1. Fare esperienza della meraviglia
Fare esperienza di qualcosa – si tratti di una cosa, di un uomo, di un Dio – significa che quel qualcosa per noi accade, che ci incontra, ci sopraggiunge, ci sconvolge e ci trasforma.1
Che la meraviglia mantenga un legame strettissimo con la filosofia è un’affermazione apparentemente ovvia, nota a chiunque abbia sfogliato le pagine introduttive di un manuale di storia del pensiero occidentale, dove due voci autorevoli indicano con chiarezza questo nesso originario: quella di Platone: «Ed è proprio del filosofo quello che tu provi, di esser pieno di meraviglia: né altro cominciamento ha il filosofare che questo»,2 e quella di Aristotele, per certi aspetti complementare: «Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia. […] Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia, riconosce di non sapere».3 Più controversa è la questione se questo cominciamento meravigliato dell’avventura filosofica (lo stupore inteso come «la tonalità emotiva fondamentale dell’inizio pensante»4) sia destinato a venir meno con il progredire della conoscenza (come sembra sostenere Aristotele, quando afferma che «il possesso di questa scienza [la scienza delle cause prime] deve porci in uno stato d’animo contrario a quello in cui eravamo all’inizio delle ricerche»5), ovvero se il pathos dello stupore sia una postura passivo-attiva («passività dell’essere-colpito e attività dell’interrogazione»6) insopprimibile davanti all’enigma insuperabile di ciò che è, la cui essenza resta sempre próblema in quanto eccede ogni sapere certo e definitivo.
Sappiamo che la filosofia si divide davanti a questa alternativa. Per una via – quella preponderante – essa ha seguito il destino che denunciava María Zambrano, quando parlava della filosofia come «estasi fallita a causa di uno strappo»:7 una rottura, una lacerazione, un dis-incantamento orientato a conseguire l’idealità dello sguardo sistematico, ma di uno «sguardo che ha ormai cessato di vedere le cose»,8 o meglio che vede solo «cose» ridotte a mera presenza, misurabili, calcolabili, definibili, replicabili, utilizzabili, senza più alcuna domanda sulla loro essenza. Questo esito, favorito anche da un certo impeto di dominio sul reale e da una hybris scientifica che pensa di riassumere nelle proprie categorie ogni possibile conoscenza, porta a ritenere che tutto il sapere possa declinarsi in formule logico-razionalistiche, che il linguaggio possa aderire all’essere degli enti e circoscriverne tutta la loro verità. Per altre vie plurali, disseminate e per lo più carsiche, ma che non cessano di riaffiorare in un cogitare inquieto e sempre aperto al domandare, la filosofia ha continuato a farsi esercizio di interrogazione, «di quella interrogazione tanto antica quanto attuale, che non solo si origina dal thaumázein, ma continuamente lo rinnova».9 Qui la meraviglia non si caratterizza tanto come mera stupefazione davanti alle cose, ma più propriamente come thauma, «qualcosa di enigmatico e perciò inquietante-spaesante, che ci afferra, fino a poterci atterrire»10 e ci sollecita incessantemente alla domanda, alla ricerca, alla rimessa in questione delle nostre presunte certezze. Una meraviglia che non retrocede davanti all’incremento del sapere (come voleva Aristotele), poiché quel sapere non perviene mai alla alétheia delle cose, al loro dis-velamento che è sempre una ri-velazione, un movimento che svela-e-vela allo sguardo qualcosa che le nostre categorie e il nostro dire non possono com-prendere, per quanto si mantengano desiderose di sophia, amanti della verità: ma, appunto, amanti, sempre inclinate verso l’inafferrabile e l’indicibile del reale, in una tensione che non si sospende ma si rinnova, e proprio per questo è incitamento, invito, pro-vocazione erotica che sfida il logos, che ci chiama in causa nella nostra tensione conoscitiva, aspirandoci e ispirandoci verso la «cosa ultima».
La potenza della meraviglia appare in questa postura che si mantiene in contatto con le cose nella loro irriducibilità alle pretese del logos razionale, che gira intorno alle cose senza cessare di interrogarle nella verità del loro apparire. L’esperienza del thaûma dunque non si esaurisce, poiché costantemente rimesso in movimento da ciò che – al termine di ogni investigazione – resta ancora problema, aporia, sfida a trovare nuove vie per la ricerca e l’interrogazione: «Il thaûma si sviluppa nel thaumázein, che non è stupor, ma cura (anche nel senso deinón, tremendo, dell’angoscia), poiché lo spettacolo dell’essente e della molteplicità dell’essente deve afferrare e sconvolgere, per poter aprire all’interrogazione»; un’interrogazione necessaria, attraverso la quale «l’esserci corrisponde al 'colpo' che patisce dalla presenza dell’ente».11 Nell’esperienza della meraviglia la presenza dell’ente non cessa di colpirci, si fa aporoúmenon, «ciò che costituisce la aporia, il cammino che continuamente si interrompe, viene a mancare, e che continuamente quell’esserci che siamo riconsidera, ri-corda e riprende».12 A-poros significa assenza di una direzione per proseguire, come se davanti al percorso dell’essere cercante si presentasse un ostacolo, un pró-blema che si getta davanti e con cui dobbiamo misurarci. «Aporia» (termine che compare in particolare nella Fisica di Aristotele)13 indica dunque una situazione di intransitabilità a causa di un «passaggio impossibile, rifiutato, negato o interdetto», un «non-passaggio», una «non-viabilità», una «non-via o cammino sbarrato»: si tratta dell’impossibile o dell’impraticabile (diaporeô è qui la parola di Aristotele, che significa «sono in imbarazzo, non me la cavo, non posso fare niente».14 Problema è l’ente nella sua presenza: davanti alla sua apparizione «continuamente dunque si rinnova la meraviglia-e-la-domanda sull’essente. E con essa l’esperienza dell’aporia».15 Proprio per questa ragione, nessun avanzamento decisivo consente di guadagnare l’uscita verso l’euporia, verso la soluzione del dubbio e dell’impasse; occorre – come sostiene Heidegger – «seguire questo domandare fin dove esso conduce, tenergli testa e non eluderlo con domande spicciole», poiché «soltanto nel rigore del domandare giungiamo in prossimità dell’in-dicibile».16 Approssimare l’ente nella sua irriducibilità alle categorie del logos costringe dunque a percorrere sentieri labirintici, che
si intersecano, si ritrovano e si ridividono, a volte sembrano scomparire, procedere sotto-traccia, a volte si fanno segno o indizio per altri percorsi. Occorre pensare, insomma, a un labirinto polidimensionale, un labirinto-rete in cui ogni punto è centro (come nel multiverso bruniano) e può essere collegato a un altro, o a più simultaneamente; di esso è impossibile avere una visione «dall’alto», che lo comprenda tutto «in uno sguardo». […] Le vie che lo costituiscono sono palintrope, riavvolgentesi su se stesse, e spesso per avanzare ritornano sui propri passi.17
2. Verso il cuore indicibile dell’ente
Se non spera non troverà l’insperato: non v’è ricerca che vi conduca né via.18
Ma cosa, dell’ente, resta in-dicibile e impredicabile, aporoúmenon che incita alla ri-flessione, all’erranza del cammino, al dis-corso e al diaporeîn inteso non come risposta all’aporia, bensì come «un procedere in essa e attraverso di essa»?19 Cosa, nell’epifania dell’ente, si sottrae concedendosi e celandosi, rimane in-definito e sempre «degno di interrogazione»?20 Perché la (de)finitezza dell’ente allude, rimanda ad altro, riavvia ogni volta l’infinitezza dell’interrogare, senza che nomi, predicazioni, definizioni – pur approssimandosi all’essenza della cosa – possano venirne a capo, circoscriverla nel campo di indagine della fondata certezza, affermando infine l’epistéme e il trionfo del logos veritativo? Perché di fronte al realissimum di ciascun ente «intuiamo che ciò che abbiamo scoperto attraverso l’epistéme non è ciò che cercavamo, e che pertanto restiamo nell’aporia»?21 Si tratta di domande tanto fondamentali quanto paradossali, che il filosofare meravigliato – a differenza della doxa comune e della limitatezza di sguardo di un sapere che assolutizza le categorie della logica, adeguando il reale a quegli schemi – non può non farsi, aprendo la ricerca verso la cosa ultima a cui ogni essente rimanda e che ogni ente testimonia con la sua nuda presenza. La presenza dell’ente non esaurisce la sua essenza, ma è traccia di quella, fa ad essa segno, la indica come direzione di un co(a)gitare inquieto e meravigliato che non si conclude, un sapere inoperoso e sempre in cammino, una verità-alétheia che resiste all’assalto del logos, che resta sempre da svelare. Una verità che dis-sente dalle nostre categorie conoscitive e dall’ovvietà della nostra idea di verità, intesa come concordanza-corrispondenza-convenienza-conformità-adeguazione tra la nostra conoscenza e la cosa;22 una verità che invece sempre si pro-mette, nel senso che si pone davanti (pro-) guidando, trascinando, liberando il pensiero verso l’infinità e l’in-dicibilità della cosa, mantenendo in tensione la ricerca della sophia e vivo il suo eros, la sua meraviglia spaesata di fronte all’aporeticità del reale.
«La natura ama nascondersi»:23 il celebre frammento di Eraclito può costituire lo sfondo entro cui si collocano gli interrogativi sopra richiamati, aiutandoci a scorgere la ragione fondamentale della loro indecidibilità. È necessario introdurci in ciò che i Greci chiamavano Physis e i latini Natura: pur nella consapevolezza che si tratta di una questione aperta, che resta sempre da-pensare, possiamo individuare in essa almeno due profili semantici strettamente co-implicati, che ci permetteranno di approssimarci a ciò che – nell’essenza dell’ente – eccede le categorie del logos razionale, destinando la nostra indagine all’infinito domandare.24
a) In primo luogo, in un senso generale e universale, Phýsis è «la generazione delle cose che crescono»,25 il movimento incessante, la forza e l’energia diffusa che – transitivamente – fa crescere e nutre le cose, portandole alla luce e distogliendole dal nascondimento. Phýsis è in questo senso arché, principio intramontabile di generazione e di con-crescita di tutte le cose che sono, Natura naturante e generativa che si esplica producendo, portando ciascuna cosa alla presenza, facendo di ciascun ente (dal granello di polvere all’essere vivente) una forma singolare e diveniente, immersa nel campo mobile dell’incessante trasformazione. La Phýsis degli antichi pensatori è questo slargo ospitale e sorgivo in cui ogni cosa costantemente si manifesta, ek-siste, diviene e muore; il grembo generativo da cui ogni cosa viene alla luce, che Heidegger declina come «sorgenza», «formazione», «nascimento», «il sempre perdurante disvelamento»:26 perdurante poiché essa è – come dice Eraclito – «ciò che non tramonta»,27 l’era e il sarà, l’imperfetto e il futuro di ogni ente. Questa Phýsis-arché rimane dunque nascosta e immanente (sotto, dentro, attraverso) mentre si dischiude nel processo incessante del nascere e del crescere delle singole cose, poiché il manifestarsi e il celarsi non sono da intendersi come separati, ma «hanno una reciproca inclinazione. Essi sono lo stesso. […] In questa inclinazione in cui il sorgere e il nascondersi si chinano l’uno verso l’altro risiede la pienezza essenziale della phýsis»: proprio in questa «armonia», in questa reciproca pro-tensione consiste la philia di cui parla Eraclito, la corrispondenza in cui «il disvelarsi ama il nascondersi», la «mobile intimità di svelare e nascondere», in cui «il disvelarsi non solo non elimina mai il nascondere, ma ne ha bisogno, per poter essere come è, cioè come dis-velare».28
b) In secondo luogo, in un senso specifico e particolare (Natura naturata), Phýsis consiste nella natura intima, propria, essenziale di ciascuna cosa che è, nel suo modo precipuo e singolare di essere, di crescere e trasformarsi, venendo alla presenza ed entrando a far parte – come nodo e snodo unico e insostituibile – della trama in cui ogni cosa, restando distintamente se stessa, si connette alle altre nell’infinito partage dell’essente, nell’annodatura dell’uno-con-l’altro in cui l’essere consiste. Ogni singolo ente è in questo senso un accesso al mondo, soglia ogni volta privilegiata, esclusiva, originale, irripetibile, quella cosa come varco unico al reticolo infinito di tutto l’essente. Venendo alla presenza e con-crescendo nell’apertura della Phýsis, ciascun ente «è energia che in-finitamente muove e vive»,29 rimanendo distinto nella propria singolarità ma non separato dal Tutto; la sua presenza ci colpisce, «non “sta” lì di fronte “in attesa” di essere predicato, ma agisce: il suo apparire suscita l’interrogazione».30 La domanda sull’essenza dell’ente che, nella sua peculiare «natura», appare e si mostra, non può trovare risposta in una de-finizione che lo cattura e lo riporta all’interno delle nostre categorie conoscitive: e ciò per la ragione che «la stessa presenza dell’ente è più-che-presente. […] La singolarità dell’ente non si manifesta integralmente nella finitezza dell’apparire. In un solo evento, nel questo-qui determinato, non può esaurirsi l’apparire dell’essente nella sua sostanza ultima e in verità».31 Qualcosa dell’ente eccede la sua presenza pur restando immanente all’ente stesso, qualcosa della sua singolarissima natura «ama nascondersi», si sottrae allo sguardo conoscitivo del theoreîn, mantenendosi nella dimensione dell’indicibile. Torna, anche a proposito di questa seconda accezione di Phýsis, il libero intimo gioco di manifestazione e nascondimento che abbiamo visto al punto precedente.
Per cogliere ciò che, svelandosi nella generazione incessante delle cose, rimane tuttavia nascosto, bisogna allora operare una trasfigurazione dello sguardo e un affinamento della sensibilità, in altre parole la loro radicale conversione, quella periagogé che porta a inaugurare una postura nuova di fronte alle cose, ruotando il collo da ciò che appare a ciò che si cela, dalle ombre della caverna verso la fonte stessa della luce, come Platone ci racconta nel celebre mito.32 L’ente ridotto alla mera presenza è ombra apparente che si staglia sul fondo della caverna, e che i prigionieri ritengono unica e sola verità nella sua realtà oggettuale; certo – e questo non va dimenticato – anche questa presenza è realtà e verità della cosa, ma verità parziale, limitata, incompleta, la facile verità di una visione a-problematica, priva del tarlo dell’aporia ed esonerata dalla tensione dell’interrogazione: «Ciò significa – precisa Heidegger nella sua interpretazione del mito platonico – che l’uomo prende automaticamente per “ente” ciò che gli è di volta in volta dis-velato (ciò che gli si offre davanti)»,33 senza vedere ciò che nella natura dell’ente si cela, senza sprofondare nell’interrogazione su questa dimensione nascosta, senza avvertire la dimensione infinita che si cela nella finitezza dell’ente e nella sua inter-relazione con il Tutto, senza ri-cercare una via per approssimarsi alla alétheia dell’ente presente-e-nascosto. A questa dis-attenzione si riferiva Eraclito quando parlava di uomini che non intendono il Logos-Discorso, «uomini simili a sordi» che «non sanno né ascoltare né parlare», che «vivono come avendo ciascuno una loro mente», sconnessi da e incapaci di seguire il Logos comune.34 L’ente, per lo sguardo comune, è isolato ed esiliato nella sua mera presenza-ombra, de-finito dalle categorie del linguaggio che lo indagano, lo circoscrivono, lo separano dalla sua natura celata e dal con-essere insieme agli altri enti. Occorre invece dismettere l’arroganza della conoscenza e assumere un atteggiamento di perseveranza, pazienza, lungimiranza, attesa per pervenire alla liberazione autentica dalle ombre della caverna,35 per incontrare nell’ente presente e finito la sua provenienza dalla Phýsis, il suo legame-armonia con quell’arché, che è «ciò da cui qualcosa prende avvio e inizio», e che dunque, in quanto avvio e inizio, non cessa di restare immanente nell’essenza singolare della cosa protendendosi oltre e in essa dominando.36
Se rimaniamo prigionieri del nostro stesso dire e discorrere, pur necessario e irrinunciabile per approssimarsi filosoficamente all’essenza singolare dell’ente, non vediamo la Phýsis-arché che si nasconde nell’ente, né avvertiamo il nesso invisibile che lega e connette tutti gli enti, il Comune, il Cum, lo Xynón che li tiene insieme nella distinzione del loro singolarissimo apparire, giacché «Armonia invisibile della visibile è migliore».37 Ciò che la Natura-Phýsis «ama» è proprio questo s-velarsi nell’ente presente, rimanendo celata nella sua immanenza finita ma eccedendolo all’infinito, mantenendolo nella sua propria distinzione ma riannodandolo nella tessitura ontologica del Tutto. Occorre imparare a vedere l’invisibile verità dell’ente, e per questo è necessario un esercizio del pensiero, una àskesis della conoscenza. Se non inoltriamo lo sguardo oltre la sua fenomenicità, non riusciremo a pensare la sua noumenicità:
Che è l’essente? Fenomeno e noumeno; nient’affatto solo «fenomeno», a condizione di tenere presente che il noumeno non rimanda a «oggetti» al di là dell’intuizione, […] non è una impossibile «cosa» non oggetto dei sensi, ma l’oggetto stesso, considerato come «ciò» che di esso non può essere sensibilmente intuito, bensì solo pensato – e tuttavia pensato soltanto nella sua relazione al suo essere-fenomeno. In altri termini, possiamo predicare soltanto fenomeni; ma questo è un limite dell’espressione, e non significa affatto né un limite del pensare, né che i limiti dell’espressione coincidano con la sostanza della cosa, […] noumeno è, infatti, l’impredicabile dell’ente.38
L’ente non si declina solo al presente, per quello che appare: esso annuncia qualcosa che appartiene al passato e al futuro: tò tí ên eînai (ciò che era l’essere) è l’espressione aristotelica per dire questa irriducibilità dell’ente al suo presente, il suo essere più che presente, il suo essere all’imperfetto così come al futuro, in quanto strettamente connesso con l’intramontabilità e con l’infinità della Phýsis-arché. Al di qua e al di là di ogni predicazione e di ogni logos razionale, l’ente nasconde – nel suo venire alla luce, nel suo ek-sistere – il cordone ombelicale con la Phýsis originaria e la sua connessione-distinzione con il Tutto. «L’ente era “ciò” che in questa presenza si cela, era la causa che l’ha resa questa cosa nella sua propria singolarità, ciò che l’ha generato nella sua forma individua. E possiamo risalire a tale origine solo imperfettamente. Non potremo mai, cioè, farla presente, ridurla al presente perfetto del theoreîn».39 L’era di ogni ente è ciò che lo congiunge a ciò che mai tramonta, principio che, pertanto, era e sarà sempre, poiché esso continua a dominare e a mantenersi latente nell’apparire dell’ente.
3. Necessità e insufficienza dell’epistéme
Quelli che cercano l’oro scavano molta terra e ne trovano poco.40
Di questo imperfetto e di questo futuro, di questo infinito nel finito, la presenza dell’ente è solo indicazione, allusione, segno che non può essere raccolto nella rete del logos razionale. Nella sua fenomenicità, ciascun ente è traccia di questo infinito, che tuttavia non contraddice il finito, ma lo apre e lo muove, lo tende e lo trascina, in una trascendenza del finito verso il finito, verso la singolarità di ciascun ente, verso la pre-potente Phýsis che eccede la sua finitezza restando ad essa immanente, verso il Tutto a cui ciascun ente singolare è relato: Phýsis, Singolarità e Tutto che il logos desidera, di cui ha sete, ma che resta alétheia, verità che si nasconde mentre si concede alla visibilità, che si ritrae nell’offrirsi stesso della cosa, intrecciandosi e co-implicandosi alla sua stessa presenza. La «forza del nascosto» è proprio questo trascinamento, questa aspirazione della conoscenza verso ciò che è «radice, abisso, interiorità, ordito, trama, insondabile rete di un senso che ha la forma dell’enigma».41 Qui ha origine la meraviglia e l’eros del poeta e del mistico, l’ebbrezza e la follia del loro percorrere sentieri altri dal filosofo, che nell’esperienza del poeta diventano l’incedere di una parola scavata dal silenzio, e nell’ascesi del mistico la «via stretta» di un farsi vuoto per «indiarsi», anzi per ospitare Dio nel fondo «libero e vuoto» (in tedesco, ledig) della propria anima, come voleva Meister Eckhart. Forme e tentativi di conoscenza certamente distinti dalla (ma connessi alla) ricerca filosofica, che invece deve affidare la propria philia verso la sophia al logos predicativo, definitorio, argomentativo.
Filosofo è colui che inscrive il proprio percorso di ricerca all’interno di un circolo del sapere irrinunciabile, ma che si caratterizza come un «circolo paradossale, aperto al suo inizio così come alla sua fine».42 È necessario allora capire il senso e la profondità di questa apertura, che indirizza il pensare alla sua «destinazione infinita»; è necessario stare in essa, abitarla, sperimentarla, per inaugurare un pensare che resta sempre sulla via di un’approssimazione alla cosa, sempre consegnato all’«esperienza della distanza», poiché «non è possibile dire con precisione ciò che si vede o si sente».43 Gli elementi attraverso cui il filosofo perviene alla conoscenza dell’ente, ovvero si approssima alla sua essenza, sono quelli di cui parla Platone nella Settima Lettera: si tratta di quattro tappe, o stadi, o gradi della conoscenza che delineano un percorso ineludibile di avvicinamento alla verità dell’essente («questa cosa qui», prâgma toûto), un’indagine nel senso etimologico del termine (dal greco éndon, dentro e ágere, spingere, condurre): il tentativo di risospingere la verità della cosa negli schemi epistemici della conoscenza, nel recinto del sapere che vorrebbe venirne a capo, possedendo l’essenza della cosa, com-prendendola, concettualizzandola, avendola per sé. Il sapere filosofico manifesta qui la sua costitutiva ansia appropriativa, il suo metodo di caccia e di conquista della verità, il tentativo di circoscrivere, delimitare, de-finire, attraverso i Quattro che Platone richiama: ónoma, lógos, eídolon, epistéme.44
Il punto di avvio della conoscenza è il nome (ónoma), il suono della voce con cui pronunciamo e significhiamo la cosa e senza del quale non potrebbe darsi alcuna informazione-comunicazione; il nome è dunque «l’immagine prima e più fuggevole»45 per dire la cosa, il «questo qui» che abbiamo davanti. Ma il nome significante non consente di cogliere e definire la realtà dell’ente se non è collegato al verbo, se non diventa parte di una proposizione che consente di predicare la cosa, di inserirla nel movimento di raccolta del lógos, che è proprio «ciò che definisce quella prima immagine attraverso verbi e predicati»;46 il lógos lega e con-lega il nome alle proprietà dell’ente, ne fa oggetto di un dis-corso in cui la cosa-nome si declina nelle categorie del suo essere, si de-finisce e si concettualizza attraverso la tessitura articolata del lógos predicativo. Tuttavia, di questa definizione ancora astratta e di questo concetto ancora formale della cosa occorre costruire una figura, «figurare la definizione»:47 da qui il terzo stadio della conoscenza, «l’eídolon, la nuova immagine che così abbiamo prodotto, il risultato dell’immaginazione, la figura che rende sensibile il concetto».48 Solo dopo questi tre gradi della conoscenza si giunge al «ben saldo sapere»49 costituito dall’epistéme intesa come fondata certezza, come «intellezione veritiera della cosa, che non risiede né nei nomi, né nella composizione di nomi e verbi, né nella figura, bensì nell’anima di chi intuisce. Noi possediamo la cosa quando ne abbiamo l’idea».50 I Quattro configurano dunque il méthodos della ricerca filosofica verso la verità della cosa, l’obbligata via da seguire per investigare l’ente e per approssimarsi alla a-létheia che si svela e si rivela. In questo percorso consiste la strategia del filosofo per procedere oltre il thauma che la cosa genera con la sua presenza, oltre il pathos e il colpo dello stupore ma senza mai – come si diceva – poter fare della meraviglia un’esperienza del tutto superata, di cui si può venire definitivamente a capo. Infatti, la strada della conoscenza filosofica non si perfeziona con il quartetto platonico che abbiamo riassunto, poiché alla fine ci si trova davanti non il possesso ultimo della cosa, bensì l’aporoúmenon che rinnova l’interrogazione. Il circolo del sapere rimane alla fine ancora aperto, e solo un’illusione linguistica permette di pensare che i Quattro (nomi, verbi, figure, concetti, definizioni) possano concepire perfettamente l’essenza della cosa: «Chi pretende di comprehenderla nella rete del lógos, in realtà non solo la perde, non solo mai la raggiunge, ma dimostra di non sapere neppure la natura di tale rete, ignorandone il limite».51 Qui la lingua e il pensiero restano aperti al non ancora detto, al non ancora pensato, all’altrimenti che essere (E. Lévinas) della presenza dell’ente.
Il linguaggio e il discorso hanno un potere che è anche il loro limite costitutivo, di cui chi parla, chi scrive, chi pensa, deve essere consapevole: «prendere la vita, e assoggettarla al proprio potere. Qui “prendere” va inteso in senso letterale, prendere la vita nella rete del linguaggio, ed organizzarla secondo un principio arbitrario».52 A questa «presa» sono orientati gli schemi logico-epistemici: attraverso un taglio, una separazione dualistica tra soggetto e oggetto, un distanziamento tra Io e mondo, il disordine e la moltitudine della vita vengono tramutati in un ordine, in una logica, «in un insieme di entità numerabili, cioè in un insieme di cose. […] Il linguaggio rende numerabile il mondo, lo trasforma in una costellazione di cose, e così rende possibile il ragionamento/calcolo».53 Ogni nominazione stabilisce una ontologia e al contempo una differenza, una distanza tra soggetto e mondo, tra la «presa» del linguaggio e impossedibilità della verità della cosa: «Il primo atto linguistico (e questa situazione si ripete tutte le volte che qualcuno prende la parola), allora, istituisce contemporaneamente un mondo di cose da nominare e i loro nomi, ma anche una gerarchia fra queste cose/nomi, come anche una scala di valori fra di essi».54 Tale presa di potere sul mondo, tuttavia, non può essere disgiunta dalla impossibilità strutturale del linguaggio di dire l’essenza della cosa, e anzi il linguaggio coincide con questa stessa impossibilità, è una caratteristica costitutiva e ineludibile del dire umano e della ricerca scientifica e filosofica. Il potere del linguaggio e della logica è insomma un potere in perdita, un potere de-finitorio ed escludente che, nell’atto stesso di prendere, perde: possesso e perdita fanno parte del medesimo movimento, l’uno è il rovescio dell’altra: la presa di potere sulle cose, la loro cattura nella rete dell’indagine, coincide – dall’altro lato – con l’espunzione della verità nascosta nell’evidenza di ogni ente, una concentrazione dello sguardo che restringe il campo al focus del meramente visibile, impedendosi la visione più ampia dell’invisibile, del latente, del nascosto: ma di un invisibile che resta costantemente davanti agli occhi, manifesto nella viva presenza della cosa.
Tuttavia, non si tratta di rinunciare alle strutture del logos in nome di uno scivolamento della filosofia nella sfera del poetico e del mistico, né di una abdicazione della ricerca a favore di uno scetticismo radicale: si tratta di sapere (un sapere che è anche amore del limite) la necessità del logos ma anche la sua strutturale insufficienza, la sua impossibilità a raggiungere la verità della cosa, a conquistarla con gli strumenti della logica e del linguaggio. Si tratta di sapere che la rete della conoscenza e dell’indagine ha un limite, oltre il quale la cosa nella sua singolarità – pur catturata dal nostro sapere – eccede sempre:
Il lógos definisce il fenomeno, l’ente come ci appare nella percezione, che è sempre dubbia, confusa e confutabile. Nomi, definizioni ed éidola, figure, corrispondono al fenomeno e soltanto al fenomeno si applicano. Ma intuiamo che ciò non può concludere la ricerca. […] Intuiamo che ciò che abbiamo scoperto attraverso l’episteme non è ciò che cercavamo, e che pertanto restiamo nell’aporia. Anzi, ora soltanto siamo pervenuti finalmente ad essa [all’essenza dell’essente, di ciascun essente], ora davvero la strada e la parola mancano. Ed è risultato, non naufragio.55
Risultato poiché solo in virtù dei Quattro siamo potuti pervenire fino alla soglia dell’indicibile, e quei gradini o stadi (come nella scala dell’amore platonico) non sono inessenziali, superflui, discrezionali, ma sono passaggi fondamentali e obbligati per pervenire all’aporia della cosa, e dunque alla domanda e alla meraviglia che si rinnova, per continuare a cercare la sua essenza. Senza quei passaggi non saremmo potuti ascendere (un salire che è anche uno sprofondare) alla consapevolezza dell’insufficienza del logos e delle categorie discorsive, all’impossibilità dell’epistéme a cogliere la cosa nella sua irriducibile singolarità e nella sua indicibile verità, quel «realissimum mai concettualizzabile della presenza dell’ente».56 Non si tratta allora di una sconfitta, di un naufragio, bensì di un’ascesa/sprofondamento che apre una chance, un’esperienza del limite della conoscenza che diventa soglia e nuovo inizio del pensiero, poiché consente di andare oltre ciò che de-limita e chiude per approssimarsi all’esperienza dell’Aperto, per procedere verso il Quinto stadio, una porta stretta (feritoia e ferita) attraverso la quale la dimensione aporetica dell’ente apre alla «destinazione infinita del pensare».57
4. La cruna dell’ago
Il comprendere è un patire.58
Siamo giunti nel punto più arduo, al tornante più esposto e arrischiato del sentiero, alla cruna dell’ago che si offre solo a chi sa entrarvi, consapevole dei limiti dell’epistéme e capace di liberarsi dalla tentazione della logica di perfezionare la conoscenza della cosa, chiudendola nella rete (necessaria ma non sufficiente) dei Quattro. Qui è indispensabile quella conversione dello sguardo di cui si diceva, un atto consapevole di disarticolazione della cosa dal recinto dell’indagine e dalla strumentazione del logos. L’epistéme ci ha condotto al punto di massima approssimazione all’essenza dell’ente, e tuttavia non ci ha consegnato la sua verità ultima, che sta nella sfera dell’indicibile e dell’impredicabile. Come, allora, articolare le parole per dire questo grado ulteriore del pensiero? È ancora possibile parlarne, scriverne, discorrerne? Bisogna, per farlo, abbandonare il terreno della filosofia per acconsentire al mutismo visionario del mistico, alla rapsodia silenziosa della parola poetica, oppure il pensiero ha ancora (insieme al mistico e al poeta, nell’in-comune che tiene insieme i distinti) un ruolo, un compito, una possibilità? E a quali condizioni, a quale prezzo? E questo prezzo può diventare un guadagno per il filosofo indigente e amante della verità, mai suo proprietario? L’indicibile della cosa fa segno verso un infinito del pensiero e dell’esperienza, verso un al di là dell’essere (epékeina tês uosías, diceva Platone),59 uno zenit della conoscenza che solo un «sapere dell’anima» può intuire e pensare. È qui necessario un pensiero ampio, aperto, intero, che non abbia timore di dilatare le proprie potenzialità, che superi le amputazioni e ricomponga i dualismi: un pensare-che-sente e un sentire-che-pensa, una ragione appassionata e innamorata del reale, radicata nelle sue viscere, come non si è stancata di indicare María Zambrano:
La passione da sola mette in fuga la verità, che, suscettibile e agile, riesce a sottrarsi alle sue grinfie. La ragione da sola non riesce a sorprendere la preda. Mentre ragione e passione unite, o meglio, la ragione appassionata che si slancia con impeto ma sa poi trattenersi al momento giusto, riescono a catturare senza danno la nuda verità.60
La nuda verità della cosa scorta senza danno è l’infinito a cui il Quinto apre, la possibilità che l’essenza finita della cosa diventi, agli occhi meravigliati dell’amante della verità e della conoscenza, indizio, traccia che fa segno verso l’infinità della Phýsis-arché, inizio che non tramonta e che continua, nella cosa e attraverso di essa, in essa nascosta, a dominare, a generare, a far crescere e a trasformare incessantemente: «un grembo da cui tutto proviene e che tutto in sé custodisce, non “gelosamente”, ma per lasciare che esista».61 La nuda verità, non obliata dal nostro sguardo miope o, peggio, cieco, sottrae e salva la cosa dal destino di restare mero oggetto manipolabile, per farla apparire nella sua ineffabile singolarità e nella sua distinzione e, al tempo stesso, nella trama sempre aperta della sua relazione con il Tutto. La nuda verità della cosa, salvaguardata dalla hybris della conoscenza, è ciò che fa di quella cosa nella sua essenziale presenza un accesso alla Cosa ultima, l’Agathon di cui Platone raccomandava di non scrivere, di non ricondurlo al recinto dei Quattro, poiché quella realtà è ineffabile, non concettualizzabile, approssimabile solo al termine di un percorso ascensionale dell’intelletto; pertanto, può essere solo oggetto di intuizione per un sapere dell’anima, un’anima meravigliata, ebbra, innamorata, appassionata che non ha più timore dell’Aperto che la cosa spalanca con la sua presenza, se sappiamo cercare, se sappiamo vedere. Agathon, Idea delle idee, Idea del Bene non inteso come qualità morale ma ontologica: «È, sì, Bene, ma perché buono, perché rende possibile la vita stessa dell’essente e la sua conoscibilità. […] La casa-cammino che guarda all’Aperto dell’Agathon. Lì, se mai in un luogo, abita il philo-sopheîn».62
Ma qui, in questo altrove esposto a ciò che è al di là dell’essere, e tuttavia nel cuore stesso dell’ente (un «altrove» che è dunque invisibilmente, intimamente «qui»), non troviamo solo il filosofo. Ri-troviamo finalmente – nella comunità dei distinti, nell’essere-in-comune delle singolarità cercanti – anche il poeta e il mistico, giunti a quell’Aperto da sentieri diversi, con metodi differenti, attraverso esperienze di ricerca e di conoscenza particolari, ma aspirati dallo stesso desiderio, dalla con-divisione dell’amore per la verità impredicabile di ogni cosa che è. Il poeta è colui che – pur restando sul limite estremo del linguaggio, ma non in esso irretito – sa e ama la sua inoperosità, l’impossibilità di dire l’indicibile, e per questo affida le parole al respiro del silenzio e dell’eco, facendo del ritmo del suo poetare il
movimento del respiro verso la parola, della parola verso il senso, del senso verso il vuoto. E del vuoto verso il senso. […] Può la lingua approssimarsi al respiro della natura, raccogliere nel proprio suono il suono dell’onda che lambisce il mostrarsi delle cose, la luce che rivela e il silenzio che protegge? Eppure, in questo avvicinamento, in questo passo che è desiderio di appartenenza e di consistenza, sta la sfida della lingua, la sua necessità stessa. Senza questo movimento verso la physis il dire è vuoto rumore.63
Il mistico (da myein, chiudere, tacere) è colui che è costretto a tacere di ciò che ha compiutamente visto, «colui che è tenuto a serrare le labbra e rendere impenetrabile (come la notte fonda) il segreto cui ha partecipato», colui che «chiude la bocca nel momento stesso in cui spalanca lo sguardo»,64 facendo sprofondare le parole nella luminosa noche obscura di San Juan de la Cruz, in cui il linguaggio si fa da parte – scarnificato – per lasciar risuonare l’altro della parola, il grido, il gemito, fino a quel nada nada nada attraverso il quale la pretesa della parola si abbassa e si umilia, accettando infine il suo non-potere sulla verità. Il pensiero aperto del filosofo, il dire arrischiato e inoperoso del poeta e il sentire muto e oscuro del mistico hanno qualcosa in comune: l’ascolto profondo e paziente della cosa ultima, l’esperienza dell’ascolto della verità indicibile che risuona nell’apparire dell’ente, un esperire, un pensare-sentire spalancato, appassionato al reale, che insegue tracce, immagini, intuizioni, percezioni, congetture, presagi, illuminazioni. Qui, ancora una volta, un’armonia inapparente, un Cum carsico e profondo tiene insieme e con-giunge ciò che appare ingannevolmente scisso e separato.65
La cosa che ci sta davanti esorbita, eccede, dis-sente dalla sua fenomenicità (dis-sidere, stare seduto separatamente), si fa traccia di altro, ma di una alterità della/nella cosa, di un infinito del/nel finito, una differenza che – al contrario della teorizzazione heideggeriana – non separa l’ente dall’essere, ma è immanente all’ente stesso nella sua meravigliosa presenza, in essa manifesta e in essa celata. La cosa è a-letheia, cioè, insieme, orizzontalità (fenomenicità-natura che si manifesta) della sua presenza, e verticalità (noumenicità-natura che si nasconde) del suo essere-altro: per questo Cacciari – nel libro più volte citato – invita a tenere insieme i due gesti di Platone e Aristotele, al centro del grande dipinto di Raffaello, la Scuola di Atene: Platone che, con l’indice rivolto verso l’alto, invita a un’ascensionalità dello sguardo rivolto alle idee e, infine all’Idea delle idee, all’indicibilità del Bene o Agathon; Aristotele che rivolge la mano all’orizzontalità di un pensiero che opera nel mondo con le cose che lo costituiscono, sinolo di materia e forma:
Tanto un’interpretazione dualistica del platonismo, quanto quella in senso semplicemente immanentistico di Aristotele, non sono che il moderno prodotto della incapacità di mantenere aperta l’interrogazione intorno all’eterno aporoúmenon costituito dalla necessaria connessione tra zôon, psiche e noûs. I gesti dei due Maestri che campeggiano nella Scuola di Atene di Raffaello, proprio nel loro contraddirsi, sono sistole e diastole, invece, della medesima interrogazione.[M. Cacciari, Labirinto filosofico, p. 191.]
Due gesti com-plementari e sin-ergici, che dunque «lavorano-insieme» nell’avventura della conoscenza. Due posture, due movenze che nella loro intersecazione, nel loro senso direzionale ricompongono un simbolo cruciale, che intreccia in un medesimo punto fenomeno e noumeno, finito e infinito, pensare e sentire, sapere epistemico e sapere dell’anima, invitando a tener desta la meraviglia e l’interrogazione di fronte all’aporia di ogni cosa che appare. Un segno che allude, più in generale, alla croce del filosofare, quella gestazione inoperosa della verità in cui consiste la philo-sophia, e con cui sospendiamo (senza concludere) questo errante e labirintico excursus intorno all’indicibile della cosa, restituendo la parola a colui che l’ha inizialmente ispirato:
Vi è una manía, immanente al logos, che lo spinge a parlare dell’Ineffabile, che lo spinge alla propria «rovina». Il nostro logos è come in perenne gestazione dell’Ineffabile. […] Gestazione perenne, che mai porterà al frutto. Concepimento «immobile», senza generazione. Nativitas aeterna, che mai si fa carne. Verbum, mai Filius. […] Dobbiamo armarci di molta pazienza.66
-
M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1993, p. 127. ↩︎
-
Platone, Teeteto, 155d. ↩︎
-
Aristotele, Metafisica, I, 2, 982b, 11 ss. ↩︎
-
M. Heidegger, Domande fondamentali della filosofia, Mursia, Milano 1990, p. 111. ↩︎
-
Aristotele, Metafisica, I, 2, 983a, 12. ↩︎
-
M. Cacciari, Labirinto filosofico, Adelphi, Torino 2014, cit., p. 21. ↩︎
-
M. Zambrano, Filosofia e poesia, Pendragon, Bologna 1998, p. 31. ↩︎
-
Ibid. ↩︎
-
M. Cacciari, Labirinto filosofico, cit., pp. 28-29. ↩︎
-
Ivi, p. 12. ↩︎
-
Ivi, p. 20. ↩︎
-
Ivi, p. 28. ↩︎
-
Aristotele, Fisica, IV, 217b. ↩︎
-
J. Derrida, Aporie. Morire – attendersi ai «limiti della verità», Bompiani, Milano 2004, pp. 9 e 13. ↩︎
-
M. Cacciari, Labirinto filosofico, cit., pp. 20-21. ↩︎
-
M. Heidegger, L’essenza della verità, Adelphi, Torino 1997, pp. 136 e 124. ↩︎
-
M. Cacciari, Labirinto filosofico, cit., p. 15. ↩︎
-
Eraclito, I frammenti e le testimonianze, a cura di C. Diano e G. Serra, Mondadori, Milano 1980, frammento 65, p. 33. ↩︎
-
M. Cacciari, Labirinto filosofico, cit., p. 24. ↩︎
-
Ivi, p. 29. ↩︎
-
Ivi, p. 113. ↩︎
-
Cfr. M. Heidegger, L’essenza della verità, in Id., Segnavia, Adelphi, Torino 1987, pp. 136-137. ↩︎
-
Eraclito, I frammenti e le testimonianze, cit., frammento 28, p. 19. ↩︎
-
La considerazione della Phýsis tiene insieme due diverse ascendenze etimologiche fatte valere nel pensiero occidentale: a) la prima, per la quale il termine phýsis deriva dalla radice phy-, «rimanda ai significati concentrati attorno al verbo phýo che indica, transitivamente, l’azione di “nutrire”, “far crescere (qualcosa)” e, intransitivamente, l’attività di “nutrirsi”, “crescere”». G. Pasqualotto, Oltre la filosofia. Percorsi di saggezza tra Oriente e Occidente, Angelo Colla Editore, Costabissara, 2008, p. 52; b) la seconda, secondo Heidegger più originaria, che fa derivare phýsis dalla radice pha-, dunque dall’aera semantica di pháino, pháinomai, phaínestai, in cui «il “crescere” si rivela come uno schiudersi, il quale, a sua volta, rimane determinato dall’esser-presente e dall’apparire. […] La phýsis sarebbe, di conseguenza, ciò che viene alla luce schiudendosi, e phíein varrebbe come rilucere, mostrarsi, e, per conseguenza, apparire». M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1990, p. 81. ↩︎
-
Aristotele, Metafisica, V, 4, 1014b, 16. ↩︎
-
M. Heidegger, Alétheia, in Id. Saggi e discorsi, Mursia, Milano 2001, p. 184. ↩︎
-
Eraclito, I frammenti e le testimonianze, cit., frammento 104, p. 47. ↩︎
-
Ivi, pp. 185-186. ↩︎
-
M. Cacciari, Labirinto filosofico, cit., p. 263. ↩︎
-
Ivi, p. 19. ↩︎
-
Ivi, pp. 45 e 46-47. ↩︎
-
Platone, Repubblica, VII, 514a-517a. ↩︎
-
M. Heidegger, L’essenza della verità, cit., p. 51. ↩︎
-
Eraclito, I frammenti e le testimonianze, cit., frammenti da 1 a 7, pp. 7-9. ↩︎
-
Cfr. M. Heidegger, L’essenza della verità, cit., p. 68. ↩︎
-
M. Heidegger, Sull’essenza e sul concetto della φύσις, in Id., Segnavia, cit., p. 201. ↩︎
-
Eraclito, I frammenti e le testimonianze, cit., frammento 27, p. 17. ↩︎
-
M. Cacciari, Labirinto filosofico, cit., pp. 296 e 301. ↩︎
-
Ivi, p. 42. ↩︎
-
Eraclito, I frammenti e le testimonianze, cit., frammento 94, p. 43. ↩︎
-
A. Prete, Prosodia della natura. Frammenti di una Fisica poetica, Feltrinelli, Milano 1993, p. 23. ↩︎
-
M. Cacciari, Labirinto filosofico, cit., p. 46. ↩︎
-
Ivi, pp. 45 e 72. ↩︎
-
Platone, Settima Lettera, 342a-344d. ↩︎
-
Su questo cammino inconcluso della conoscenza filosofica, costanti e puntuali riferimenti sono presenti nelle opere di M. Cacciari, in particolare nel «trittico» in cui si concentra la sua ricerca teoretica: Dell’Inizio, Adelphi, Milano 1990, p. 44-45; Della cosa ultima, Adelphi, Milano 2004, pp. 442-443; Labirinto filosofico, cit., pp. 111-115. ↩︎
-
M. Cacciari, Dell’Inizio, cit., pp. 44-45. ↩︎
-
M. Cacciari, Labirinto filosofico, cit., p. 112. ↩︎
-
M. Cacciari, Dell’Inizio, cit., p. 44. ↩︎
-
Ivi, pp. 44-45. ↩︎
-
M. Cacciari, Della cosa ultima, cit., p. 443. ↩︎
-
M. Cacciari, Labirinto filosofico, cit., p. 110. ↩︎
-
F. Cimatti, La vita estrinseca. Dopo il linguaggio, Orthotes, Napoli-Salerno 2018, p. 29. ↩︎
-
Ivi, pp. 18-19. ↩︎
-
Ivi, p. 27. ↩︎
-
M. Cacciari, Labirinto filosofico, cit., p. 113. ↩︎
-
Ivi, p. 39. ↩︎
-
Ivi, p. 45. ↩︎
-
M. Heidegger, Domande fondamentali della filosofia, cit., p. 126. ↩︎
-
Platone, Repubblica, 509b. ↩︎
-
M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina, Milano 1996, pp. 11-12, corsivo mio. ↩︎
-
M. Cacciari, Labirinto filosofico, cit., p. 120. ↩︎
-
Ivi, pp. 120 e 122. ↩︎
-
A. Prete, Meditazioni sul poetico, Moretti & Vitale, Bergamo 2013, pp. 23-24. ↩︎
-
M. Cacciari, Della cosa ultima, cit., p. 418. ↩︎
-
Sull’armonia nascosta tra i percorsi del filosofo, del poeta e del mistico, mi permetto di rinviare a S. Piromalli, Vuoto e inaugurazione. La condizione umana nel pensiero di María Zambrano e Jean-Luc Nancy, Il Poligrafo, Padova 2009, in particolare il cap. I, Stupore e passività. Logos filosofico e ragione poetica, pp. 27-50, e il cap. II, Vuoto dell’esilio e inaugurazione di sé, con riferimento alle pp. 67-76. ↩︎
-
M. Cacciari, Dell’Inizio, cit., p. 79. ↩︎