La New Age tra eredità e decadenza

1. La frattura dell’età moderna

Una delle urgenze di fondo che muove il nostro tempo è l’esigenza di autenticità, intesa come ritorno ad un passato primordiale, un’età dell’oro perduta, dove tutto vibrava in eterna armonia, quando l’impulso irrazionale e le tendenze mistiche erano coniugati felicemente con le attività razionali, e la tradizione aveva un ruolo privilegiato, dimora e destinazione che scandiva i passi del pellegrino nel suo viaggio sulla terra. Lo spirito che anima la New Age è mosso dalla memoria di quel tempo non ancora restituito nel suo spirito autentico, e il suo uomo è il viandante di allora, che non muove per una strada già segnata, ma vaga per le mille strade che hanno percorso le varie tradizioni cercando in ognuna di esse un segnale che lo riconduca alla propria dimora.

L’età moderna si apre sopra una frattura fondamentale che, oltre ad essere la rottura con ogni forma di tradizione, è innanzi tutto l’incapacità di comprendersi nel proprio presente in una proporzionalità dialettica tra l’essere che è realmente percepito dai sensi nell’orizzontalità del tempo e dello spazio, e la verticalizzazione, atemporale e presente, dei significati proposizionali raggiunti dalla conoscenza intellettuale. Predomina un paradigma materialistico che nasconde l’essere entro le maglie della logica del dominio. Ma l’essere obliato rivendica i propri diritti, proclama la propria presenzialità soffocata. Minacce di distruzione, buchi neri nel cielo, e di più, razionalizzazione sfrenata e volontà di dominio, trasformano la dignità della persona in follia animalesca. Il limite posto all’infinito della natura, del volto dell’uomo, si rovescia per assumere davanti a sé un segno negativo. L’antimateria è il risultato della negazione del valore intrinseco della materia, la natura; così come l’anticoscienza, la cui espressione emblematica è il campo di concentramento, è la negazione delle infinite possibilità della coscienza, che non è, o almeno non solo, intelletto razionale che divide e misura, ma volto e svelamento del volto nella relazione priva di velleità proiettive, accoglienza ed abbraccio dell’essere.

La risposta che proviene dalla New Age a questo stato di cose avvicina quest’ultima alla domanda fondamentale del nostro secolo, che chiede, parafrasando Lyotard: «Qual è quel tipo di pensiero capace di aufheben, nel senso hegeliano di cancellare e riprendere insieme, “Auschwitz” inserendolo in un processo generale, empirico e persino speculativo, volto verso l’emancipazione universale?».1 La crisi che la New Age vuol superare ha come emblema il campo di concentramento, in quanto crisi della storia e del singolo di fronte all’alterità, o, ancora più precisamente, perversione e deformazione del potere del singolo di fronte all’alterità, trasformata nell’anti-alterità.

L’universo referenziale che essa propone la definisce come una sorta di destinazione della nostra storia attuale, poiché muove dai resti della crisi della modernità, che vive come punto di partenza — sia in quanto fine della metafisica, che si traduce in una visione dove in primo piano è l’esperienza, sia come pensiero debole che rifiuta i caratteri propri di una ragione totalitaria e totalizzante, e che si traduce nella New Age come sincretismo ed eterogeneità delle forme —, e mira a riconciliare le grandi lacerazioni di cui siamo il prodotto: l’uomo con sé stesso e con l’alterità: Dio, Uomo, Mondo. Questi momenti sono inscindibili in nome di una visione olistica ed ecologica della realtà, che non tarda a sfociare in un ritorno dello gnosticismo.

Le categorie entro cui intendo inserire la New Age al fine di una comprensione critica di tale fenomeno sono quelle della eredità e decadenza, le stesse che Bonhoeffer usa nella sua riflessione sulla modernità.2 Egli le intende come due modi di reagire al nichilismo del mondo moderno, mondo peraltro divenuto adulto, poiché ha saputo liberarsi dell’autorità della tradizione religiosa. Questi modi sono quelli che egli chiama l’«ateismo religioso», che «non può separarsi dal proprio passato e non può non essere essenzialmente religioso»,3 e l’«ateismo pieno di promesse», il quale si pone in «una difesa della eredità di una autentica fede in Dio».4 Il primo implica una continuità con il passato della tradizione religiosa, ma una continuità del tutto particolare che non intende assumere la frattura, anzi preferisce ignorarla, poiché l’uomo ha imparato a bastare a se stesso in tutte le questioni importanti senza l’ausilio «dell’ipotesi di lavoro di Dio»,5 dunque si è sostituito a Dio stesso, spingendo all’estremo il processo di secolarizzazione, e dunque il nichilismo. L’«ateismo pieno di promesse», invece, anziché ricomporre la frattura in modo immediato, la accetta, consapevole che la tradizione potrà un giorno essere recuperata nella sua originarietà solo se l’uomo sarà in grado di tener fermo all’Assoluto assumendo su di sé il dolore che la consapevolezza della morte di Dio, del suo essere stato espulso dal mondo, ha prodotto. Una tale consapevole sofferenza diventa il luogo in cui l’assenza di Dio apre di nuovo la possibilità di una relazione con Lui. L’eredità consiste in questo saper accettare la frattura, e la tensione che ne consegue, al fine di tener fermo all’Originario, seppur sotto la cifra dell’assenza, con la fedele speranza che tornerà a parlare di nuovo all’uomo di oggi se solo egli si porrà nella condizione di ascoltarlo.

La New Age per molti versi sembra animata da una autentica e genuina volontà di ricomposizione che non ignora la lacerazione, ma anzi trae da essa gli spunti e gli strumenti, e si fa portavoce di una filosofia della responsabilità che guarda con occhi limpidi alla crisi; ma spesso, rinunciando a qualsiasi ortodossia, e proclamando l’uomo depositario per eccellenza della verità alla quale può giungere attraverso lo sviluppo e l’affinamento delle sue facoltà razionali e intuitive, sembra in realtà essere una forma estrema di decadenza, la sanzione definitiva della secolarizzazione, in nome dell’individualità che si sostituisce di nuovo all’Assenza. In ogni caso, un tale dispiegarsi di forze e di energie che tentano di riconciliare l’uomo con se stesso, con la propria dimora e con l’orizzonte religioso, è un appuntamento al quale la nostra storia è stata chiamata da numerosi segnali provenienti sia dal suo interno, sia dalle riflessioni filosofiche che l’hanno percorsa. Per tale ragione anche gli equivoci e le contraddizioni, i passi a ritroso più di quelli avanti, meritano di essere osservati e presi in considerazione, come preziose coordinate del pensiero e dell’agire, dell’uomo e della storia.

2. Sincretismo o sintesi?

La New Age, per il suo carattere sincretico, spesso rivoluzionario e ribelle nei confronti di qualsiasi dogma, in particolare quello cristiano, rischia di non operare un cambiamento in positivo con il recupero reale di un Originario che ci fonda, e di lasciare l’uomo intrappolato nell’ego e nel «mentale» che va a sostituirsi ancora una volta a Dio. Mi riferisco in modo particolare all’emergere di numerose sette che si rifanno, più o meno esplicitamente, a tradizioni lontane dalla nostra cultura sia nel tempo sia nello spazio, spesso fuse tra loro in modo alquanto arbitrario, che ripropongono rituali occulti prescindendo dal terreno culturale e tradizionale su cui poggiavano e da cui ricevevano significato. Aldo Natale Terrin coglie la pericolosità di questi innesti, affermando al proposito:

Il rischio maggiore che attribuisco a questa ritualità è dovuto al fatto che si tratta per lo più di una sperimentazione senz’anima, di un mondo che viene proposto per pura curiosità, con il tentativo di far presa sulla realtà senza che ci sia il contesto vero che legittima il rituale e cioè l’esperienza religiosa vera, o quanto meno vi sia una partecipazione affettiva con la realtà che si intende modificare. L’aspetto parassitario non è da sottovalutare e indica anche come questi riti nascano di solito per contrasto e per una ripetizione di una ritualità passata senza che vi sia la possibilità di recuperare il nucleo spirituale che l’animava. … Ora questa ritualità è parassita perché vive alle spalle di una storia passata sfruttandone il valore religioso, oggi non proponibile, e si affida all’irrazionale per l’irrazionale.6

Scartare la cultura e le tradizioni che ci costituiscono per un puro atto di ribellione nei confronti del negativo che ne è scaturito, anziché essere un punto di svolta (che presuppone comunque una certa continuità), diverrebbe un punto di sconvolgimento totale, in cui l’uomo occidentale potrebbe far fatica a riconoscersi innanzi tutto in quanto uomo. La convivialità tra culture, religioni e tradizioni diverse, è la più nobile disposizione dell’animo umano e una premessa ineliminabile nei rapporti tra uomini; è un fatto positivo scorgere nelle varie manifestazioni dell’essere un’unica sorgente, che ridurrebbe infinitamente le distanze tra gli uomini nel rispetto della loro unicità e differenza. Ma il modo in cui il sincretismo New Age vorrebbe annullare le differenze, con la presunzione che la nostra unicità e la nostra cultura possano essere livellate e plasmate da tradizioni che hanno fondato altre irripetibili culture, non muove affatto dal rispetto nei confronti della differenza.

Anzi, nelle forme estreme e certamente meno serie del movimento, assistiamo a veri e propri puzzle di dottrine e tradizioni, che, anziché costituire uno stimolo verso la crescita e l’autorealizzazione personale, procedono verso una sorta di «sfondamento» dell’essere che ci costituisce. Se una ricomposizione deve esserci, questa non può prescindere dalle cause che l’hanno generata, e quindi dal sistema culturale e tradizionale cui apparteniamo. Il momento religioso di ogni singolo popolo non è una realtà che si può estrapolare e trasportare su un terreno del tutto estraneo da quello su cui è sorto. Se è vero che le differenze possono offrire spunti, che è lecito e pieno di dignità e amorevole rispetto saper scorgere delle analogie tra le diverse tradizioni e riconoscere in tutte lo stesso «profumo», è pur vero che bisogna serbare a riguardo una certa distanza che le mantiene. L’omogeneizzazione culturale è una violenza e un’ingiustizia, prima di tutto nei confronti di ciò che è livellato, e poi nei confronti di chi vorrebbe disperdere le differenze in nome di un’uguaglianza che viene ad imporsi come un momento ancor più totalizzante delle realtà che si intendevano superare. L’autenticità cui ogni singolo anela, e che nei buoni propositi della New Age va ravvisata nell’Essere che ci fonda e pertanto ci rende simili, deve essere coniugata con l’originalità e irripetibilità di ognuno, altrimenti essa perderebbe il suo significato essenziale per trasformarsi di nuovo in sterile e piatta omogeneità. L’incontro con tradizioni e realtà altre è propositivo e dinamico solo se si rende debita giustizia all’alterità. Così come l’incontro con il volto dell’altro presuppone un’identità e una differenza (ontologica l’una, etica l’altra), anche l’incontro con l’Altro che si esprime in culture diverse impone la curiosità e il confronto. Ciò rappresenta un momento di crescita e di sviluppo solo perché nel riconoscimento della differenza si scorge e si attua un’ulteriore manifestazione e realizzazione dell’Essere.

Scartare il momento formale significa corrompere l’Essere. Le parole, le forme tutte, sono punti di ancoraggio dell’Essere, che altrimenti ci rapirebbe senza alcuna possibilità di comprensione da parte nostra. «Comprendere» come «prendere insieme» e «tenere unito» il significato al significante, pur nella consapevolezza di ciò che trapassa e va oltre. L’omogeneizzazione che rende indifferenti le differenze può avere due conseguenze devastanti. Da una parte può rovesciarsi in forme di totalitarismo, per cui venendo a mancare il rispetto nei confronti della differenza, scema anche il momento relazionale con ciò che è altro da noi, di conseguenza la possibilità di crescita, che è imprescindibile dalla dinamicità che si articola nello scarto tra noi e ciò che ci sta di fronte. Altra conseguenza, forse per certi aspetti più immediata e pericolosa, perché riguarda direttamente il singolo che compie determinate esperienze, è quella di sprofondare nell’Essere privi degli argini cui esso deve essere mantenuto.

Mi riferisco anzitutto a quell’irrazionale per l’irrazionale di cui parla Terrin. Esso sfrutta la volontà di superare l’assertività del pensiero nel nostro tempo e i danni di un eccesso di razionalizzazione che hanno condotto al materialismo, proponendo vie di fuga che, anziché essere il principio di un superamento, si rivelano essere (purtroppo più spesso di quanto non si pensi) la restaurazione del negativo che si voleva superare. Un po’ come nel medioevo si rinnegavano i valori terreni in nome del Cielo, oggi può accadere, in determinate situazioni, di non saper più vivere nel mondo, perché si sono perse le coordinate che permettevano un inserimento reale. E come la dipendenza dell’uomo moderno era legata ad un ordine sterile e piatto di cose che comunque dava una sicurezza (e ciò lo introduceva in un sistema di massificazione in cui l’individualità era ridotta a cosalità funzionale), così la dipendenza in cui cadono gli aderenti a certi gruppi o sette è legata ad un irrazionale che in nessun modo può operare una reale conciliazione ed un vero superamento, ma anzi, con il solo sviluppo di facoltà irrazionali, toglie ogni possibilità all’uomo di ritrovare nella terra la propria dimora.

Sia che si tratti di casi estremi, che presentano non pochi pericoli per l’equilibrio mentale e spirituale degli individui, sia che si tratti di buoni propositi volti a ricercare l’Origine che ci fonda, in ogni caso è presuntuoso voler fare un’esperienza totale dell’Essere che da sempre si è manifestato in forme diverse. La cultura non è stata un capriccio della storia, o degli uomini, ma rappresenta il trampolino di lancio verso ciò che ci trascende e la terra ferma cui dobbiamo tornare, magari per renderla più ricca e fertile; così come torniamo arricchiti noi, in quanto singoli, dopo aver incontrato il volto dell’altro uomo senza averlo ridotto a noi e senza la pretesa di esaurirlo, ma con la consapevolezza che, con la protezione delle forme che ci custodiscono, possiamo ogni volta tornare a contemplare l’infinità dell’Essere. Solo con riguardo alla preziosità della varietà che l’Essere colora è possibile conservare intatti stupore e meraviglia, senza le quali non sarebbe possibile né la filosofia, né qualsiasi spinta in avanti del genere umano. Il sincretismo quale patchwork di dottrine e tradizioni diverse, vendute a ciò che oserei definire il «mercato della New Age» nel suo aspetto peggiore, non rende conto del valore intrinseco della singolarità, intesa sia a livello della persona che a quello degli orizzonti culturali che la definiscono. Per questo motivo il tentativo di recuperare l’autenticità di ognuno e della tradizione, e quello di essere restituiti ad un orizzonte religioso, rischia di fallire già in partenza.

Se invece con «sincretismo» si volesse intendere l’aspirazione a superare l’idolatria del fatto, del significante, del dogma, nel confronto e nel rispetto che mantiene vive la tradizioni altre, allora potrebbe costituire una sintesi inesauribile con l’Assoluto che si dispiega, ma una sintesi che ogni volta ne coglie un aspetto essenziale e diverso, e che per questo è viva e fonte di vita che incanta e colora le forme che ci racchiudono e distinguono. Ma è evidente che non si tratterebbe più di «sincretismo», ma di una sintesi dinamica che rappresenta la via privilegiata all’accoglimento di quell’evento. Così, il contatto con le tradizioni orientali, inteso in questo senso, non è una moda né un capriccio culturale, ma è il tentativo concreto e positivo di poter restituire a nuova vita lo spirito religioso assopito nel nostro tempo, che uscirà arricchito da quell’incontro. Il sincretismo come sintesi è allora la consapevolezza che il confronto con culture che hanno mantenuto intatto e vivo il loro spirito tradizionale servirà da stimolo per noi che quello spirito abbiamo perduto, senza però snaturarlo nelle sue espressioni particolari. Come afferma René Guénon, esponente del tradizionalismo integrale,

questa presa di contatto con tradizioni il cui spirito ancora sussiste è anzi il solo modo per rivivificare quel che è ancora suscettibile d’esserlo: e ciò costituisce uno dei più grandi servigi che l’Oriente possa rendere all’Occidente.7

3. Una salvezza non escatologica?

La premessa fondamentale della New Age è quella che riconosce Dio nel tutto. La natura dell’uomo sarebbe dunque divina, e ognuno sarebbe l’artefice della propria salvezza. In questo modo vengono a cadere i principi fondamentali della religione cristiana, ma più in generale della tradizione monoteista, che prevede innanzitutto un rapporto di alterità tra Dio e l’uomo, il quale è inizialmente buono, ma poi corrotto da una colpa originaria, e non può nulla senza il medio della redenzione. Al contrario, i nuovi movimenti che cercano di sviluppare il potenziale umano annullano ogni differenza tra uomo e Dio, e il concetto di fede, che implica necessariamente un rapporto di alterità, è trasformato in una concezione in cui «credere» diventa «fiducia nelle proprie potenzialità». Il rapporto con la divinità è strettamente personale, ma questa intimità che non presuppone la differenza, l’alterità di Dio, relega il Sacro nella sfera del Sé e del mondo, togliendo così l’ordine della trascendenza. Mancando un’alterità con cui essere in relazione, avendola esaurita nella personalità, l’individuo assume i contorni di un essere bifronte che riassume in sé sia l’ordine terrestre che quello divino. Il rischio è quello di trovarci di fronte ad una religione narcisistica, in cui l’uomo occupa nuovamente il posto lasciato vuoto dal divino, e di elevare la crisi prodotta dalla secolarizzazione religiosa alla seconda potenza. Anzi, la presunzione di aver superato la secolarizzazione maschera la mondanità del momento religioso, e il pericolo è una radicalizzazione dell’individualismo che, così camuffato, non sa scorgere i segni di un’assenza che egli vorrebbe coprire con la propria apoteosi.

La presenza di una visione gnostica, in cui l’uomo è l’artefice della propria salvezza, è un fatto inevitabile del nostro tempo, che trova le sue radici nel nichilismo, nella disgregazione della persona i cui frammenti sono dispersi nelle molteplici forme di potere che convengono alla demonizzazione della cultura e della società moderna. La gnosi nel nostro tempo assume delle sfumature esistenzialiste; essa si pone come risposta all’alienazione, e tale risposta proviene dalla voce del singolo che tenta di riscattarsi opponendo al potere che lo aveva sopraffatto le proprie potenzialità. In questo modo si assicura almeno all’interiorità del singolo una certa autonomia. Se la fede senza riserve riposta nella ragione ha trovato e prodotto le più grandi illusioni, se l’orizzonte religioso non garantisce più risposte, l’interiorità è l’unica zona franca da preservare e custodire, e anche l’unica dimensione da cui prendere le mosse affinché ci si possa salvare.

In realtà, la gnosi del nostro tempo e i suoi propositi di autoliberazione presentano notevoli affinità con il nichilismo che si vuole combattere. Hans Jonas, nel suo saggio sul fenomeno della gnosi,8 trova notevoli analogie tra l’esistenzialismo moderno, il nichilismo e il pensiero gnostico. La separazione tra uomo e mondo che avviene nell’esistenzialismo, la cui premessa fu il nichilismo, è una condizione che rese giustizia anche allo gnosticismo antico. Le analogie riguardano prevalentemente la distanza dal mondo, le cui leggi derivano dal dio sconosciuto, o inferiore; per tale ragione bisogna distaccarsene, e l’uomo deve realizzare la propria essenza che consiste nella conoscenza di sé e del Dio Superiore che solo è amore:

Sotto questo cielo spietato, che non ispirava più confidenza devota, l’uomo diventa cosciente della sua totale solitudine. Circondato da esso, soggetto al suo potere, eppure superiore ad esso per la nobiltà della sua anima, l’uomo non si riconosce parte del sistema che lo avvolge, ma inspiegabilmente posto in esso ed esposto ad esso. E, come Pascal, egli è spaventato. La sua solitaria alterità che scopre se stessa nella solitudine, prorompe nel sentimento di paura. … La reazione dell’io alla scoperta della propria situazione è di fatto essa stessa un elemento in quella scoperta: segna il risveglio dell’io interiore dal sonno o dall’ubriacatura del mondo.9

La demonizzazione del mondo, il rifiuto di vedere in esso l’opera di un Dio di amore, avviene su basi analoghe a quello dell’esistenzialismo moderno. L’individuo che nell’Impero non aveva alcun riconoscimento, ma in esso veniva disperso, aveva una sola aspirazione:

di «esistere in modo autentico». La legge dell’Impero sotto la quale si trovava posto, faceva parte di una forza esterna, inaccessibile; e per lui la legge dell’universo, il destino cosmico, di cui lo Stato era l’esecutore terreno, assumeva lo stesso carattere.10

Il Dio gnostico, in quanto distinto dal demiurgo, è il totalmente diverso, l’altro, lo sconosciuto. In modo analogo al suo corrispondente interno all’uomo, il sé acosmico o pneuma, la cui natura si rivela solamente nell’esperienza negativa di estraneità, di non-identificazione e di indefinibile libertà, questo Dio ha più del nihil che dell’ens nel suo concetto. … In altre parole, per tutto quel che riguarda la relazione dell’uomo con la realtà che lo circonda questo Dio nascosto è una concezione nichilistica: nessun nomos emana da lui, nessuna legge per la natura e quindi nessuna norma per l’azione umana come parte dell’ordine naturale.11

Lo stesso sfondo nichilistico è presente anche nel ritorno della gnosi nel panorama contemporaneo. L’equivoco in questo caso è lo stesso che valeva per la gnosi antica. È assente la volontà di superare e ricomporre in una sintesi più alta uno stato di cose degenerato, ma si rinnega la realtà pur di salvarsi in quanto singoli. L’assenza di Dio dal mondo è resa ancor più marcata dall’aver nascosto questo dio nelle profondità dell’essere umano. Ci troviamo di fronte ad un atteggiamento di assoluta ribellione, che vorrebbe porsi come momento di conciliazione assoluta. Ma, mancando il momento negativo, l’alterità, tale conciliazione tende ad essere immediata, con la conseguenza che manca un reale superamento e la lacerazione è soltanto spostata su un altro piano. L’alterità manca poi nel momento in cui l’uomo, solo con se stesso, si interroga sulla propria salvezza, e disperando in qualsiasi ordine già dato colma quel vuoto con la certezza di essere egli stesso l’Assoluto. Senza alterità non è possibile alcuna relazione; ma senza il momento relazionale che ci orienta, in che modo può avvenire una reale liberazione? La salvezza è intesa come il culmine di un cammino personale, il cui protagonista è l’individuo che da solo è in grado di provvedere ad essa, essendo egli un essere pneumatico il cui fine è quello di realizzare Dio nel mondo; ma una siffatta salvezza può ancora chiamarsi tale? Secondo le parole di Aldo Magris,

È astratto pensare la salvezza come risultato di un’autoredenzione operata dal singolo ed è astratto accettarla passivamente come qualcosa di predestinato; è banale intendere il Cristo come un semplice maestro di saggezza ed è superficiale porlo come un essere divino che se ne sta altrove, puro oggetto di venerazione e preghiera. Il medio consiste in ciò, che la salvezza è insieme attiva e passiva, è un appropriarsi del Sé e un essere appropriati da esso, ed è questo evento complesso che si personifica nella persona di Cristo. … Però appropriarsi del Salvatore, «diventare» il Sé che egli rappresenta, non equivale a un qualsiasi diventar questo o quello, perché l’identità è dialettica, e pertanto non elimina affatto ma anzi pone la differenza. … L’identità gnostica di Salvatore e salvato sta a significare questo passaggio radicale, questo salto che ognuno deve fare fuori di sé per trovare la propria identità autentica.12

In questo modo ci troveremmo di fronte ad una autoliberazione che è possibile solo a partire dall’orizzonte escatologico. In questo «essere appropriati da…» il singolo esce fuori dalla propria solitudine, è il testimone privilegiato di un incontro che egli stesso ha disposto con l’apertura verso l’Altro. Questa apertura non è solo amore per la terra, come in effetti avviene nella New Age con l’ecologia, né solo amore per il prossimo, ma disposizione ad ascoltare e a stare nella relazione, senza presunzione alcuna di ridurre il Tutto alla coscienza e autocoscienza del soggetto. Ciò che siamo e donde veniamo non è dato a noi saperlo, possiamo solo testimoniarlo, con il coraggio di rispondere ad un appello che non possiamo esaurire, e che proprio per tale irriducibilità non smette mai di essere per noi lo stimolo e la legge che la forma si dà affinché quell’anelito serva a costruire e rendere migliore la nostra dimora sulla terra che si schiude al Cielo.

4. Eredità o decadenza?

Vorrei a questo punto porre una domanda fondamentale, in relazione alle forme in cui è riproposta oggi la spiritualità: «come si può annunciare Cristo ad un mondo divenuto adulto?»,13 per usare una espressione che Moltmann usa parafrasando Bonhoeffer. Più in generale: qual è il posto della religione, e non solo di quella cristiana, nella nostra civiltà che per lungo tempo ha saputo fare a meno di Dio nella comprensione del mondo? e quale il senso delle varie forme di spiritualità eterogenee e non ortodosse, anche in relazione ad un recupero o reincantamento del cristianesimo stesso, al quale spesso sembrano opporsi?

Dietrich Bonhoeffer, nelle sue riflessioni teologiche sulla situazione religiosa attuale, sembra aver previsto ciò che accade nei nostri giorni. Egli afferma:

La nostra chiesa, che in questi anni ha lottato solo per la propria sopravvivenza come fosse fine a se stessa, è incapace di essere portatrice per gli uomini e per il mondo della parola che concilia e redime. Perciò le parole di un tempo devono perdere forza e ammutolire. Non è compito nostro predire il giorno — ma quel giorno verrà — in cui degli uomini saranno chiamati a pronunciare la parola di Dio in modo tale che il mondo ne sarà cambiato e rinnovato. Sarà un linguaggio nuovo, forse completamente non religioso, ma capace di liberare e di redimere, come il linguaggio di Gesù.14

La New Age sembra essere il modo nuovo di pronunciare la parola di Dio, e se è vero che il suo linguaggio non sembra affatto essere un linguaggio religioso, è pur vero che l’intenzionalità che lo fa parlare è quella di redimere e rinnovare il mondo. Dio, nella New Age, vuole essere ritrovato nella pienezza-immediatezza di un incontro personale, e ciò è il sintomo dell’urgenza di reagire al materialismo da una parte, e alla secolarizzazione religiosa dall’altra. La distanza tra Dio e mondo è ridotta, sicché non aver cura di noi stessi, della terra e dell’altro uomo diventerebbe «l’ultima bestemmia religiosa contro Dio».15 Così la domanda fondamentale intorno alla quale ruota la New Age non è immediatamente quella sulla possibilità o sul modo in cui «il mondo adulto» può tornare ad essere religioso. Questo mondo infatti, seppur sembra adulto perché ha saputo affrancarsi dall’autorità del Padre, in realtà è tornato ad essere un mondo infantile per la mancanza di un orizzonte di senso, o di un senso dell’orizzonte nel quale è installato. Forse la New Age è proprio questo: la religione di una umanità divenuta di nuovo bambina, la cui innocenza e ingenuità è risorta dallo stupore che non ha voluto soccombere di fronte alla follia dei campi di concentramento, e ha preso il sopravvento, producendo un tipo d’uomo sprovveduto, che al posto di un Dio lontano e al riparo dal mondo ha scelto un Dio vivo e presente, che rassicura e protegge.

La proposta più preziosa è quella che rimette l’uomo in cammino verso una più autentica percezione di sé e del mondo, che vede la necessità di riformulare il rapporto tra le diverse facoltà che lo presiedono, intuizione e razionalità, o più semplicemente, secondo il linguaggio che proviene dall’oriente, yin e yang, femminilità e maschilità. Ciò che ha condotto alla crisi è stata la concezione puramente greca, dunque maschile, del linguaggio. Il mutamento di paradigma che la New Age promuove è quello che prevede una integrazione delle facoltà razionali, analitiche, con quelle intuitive, responsive nei confronti del mondo circostante. Questa «responsabilità» può farsi presente solo attraverso una percezione della realtà priva di intenzionalità egoistiche e individualistiche, attraverso un atto estremamente «spoglio» e privo di velleità, che intende ascoltare e mettere in risalto l’infinita e irriducibile presenza dell’Essere. Nel percorso spirituale della New Age, lo yin e lo yang, simbolizzati nel mondo concreto dalla differenza tra i sessi, diventano così principi ontologici la cui armonia e proporzione conduce alla sintesi finale, che è consapevolezza della differenza e volontà di un serio impegno per il miglioramento del potenziale umano e delle relazioni che ci legano alla terra, agli uomini e a Dio. È proprio questo gioco di luci ed ombre, la consapevolezza che la Terra deve essere amata e rispettata come ciò che ci accoglie e da cui possiamo tornare a contemplare il Cielo, che specifica e puntualizza la New Age come il recupero di una tradizione obliata, o di una età dell’oro perduta e mai dimenticata, sicuramente primitiva e incosciente, ma ora ri-compresa per ri-vestire l’orizzonte di un senso che è stato sospeso, ma che ora vuole essere liberato perché questo mondo e le relazioni che ci legano ad esso tornino di nuovo a splendere di una luce il cui nome non si osa pronunciare forse per il timore di vederla svanire di nuovo tra le prigioni delle definizioni che non la lasciano essere più.

Solo a partire da questo rinnovato rapporto con il mondo si può ripensare la possibilità della religione stessa. L’eredità consiste allora nella serietà con cui ci si assume la responsabilità della frattura in seno alla storia, con la consapevolezza che non serve ricomporre ingenuamente le lacerazioni e ignorare gli scompensi dolorosi del nostro mondo. In questo modo le atrocità della nostra storia, e in particolare della storia più recente, non saranno state vane. Solo accettando il fatto che il male che realizzò Auschwitz è in realtà la possibilità del male insita in ognuno di noi, solo prendendo in considerazione seriamente e serenamente la possibilità di una tale lacerazione, è possibile ricomporla in modo responsabile e vero. Come afferma Jonas,

Dopo essersi affidato totalmente al divenire del mondo, Dio non ha più nulla da dare. Ora tocca all’uomo dare. E l’uomo può dare, se nei sentieri della sua vita si cura che non accada o non accada troppo sovente, e non per colpa sua, che Dio abbia a pentirsi di aver concesso il divenire del mondo.16

Questo dare dell’uomo a Dio consiste nel preparare la dimora pronta ad accoglierlo di nuovo, e in ciò consiste l’eredità con il passato: ristabilire una alleanza che l’uomo ha corrotto utilizzando l’infinito dono che Dio gli ha teso: la libertà. Tale Dio che resta muto di fronte alla storia sembra in realtà appellare l’uomo per altre voci:

Oggi è l’ecologia del nostro pianeta che ci accusa di essere tutti peccatori a causa dell’eccessivo sfruttamento dell’ingegno umano. Una volta era la religione a terrorizzarci con il Giudizio universale alla fine dei tempi.— Oggi è il nostro torturato pianeta a predirci l’approssimarsi di quel giorno senza alcun intervento divino. L’ultima rivelazione, che non giungerà da alcun monte Sinai, né da alcun monte delle beatitudini, né da alcun albero di Buddha, è il grido silenzioso che proviene dalle cose stesse, quelle che dobbiamo sforzarci di risolvere per arginare i nostri poteri sul mondo, altrimenti moriremo tutti su questa terra desolata che un tempo era il creato.17

Bonhoeffer in una lettera dal carcere alla sua fidanzata afferma: «Il nostro matrimonio sarà un sì della terra di Dio».18 La peculiarità della New Age consiste proprio in questo sì; così l’orizzonte nuovo che si vuole ricostruire a partire dal legame dell’uomo con la Terra di Dio da cui è tratto (nel senso che in essa riceve le proprie coordinate), è la propria libertà di scelta tra bene e male. Solo la serietà delle relazioni che egli intesse con sé, con il mondo degli uomini, con la dimora che lo accoglie e con le diverse modalità attraverso cui percepisce tali rapporti, permetterà un giorno il ritorno di un autentico spirito religioso, che non può assolutamente prescindere dal modo in cui l’uomo ha preparato tale incontro.

Come dire che Dio ha bisogno di noi. Egli ha negato la sua potenza per donarci la libertà, noi dobbiamo negare la volontà di sostituirci a Dio, quindi la volontà di essere i signori della natura e del mondo, per amarli e contemplarli, dobbiamo ascoltare il linguaggio del Volto che si fa Evento e averne cura, con la consapevolezza che tale atteggiamento è il più grande atto di riconoscimento nei confronti del Dio che abbiamo un tempo ucciso.

Sicuramente la New Age non è ancora la risposta definitiva alla crisi religiosa. Ma senz’altro ne costituisce l’avvio, segna il cammino che bisogna percorrere, e se i cristiani vorranno accettare le proposte di questo orientamento del pensiero, senza considerarlo, sic et simpliciter, come una sfida pericolosa, allora tutto questo potrà un giorno diventare una splendida

cornice anche al contenuto cristiano e al mistero del Cristo morto e risorto, creando un’«estetica liturgica» che sia in grado di affascinare ancora il popolo che crede. È necessario ripensare ai segni e ai simboli cristiani e fare il possibile per creare esperienza a partire dal significato «non razionale» del mistero cristiano, a partire da una espressività più libera, più attuale, più sentita, più capace di creare momenti estetici, estatici e mistici, combinando il passato con il presente, il vecchio con il nuovo e tenendo ben presente che la logica della religione, che si rifrange poi nella logica del rituale, non è sottoposta ad altre logiche, e, in particolare, non deve mai essere succube della logica interna a questo mondo.19

Questo Dio riscoperto nell’esperienza e nell’intuizione è allora come «il “re nudo” che ha perduto la sua dignità, che è sceso dal trono, ma che in compenso si è reso presente, palpabile, vivente, in ogni sospiro della creazione e del mondo»,20 e il fatto che siamo stati noi a portarlo giù da quel trono non significa averlo dissacrato, ma costituisce la testimonianza dell’origine e dell’orientamento della volontà dell’uomo, sicuramente divenuta debole e fragile, e che per tale ragione non osa pensare allo scarto infinito tra Cielo e terra. Non si può escludere il fatto che, ponendo nuove basi per la comprensione di Dio, l’uomo un giorno sia in grado, amando e rispettando la propria dimora, di capire che questo è solo un trucco che la propria ragione ha escogitato affinché potesse sopravvivere, e guardando il Cielo, si renderà conto, magari con un sorriso, della propria avvenuta maturità, e allora potrà riavviarsi su quel sentiero che aveva abbandonato, senza più bisogno di bluffare, instaurando con Dio quel dialogo che non aveva saputo o potuto mantenere.


  1. F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano, 1987, pp. 28-29. ↩︎

  2. D. Bonhoeffer, Etica, Bompiani, Milano 1969. «Eredità e decadenza» è il titolo di una sezione dell’opera. ↩︎

  3. Ibidem, p. 87. ↩︎

  4. Ibidem, p. 88. ↩︎

  5. D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Bompiani, Milano 1969, p. 398. ↩︎

  6. A.N. Terrin, New Age. La religiosità del postmoderno, Dehoniane, Bologna 1993, pp. 134-135. ↩︎

  7. R. Guénon, La crisi del mondo moderno, Ed. Mediterranee, Roma 1997, p. 47. ↩︎

  8. H. Jonas, Lo gnosticismo, Sei, Torino 1973. ↩︎

  9. R. Guénon, op. cit., pp. 343-344. ↩︎

  10. Ibidem, p. 345. ↩︎

  11. Ibidem, pp. 346-347. ↩︎

  12. A. Magris, La logica del pensiero gnostico, Morcelliana, Brescia 1997, pp. 428-429. ↩︎

  13. J. Moltmann, Il Dio crocifisso, Morcelliana, Brescia 1973. ↩︎

  14. D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Bompiani, Milano 1969, p. 370. ↩︎

  15. A.N. Terrin, op. cit., p. 111. ↩︎

  16. H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Il Melangolo, Genova 1987, p. 39. ↩︎

  17. Ibidem, pp. 48-49. ↩︎

  18. D. Bonhoeffer, «Le altre lettere», in Resistenza e Resa, Bompiani, Milano 1969, p. 509. ↩︎

  19. A.N. Terrin, op. cit., p. 147. ↩︎

  20. Ibidem, p. 98. ↩︎