostano sia come un «umanista ateo», la cui ontologia, nonostante rivendica il suo rapporto originario con l’essere, non sa trascendere la mera temporalità, sia come un «filosofo della finitudine autosufficiente dell’uomo avvolto nel nulla da cui ermerge e in cui sprofonda, perennemente in bilico e già deciso».34. L’analitica esistenziale heideggeriana, secondo la quale «la negatività dell’uomo è la sua più alta possibilità»35, non può soddisfare l’esigenza personalista di Pareyson, proprio a causa di questa duplice e opposta caratteristica: da una parte la formalità e l’astrattezza con cui viene pensata la persona, in quanto «la scelta è decisione già decisa»36, dall’altra parte la mondità e negatività che caratterizza l’esserci come essere-nel-mondo che chiude il trascendimento nell’autosufficienza della finitezza fino a naufragare nel «nullismo metafisico»37
4. L’essere, la Kehre e la verità
Ben presto il fallimento dell’esistenzialismo jaspersiano segnerà il passaggio degli studi pareysoniani alla ricerca di quel «personalismo ontologico» a cui si accennava prima. Pareyson vede fallire nell’esistenzialismo di Jaspers, come in quello di Heidegger, il tentativo di rintracciare le intuizioni squisitamente personaliste che erano ben presenti nel pensiero di Kierkegaard, perché il suo pensiero risulta ora incapace di mantenere il paradosso tra esistente storico e infinito trascendente, tra tempo ed eternità. La critica che Pareyson rivolgeva a Jaspers e ad Heidegger viene ora rivolta a Barth. Tuttavia, mentre nella filosofia di Jaspers l’esistente «naufraga» nell’assorbimento della trascendenza perché manca l’individualità del singolo rispetto a ciò che lo trascende, il limite della teologia di Barth consiste, invece, secondo Pareyson, nella mancanza di storicità e nell’astrattezza della sua soluzione, constatando un assoluto teocentrismo.38. In questo senso, se in Heidegger non è possibile la trascendenza dell’essere perché ripiegata sul Dasein, e in Jaspers la relazione del singolo con la trascendenza è «necessitazione» e naufragio che mette a rischio la libertà dell’individuo39, in Barth la trascendenza richiede l’«implicanza di positivo e negativo», nel senso che vi è un reciprocità tra il «si» divino e il «no» umano tale da compromettere la libertà dell’uno e dell’altro40
L’iniziale interpretazione in chiave esistenzialista di Heidegger, che sembrava essere stata preponderante nell’analisi degli studi giovanili di Pareyson, dovrà fare i conti con i testi più recenti del filosofo tedesco sul linguaggio e sulla poesia pubblicati prima della nascita dell’Istituto di Filosofia Estetica di Torino. Si tratta in particolare della conferenza dal titolo Vom Wesen der Wahrheit, del 1930, ma pubblicata solo nel 1943, con la quale Heidegger rende chiara la svolta del suo pensiero, rimasta incompiuta dopo la mancata pubblicazione della terza sezione della prima parte di Sein und Zeit, proprio a causa dell’inadeguatezza che mostrava il linguaggio metafisico.
Il filosofo valdostano confronta la propria Estetica: teoria della formatività (1954, 19602) con la riflessione heideggeriana e scopre che per entrambi tanto il linguaggio quanto la poesia contengono una profonda e specifica valenza ontologica. Eppure, mentre per Pareyson l’arte non coincide né con la poesia né con la filosofia, per Heidegger, invece, l’arte istituisce mondi e rivela l’essere come l’«avvento diradante-velante» del pensiero.41. Per Pareyson l’essere trascende la parola e il linguaggio, e allo stesso tempo rimane sempre disponibile ad essa pur nella sua inesauribilità, per Heidegger, invece, l’essere risulta più accessibile al linguaggio dei poeti che a quello dei filosofi. Nonostante sia Pareyson che Heidegger condividano la bella immagine dei poeti e dei filosofi che «mirano entrambi all’essere, vicinissimi, ma dalla cima di monti diversi», è al filosofo che spetta, secondo Pareyson, il compito di rivelare la personalità e la formatività dell’opera, mentre Heidegger preferisce dare la precedenza al linguaggio dei poeti perché lì «dimora l’essere». Per Pareyson vale, dunque, il primato della filosofia sulla poesia (die Person spricht), mentre per Heidegger esiste una certa precedenza del poetare sul filosofare (die Sprache spricht)42
In questo senso, si capisce perché da una parte l’ermeneutica pareysoniana tenta di esprimere e tenere sempre più uniti sia il carattere personale che quello universale della verità, mentre dall’altra parte, l’ermeneutica heideggeriana si prefigge come scopo la ricerca del darsi dell’essere e della verità contro i limiti del linguaggio metafisico.43. Sebbene in un breve passaggio del corso del ’68-’69 Iniziativa e libertà, Pareyson afferma che «l’arte non sopraggiunge a una realtà esistente ma fonda essa stessa una nuova realtà; […] fonda essa stessa un mondo nuovo»44, alla fine il maestro della scuola di Estetica mostra di rimanere legato ad una visione metafisica dell’essere, definendo la filosofia come ciò che «rammemora il rapporto ontologico originario, e quindi rivela all’uomo la fonte stessa della novità e dell’originalità»45
Alla luce di una rinnovata lettura di Heidegger, Pareyson rivede la propria interpretazione della Kehre heideggeriana comprendendola come il principale motivo di rottura con la filosofia di Husserl, vale a dire, come dirà più tardi, «il passaggio dalla fenomenologia all’ontologia, il trasferimento del discorso dall’uomo all’essere»,46. Questo significa interpretare Heidegger come il «filosofo dell’essere» il cui vero intento, si chiarisce ora, è quello di dichiarare «la fine della metafisica e l’avvento di una rinnovata ontologia, che trascenda l’essere nella sua totalità»47. Il filosofo italiano riconosce alla svolta heideggeriana la radicalizzazione del suo pensiero verso un essere sempre più «originario» tale da rappresentare la messa in luce delle intuizioni heideggeriane più profonde, anche se già ben presenti in Sein und Zeit48 ma la cui riflessione sul nesso fondamentale essere-persona-libertà si risolve in senso «mondano».
La questione della verità viene ripresa da Heidegger nella conferenza del 1953 su La questione della tecnica dove si distingue ancor più chiaramente Richtigkeit (esattezza, correttezza) da Wahrheit (verità, nel senso più autentico di avle,qeia, disascosità).49. Tale distinzione viene colta anche da Pareyson in Verità e interpretazione (1971) quando anch’egli parla di una verità intesa come «oggetto», propria di un pensiero espressivo, e di una verità come «fonte», propria di un pensiero rivelativo. Per Pareyson il passaggio da un pensiero espressivo a un pensiero rivelativo avviene in virtù di quella libertà della persona capace o meno di cogliere l’essere e la verità le che si danno come inesauribili, mentre per Heidegger lo scarto tra le due verità si realizza nell’essere-per-la-morte che continuamente interpella il Dasein. Per il filosofo tedesco, infatti, la scelta rimane ambigua, visto che da una parte sembra che l’esistenza inautentica venga trascinata dall’esistenza autentica, mentre dall’altra, non esiste inautenticità che non diviene autenticità dinanzi all’esperienza dell’angoscia anticipatrice della morte: è questo il significato che possiamo dare alla frase heideggeriana di Sein und Zeit: «Freiheit zum Tode» (libertà-per-la-morte)50
Se spetta ad Heidegger il merito di aver riportato la questione della verità al rapporto tra persona, essere e libertà, è sempre al filosofo tedesco che bisogna attribuire il capovolgimento dell’esistenza nella temporalità e nella finitezza di tale relazione. L’esserci che è «libertà-per-la-morte» non riflette alcun riferimento trascendente nel senso ultra-mondano o metafisico ma si prospetta unicamente come nel suo «essere-nel-mondo». Il Dasein si trova così ad essere un semplice trascendimento-anticipazione della sua morte ma senza mai uscire dalla sua temporalità.
L’importanza della distinzione pareysoniana tra pensiero espressivo e pensiero rivelativo che apre il saggio Verità e interpretazione, cioè tra pensiero storico e pensiero ontologico, riprende quindi la stessa distinzione che Heidegger faceva tra verità intesa come «disascosità» e verità intesa come «correttezza», e quella tra esperienza autentica ed esperienza inautentica.51 Tuttavia, se da una parte i nostri due filosofi rifiutano la nozione metafisica di verità intesa come «adeguazione dell’intelletto alla cosa», nel senso che per Pareyson e Heidegger ogni pensiero ontologico-rivelativo include quello storico e ogni esperienza di autenticità porta con sé quella dell’inautenticità, dall’altra parte, secondo Pareyson, l’autenticità heideggeriana manca di trascendenza, cioè di quell’«iniziativa iniziata» che permette di distinguersi dall’esperienza dell’inautenticità, cosicché la libertà dell’«esserci-per-la-morte» viene lasciata «piena di angoscia», schiacciata com’è dalla sua stessa storicità. La scelta del Dasein heideggeriano è quindi segnata dal dubbio e dall’incertezza della sua morte perché slegata dalla trascendenza del suo atto. La «libertà-per-la-morte» di cui parla Heidegger in Sein und Zeit non ha, infatti, nessun riferimento al di fuori del sé e la libertà del Dasein si dà al momento del prospettarsi o «anticiparsi» della morte, come «essere-nel-mondo».
Se prima degli anni ’50 agli occhi di Pareyson l’esistenzialismo di Heidegger risulta inadeguato a dare un’autentica definizione di persona, dopo la pubblicazione di Verità e interpretazione l’ontologia heideggeriana risulterà nuovamente inadeguata ma, questa volta, a causa della «negatività» che la caratterizza.52. Se dapprima il Dasein viene considerato paradossalmente sia «eccentrico» nella sua mondità, sia «intimo» nel suo stato di angoscia e formalità, adesso è l’essere heideggeriano che viene considerato «storico» e «negativo» rispetto all’ontologia e «ineffabile» rispetto al linguaggio. Pareyson, quindi, interpreta la «differenza ontologica» heideggeriana come il realizzarsi della dialettica essere-nulla nella quale, tuttavia, la radicalità della tensione innescata rimane «bloccata» a causa del fascino che il nulla possiede sul pensiero del filosofo della Foresta Nera53
5. Il «radicalismo bloccato» dell’ontologia heideggeriana
L’incontro con la filosofia dell’ultimo Schelling aiuterà Pareyson a cogliere un ulteriore limite della filosofia heideggeriana, vale a dire la sua «ontologia negativa».54, e a qualificare Schelling come il «pensatore post-heideggeriano»55 Cosa significa che quella di Heidegger è un’«ontologia negativa»?
La questione riguarda principalmente la concezione dell’essere da parte del filosofo tedesco che egli pensa sempre in relazione al «nulla» e non alla libertà sicché, spiega Pareyson, «si trova costretto a frenare lo slancio di liberta del suo pensiero e a fermarsi a una forma di radicalismo bloccato».56. Se entrambi i filosofi sono d’accordo col fatto che la persona non ha altra realtà che quella «d’essere rapporto con l’essere»57, tuttavia per il filosofo valdostano questo essere è infinito, inesauribile e si configura sempre più come dialettico e come libertà, mentre per Heidegger l’essere appare sempre più come evento (Ereignis) che si storicizza del mondo attratto dal suo essere in rapporto col «niente»58
La questione del cosiddetto «radicalismo bloccato» heideggeriano si sviluppa a margine della riflessione pareysoniana sull’ontologia dell’inesauribilità e dell’ontologia della libertà che si andava sviluppando tra gli anni ’70-’80. Le Rettifiche sull’esistenzialismo (1975).59 segnano a questo punto un momento di svolta del pensiero pareysoniano, così come Pareyson stesso lo pone all’interno del suo iter, almeno per due motivi: da una parte si chiarisce la sua posizione rispetto all’esistenzialismo, arrivando ad affermare che «esistenzialismo e spiritualismo non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro»60, dall’altra si evince, appunto, la rinnovata lettura di Heidegger a partire da Schelling61
In quest’ultimo caso, è alle lezioni di Erlangen di Schelling e all’interpretazione, sempre in chiave schellinghiana, di Dostoevskij, che bisogna fare riferimento. È Schelling il vero pensatore post-heideggeriano perché la sua «filosofia positiva» ha saputo anticipare e superare il «radicalismo bloccato» heideggeriano in forza dell’approfondimento del tema della libertà: non è il nulla che rende possibile l’essere ma è lo slancio positivo del pensiero a rendere possibile la distinzione tra bene e male, tra essere e nulla. La libertà è atto originario del pensiero che anticipa la «differenza ontologica» tra essere ed ente, e Pareyson giudica «risolvibile» il radicamento dell’essere al Nulla solo a partire dalla dialettica essere-nulla-libertà per cui, afferma Schelling, «l’inizio e la fine di ogni filosofia: la libertà!».62 In questo modo, se per Heidegger l’interpretazione del Nulla può spiegare l’esperienza di autenticità e di angoscia del Dasein come ciò che apre l’esserci al suo «essere-per-la-morte» (e quindi alla «libertà-per-la-morte»), per Pareyson, invece, il nulla rimane ciò che permette la scelta del bene, visto ora come «l’orrore del vuoto» ora come «il male scartato», termini entrambi di origine schellinghiana.
In ultima analisi, interpretare Heidegger come filosofo dal «radicalismo bloccato» sta ad indicare il tentativo di Pareyson di uscire da un pensiero metafisico del Grund (fondamento) e di prediligere una «metafisica ontologica», nel senso di ripudiare «una metafisica ontica, oggettiva, speculare, in favore di un’ontologia critica, che parla dell’essere solo indirettamente».63. Quello di Pareyson, quindi, si conferma un pensiero metafisico (si parla ancora in termini di oggetto-soggetto, oggettività-soggettività), sebbene si tratta di una «metafisica» intesa in maniera del tutto originale come punto di vista critico, consapevole e speculativo64 e come una «metafisica ontologica e indiretta»65. Il filosofo italiano, pur assumendo la grammatica ontologica heideggeriana, ne rielabora i contenuti nel tentativo di superare il fascino che il «nulla» esercita sulla sua ontologia. Il pensiero di Heidegger, dirà il filosofo valdostano nelle lezioni che andranno a comporre Ontologia della libertà (postumo, 1995), è «immersa nell’esperienza del nichilismo» di derivazione nietzscheana e «pervasa dall’angoscia dell’esistenza»66, incapace di cogliere nella libertà il non-fondamento (Ur-Grund, abisso, ambiguità) del pensiero. Quello di Schelling, spiega Pareyson, è un pensiero il cui fondamento (Grund) «si toglie come fondamento» (Ur-Grund), anzi «che consiste nel suo non voler essere un fondamento»67. Così se da una parte Heidegger non problematizza abbastanza il rapporto tra essere-essente-nulla, Pareyson radicalizza quello tra essere-libertà, senza fermarsi nello stato di angoscia ma spezzando il legame essere-nulla in forza della scelta per l’essere piuttosto che per il nulla. Ciò mostra nuovamente che Heidegger non ha pensato il Dasein come libertà donata, iniziativa-iniziata ma orizzontalmente come essere-per-la-morte68
La Grundfrage diventa così per Pareyson la possibilità di spingere fino all’estremo, fino alla «vertigine della ragione».69, la domanda sull’essere che si converte nella domanda sulla libertà, cioè sulla «scelta dell’essere». È questo il salto che aveva già operato Schelling «dall’ordine dei concetti all’ordine della realtà» ed è questo il rovesciamento «dall’idea all’essere» che l’ultimo Heidegger aveva tentato di pensare, nel saggio Zeit und Sein pubblicato nel ’69, senza però riuscirvi. Ecco in cosa consiste per Pareyson far valere l’inesauribilità della verità contro l’ineffabilità del vero: sostituire l’«ontologia dell’inesauribilità» ad un’«ontologia negativa» (propria del secondo Heidegger) e declinare la trascendenza in termini di inesauribilità piuttosto che di semplice ineffabilità. È Schelling che permette a Pareyson di trasformare il concetto di «indefinibile» e «ineffabile», già ravvisato nell’ontologia heideggeriana, in quello di «originario» e di «inesauribile». La possibilità di considerare Schelling un pensatore «post-heideggeriano» significa per Pareyson superare teoreticamente l’«ontologia negativa» e anticipare la «differenza ontologica» heideggeriana. Pensare l’essere come libertà diventa una specie di passo rimasto incompiuto da Heidegger che avrebbe riscattato il filosofo tedesco dall’interpretazione nichilista e che gli avrebbe dato la possibilità di pensare la Grundfrage come la domanda sull’abisso dell’essere anziché del nulla70. Pareyson propone la filosofia dialettica di Schelling non solo come l’alternativa all’ontologia negativa heideggeriana ma anche come la proposta risolutiva alla questione ermeneutica circa la dialettica verità-interpretazione71
6. L’«anticristianesimo» di Heidegger
L’opera postuma Ontologia della libertà raccoglie le ultime lezioni del filosofo valdostano e costituisce il suo «testamento filosofico», nel senso che contiene alcune importanti promesse per la filosofia della religione, il pensiero sull’escatologia e l’ermeneutica del racconto biblico. Se dapprima viene rimproverato ad Heidegger di non aver mai aperto veramente l’esistenza all’esperienza di una trascendenza metafisica, a causa della radicale temporalità del suo pensiero, e per aver pensato l’essere come richiamo al nulla, in quest’ultimo testo il filosofo tedesco viene definito da Pareyson come un «filosofo anticristiano».72
L’anticristianesimo costituisce uno dei temi portanti del saggio al quale Pareyson dedica un intero paragrafo; afferma infatti il nostro filosofo che il cristianesimo possiede già al suo «interno» tanto la possibilità dell’ateismo quanto quella del nichilismo «come possibilità da vincere e superare, con la consapevolezza che se non riesce a farlo esso non ha altra prospettiva che la propria fine, come possibilità di cui accettare il rischio e da svolgere sino in fondo si da consumarne l’intera virtualità»,73. Il termine anticristianesimo non assume subito un valore «negativo» ma piuttosto è il senso con il quale Pareyson interpreta il cristianesimo, come quella religione che mette in crisi l’idea di un Dio onnipotente e che mostra, invece, un Dio impotente e sofferente, un Dio che mostra la sua onnipotenza scegliendo una via cosi «indiretta e tortuosa come quella della sua impotenza»74 quello che potremmo definire anche un «Dio senza Dio».
Tale aggettivazione attribuita al pensiero di Heidegger acquista però un significato «negativo» del tutto particolare che dipende, a nostro avviso, dall’esito «religioso» dello stesso pensiero pareysoniano. Infatti, in primo luogo, il passaggio dal personalismo ontologico all’ontologia della libertà rende ancora una volta il pensiero di Pareyson un pensiero della trascendenza, vale a dire un pensiero che trova nel racconto biblico la spiegazione simbolica (né teologica né filosofica) dell’origine della libertà, l’idea di Dio come «inizio e scelta» della libertà dell’uomo e il dispiegarsi della grande tragedia cosmoteandrica.75
In secondo luogo, perché Pareyson attribuisce all’interpretazione nietzschiana in chiave nichilista da parte di Heidegger un altro elemento per definire le ragioni della sua avversione al cristianesimo. In un’intervista rilasciata a Federico Vercellone a Palermo nel 1987.76, Pareyson sostiene, infatti, che «non si capirebbe nulla del pensiero di Heidegger e Jaspers se non si ricordasse che alla base di esso c’è l’influsso non solo di Kierkegaard ma anche di Nietzsche»77; allo stesso tempo, Pareyson non condivide la lettura heideggeriana di Nietzsche perché non crede alla sterilità dello storicismo e alla demistificazione del cristianesimo che il filosofo tedesco più volte gli attribuisce78. Il filosofo italiano, invece, preferisce leggere Nietzsche come «filosofo della tragedia», «ciò per cui Nietzsche è Nietzsche»79, avvertendo così il bisogno di andare oltre Nietzsche nel senso di accettare il principio dell’«al di là del bene e del male» non più in senso nietzscheano ma in senso kierkegaardiano80 Pareyson interpreta, quindi, Nietzsche con una duplice lente: quella esistenziale di Kierkegaard e quella ontologica di Schelling. Come Heidegger aveva evidenziato quel nesso particolarissimo tra Nietzsche e Schelling nel secondo volume del Nietzsche, così Pareyson ritrova nello Schelling «pensatore postheideggeriano»81 il modo di superare ora l’anticristianesimo di Heidegger.
Infine, Pareyson coglie nella «preferenza per i greci» l’ispirazione non cristiana o anticristiana del pensiero di Heidegger, presenza che si manifesta soprattutto nel suo commento agli Inni di Hölderlin.82 e che giunge alla definizione dell’«ultimo dio» nei Beiträge83
La posizione heideggeriana nei confronti del cristianesimo è ben nota agli studiosi.84; da parte sua, Pareyson coglie l’anticristianesimo del filosofo tedesco anche nel fatto che quest’ultimo intende il Dio cristiano invischiato con il pensiero metafisico: Heidegger sarebbe perciò anticristiano perché antimetafisico. In questo senso, l’«ultimo Dio» di cui Heidegger parla «è sostanzialmente un Dio nuovo e futuro, da erigersi sulla scomparsa del Dio cristiano»85, un «Dio nuovo» che si trova lontano dalla tradizione cristiana e vicino ad una « “religiosità” radicata nel suolo e nella terra»86
Pareyson riconosce, tuttavia, che molti degli attributi del linguaggio tradizionale cristiano (quali il dono e l’appello, la chiamata e il cenno, il segreto e il mistero, manifestazione e nascondimento, silenzio e parola) continuano a fare parte del vocabolario heideggeriano ma, ribadisce, «dall’ambiguità che deriva dall’uso di questo linguaggio appare quanto poco cristiana sia la concezione di Heidegger, il quale nell’adottare questa terminologia non fa che svuotarla dei significati cui essa era connaturata».87
Pareyson condivide con il filosofo tedesco il bisogno di superare una certo linguaggio metafisico che ipostatizza la stessa realtà divina, ma mentre Heidegger lo fa rifiutando la tradizione cristiana tout court, Pareyson coglie invece nella radicalizzazione della libertà e nell’ermeneutica dell’esperienza religiosa la possibilità di non pensare più Dio come causa sui. Afferma Pareyson:
L’idea di appendere tutto alla libertà, di farne dipendere ogni cosa, di darle la posizione di centro, di elevarla a origine e fonte, non può essere che cristiana. Non è certo greca. In Grecia quasi non si conosce che la libertà politica, di cui la Grecia è appunto la patria. Di una libertà superiore o anteriore la Grecia non ha sentore. Essa non conosce propriamente che il fato o il destino. Per esprimere quella libertà superiore o ontologica non ha nemmeno la parola. Fu solo il tardo antico che ardì introdurre la libertà nel vertice dell’essere, e concepire come libertà o volontà o auvtexou,sion ciò che vive e muove in quell’abisso. Solo il cristianesimo avrebbe potuto suggerire a Heidegger la centralità della libertà come facoltà del bene e del male.88
Ci rendiamo conto che se Pareyson, giunto quasi a conclusione della sua riflessione filosofica, torna a confrontarsi a lungo con Heidegger, fino ad attribuirgli l’etichetta di «filosofo anticristiano», ciò significa che egli ha sempre interpretato il filosofo tedesco come «filosofo esistenzialista».89 In definitiva, Heidegger appare a Pareyson nuovamente come un filosofo che possiamo definire «incompiuto»: prima perché non gli aveva potuto fornire le categorie filosofiche necessarie per parlare della persona come «coincidenza di relazione e auto-relazione», poi perché il filosofo tedesco confonde la sorgente dell’essere con il nulla, anziché identificarla con la libertà, lasciando il suo radicalismo «bloccato» tra l’essere e il nulla. Afferma Pareyson:
Solo la libertà ha una natura principiale e sorgiva, che nella sua auto-originazione non corre il rischio di mantenersi sul piano dell’ente. Questa pura scaturigine, che non ha altra origine che se stessa, avrebbe potuto esser suggerita dal Dio biblico, sovrano assoluto che fa tutto quello che vuole; dotato d’una libertà arbitraria non limitata né dalla ragione né dal caso, i quali non potrebbero che essergli estrinseci; privo di ogni legge superiore ma anche scevro da ogni occasionale capriccio; insomma dal Dio che come primo suo atto ha originato se stesso, e che perciò, più che avere libertà, è esso stesso libertà. Heidegger, restando al primato dell’essere è rimasto bloccato, e non ha potuto comprendere la radicalità del nulla quand’esso si coniuga con la libertà. Gli è sfuggito che non l’essere ma la libertà può essere veramente originaria e conferire al radicalismo tutto quello slancio di cui esso ha bisogno per il suo impeto irruente e irresistibile.90
Tuttavia, il pensiero heideggeriano lascia a Pareyson il compito di rintracciare un Dio senza il Grund metafisico, senza l’ipoteca della teodicea classica. Parafrasando la ben nota affermazione di Heidegger allo Spiegel, secondo cui «solo un Dio ci può salvare», potremmo dire che per Pareyson «solo un “Dio senza Dio” ci può salvare», cioè un Dio ambiguo e della libertà, un Dio che sceglie il Bene e che rende possibile il male come ultimo metro di misura del suo agire:
il male in Dio è idea che risulta incomprensibile e scandalosa nell’orizzonte d’una filosofia dell’essere, e che solo nella prospettiva d’una filosofia della libertà può mostrarsi immune da equivoci e travisamenti e quindi rivelarsi nel suo vero significato.91
Lo sforzo dell’ermeneutica dell’esperienza religiosa pareysoniana rappresenta così il tentativo di fare il passo rimasto incompiuto da parte di Heidegger, e cioè quello di oltrepassare la metafisica, insieme alla possibilità di pensare un cristianesimo radicale e meno dogmatico. In ultima analisi, quello di Heidegger e quello di Pareyson rimangono due pensieri inconciliabili: l’uno tutto rivolto alla temporalità e alla visione della storia dell’essere come oblio e nulla, l’altro votato alla trascendenza della libertà e alla ricerca di un Dio dialettico e sofferente, capace perciò di essere ancora pensabile e credibile.
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Cfr. L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo (19502), ed. C. Ciancio, Mursia, Milano 2001. Ad alcuni degli autori elencati Pareyson dedica anche delle importanti monografie, in particolare: Karl Jaspers (1940), Marietti, Casale Monferrato 19832; Fichte, Il sistema della libertà, Edizioni di «Filosofia», Torino 1954, Mursia, Milano 19762; Schelling. Presentazione e antologia, Marzorati, Milano 1971, 19752; «Introduzione» a F. W. J. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione e la libertà, ed. L. Pareyson, Mursia, Milano 1974, 19943; Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa (1967-1991), edd. G. Riconda, G. Vattimo, Einaudi, Torino 1993. ↩︎
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Alcune tra le più importanti ricerche che anche hanno già indagato sulla questione della genesi del pensiero di Pareyson sono: F. Russo, Esistenza e libertà. Il pensiero di Luigi Pareyson, Armando editore, Roma 1993; F. P. Ciglia, Ermeneutica e libertà. L’itinerario filosofico di Luigi Pareyson, Bulzoni, Roma 1995; F. Tomatis, Ontologia del male. L’ermeneutica di Pareyson, Città Nuova, Roma 1995; R. Finamore, Arte e formatività: l’estetica di L. Pareyson, Città Nuova, Roma 1999; E. Conti, Verità nell’interpretazione. L’ontologia ermeneutica di Luigi Pareyson, Trauben, Torino 2000; L. Ghisleri, Inizio e scelta: il problema della libertà nel pensiero di Luigi Pareyson, Trauben, Torino 2003; oltre ai numerosi contributi e saggi da parte di M. Ravera, G. Riconda e C. Ciancio. Circa il nostro tema riteniamo sia anche importante l’articolo di U. Ugazio, «Pareyson interprete di Heidegger», contenuto in La recezione italiana di Heidegger, M. M. Olivetti, ed., CEDAM, Padova 1989, 93-102. ↩︎
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A. Bellocci, Implicanza degli opposti, aporia dell’identico. Luigi Pareyson interprete di Karl Barth, Lithos, Roma 2012. ↩︎
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Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, 51, 66, 169, 173, 189, 215, 245, 287, 313, 457; A. Bellocci, Implicanza degli opposti, aporia dell’identico. Luigi Pareyson interprete di Karl Barth, 52-58, 66 e seguenti. ↩︎
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A. Bellocci, Implicanza degli opposti, aporia dell’identico, 442. ↩︎
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Uno studio più attento e analitico l’abbiamo svolto già nel nostro S. Rindone, Pensiero della trascendenza e pensiero della temporalità. Luigi Pareyson e Gianni Vattimo interpreti di Heidegger, Studia Anselmiana, Roma 2017. Qui proponiamo una rilettura più «sintetica» appunto sul tema «Pareyson interprete di Heidegger». ↩︎
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Come accade per Barth, anche il rapporto tra Pareyson e Heidegger, mediato ora dalla lettura di Jaspers ora da quella di Schelling, permette di rintracciare una genealogia interessante del pensiero pareysoniano, fino a spiegare meglio anche la sua lettura di Nietzsche e il suo confronto con uno degli allievi della Scuola di Estetica di Torino, il filosofo torinese Gianni Vattimo. È questo l’intento della ricerca che abbiamo svolto nella pubblicazione: S. Rindone, Pensiero della trascendenza e pensiero della temporalità. Luigi Pareyson e Gianni Vattimo interpreti di Heidegger, Studia Anselmiana, Roma 2017. ↩︎
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Ciò che rende arduo il compito di rintracciare la genealogia del pensiero pareysoniano è, in definitiva, il rapporto complesso e articolato che il filosofo italiano continua ad avere con l’esistenzialismo; cfr. C. Ciancio, «Pareyson e l’esistenzialismo», Annuario Filosofico, 1998, 449-462; G. F. Frigo, «Schelling e l’esistenzialismo», Filosofia oggi, 1979, 482-483; e più in generale B. Maiorca, ed., L’esistenzialismo in Italia, Paravia, Torino 1993. ↩︎
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I Quaderni Giovanili che qui ci interessano sono quelli che raccolgono appunti, bozze di lettere manoscritte, riflessioni, poesie e altri scritti del filosofo che vanno dall’estate del 1934 a quella del 1937, anni in cui Pareyson visita Heidelberg, conosce Heidegger di persona e prepara il suo primo articolo sull’esistenzialismo tedesco che uscirà l’anno successivo. La prima catalogazione dei QG è ad opera di Francesco Tomatis che ha numerato i Quaderni del giovane Pareyson seguendo la numerazione romana (QG I, II, II, IV,…). I QG che interessano gli anni sopraindicati sono i QG VI, VII e VIII; secondo la nuova catalogazione del Dicembre 2014, nel nuovo Archivio Luigi Pareyson (A.L.P.), questa numerazione corrisponde adesso alla Serie IX e, rispettivamente, all’unità archivistica (u.a.) 220, 221, 222. ↩︎
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L. Pareyson, «Note sulla filosofia dell’esistenza», Giornale critico della filosofia, Anno XIX, Seconda Serie, 1938, 407-438; ora in Id., Studi sull’esistenzialismo Mursia, Milano 20013, 141-173. Per il nostro articolo ci riferiamo alla prima edizione del 1938. Cfr. S. Rindone, Pensiero della trascendenza e pensiero della temporalità, 70-93. ↩︎
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A.L.P. Serie IX, u.a. 220 (QG VI). ↩︎
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A. Carlini, Il mito del realismo, Sansoni, Firenze 1936, 39-40. ↩︎
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A. Carlini, «Inchiesta su “Primato” (1943)», B. Maiorca, ed., L’esistenzialismo in Italia, Paravia, Torino 1993, 103. ↩︎
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Cfr. A. Carlini, Il mito del realismo, 40. ↩︎
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A. Carlini, «Il problema dell’interiorità nel Kierkegaard e nello Heidegger», Il mito del realismo, 58. ↩︎
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L. Pareyson, «Note sulla filosofia dell’esistenza», 409-410 nota 2. ↩︎
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C. Mazzantini, «Il significato della “realtà” nella filosofia di Martino Heidegger», Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, supplemento al vol. XXVII, 1935. Carlo Mazzantini scrive per la stessa rivista nel 1935 altri due importanti articoli: «Martino Heidegger. I: Linee fondamentali della sua filosofia» e «Martino Heidegger: II: Osservazioni critiche della sua dottrina dal punto di vista della filosofia neoscolastica», contributi che sono ora contenuti in C. Mazzantini, «Martino Heidegger e la filosofia neoscolastica», Filosofia perenne e personalità filosofiche, CEDAM, Padova 1942, 259-305. ↩︎
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Cfr. A.L.P. Serie IX, u.a. 220 (QG VI). ↩︎
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A.L.P. Serie IX, u.a. 220 (QG VI); lettera a Schill del 10 Luglio 1937. ↩︎
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A.L.P. Serie IX, u.a. 220 (QG VI); traduzione dall’originale testo in tedesco della lettera a cura di M. L. Lamberto e U. Ugazio in L. Pareyson, Glosse a Sein und Zeit di Martin Heidegger, Trauben, Torino 2007, 20-21. ↩︎
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L. Pareyson, «Prefazione alla prima edizione», Karl Jaspers, xxx. ↩︎
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L. Pareyson, «Prefazione alla prima edizione», Karl Jaspers, xiv. Afferma Pareyson in un altro passaggio: «Il pensiero di Carlo Jaspers si presta singolarmente per una considerazione che voglia essere non solo un esame specifico, ma anche una ricerca complessiva su tutto il movimento. Gli altri filosofi dell’esistenza presentano certamente aspetti che, singolarmente presi, sono più caratteristici e forse anche più atti ad iniziare il lettore all’esistenzialismo, ma solo il pensiero jaspersiano può costituire, con la sua sistematica compiutezza, un valido punto di riferimento. Barth acuisce al massimo l’implicanza di negativo e positivo che costituisce la nota fondamentale e, direi, l’atmosfera dell’esistenzialismo tedesco, ma non ha nessuna affinità con l’esistenzialismo francese; Heidegger è stato certamente il primo che potesse dirsi «esistenzialista» nel senso specifico della parola, ma la sua opera speculativa è rimasta, sinora, incompiuta, e, nel suo pensiero, la costruzione sistematica tende a comprimere e a occultare l’evidenza delle esperienze spirituali di carattere più schiettamente esistenzialistico», «Prefazione alla prima edizione», Karl Jaspers, xiii. ↩︎
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Cfr. L. Pareyson, «Note sulla filosofia dell’esistenza»,437. ↩︎
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Afferma Pareyson: «La filosofia è per lo Heidegger l’avviamento della metafisica, l’esplicitazione teorica e espressa del trascendimento metafisico. Ma, posto quanto si è detto più sopra, la filosofia è l’accadimento fondamentale dell’essere:·Essa non è quello che di solito si chiama filosofia e che lo Heidegger chiama più volentieri Schulphilosophie. Essa è filosofare: è il processo stesso dell’esserci che esiste. È lo sviluppo fondamentale e la storia originaria dell’esserci trascendente nella sua esistenzialità. Si può dire che la filosofia come filosofare è l’esistenza stessa: proprio in quanto l’uomo esiste, ha luogo il filosofare», «Note sulla filosofia dell’esistenza»,425. ↩︎
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L. Pareyson, «Intervento», Il primo convegno, Centro di studi filosofici cristiani tra professori universitari – Gallarate, Liviana, Padova 1945, 34-35. Vedi anche L. Pareyson, Karl Jaspers, 135-170. Tuttavia, la trascendenza è anche ciò che implica insieme esistenza e persona, e che il filosofo valdostano tornerà a chiamare di nuovo, quasi alla fine della sua ricerca accademica, in una lezione del 1983, «trascendenza assoluta», cfr. L. Pareyson, Essere libertà ambiguità, F, Tomatis, ed., Mursia, Milano 1998, 34-35; cfr. Id., Ontologia della libertà, il male e la sofferenza, G. Riconda, G, Vattimo, edd., Einaudi, Torino 1995, 432. ↩︎
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L. Pareyson, Karl Jaspers, 135. ↩︎
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L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo, 17. ↩︎
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L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo, 17. ↩︎
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Cfr. L. Pareyson, Karl Jaspers, 164. Sia nell’articolo del ’38, che nella monografia su Jaspers (Cfr. Karl Jaspers, xxxiii) sia in Studi sull’esistenzialismo (Studi sull’esistenzialismo, 173), Pareyson costruirà le premesse necessarie per l’elaborazione della propria analisi sul singolo fondato sul rapporto tra essere e libertà, allontanandosi così dalla minaccia di quella che egli chiama «metafisica dell’indifferente necessità». ↩︎
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A.L.P. Serie IX, u.a. 220 (QG VI). ↩︎
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Nella seconda edizione degli Studi sull’esistenzialismo viene tolto l’intero capitolo dedicato al Carlini, e inserito un intero capitolo dedicato a Barth replicando nella Prefazione che il pensiero barthiano gli è sembrata «la cosa più notevole nella quale mi sia imbattuto studiando l’esistenzialismo», Studi sull’esistenzialismo, 8; Vedi l’intero IV capitolo dedicato alla «dialettica della crisi» di Barth, cfr. Ibidem, 127-140. ↩︎
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L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo, 127. Cfr. A. Bellocci, Implicanza degli opposti, aporia dell’identico, 108-125. ↩︎
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N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, Milano 1942, 48. Abbagnano parlerà ancora una volta del filosofo tedesco in riferimento stavolta all’arte, al linguaggio e in particolare alla poesia come verità, manifestazione e nascondimento dell’Essere, tracciando così la strada verso al recezione del «secondo Heidegger», cfr. N. Abbagnano, Fra il tutto e il nulla, Rizzoli, Milano 1973, 138-140. ↩︎
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L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo, 27. È così che lo definisce già nel 1940. Preferiamo riportare la parola «finitudine» piuttosto che «finitezza», così come appare nella prima edizione di Studi sull’esistenzialismo, cfr. L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo, 227, concetto che ribadirà anche nelle sue Rettifiche, cfr. Esistenza e persona, 238. ↩︎
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L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo, 27. ↩︎
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L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo, 27. ↩︎
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L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo, 27. ↩︎
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Cfr. L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo, 115-125. ↩︎
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Cfr. L. Pareyson, Karl Jaspers, 164. Sia nell’articolo del ’38, che nella monografia su Jaspers (Cfr. Karl Jaspers, xxxiii) sia in Studi sull’esistenzialismo (Studi sull’esistenzialismo, 173), Pareyson costruirà le premesse necessarie per l’elaborazione della propria analisi sul singolo fondato sul rapporto tra essere e libertà, allontanandosi così dalla minaccia di tale «metafisica dell’indifferente necessità». ↩︎
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Il «paradosso» delineato da Barth diventa necessità, cioè paradossale capovolgimento della peccaminosità e della colpevolezza in positività redenta e graziata. Cfr. L Pareyson, Karl Jaspers, xxxii, 24; cfr. Id., Studi sull’esistenzialismo, 172-173. ↩︎
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M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», tr. F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, 20119, 50. ↩︎
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È così che possiamo intendere l’espressione di Heidegger: «Il pensatore dice l’essere. Il poeta nomina il sacro», contenuta nel Poscritto del 1943 a Was ist Metaphysik?, M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, F. Volpi ed., Adelphi, Milano 2001, 85. ↩︎
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Questi passaggi della svolta heideggeriana sono ben presenti inizialmente in Hölderlin e l’essenza della poesia (1936), poi nella Lettera sull’umanismo (1946) e, infine, nei saggi che andranno a comporre In cammino verso il linguaggio (1950-1959). ↩︎
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L. Pareyson, Iniziativa e libertà, 218. ↩︎
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L. Pareyson, Iniziativa e libertà, 220. La distinzione heideggeriana tra autenticità e inautenticità ci sembra che abbia influito non poco alla distinzione che Pareyson propone nel saggio Pensiero espressivo e pensiero rivelativo, testo che risale alla prolusione al corso di Filosofia teoretica, letta nell’Università di Torino il 12 novembre 1964 e pubblicata nel «Giornale critico della filosofia italiana» (1965, fasc. 2). Il saggio è ora contenuto in Verità e interpretazione, 15-31. ↩︎
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L. Pareyson, Essere libertà ambiguità, 152. Pareyson riconosce però anche un senso più profondo della «svolta» attribuito stavolta a tutto il percorso di Heidegger, «pervaso da quell’impeto di radicalismo che ne è il motivo ispiratore», Ibidem, 152. ↩︎
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L. Pareyson, Esistenza e persona, 77. ↩︎
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Cfr. L. Pareyson, Esistenza e persona, 234. ↩︎
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M. Heidegger, «La questione della tecnica», Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, 9. ↩︎
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M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), GA 2, Klostermann, Frankfurt am Main 1977, 353; Essere e tempo, tr. P. Chiodi, Longanesi, Milano 1952, 197611, 323. ↩︎
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Cfr. M. Heidegger, Sein und Wahrheit, GA 36-37, Klostermann, Frankfurt am Main 2001, tr. it. Che cos’è la verità?, tr. C. Gotz, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2011, 184. ↩︎
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Cfr. L. Pareyson, Verità e interpretazione, 117, 161-164. ↩︎
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Cfr. L. Pareyson, Verità e interpretazione, 9, 90, 114-118. ↩︎
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Cfr. L. Pareyson, Esistenza e persona, 242-243. ↩︎
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Cfr. L. Pareyson, Verità e interpretazione, 174; Id., «Rettifiche sull’esistenzialismo», Esistenza e persona, 246. ↩︎
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L. Pareyson, Essere libertà ambiguità, 152. La definizione di «radicalismo bloccato» attribuita all’ontologia di Heidegger appartiene agli scritti dell’ultimo periodo del filosofo quelli che vanno dal 1988 al 1990. Afferma il filosofo: «Il pensiero di Heidegger è una filosofia dell’ambiguità, ove l’ambiguità è originaria, senza che tuttavia ne sia tematizzato il principio, che di fatto risiede sia nella reciproca scambiabilità di essere e nulla che domina il pensiero di Heidegger, sia nel suo spontaneo radicalismo, che per timore di una qualsiasi assolutizzazione rifiuta di fissarsi in uno dei due termini. Ma si tratta di un radicalismo bloccato, perché non giunge a cogliere il principio dell’ambiguità, il quale non può essere che la libertà cui è appesa l’intera realtà», Ontologia della libertà, 454. Inoltre, il radicalismo «bloccato» dell’ontologia heideggeriana costringe il linguaggio al mutismo o all’afasia del dire, rendendo così impossibile nella dialettica verità-interpretazione la distinzione tra vero e falso: «A questo punto s’impone una precisazione ch’io considero importante per chi, attento al discorso fatto da Heidegger, ritenga di doverlo continuare oltre l’impasse dell’ontologia negativa in cui egli l’ha inopportunamente e sterilmente cacciato: ed è che non per il fatto di sottrarsi a un’esplicitazione completa la verità deve considerarsi come ineffabile, quasi che la sua sede naturale sia il silenzio, e che il suo unico modo di consegnarsi alla parola sia quello di sottrarlesi, e che non possa rivelarsi senza occultarsi, sia perché non avrebbe altro modo d’esser presente che l’assenza sia perché ogni sua apparizione ne sarebbe mondo un tradimento. La parola è sede inadeguata della verità solo se la si intenda razionalisticamente come esplicitazione totale; ma se se ne misura l’infinita capacità, essa appare piuttosto come la sede più adatta per accogliere la verità e conservarla come inesauribile», Verità e interpretazione, 27. ↩︎
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Cfr. L. Pareyson, Verità e interpretazione, 53, 71, 101; Id, Ontologia della libertà, 10-11. ↩︎
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Afferma Heidegger in Che cos’è metafisica?: «Esser-ci significa esser tenuto immerso nel niente. Tenendosi immerso nel niente, l’esserci è già sempre oltre l’ente nella sua totalità. Questo essere oltre l’ente noi lo chiamiamo trascendenza», in Segnavia, tr. F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, 70. ↩︎
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L. Pareyson, «Rettifiche sull’esistenzialismo», Studi di filosofia in onore di Gustavo Bontadini, 1 vol., Milano 1975, adesso in L. Pareyson, Esistenza e persona, il melangolo, Genova 20025, 231-251. ↩︎
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L. Pareyson, «Rettifiche sull’esistenzialismo», Esistenza e persona, 236. L’incontro con la filosofia dell’ultimo Schelling permette a Pareyson di spostare il suo asse speculativo dall’esistenza (personalismo ontologico) alla libertà (ontologia della libertà). ↩︎
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Afferma Pareyson a proposito: «l’interpretazione dell’ultimo Schelling può venir innovata a partire da Heidegger proprio perché Heidegger ha avuto Schelling all’origine del suo pensiero», «Rettifiche sull’esistenzialismo», Esistenza e persona, 246. ↩︎
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F. Schelling, in Schelling. Presentazione e antologia, Marzorati, Milano 1971, 19752, 127. ↩︎
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L. Pareyson, Ontologia della libertà, 11. ↩︎
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Cfr. L. Pareyson, Essere libertà ambiguità, 51. ↩︎
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L. Pareyson, Verità e interpretazione, 101. ↩︎
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L. Pareyson, Ontologia della libertà, 361. Le ultime considerazione di Pareyson sul pensiero di Heidegger sono state trascritte, a partire da appunti manoscritti dell’autore, a cura di Francesco Tomatis e inserite nell’articolo «La “domanda fondamentale”: “Perché l’essere piuttosto che il nulla”?», ora in Ontologia della libertà, 353-384. ↩︎
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L. Pareyson, Ontologia della libertà, 266. ↩︎
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Afferma Heidegger: «Solo l’uomo “ha” la caratteristica di stare di fronte alla morte, poiché l’uomo è insistente nell’Essere: la morte è la somma testimonianza dell’Essere», Contributi alla filosofia (dall’evento) (1936-1938), tr. F. Volpi e A. Iadicicco, Adelphi, Milano 2007, 236. ↩︎
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Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, 414-421. ↩︎
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Pur nella netta contrapposizione tra il percorso di Pareyson e quello di Heidegger, possiamo comunque cogliere una certa affinità di pensiero in quanto in entrambi c’è il desiderio di risalire ad un’origine «prima dell’uomo» e «prima di Dio». Origine che rimane «ambigua» in entrambi i filosofi, nonostante venga sviluppata diversamente da ciascuno di loro. Siamo quindi d’accordo con Ugazio quando afferma che «il cammino heideggeriano e quello pareysoniano, proprio perché originali, non siano soltanto diversi; entrambi sono richiamati verso una stessa direzione, quella indicata dal grande tema del rapporto di essere e libertà. Così, l’“ontologia della libertà”, proposta da Pareyson […] non si limita ad affermare il rapporto ontologico, ma affermandolo come libertà include dentro di sé anche la possibile negazione di tale rapporto. Se di fronte alla realtà inquietante del male, il nichilismo e l’ateismo possono negare il rapporto ontologico e sentire nell’orrore per l’essere la libertà umana come condanna, il pensiero originario [di Heidegger], anziché scartare questa possibilità di negazione, la fa risalire all’origine stessa, prima dell’uomo e anche prima di Dio, all’ambiguità di una realtà che esiste prima della sua possibilità e senza necessità», U. Ugazio, «Pareyson interprete di Heidegger», 102. ↩︎
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La problematica aperta a cui qui possiamo solo accennare è stata ampiamente svolta nel nostro S. Rindone, Pensiero della trascendenza e pensiero della temporalità, 291-367. ↩︎
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Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, 441-449, 455-462. ↩︎
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L. Pareyson, Ontologia della libertà, 230. ↩︎
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L. Pareyson, Ontologia della libertà, 203. ↩︎
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I saggi degli anni ’80, relativi all’ermeneutica dell’esperienza religiosa, permettono a Pareyson non solo di approdare ai temi cristiani (quali l’origine del male, il valore redentivo della sofferenza e l’escatologia) ma anche di far convogliare la dialettica sulla libertà con la riflessione sul linguaggio mitico e simbolico. Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, 61-81. ↩︎
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Intervista rilasciata durante i giorni del convegno su Goethe e la filosofia della natura organizzato dall’Associazione «Federico Nietzsche», il cui Premio verrà consegnato a tre celebri filosofi: Paul Ricœur, Enrico Berti e Luigi Pareyson. L’intervista è ora contenuta in L. Pareyson, Essere libertà ambiguità, 163-166, sotto il titolo «Nichilismo e cristianesimo». ↩︎
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L. Pareyson, Essere libertà ambiguità, 152. ↩︎
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Cfr. L. Pareyson, Verità e interpretazione, 35.108 ↩︎
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Pareyson rimprovera anche Vattimo di aver tolto l’elemento tragico dal pensiero di Nietzsche, carattere che Pareyson ritrova specialmente nello scritto La volontà di potenza, § 851-852. Afferma il maestro della Scuola di Torino in alcuni dei suoi scritti inediti: «Il debolismo di Vattimo non è altro che il pensiero di Nietzsche in cui si è tolto il tragico (cioè proprio ciò per cui Nietzsche è Nietzsche). Non esiste la verità, non c’è trascendenza, non c’è il nulla. Tutto ciò senza dramma né esaltazione (né orrido né ilare), nichilismo edificante e consolatorio», A.L.P. S. IX, u.a. 270. ↩︎
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«Anche Kierkegaard ha detto al di là del bene e del male, cioè non basta stare nella sfera etica, bisogna passare oltre, bisogna fare il salto – dopo averlo fatto poi uno recupera tutta l’etica trasvalutata», L. Pareyson, Essere, libertà. ambiguità, 90. Questo passaggio ci aiuta a comprendere meglio la forte ascensione kierkegaardiana nel pensiero di Pareyson e come Nietzsche venga considerato, invece, uno dei filosofi che hanno permesso e preparato le basi ad una filosofia dell’esistenza, cfr. Ibidem, 91. ↩︎
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Afferma Pareyson: «proprio sul prolungamento del discorso intrapreso da Heidegger è possibile rincontrare uno Schelling attualissimo e particolarmente eloquente nella situazione odierna», L. Pareyson, «Rettifiche sull’esistenzialismo», 246. Nietzsche, in ultima analisi, viene riconosciuto da Pareyson come un pensatore fondamentale per capire Heidegger, tuttavia, ci sembra che non lo consideri sufficientemente nell’elaborazione del suo pensiero, lasciandolo piuttosto in ombra rispetto alla filosofia di Schelling e di Kierkegaard. ↩︎
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Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, 443. ↩︎
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Cfr. M. Heidegger, Contributi alla filosofia, (Dall’evento), tr. F. Volpi e A. Iadicicco, Adelphi, Milano 2007, cap. VII, 397-408. Cfr. L. Samonà, «La “svolta” e i Contributi alla filosofia: l’essere come evento», in F. Volpi, ed., Guida a Heidegger. Ermeneutica, Fenomenologia, Esistenzialismo, Ontologia, Teologia, Estetica, Etica, Tecnica, Nichilismo, Laterza, Bari, 20082, 202-208; cfr. O. Poggeler, Neue Wege mit Heidegger, Alber, Freiburg-Miinchen 1992; cfr. U. Regina, «I mortali e l’ultimo Dio nei Beiträge zur Philosophie», in Heidegger, ed. G. Penzo, Morcelliana, Brescia 1990, 165-198. Vedi anche il nostro S. Rindone, Pensiero della trascendenza e pensiero della temporalità, 384-385. ↩︎
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A. Fabris, «L’“ermeneutica della fatticità” nei corsi friburghesi dal 1919 al 1923», in F. Volpi, ed., Guida a Heidegger. Ermeneutica, Fenomenologia, Esistenzialismo, Ontologia, Teologia, Estetica, Etica, Tecnica, Nichilismo, Laterza, Bari, 20082, 59-111. ↩︎
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L. Pareyson, Ontologia della libertà, 446. ↩︎
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L. Pareyson, Ontologia della libertà, 447. ↩︎
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L. Pareyson, Ontologia della libertà, 448. ↩︎
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L. Pareyson, Ontologia della libertà, 460. Tuttavia, si potrebbe supporre che l’«ultimo dio» dei Beiträge e il «Dio che sceglie il bene» pareysoniano siano anche molto vicini tra loro perché né l’uno né l’altro si trovano nella teodicea classica né nella teologia della tradizione cattolica. ↩︎
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«Esistenzialista ateo» era il sostantivo che Pareyson aveva attribuito anche all’esistenzialismo di Feuerbach in un saggio del 1948 dal titolo «Esistenzialismo e umanismo». Si tratta di un testo inserito poi in Esistenza e persona (1950) col titolo «Due possibilità Kierkegaard e Feuerbach» (pagine 39-73). In questo testo Pareyson individuava l’origine hegeliana dell’esistenzialismo e coglieva la «natura doppia» di questa filosofia: un «esistenzialismo cristiano» rappresentato da Kierkegaard e un «esistenzialismo ateo e secolarizzato» rappresentato da Feuerbach. La nostra ipotesi è che si possa far corrispondere la critica di «filosofo anticristiano» che Pareyson rivolge ad Heidegger in Ontologia della libertà, a quella che già egli stesso rivolgeva all’attuazione sociale e politica della filosofia «atea» di Marx e di Feuerbach. ↩︎
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L. Pareyson, Ontologia della libertà, 461. ↩︎
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L. Pareyson, Ontologia della libertà, 254. ↩︎