1. Introduzione
Molte furono le questioni filosofiche che appassionarono gli Autori scolastici. Tra queste nel XIII sec. divenne molto importante la disputa sull’ilemorfismo universale, cioè la domanda se la composizione ilemorfica di aristotelica memoria dovesse estendersi a tutte le creature oppure no. La stranezza oziosa del discorso è solo apparente: si trattava di trovare una Diremtion, una radicale distinzione metafisica, tra Dio e gli esseri finiti e limitati. Quale principio metafisico ne era il fondamento necessario e sufficiente? Nel secolo di Tommaso e Bonaventura la soluzione ilemorfica universale era divenuta l’interpretazione di Aristotele più accettata e condivisa: ogni creatura, non solo sensibile, ma anche angelica, aveva nella sua struttura metafisica un elemento potenziale, analogo perciò alla materia, tanto che Bonaventura lo denominerà materia spiritualis.
Tale dottrina risaliva all’opera dell’ebreo di Spagna Avicebron, ovvero Ibn-Gabirol, autore nell’XI sec. dell’opera Fons vitae; in Europa occidentale vi aderì per primo Giovanni Blund, un magister di Oxford intorno al 1200, e poi l’autorevole magister francescano a Parigi Alessandro di Hales. Il Serafico dottore Bonaventura da Bagnoregio ne diventerà l’esponente più celebre e agguerrito.1
In questo studio intendiamo indagare la posizione dell’Aquinate in merito a questa problematica per mettere in luce la sua originale contestazione a questa posizione dominante mediante l’innovativa dottrina della composizione metafisica radicale di essentia ed esse. Per il momento ci limiteremo a sue prese di posizione generali verso l’ilemorfismo universale in quanto tale, quindi soprattutto al caso delle creature angeliche, efficace cartina di tornasole di una simile soluzione.
2. Il Commento alle Sentenze
Come il contemporaneo Bonaventura e molti altri Autori medievali anche Tommaso commenta le Sentenze del Maestro Pietro Lombardo2 e quindi si cimenta, in 2 SN, d. 3, q. 1, a. 1, con la domanda se anche gli angeli siano composti di materia e forma, secondo lo schema aristotelico: «Utrum angeli sint compositi ex materia et forma»:
l. Sembra che l’Angelo sia composto di materia e forma. Infatti ogni cosa che appartiene a un certo genere partecipa della natura di quel genere. Ora, la natura della sostanza, in quanto è una categoria, è che sia composta di materia e forma. Infatti Boezio [In Categorias Aristotelis libri quatuor, l. 1 (=PL 64, 186ss.)] afferma che Aristotele, lasciatisi indietro gli estremi, ossia la materia e la forma, tratta del medio, cioè del composto, allorché definisce la sostanza. Perciò, poiché l’Angelo appartiene alla categoria della sostanza, pare che sia composto di materia e forma.3
La prima argomentazione è di natura logica, tratta da un importante commentatore aristotelico come Boezio, e afferma che la sostanza in quanto categoria sia composta ilemorficamente.
- Tutte le realtà appartenenti a un unico genere sono partecipi uniformemente dei principi di quel genere. Ora, i principi del genere della sostanza sono la materia e la forma. Perciò, visto che i corpi, che stanno nel genere della sostanza, sono partecipi dei suddetti principi, così da risultare composti da essi, sembra che pure l’Angelo, presente nel medesimo genere, sia composto di materia e forma.4
Questo secondo ragionamento sta a cavallo tra logica e metafisica: poiché gli individui fanno parte del genere e tutti quelli che sono nel genere condividono i medesimi principi, il fatto che i corpi, che sono sostanze, siano composti di materia e forma autorizza a pensare che anche gli angeli siano così strutturati.
- Ovunque si trovano le proprietà della materia si trova la materia, perchè le proprietà della materia non sono separate dalla cosa. Ora, ricevere, essere soggetto e altre cose del genere sono proprietà della materia. Quindi, dato che si rinvengono nell’Angelo, pare che l’Angelo sia composto di materia.5
Questa terza argomentazione ricalca, senza citare auctoritates, l’argomento principe dei sostenitori della tesi dell’ilemorfismo universale, da Alessandro di Hales a Bonaventura: se ci sono proprietà che appartengono alla materia, quella realtà deve presentare della materia nella sua struttura. Da come Bonaventura ci presenta quest’argomento si capisce che gli ilemorfisti universali tengono a presentare Agostino come padre nobile della loro tesi. Perciò anche l’angelo sembra dover avere della materia, visto che può ricevere, può fungere da soggetto, ecc. Vedremo6 al termine del corpus l’importante risposta dell’Angelico.
- Tutto ciò che è, o è solo atto, o è soltanto potenza, oppure è l’uno e l’altra. Ora, l’Angelo non è atto puro perché, se così fosse, non risulterebbe diverso da Dio, e nemmeno è pura potenza, poiché in tal caso non sarebbe diverso dalla materia prima e, inoltre, non possederebbe operazione alcuna. Per cui è composto di atto e potenza. Ma ciò vuol dire che è composto di materia e forma.7
Il quarto ragionamento adduce un’altra identificazione tipica dei sostenitori dell’universalità dell’ilemorfismo: quella tra materia e potenza, presente anche in Bonaventura. D’altronde, si era tutti d’accordo nell’attribuire a Dio solo la pura attualità, mentre ogni creatura era senz’altro commista di potenzialità; così questa visione metafisica pacificamente condivisa sembra spingere verso l’universale ilemorfismo.
- Nel libro Le Cause (prop. 4) è detto che ogni realtà creata è composta di definito e indefinito. Ora, l’Angelo è un ente creato. Quindi è composto di indefinito, vale a dire di materia.8
L’autorità pseudo-aristotelica del De Causis sostiene questo quinto ragionamento, quello della mescolanza in ogni creatura di finito, ossia definito, e infinito, ossia indefinito; proprio questo secondo elemento, secondo la concezione aristotelica, va identificato con la materia prima, mentre il primo si ravvicina piuttosto all’atto e quindi, per Aristotele, alla forma.
- Boezio sostiene [De Trinitate, l. 3 (=PL 64, 1251)] che una forma semplice non può essere «soggetto di». Ora, l’Angelo è soggetto della grazia. Quindi non è soltanto forma, ma possiede anche la materia quale parte di sé.9
Da ultimo, un’argomentazione tratta dalla teologia, ricezione della grazia da parte degli angeli, e sostenuta dal principio tratto da Boezio dell’impossibilità della pura forma a essere soggetto passivo: in forza dell’identificazione già vista tra potenzialità e materia si deve parlare anche qui di una presenza della materia.
La tesi contraria, quella che Tommaso sosterrà personalmente, si appoggia su due auctoritates, lo Pseudo-Dionigi e un altro passo di Boezio:
Ma al contrario, c’è l’affermazione di Dionigi [De Div. Nom., c. 4 (=PG 3, 730)] che gli Angeli vanno intesi come realtà immateriali e incorporee.
Inoltre Boezio [De duabus naturis et unica persona Christi, c. 1 (PL 64, 1342)] afferma che nessuna natura di sostanza incorporea poggia in alcun modo su un fondamento materiale. Ora, l’Angelo è una sostanza incorporea. Quindi non ha la materia quale fondamento.[^10]
Tommaso replica, come gli accade più di qualche volta, non con altrettanti argomenti opposti a quelli addotti in precedenza, ma in modo molto più breve e incisivo, lasciandosi convincere non tanto dal numero, quanto dalla profondità filosofica dei ragionamenti. È il caso di questo breve sed contra composto di due sole affermazioni che egli stesso s’incaricherà di approfondire. Ecco la sua personale presa di posizione, già ricca di originalità e gravida di importanti sviluppi; la suddividiamo in due brani, attesa la sua lunghezza:
Rispondo dicendo che a riguardo di questo problema esistono tre tesi. Alcuni infatti sostengono che in ogni sostanza creata c’è la materia, e che di tutte le cose si dà un’unica materia. Pare che sia di Avicebron, l’autore della Fonte della vita, la paternità della tesi suesposta. Sono molti i suoi seguaci. La seconda tesi è che la materia non c’è nelle sostanze incorporee, ma soltanto in tutti i corpi, ed è unica: è la tesi di Avicenna [Metaphysica, VIII, 12]. La terza tesi propone che i corpi celesti e gli elementi non condividono la medesima materia: è la tesi di Averroè [De substantiis orbis, 2] e di Rabbi Mosè [Direct. 1, 75], più consona, ci pare, alla dottrina di Aristotele. Di conseguenza facciamo nostra quest’ultima posizione, affermando (nell’ambito pertinente all’argomento che stiamo trattando) che, qualunque sia il tipo di materia presente nei corpi, in nessun modo esso può darsi negli Angeli. Ciò sia a motivo della loro natura intellettiva, sia in ragione della loro incorporeità; il fatto che nessuna realtà intellettiva sia materiale è generalmente ammesso dai filosofi. Perciò anche partendo dall’immaterialità di Dio essi deducono la sua intelligenza. E il motivo è sufficientemente chiaro. La materia prima riceve la forma non in quanto è «forma», semplicemente, bensì in quanto è «questa». Di conseguenza la forma esistente nella materia non è conosciuta se non in potenza: infatti l’essere della forma io lo conosco realmente in quanto è «forma», non in quanto è «questa». Dunque, ipotizzando un qualsiasi intelletto in possesso di materia, la forma esistente in esso non sarebbe conosciuta in atto, sicchè mediante quella forma l’intelletto non avrebbe intellezione. Segno di tale immaterialità è anche il fatto che la forma materiale non viene resa intellettuale se non in quanto viene astratta dalle condizioni della materia, e in tal modo viene fatta «perfezione dell’intelletto», proporzionata all’intelletto. Da ciò occorre ricavare che l’intelletto non è materiale. E ciò non consegue alla materia da parte di alcuna forma, poiché ogni forma diviene intelligibile tramite astrazione dalle condizioni della materia. Invece l’intelletto coglie la forma secondo se stessa, e virtualmente, sia essa presente entro la corporeità, sia nell’ambito spirituale.
In secondo luogo l’incorporeità ripugna alla materia: poiché infatti a un unico perfettibile è dovuta un’unica perfezione, e nella materia prima non c’è alcuna diversità, bisogna che ogni forma, prima che si possa trovare o possa essere intesa in essa una qualche diversità, la ricopra tutta. Ora, prima della corporeità non può intendersi alcuna diversità, in quanto la diversità presuppone le parti, le quali non possono esserci, a meno che non si precomprenda la divisibilità, conseguenza della quantità, che non è senza corporeità. Quindi è necessario che l’intera materia sia rivestita della forma della corporeità, sicchè, se qualcosa è incorporeo, occorre che sia immateriale.[^11]
Fin dall’inizio l’Angelico si batte per il rifiuto della tesi dell’ilemorfismo universale, abbracciando piuttosto la posizione di Mosè Maimonide e di Averroè come più affidabili esegeti del Filosofo. La sua prima motivazione riguarda la natura intellettiva dell’angelo: non solo è comunemente ammesso che intellettualità e materialità siano condizioni incompatibili, ma la natura astrattiva dell’intelletto da noi sperimentata ci fa comprendere che ogni intelletto, anche angelico, recepisce la forma privata delle condizioni materiali, sia da parte del conosciuto, che da parte del conoscibile, altrimenti non potrebbe mai intenderla in atto, ma solo in potenza e di fatto non potrebbe mai conoscere attraverso quella forma. È già evidente una gnoseologia decisamente aristotelica, legata strettamente al processo astrattivo, molto diversa da quella illuminativa rinvenibile nel Serafico e negli Autori di scuola agostiniana.
In secondo luogo Tommaso vede la totale ripugananza tra materia e incorporeità, quindi l’inammissibilità di una materia spiritualis: a un singolo essere ricettivo di perfezione ne va attribuita una sola, quella propria della sua natura, per cui anche alla materia prima, che non presenta differenze, è in uno stato di virtualità, come potremo meglio precisare, conviene una perfezione che l’abbracci tutta fin dall’inizio. Ma se si ammettono esseri spirituali dotati di materia e nello stesso tempo diversi tra loro, si cade nella contraddizione di avere una diversità prima della divisibilità, data inevitabilmente dalla quantità, legata appunto alla corporeità. Perciò l’essere incorporeo non può che essere semplicemente immateriale.
Ma più interessante ancora è la sua proposta di composizione metafisica per tutte le creature, anche le sostanze spirituali, alternativa a quella ilemorfica:
Cionostante noi affermiamo che nell’Angelo è presente una certa composizione. Occorre indagare di quale composizione si tratti. E l’indagine va impostata nel modo seguente. Nelle cose composte di materia e forma, la natura della cosa (detta quiddità o essenza) risulta dalla congiunzone della forma con la materia (un esempio: l’umanità è dalla congiunzione di anima e corpo). Ma non è essenziale alla quiddità, in quanto tale, il fatto che essa sia composta, (altrimenti non si rinverrebbe mai una natura semplice, il che, almeno in Dio, è falso). Neppure è essenziale alla quiddità il fatto che essa sia semplice, dal momento che se ne rinviene qualcuna composta (p. es. l’umanità). Invece l’esse, secondo il quale si predica di una cosa che è in atto, si trova in relazione con le diverse nature o quiddità in modi diversi. Infatti si dà un tipo di natura nella cui nozione non è presente il suo esse, il che è evidente dal fatto che essa può essere logicamente intesa pur ignorando se di fatto c’è: p. es. la fenice, l’eclissi o qualcosa del genere. Ma si dà pure un’altra natura. Eccone la caratteristica: fa parte integrante della sua nozione proprio il suo esse, o meglio: l’esse è la sua natura. Ora, un essere siffatto non ha l’esse acquisito da un altro, perché ciò che una cosa ha per sua natura, lo ha da sé. Ma tutto ciò che è, eccettuato Dio, ha l’esse acquisito da un altro. Quindi nel solo Dio il suo esse è la sua quiddità o natura, mentre in tutti gli altri enti l’esse è fuori della quiddità, alla quale l’esse viene aggiunto. Ora, quella quiddità che consegue a una composizione dipende dalle parti; perciò necessariamente essa, in quanto tale, non è sussistente nell’esse che viene ad esserle acquistato. Ha invece sussistenza il composto, detto supposito. Segue che la quiddità di un composto non è il quod est, bensì il quo est: p. es. nell’umanità, concretamente, è l’uomo. Al contrario la quiddità semplice, poiché non si fonda sopra alcuna parte, ha sussistenza nell’esse che da Dio le viene concesso. Perciò proprio la quiddità dell’Angelo è ciò in cui sussiste di certo il suo esse, che è fuori della sua quiddità, ed è ciò per mezzo del quale è (come il movimento è ciò per cui di qualcosa si predica: si muove). Sicchè l’Angelo è composto di esse e quod est, oppure: di quo est e di quod est. È questo il motivo per cui nel libro Le Cause si dice che l’intelligenza non è puramente esse, come invece la causa prima, ma che si dà in essa e l’esse e la forma, ossia la sua quiddità. E dal momento che tutto ciò che non ha qualcosa da sé, ma lo riceve da un altro, è possibile, cioè in potenza rispetto a tale altro, segue che la quiddità dell’Angelo è come la potenza, e il suo esse acquisito è come l’atto. Se stabiliamo di chiamare materia tale potenza, diremo che l’Angelo è composto di materia e forma. Ma certo la materia ha in tal caso un’accezione del tutto equivoca: è tipico del sapiente, infatti, non curarsi delle parole.10
La proposta personalmente originale dall’Aquinate è la composizione di essentia ed esse, principi metafisici costitutivi rapportati tra loro come potenza e atto. Difatti l’essenza, o quiddità se ne sottolineiamo l’aspetto intenzionale, è indifferente a una realizzazione materiale o immateriale, composta o semplice, poiché se ne danno esempi in entrambi i sensi. In relazione all’esse, predicato esclusivamente attuale, l’essenza può coincidervi, come nel caso di Dio, la cui quiddità implica necessariamente il suo stesso esse, Ipsum Esse subsistens, oppure distinguersene, come nelle creature, alcune perfettamente concepibili anche senza sapere se esistono o anche solo possano esistere, come l’uccello mitologico fenice11 o un essere privativo come l’eclisse, le quali non hanno l’esse per sé stesse, ma lo ricevono da Dio. Quindi una tale essenza, composta con l’esse, non ha sussistenza in sé stessa, ma solo nel composto, nell’individuo del quale fa parte, non ha ragione di id quod est, di sostanza individuale completa, ma di id quo est, di principio potenziale grazie al quale quella sostanza esiste come specificata, come tale essere. Anche l’angelo, proprio perché creatura e quindi non avendo una quiddità identica al suo atto d’essere, risulta perciò composto di essentia ed esse, ciò che basta a distinguerlo recisamente da Dio come una creatura di fronte al Creatore. Si noti che al termine del suo respondeo Tommaso concede anche che si possa usare la terminologia che identifica potenza con materia e forma con atto, come ha fatto il Serafico, sicchè può risultare anche giustificato parlare di composizione ilemorfica, ma non manca di sottolineare l’equivocità di un simile uso linguistico. Noteremo che in alcune opere della maturità il suo giudizio diventerà alquanto più duro.
D’altro canto, nonostante questa concessione verbale, la sua ermeneutica di materia e forma è molto diversa da quella di un Bonaventura: sebbene in qualche passo citino le medesime auctoritates, specie Agostino e Boezio, ambedue stimatissimi da entrambi, il Serafico pensa di identificare materia e potenza tout court alla luce di una concezione essenzialista, dove l’esse non ha una sua autonomia di significato e di perfezione, si realizza tipicamente nella forma, ed esprime diversamente e con varie sfumature il complesso delle perfezioni dell’essenza, realmente s’identifica con essa; invece l’Aquinate vi vede la perfezione più originale e radicale della realtà, l’atto nel suo senso originario e fondamentale, tale da sovrastare anche la forma e la materia a essa correlativa.
Tommaso opera qui, con questa innovativa concezione dell’esse ut actus, una personalissima e culturalmente rivoluzionaria, lettura di Aristotele, il quale, ben sappiamo, mai compie l’identificazione tra essere divino e atto puro di essere, espressione per lui inconcepibile, e perciò rimane in una concezione sì profonda dell’essere, ma ancora essenzialista, che privilegia la forma. Non ci è ovviamente possibile soffermarci a lungo sulla concezione tomista dell’actus essendi, divenuta ben nota e anche dibattuta soprattutto dopo i meritori studi di Cornelio Fabro12 e di altri importanti studiosi.13
Excursus: glossario metafisico minimo tomistico
Richiamiamo solo qualche minimo elemento terminologico a mo’di mappa che consenta di orientarsi nell’ampio territorio della metafisica tomistica, rimandando a trattazioni specialistiche per una più dettagliata chiarificazione.14
Con ens Tommaso intende ciò che è, ciò che esercita l’essere a qualsiasi titolo, ciò che ha l’essere,15 o più precisamente lo partecipa,16 sia in senso sostanziale che accidentale, che si tratti di un ente appartenente all’ordine naturale (ente fisico), o a quello soprasensibile (ente metafisico), o a quello dell’attività mentale e conoscitiva dell’uomo (ente logico), o a quello dell’attività tecnica e produttiva (ente artificiale); in ciò segue principalmente Aristotele17 e la sua forte sottolineatura della polivocità del termine ente, coniugata all’essenziale scoperta della differenza tra essere come sostanza e come accidente. Ens è la prima necessaria scintilla che accende l’attività del nostro intelletto.18
Essentia, invece, per lui significa ciò per cui l’ens è tale ens, ciò per cui è quello che è,19 o meglio, l’unità dell’insieme di tutte quelle specifiche determinazioni che concorrono a definire20 una classe di enti, o species in senso metafisico e non conoscitivo, come diversa da tutti gli altri enti, specificata all’interno dell’universo. Essa viene appresa grazie alla prima operazione intellettiva.21 Se prevale la considerazione dell’attività dell’ente e quindi l’essenza è vista come principio di attività, l’essentia è detta natura; se è primaria la considerazione logico-conoscitiva, definitoria, l’essentia è detta quidditas,22 come in molte frasi del testo appena riportato.
Exsistere si avvicina ante litteram all’heideggeriano Dasein, l’esserci, l’esser-qui-e-ora, l’esistenza connotata in senso spazio-temporale23 e attingibile, nel caso degli enti fisici, logici e artificiali per diretta esperienza esterna o interiore o per inferenza a partire da altre esperienze, nel caso di quelli metafisici, per definizione non ricadenti sotto l’esperienza, solo per ragionamento analogico a partire dall’esperienza dell’esistenza di enti fisici.
Esse, in modo originalmente personale, è concepito da Tommaso l’esistere di un ente, qualunque sia, non più considerato in sé, ma relativo alla sua essenza. Approfondiamo un po’di più.
Esse instaura un piano radicalmente irriducibile a quello delle determinazioni essenziali, quello esistenziale; perciò esse non è una forma, non modifica la trama intelligibile delle singole realtà, né della realtà nel suo complesso,24 non si può propriamente formularne un concetto, benchè non manchi di contenuto rappresentativo intenzionale.25 Tantomeno esse si può interpretare come categoria logica, quasi un mero accidente concettuale: è da lui, invece, che ogni determinazione essenziale di ogni ente, a tutti i livelli, riceve tutta la sua ricchezza. Non si tratta solo di una situazione di realtà, di un porsi fuori dalle proprie cause o contro il nulla, ma piuttosto di un atto nel senso più pieno del termine, del risultato di un’azione che pone l’ente con tutte le sue proprietà, perfezioni e determinazioni, gli dona tutto il suo senso, la sua nobiltà e il suo valore intrinseco.26 Ens dicitur ab esse.27 È quindi insufficiente e fuorviante concepirlo come il comune fondo minimo di ogni realtà, substrato indifferenziato, secondo la povertà della sua rappresentazione intenzionale.28 Piuttosto si tratta della perfezione di ogni perfezione e dell’atto di tutti gli atti,29 puro e semplice atto,30 universalmente partecipabile senza partecipare nient’altro,31 desiderabile primo e ultimo insieme,32 più intimo e formale di tutte le forme.33 D’altronde, anche rispetto all’essentia, è lui stesso che, mentre ne viene limitato, la costituisce nel suo valore di realtà limitante e specificante34 con un’intimità non riscontrabile in nessun altro rapporto naturale,35 nemmeno tra principi metafisici.36
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Torniamo ora al testo del Commento alle Sentenze con la soluzione delle singole difficoltà viste all’inizio:
- Appartiene alla struttura essenziale della sostanza il fatto che essa ha sussistenza come ente per sé. Perciò la forma e la materia, ossia le parti del composto, non avendo sussistenza per sé, non stanno nella categoria della sostanza come specie, ma soltanto in qualità di principi. Però che la suddetta realtà sussistente possegga una quiddità composta non è affatto essenziale all’essere sostanza. Dunque non occorre che quanto è nella categoria della sostanza abbia una quiddità composta. È necessario invece che possegga una composizione di quiddità ed essere; infatti, a riguardo di tutto ciò che è nell’ambito di un genere, la quiddità non coincide con l’essere, come dice Avicenna [Metaphysica, VIII, 4]. Dio, allora, non risulta collocabile nella categoria della sostanza. In conclusione Boezio vuol dire che, fra queste tre cose, la materia, la forma e il composto, solo il composto sta nel genere della sostanza come specie. Ma Boezio non intende dire che tutto ciò che sta nel genere della sostanza sia composto di materia e forma.37
La base della replica di Tommaso è data dal concetto di sostanza, ens in se, cioè capace di sussistere in sé, almeno in linea di principio. A tale condizione è indifferente la semplicità o la composizione metafisica dell’essenza, mentre è sempre decisiva quella tra essenza ed esse: di conseguenza è inopportuno definire Dio come sostanza, poiché non è composto di essenza ed esse, ma è possibile avere sostanze la cui essenza è semplice e coincide con la forma, e sostanze la cui essenza è composta, quelle materiali, nelle quali materia e forma sono presenti non certo come sostanze, ma come principi della sostanza. Boezio, quindi, non può essere allegato come sostenitore dell’ilemorfismo universale.
- Alcune realtà appartengono al medesimo genere formalmente parlando, ma non sul concreto piano della natura; come sono le realtà che condividono l’intenzione del genere indagata dal logico, e hanno un diverso modo di essere. Per cui Aristotele [Metaphys., X, 10, 1059 b 6ss.] dice che delle realtà corruttibili e delle realtà incorruttibili non si predica niente di comune, eccettuato il nome. Dunque non è necessario che gli Angeli condividano con le realtà corporee i medesimi principi, se non sul piano puramente intenzionale, al modo in cui il plesso potenza-atto si trova in tutte le cose, e però analogicamente [Metaphys., XII, 5, 1071 a 4ss.].38
Tra principi metafisici applicati a esseri corporei e incorporei vige una marcata analogia: non è per nulla necessario, come si prova con l’autorità del Filosofo, che materia e forma, presenti nelle sostanze corporee, siano eo ipso presenti anche nelle sostanze spirituali solo perché sostanze. La distinzione posta tra piano logico e piano naturale è decisiva: ciò che vale nel primo non per questo vale automaticamente allo stesso modo nel secondo. Piuttosto è la struttura atto-potenza, in questo caso esse-essentia, a presentarsi diversamente nelle diverse creature.
- Come afferma Averroè [In III De Anima, 5 e 12], il ricevere e tutte le azioni del medesimo tipo si predicano in maniera equivoca a riguardo della materia e dell’intelletto. Infatti la materia prima riceve la forma non in quanto essa è forma, semplicemente, bensì in quanto è questa cosa (sicchè la forma risulta individuata per mezzo della materia). Invece l’intelletto riceve la forma in quanto è forma, semplicemente, non individuandola, poiché la forma presente nell’intelletto possiede un essere universale. Anche Aristotele [De An., III, 4, 429 a 14] perciò, afferma che l’intendere costituisce una sorta di patire, ma in senso lato ed equivoco. Quindi da ciò non risulta affermata una composizione o materialità della sostanza intellettiva.39
L’analogia sopra vista si ripercuote direttamente sul diverso modo di essere potenziale presente nelle realtà materiali e nell’intelletto. È certo che l’intelletto umano ha un’importantissima componente di potenzialità, di passività metafisica in genere, tanto da essere designato in una sua funzione come intellectus possibilis, ma ciò non comporta la conclusione di una sua materialità intrinseca, seppur ‘spirituale’: l’analogia nella ricezione, individuata già da Aristotele, che Tommaso definisce addirittura equivocità, è che la forma nella materia prima viene individualizzata, mentre nell’intelletto è pur sempre ricevuta, ma in modo universale.
- La risposta a questa obiezione è già evidente da quanto detto. Infatti abbiamo mostrato come nell’Angelo ci siano la potenza e l’atto, ma non come parti della quiddità. Invece la potenza si pone dalla parte della quiddità, mentre l’essere costituisce il suo atto.40
Qui si registra una semplice conseguenza di ciò che era già stato stabilito nel corpus articuli: la composizione potenza-atto nell’angelo, ma non interna all’essenza stessa. Come già accennato al termine della sua risposta l’Aquinate concede perfino che si possa identificare materia con potenza e forma con atto, come abbiamo visto fare dal Serafico, e quindi parlare di materialità ovunque ci sia potenza, ma questo sarebbe un parlare equivoco e poco scientifico, non accurato per un sapiente. Riscontreremo una maggior durezza di giudizio in luoghi paralleli di altre opere.
- L’obiezione origina da un’errata interpretazione del testo citato. Infatti il vero significato non è il seguente: all’interno di ogni ente creato, preso come intero, ci sono le parti definito e indefinito. Invece ecco il senso autentico: nell’ambito degli enti creati si danno dei soggetti definiti e dei soggetti indefiniti. Infatti di ente creato ne esiste uno definito (quello incorruttibile) e uno indefinito (quello corruttibile, non determinato a essere, senz’altro, ma ora esistente e ora no). Si tenga infatti presente che in un certo Commento al libro Le Cause l’indefinito viene interpretato come «ciò che può essere oppure non essere». Un’altra risposta: l’Angelo è sì composto in sé di indefinito e di definito, ma l’indefinito è la potenza e il definito è l’atto.41
Un’originale interpretazione del De Causis è fornita qui dall’Aquinate distinguendo tra parti integranti e parti soggettive, ovvero, in seconda battuta, riportando ciò che è definito all’atto e ciò che indeterminato e indefinito alla potenza: non si deve intendere che ci siano parti interiori (integranti) a ogni soggetto una indefinita e l’altra definita, ma piuttosto che tra tutti gli enti creati ce ne siano alcuni definiti e altri indefiniti, corrispondenti ai due diversi tipi di sostanze, incorruttibili e corruttibili (parti soggettive).
- La forma assolutamente semplice, che è il proprio essere, ossia l’essenza divina (Boezio nel luogo citato sta parlando di essa), in nessun modo può essere «soggetto di». Invece la forma semplicemente sussistente che non è il proprio essere, in ragione della «possibilità a» da essa posseduta, può anche essere «soggetto di»; però in maniera radicalmente diversa dal modo in cui è soggetto la materia o la realtà materiale, come già è stato detto.42
Di fronte alla capacità di fungere da soggetto di determinate proprietà la forma assolutamente e radicalmente semplice, di cui Boezio si sta occupando nel luogo citato nella difficoltà iniziale, che è l’essenza divina e quella sussistente in modo semplice, cioè quella angelica, si comportano in modo equivoco: mai l’essenza divina può essere soggetto passivo di alcunchè, mentre l’essenza angelica, proprio perché non totalmente esse, e quindi potenza rispetto a esso, può ricevere perfezioni, determinazioni, modificazioni, ecc. Inoltre si mantiene l’analogia già vista con le sostanze materiali: ambedue sono ricettive, ma non allo stesso modo.
3. Le due Summae e le Quaestiones disputatae
Più volte43 l’Angelico ritorna su questa problematica, decisiva per determinare tutta una Weltanschauung metafisica dei diversi pensatori. Un’ulteriore trattazione, infatti, ci è offerta dall’Aquinate nelle Quaestiones Quodlibetales.44 Ai cinque argomenti favorevoli, tra i quali spicca uno attribuito ad Agostino, si oppone quello già visto nel Commento alle Sentenze dedotto da Boezio. La soluzione tomista allinea nell’ordine i due argomenti già noti della impossibilità dell’operazione intellettiva in quanto tale, conoscitiva dell’universale in forma universale, se essa andasse legata alla materia e della corporeità della prima informazione della materia prima, sicchè tutto quell’essere risulterebbe corporeo se possedesse in sè materia. Qui possiamo solo notare che l’autorità del dottore d’Ippona veniva invocata dagli ilemorfisti per nobilitare la paternità della loro dottrina; Tommaso è ben attento a distinguere Agostino da alcuni suoi seguaci.
La Summa contra Gentiles45 è forse l’opera dove più ampiamente ed serenamente egli espone le proprie ragioni contrarie all’ilemorfismo universale, in una trattazione lontana dal fuoco del contrasto con l’avversa opinione.46 La sua insistenza è sugli argomenti, dodici in tutto, legati alla conoscenza intellettiva che si ottiene esattamente astraendo le specie intelligibili dalla materia sensibile e dalle sue condizioni fisiche di esistenza, dando così a quelle realtà un modo di esistenza diverso, quello intenzionale e logico, non più connesso con la materia, nella coincidenza attuale con l’intelletto stesso, secondo il principio dell’identità intenzionale tra conoscente e conosciuto che l’Aquinate deduce da Aristotele. È il dissimile che viene reso simile.47 Qualunque forma di materialità che affettasse l’intelletto stesso renderebbe impossibile la sua attività come facoltà conoscitiva specificamente distinta dai sensi. Solo il primo argomento, con andamento metafisico analogo a quello del Commento alle Sentenze, ha sostenuto che la materia, una volta ricevuta, fornirebbe a tutto l’essere un’estensione quantitativa.
La Summa theologiae48 si occupa di questa tematica nel contesto della trattazione sugli angeli considerati in senso assoluto.49 Tre su quattro ragioni in favore della struttura ilemorfica sono tradizionali, soprattutto quella basilare che ovunque ci siano proprietà della materia lì si deve trovare la materia; l’unico e perentorio argomento che la nega è quello dionisiano già noto. Le novità più importanti da sottolineare rispetto all’esposizione già vista nel Commento alle Sentenze sono due: anzitutto l’insistenza sulla natura immateriale dell’operazione intellettiva, resa possibile esattamente dall’astrazione dalle condizioni materiali e quindi diametralmente opposta a ogni commistione con la materia. Di questo c’era già chiara traccia nella Contra Gentiles.
Una seconda considerazione, quasi alla conclusione del corpus, è ancor più significativa: «Del resto non è necessario che le cose che si presentano come distinte all’apprensione dell’intelletto siano pure distinte nella realtà». Questa netta distinzione di modus essendi tra situazione naturale e situazione intenzionale ci sembra, a livello di evoluzione interna del pensiero di Tommaso, ci pare un’importante maturazione rispetto, p. es., al giovanile De ente, cap. 4, dove egli si era appoggiato all’esempio fantastico della fenice, pensabile pure non essendo esistente in natura, per derivarne la distinzione reale essentia-esse. Inoltre, in comparazione con il Serafico, se quest’ultimo aveva formulato un principio d’identificazione tra i due ordini naturale e conoscitivo, l’Angelico se ne distacca recisamente. Vedremo più avanti quanto sarà decisiva questa sua abituale presa di distanza dal principio parmenideo-platonico.
Da considerare con grande attenzione, dato il suo tenore spiccatmente antropologico vicino alla Pars Prima della Summa, è la Quaestio disputata de Anima.50 L’articolo sesto è dedicato alla tematica dell’ilemorfismo universale, nello specifico se l’anima umana sia composta di materia e forma; con la considerazione di questo testo anticipiamo la riflessione diretta sulla struttura metafisica dell’anima a motivo della dura presa di posizione dell’Angelico, dapprima ampiamente critica contro quegli ilemorfisti, poi superati dalla sua proposta di composizione essentia-esse. Ecco la sua personale risposta, suddivisa in tre parti seguendo il suo contenuto:
Rispondo.
Bisogna dire che riguardo a questa questione alcuni hanno opinioni diverse. Taluni dicono che l’anima, ed assolutamente ogni sostanza, tranne Dio, è composta di materia e forma. Primo autore che si trova a sostenere questa posizione è senza dubbio Avicebron, autore del libro Fons Vitae. La sua motivazione, infatti, è quella già toccata anche nelle obiezioni [arg. 6], cioè che bisogna che in ogni cosa nella quale si trovano le proprietà della materia si trovi la materia. Di conseguenza, poiché nell’anima si trovano proprietà della materia, che sono il ricevere, l’esser soggetto, l’essere in potenza ed altre di tal genere, pensa sia necessario che nell’anima ci sia materia.
Ma questa motivazione è frivola, e la posizione impossibile. Infatti la debolezza di tale motivazione appare dal fatto che ricevere, esser soggetto ed altre cose di tal genere, non convengono all’anima ed alla materia prima secondo la stessa ragione. Infatti la materia prima riceve qualcosa con la mutazione ed il movimento. E poiché ogni mutazione e movimento si riduce al moto locale come al primo e più comune, come si prova nel libro VIII della Fisica [VIII, 260 a 27-261 b 28], resta che la materia si trova soltanto in quegli enti nei quali c’è potenza ad un luogo. Ma di tal genere sono solo gli enti corporei, che vengono circoscritti dal luogo. Di conseguenza la materia non si trova se non nelle cose corporee, secondo che i filosofi parlarono di materia; a meno che qualcuno non voglia prendere ‘materia’equivocamente. Ma l’anima non riceve con movimento e mutazione, anzi, per separazione dal movimento e dalle cose mobili, secondo ciò che si dice nel libro III della Fisica [III, 3, 202 a 23-37]. Poiché nel riposo l’anima diventa sapiente e prudente. Di conseguenza anche il Filosofo dice nel III libro del De Anima [III, 4, 429 a 14-17] che l’intendere si dice esser passivo in un altro modo rispetto alla passività delle cose corporee. Se dunque qualcuno vuol concludere che l’anima è composta di materia per il fatto che riceve ed è passiva, manifestamente cade nell’equivoco. Così dunque si fa manifesto che la predetta motivazione è frivola.[^53]
Subito la posizione dell’ilemorfismo universale è attaccata al cuore, cioè nel suo argomento principe: dove ci sono le proprietà della materia, ossia passività, recettività, potenzialità, ecc., lì c’è materia. È quello sostenuto anche da Bonaventura.51 Esso era stato citato come sesto argomento favorevole nelle argomentazioni addotte da Tommaso all’inizio come obiezioni alla sua personale tesi. Molto duro è l’aggettivo ‘frivola’attribuito a questa posizione, la più in voga a quel tempo, ribadito all’inizio e alla fine della critica.52 Infatti gli ilemorfisti si lasciano ingannare da una vera equivocità fuorviante: quelle proprietà si trovano nella materia corporea grazie al moto, in particolare alla sua forma eccellente che è il moto circolare e quindi sono legate alla corporeità e all’occupazione del luogo per comune opinione dei filosofi. Al contrario l’anima, di cui qui principalmente si parla, ma così tutte le sostanze spirituali, hanno bensì quelle proprietà, ma non legate al moto corporeo e locale, anzi esattamente prescindendo da esso, il che fa supporre che bisognerà cercare altrove il loro principio, non in un’equivoca ‘materia spirituale’. Già Aristotele conosceva la forte analogia tra questi due modi di avere le medesime proprietà potenziali. Sintetizzando: Tommaso rifiuta l’identità tra potenza e materia posta da Bonaventura.
Si può rendere manifesto ancora in molti modi che la posizione è impossibile.
In primo luogo poiché una forma sopravveniente alla materia ha formato la specie. Dunque se l’anima si componesse di materia e forma, dall’unione stessa della forma con la materia dell’anima si costituirebbe una specie nella natura. Ma ciò che per sé ha una specie non si unisce ad un altro per la costituzione della specie, a meno che uno di essi non si corrompa in qualche modo; così gli elementi si uniscono a comporre la specie del misto. Dunque l’anima non si unirebbe al corpo per costituire la specie umana, ma tutta la specie umana consisterebbe nell’anima: il che è evidentemente falso, poiché, se il corpo non appartenesse alla specie dell’uomo, sopravverrebbe accidentalmente all’anima. Ma ciò non si può dire, perché secondo questa posizione nemmeno la mano è composta di materia e forma, poiché non ha la specie completa, ma è parte della specie; infatti è manifesto che la materia della mano non si perfeziona da sé stessa per mezzo di una sua forma, ma una sola è la forma che simultaneamente perfeziona la materia di tutto il corpo e di tutte le sue parti; cosa che non si potrebbe dire dell’anima se fosse composta di materia e forma. Infatti bisognerebbe dapprima che la materia dell’anima fosse perfezionata nell’ordine della natura attraverso la sua forma, ed in secondo luogo che il corpo fosse perfezionato per mezzo dell’anima. A meno che uno non dicesse che la materia dell’anima fosse una parte della materia corporea; il che è assolutamente assurdo.
Parimenti la prima posizione risulta impossibile per il fatto che in ogni composto di materia e forma la materia si comporta come ricevente l’esse, che è proprio della forma. Se dunque l’anima fosse composta di materia e forma, sarebbe impossibile che tutta l’anima fosse principio formale dell’esse per il corpo. Dunque non l’anima sarà forma del corpo, ma qualcosa dell’anima. Ma, qualunque cosa sia, ciò che è forma di questo corpo è l’anima. Dunque non è anima ciò che si poneva composto di materia e forma, ma solo la sua forma.
Ancora per un’altra motivazione appare impossibile la posizione detta. Infatti, se l’anima fosse composta di materia e forma, parimenti il corpo: ciascuno dei due avrebbe la propria unità per sé; e così sarebbe necessario porre un qualche terzo ente per mezzo del quale l’anima si unisca al corpo. Ed alcuni sostenitori della predetta posizione lo concedono. Dicono infatti che l’anima sia unita al corpo mediante la luce: l’anima vegetativa per mezzo della luce del cielo sidereo, quella sensibile per mezzo della luce del cielo cristallino, quella razionale mediante la luce del cielo empireo. Queste cose sono assolutamente degne di una favola. Bisogna infatti che l’anima sia immediatamente unita al corpo come atto a potenza, come è evidente nell’VIII libro della Metafisica [VIII, 6, 1045 a 26s.]. Di conseguenza diviene manifesto che l’anima non può esser composta di materia e forma; tuttavia non si esclude che nell’anima ci siano atto e potenza; infatti la potenza e l’atto non si trovano solo nelle cose mobili, ma anche in quelle immutabili, e sono più comuni, come dice il Filosofo nell’VIII libro della Metafisica [VIII, 6, 1045 a 35-b 8], poiché non c’è materia nelle cose immobili.[^56]
Ora la tesi ilemorfista universale viene ridotta alla contraddizione e all’assurdo in tre passaggi legati alla struttura antropologica ereditata da Aristotele e largamente condivisa dell’anima come forma del corpo della specie umana. Se una composizione ilemorfica fosse già interiore alla sola anima essa sarebbe di per sé costituita come specie e non potrebbe entrare come principio formale di quella materia che struttura come corpo a costituire la specie umana; si tratterebbe di un’unione del tutto accidentale e non essenziale. Tantomeno sarebbe possibile ridurre quest’anima ilemorfica a parte del soggetto umano, o la sua materia a parte di materia corporea, cosa assurda. In secondo luogo la materia è recettiva rispetto all’esse che le viene comunicato dalla sua forma; ma se l’anima fosse già ilemorficamente composta non sarebbe ‘anima’, cioè forma del corpo umano tutta quella struttura materia ‘spirituale’-forma, bensì solo quest’ultima parte, questa forma. Da ultimo, gli ilemorfisti universali devono ammettere una struttura ilemorfica sia nell’anima che nel corpo, la cosiddetta forma corporeitatis: per coerenza metodologica devono anche trovare un ulteriore principio grazie al quale anima e corpo così composti si uniscano e difatti alcuni, rifacendosi alla tradizione araba di Avicenna e Averroè fatta propria in Occidente da Roberto Grossatesta, assegnano questo ruolo alla luce, distinguendone diverse specie relazionate ai vari cieli a seconda delle tre specie di anime vegetativa, sensitiva, razionale. Ma ciò sembra inammissibile, addirittura favoloso dice l’Aquinate, poiché il Filosofo fa capire chiaramente che il rapporto anima-corpo dev’essere quello di atto-potenza, dunque immediato, pena un regressus in infinitum. Perciò, non escludendo affatto una composizione atto-potenza, si deve tassativamente escludere la struttura ilemorfica all’interno dell’anima umana in quanto insufficiente a render ragione dell’unità sostanziale dell’uomo.
In che modo, poi, si trovino atto e potenza nell’anima dev’esser considerato procedendo dalle cose materiali a quelle immateriali. Infatti nelle sostanze composte di materia e forma troviamo tre realtà, cioè la materia, la forma e lo stesso esse. Certamente principio di esso è la forma; infatti la materia partecipa l’esse per il fatto che riceve la forma. Così dunque l’esse segue la forma stessa. Né, tuttavia, la forma è il suo esse, pur essendone il principio. E, sebbene la materia non attinga il suo esse se non attraverso la forma, tuttavia la forma in quanto è forma non ha bisogno della materia, poiché l’esse segue la forma stessa, ma ha bisogno della materia poiché è tale forma, la quale non sussiste per sé. Dunque nulla proibisce che ci sia una forma separata dalla materia, la quale abbia l’esse, e l’esse sia in una forma di tal genere. Infatti l’essenza stessa della forma si rapporta all’esse come la potenza al proprio atto. E così nelle forme per sé sussistenti si trovano sia la potenza che l’atto, in quanto lo stesso esse è atto della forma sussistente, che non è il suo esse. Se infatti c’é qualcosa che è il suo esse, che è proprio di Dio, lì non c’é potenza ed atto, ma atto puro. E di qui viene quel che dice Boezio nel libro De Hebdomadibus (=PL 64, 1311), che nelle altre cose che sono dopo Dio l’esse differisce dalla sostanza; oppure, come dicono alcuni, quod est e quo est. Infatti lo stesso esse è ciò per cui qualcosa è, come la corsa è ciò per cui qualcuno corre. Dunque, poiché l’anima è una forma per sé sussistente, può esserci in essa composizione di atto e potenza, cioè di esse e sostanza, ma non di materia e forma.53
Viene ora la pars construens; dopo aver demolito la ragionevolezza dell’universale ilemorfismo Tommaso espone la sua soluzione alternativa, già nota dalle opere precedentemente citate: la strutturazione metafisica di ogni creatura in essentia ed esse. Distinguendo in ogni essere creato tre elementi metafisici, materia, forma e esse, si deduce che è la forma54 a fare da mediatrice dell’esse nei riguardi della materia, la quale a sua volta, individua la forma, sebbene la forma non coincida con l’esse stesso. Così la forma può realizzarsi sia in unione alla materia, sia indipendentemente da essa, come semplice forma, pura essenza, che però continua a non coincidere con l’esse, se non in Dio, comportandosi come potenza verso il suo atto. In tal modo è razionalmente intelligibile che ci siano forme per sé non congiunte alla materia, quali l’anima umana e anche gli spiriti incorporei, nelle quali la forma è potenza e l’esse atto. Così la struttura atto-potenza, mediante la composizione essentia-esse, viene salvaguardata senza ricorrere all’ilemorfismo universale e su tale posizione innovativa Tommaso si ritrova dall’inizio alla fine della sua carriera.
L’esame più ampio e dettagliato della problematica è presentato dalla Quaestio disputata de spiritualibus creaturis.55 Addirittura venticinque sono gli argomenti in favore della composizione ilemorfica di tali sostanze, molti da autori di grande peso, come Platone dal Timeo (arg. 18), Aristotele dalla Metafisica (arg. 2, 5, 24), Agostino (arg. 4, 6, 13, 20), Boezio, a partire dai due che ritengono la sostanza come categoria strutturata dai principi materia e forma e che le pure forme non possono essere soggetto, già noti fin dal Commento alle Sentenze (arg. 1, 8, 21ss.), fino al Damasceno (arg. 14). Anche il fuoco di fila dei contro-argomenti56 è molto nutrito: quattordici ragioni che allineano auctoritates come lo Pseudo-Dionigi, ormai ben noto, citato per primo, Aristotele (s. c. 3, 6, 8), Agostino (s. c. 9, 14), Damasceno (s. c. 10), Avicenna (s. c. 5), fino a Ugo da san Vittore (s. c. 4). In entrambe le serie non mancano argomenti tipicamente razionali tradotti in incisivi sillogismi.
La risposta di Tommaso, senza fermarsi sulla storia delle dottrine, si articola in tre punti: prende le mosse dal significato di ‘materia’sviluppando una splendida considerazione metafisica sulla dialettica partecipativa in proposito, prosegue con la riflessione sull’attività intellettiva e, pur concedendo che si possa parlare senza gravi forzature di materia nell’identico senso di potenza, delinea l’universale strutturale composizione creaturale di atto e potenza. Ecco la prima parte della soluzione:
Bisogna dire che, su questo problema, vi sono opinioni opposte. Alcuni infatti affermano che la sostanza spirituale creata è composta di materia e forma; altri lo negano. Perciò, per cercare la verità sulla questione, al fine di non procedere nell’ambiguità, bisogna prendere in esame che cosa si intenda col termine di «materia». È chiaro infatti che, poiché la distinzione tra potenza e atto attraversa tutto ciò che è, e poiché qualsiasi genere si divide in atto e potenza, si chiama comunemente materia prima ciò che si trova nella categoria della sostanza come potenza e che viene conosciuta a prescindere da ogni specie e forma e da ogni privazione, e che tuttavia è suscettibile di ricevere forme e privazioni; come risulta da Agostino nel dodicesimo libro delle Confessioni [XII, viii, 8 (=PL 32, 829=CCL 27, 220)] e nel primo del Commento letterale alla Genesi [I, xiv, 28 (=PL 34, 256)], nonché dal Filosofo nel settimo libro della Metafisica [VII, 3, 1029 a 20].
Ora, assunto questo significato del termine «materia» - che del resto è quello proprio e comune - è impossibile che vi sia materia nelle sostanze spirituali. Sebbene, infatti, in una stessa cosa che talora è in atto, talora in potenza, la potenza preceda cronologicamente l’atto, l’atto tuttavia ha per natura un primato rispetto alla potenza. E ciò che viene prima non dipende da ciò che è secondario, ma viceversa. Per questo si trova talvolta un atto primo senza alcuna potenza; mai, tuttavia, si trova nella realtà qualche potenza che non sia perfezionata da un atto. Per questo nella materia prima vi è sempre qualche forma. Ora, dall’Atto primo assolutamente perfetto, che ha in sé tutta la pienezza della perfezione, è causato in tutte le cose il loro essere in atto; tuttavia secondo un certo ordine. Infatti nessun atto causato ha tutta la pienezza della perfezione, ma, rispetto al primo Atto, ogni atto causato è imperfetto. Quanto più, tuttavia, un atto è perfetto, tanto più è vicino a Dio. Ma fra tutte le creature, si avvicinano di più a Dio le sostanze spirituali, e questo risulta da Dionigi, Le gerarchie celesti [4, § 1 (=PG 3, 180)]; per cui esse massimamente accedono alla perfezione dell’atto primo, rapportandosi alle creature inferiori come ciò che è perfetto all’imperfetto, e come l’atto alla potenza. In nessun modo, dunque, appartiene all’ordine delle cose che le sostanze spirituali abbiano bisogno, per essere, della materia prima, che è il più incompleto fra tutti gli enti. Al contrario, esse sono di gran lunga al di sopra della materia e di tutte le cose materiali.[^61]
Infatti, un’attenta confutazione della posizione gabiroliana, cioè di Avicebron, è svolta nel De substantiis separatis, talora citato come De Angelis, cronologicamente57 l’ultimo scritto, rimasto per giunta incompleto, nel quale l’Angelico si occupa di questa problematica, certamente dopo le condanne parigine del 10 dicembre 1270 contro l’averroismo. Pur trattandosi letterariamente di un opuscolo il suo contenuto polemico lo rende molto vicino a una quaestio disputata. Quasi volendo compiere una promessa di Aristotele mai attuata58 Tommaso delinea dettagliatamente la natura delle sostanze separate dalla materia, quelle che la fede cattolica chiama angeli, tentando una sintesi tra le posizioni di Platone e di Aristotele. I due grandi filosofi greci convergono nel riconoscere l’esistenza di tali sostanze, che hanno ricevuto l’essere dal sommo principio, la loro natura finita e composta e la ragione di provvidenza rispetto agli esseri inferiori, sebbene siano in disaccordo sul loro numero, la loro collocazione in vari ordini intermedi e la loro capacità di intendere se stessi. Nei capitoli 5-8 l’Aquinate esamina in dettaglio la dottrina di Avicebron,59 decisamente ritenuto padre dell’ilemorfismo universale, il quale si sforza di dedurre da esempi di esseri artefatti proprietà passive tipiche della materia da estendere a tutti gli esseri senza distinzione, nonchè da argomenti logici legati alla distinzione delle sostanze corporee e spirituali la necessità di una materia anche in queste ultime. La replica di Tommaso demolisce pezzo per pezzo l’argomentare gabiroliano, basandosi su un testo aristotelico60 per lui molto importante, quello che dichiara il massimo in un certo ordine causa di tutti gli inferiori in quell’ordine. Così l’ordine naturale delle sostanze rivela una spiccata analogia che impedisce di trasferire automaticamente determinate proprietà da quelle corporee a quelle spirituali, ovvero, ultimamamente, di trasferire eo ipso una conclusione logica nell’ordine naturale. Ancora una volta l’accorta ricezione di fondamentali elementi platonici come la partecipazione non distoglie l’Angelico dal deciso rifiuto di un principio di isomorfismo tra ordine logico e ordine naturale, quel che abbiamo denominato principio parmenideo-platonico. Un solo testo basti a evidenziare le rovinose conseguenze dell’ilemorfismo universale:
Ora, una tale posizione toglie la verità della materia prima; perché se del concetto di materia prima è che sia in potenza, bisogna che la materia prima sia totalmente in potenza; per cui non si predica di nessun esistente in atto, come la parte del tutto. Annulla anche i principi della logica, eliminando la vera nozione di genere, di specie e di differenza sostanziale, dal momento che riduce tutto al modo della predicazione accidentale. Toglie anche le fondamenta della filosofia naturale, eliminando la vera generazione e corruzione delle cose, come gli antichi filosofi naturalisti, che ponevano un solo principio materiale; infatti non si dice che una cosa viene generata semplicemente se non quando diventa semplicemente ente, ma niente diviene, se già era prima; quindi, se qualcosa esisteva prima in atto - è questo essere semplicemente -, ne consegue che non si faccia semplicemente ente, ma si faccia soltanto questo ente che prima non era, per cui viene generato soltanto in un certo senso e non semplicemente.
La suddetta posizione nega, infine, i principi della filosofia prima, sottraendo l’unità delle cose singole e, in conseguenza, sottraendo anche la vera entità e la vera diversità delle cose.[^66]
Il giudizio di Tommaso è divenuto col tempo via via molto più severo: sebbene anche in quest’opuscolo ci sia un cenno all’equivocità dell’uso del termine ‘materia’per gli esseri corporei e quelli spirituali e ricorra l’aggettivo ‘frivola’, come nella Quaestio disputata de Anima, per designare la posizione ilemorfista, il contesto è di un giudizio davvero senz’appello, molto più severo che nel Commento alle Sentenze e nella stessa Quaestio succitata. Probabilmente Tommaso vuol decisamente marcare la sua distanza dalle sentenze averroiste eterodosse condannate nel 1270 dal vescovo parigino Stefano Tempier.61
4. Conclusione
Con ciò ci pare di aver sufficientemente62 enucleato il pensiero di Tommaso: dall’inizio alla fine della sua carriera accademica egli respinge decisamente l’ilemorfismo universale, diventando semmai più fortemente critico col passare degli anni, facendosi forte soprattutto della concezione metafisica della materia prima, principio puramente potenziale interiore alla sostanza, e della natura immateriale dell’operazione intellettiva. La sua proposta alternativa è quella della composizione di ogni creatura tramite essenza ed esse, sua originale ermeneutica della coppia aristotelica dei principi metafisici potenza e atto.
Ibidem, s. c. (Pandolfi-Coggi, III, 162s.): «Sed contra est quod Dionysius dicit in 4 cap. de div. Nom., quod Angeli intelliguntur immateriales et incorporales.
Praeterea, Boetius dicit in lib. de duabus Naturis, quod omnis natura incorporeae substantiae nullo materiae nititur fundamento. Sed Angelus est substantia incorporea. Ergo materiam pro fundamento non habet». Notiamo che spessissimo l’Aquinate enuncia dapprima la tesi opposta alla propria negli argomenti presentati per primi, ma poi condivide quelli opposti addotti nel sed contra.
Ibidem, resp. (Pandolfi-Coggi, III, 162s.): «Respondeo dicendum, quod circa hanc materiam tres sunt positiones. Quidam enim dicunt quod in omni substantia creata est materia, et quia omnium est materia una; et huius positionis auctor videtur Avicebron, qui fecit librum fontis vitae, quem multi sequuntur. Secunda positio est quod materia non est in substantiis incorporeis, sed tantum est in omnibus corporibus, etiam una; et haec est positio Avicennae (Metaph. 8, 12). Tertia positio est quod corpora caelestia et elementa non communicant in materia: et haec est positio Averrois (De subst. orbis 2), et Rabbi Moysis (Direct. 1, 75), et videtur magis dictis Aristotelis convenire; et ideo istam eligimus, quantum ad praesens pertinet, dicentes, quod quidquid sit de corporalibus, in Angelis nullo modo potest esse materia: tum ratione intellectualitatis; tum etiam ratione incorporeitatis; quod enim nullum intellectuale sit materiale, communiter a philosophis tenetur. Unde etiam ex immaterialitate divina eius intellectum concludunt. Et ratio satis manifesta est; quia materia prima recipit formam, non in quantum est forma simpliciter, sed inquantum est haec: unde forma existens in materia non est intellecta nisi in potentia, quia cognosco esse formae, inquantum est forma; et ideo si intellectus aliquis poneretur habens materiam, forma existens in eo non esset intellecta in actu: et sic per formam illam non intelligeret. Huius etiam signum est, quod forma materialis non efficitur intellectualis, nisi quia a conditionibus materiae abstrahitur; et sic efficitur perfectio intellectus proportionata sibi: unde oportet intellectum non materialem esse: et hoc non sequitur materiam ex parte alicuius formae, cum omnis forma per abstractionem a conditionibus materiae intelligibilis fiat; sed consequitur eam secundum se, et virtualiter, sive sit sub forma corporali, sive spirituali.
Secundo incorporeitas repugnat materiae: cum enim uni perfectibili debeatur una perfectio, et in materia prima non sit ulla diversitas, oportet quod omnis forma antequam possit in ea esse ulla diversitas, nec intelligi, investiat eam totam. Sed ante corporeitatem non potest intelligi aliqua diversitas, quia diversitas praesupponit partes, quae non possunt esse nisi praeintelligatur divisibilitas quae consequitur quantitatem, quae sine corporeitate non est. Unde oportet quod tota materia sit vestita forma corporeitatis; et ideo si aliquid est incorporeum, oportet esse immateriale». Seguiamo generalmente non solo la traduzione, ma anche la metodologia dell’edizione citata curata dai padri Domenicani: es. ‘Angelo’con la maiuscola. E ciò varrà non solo per quest’opera, ma anche per le altre. Quando ce ne distaccheremo, lo segnaleremo. Qui, e anche nei respondeo successivi, abbiamo eliminato il titolo ‘Soluzione’da loro posto in apertura del testo del corpus articuli tomista come corrispondente dell’uniforme incipit: Respondeo dicendum.
QDA, a. 6, resp.: «Respondeo. Dicendum quod circa hanc quaestionem diversimode aliqui opinantur. Quidam dicunt quod anima et omnino omnis substantia praeter Deum est composita ex materia et forma. Cuius quidem positionis primus auctor invenitur Avicebron auctor libri Fontis vitae. Huius autem ratio est, quae etiam in obiiciendo [arg. 6] est tacta, quod oportet in quocumque inveniuntur proprietates materiae, inveniri materiam. Unde cum in anima inveniantur proprietates materiae, quae sunt recipere, subiici, esse in potentia et alia huiusmodi; arbitratur esse necessarium quod in anima sit materia.
Sed haec ratio frivola est, et positio impossibilis. Debilitas autem huius rationis apparet ex hoc, quod recipere et subiici et alia huiusmodi non secundum eamdem rationem conveniunt animae et materiae primae. Nam materia prima recipit aliquid cum transmutatione et motu. Et quia omnis transmutatio et motus reducitur ad motum localem, sicut ad primum et communiorem, ut probatur in VIII Phys. [com. 53. 56. 57. 77]; relinquitur quod materia in illis tantum invenitur in quibus est potentia ad ubi. Huiusmodi autem sunt solum corporalia, quae loco circumscribuntur. Unde materia non invenitur nisi in rebus corporalibus, secundum quod philosophi de materia sunt locuti; nisi aliquis materiam sumit velit aequivoce. Anima autem non recipit cum motu et transmutatione, immo per separationem a motu et a rebus mobilibus: secundum quod dicitur in III Phys. [com. 20]. Quod in quiescendo fit anima sciens et prudens. Unde etiam Philosophus dicit, III de Anima [com. 12], quod intelligere dicitur pati alio modo quam sit in rebus corporalibus passio. Si quis ergo concludere velit animam esse ex materia compositam per hoc quod recipit vel patitur, manifeste ex aequivocatione decipitur. Sic ergo manifestum est rationem praedictam esse frivolam». Avvertiamo che per la traduzione di tutto questo corpus articuli ci serviamo di quella già da noi pubblicata in R. Pietrosanti, L’anima umana nei testi di S. Tommaso, op. cit. , 219-50, qui, per il respondeo dell’articolo 6, 245-48. Ci consta che successivamente sia stata pubblicata la versione integrale: S. Tommaso d’Aquino, Le Questioni disputate. Vol. 4: L’anima umana. Le creature spirituali (ed. Savagnone G.), ESD, Bologna 2001; per il testo latino e la versione di questo corpus articuli cfr. 160-65. Notiamo fin d’ora con piacere che quest’ultima edizione è molto accurata nell’indicare le fonti delle auctoritates citate da Tommaso nel testo. Manteniamo, però, l’uso più consueto di indicare come articoli, e non questioni, le suddivisioni interne della Quaestio disputata de Anima, generalmente citata con questo titolo al singolare.
QDA, a. 6, resp.: «Quod etiam positio sit impossibilis, multipliciter manifestum esse potest. Primo quidem, quia forma materiae adveniens constituit speciem. Si ergo anima sit ex materia et forma composita, ex ipsa unione formae ad materiam animae, constituetur quaedam species in rerum natura. Quod autem per se habet speciem, non unitur alteri ad speciei constitutionem, nisi alterum ipsorum corrumpatur aliquo modo; sicut elementa uniuntur ad componendam speciem mixti. Non igitur anima uniretur corpori ad constituendam humanam speciem; sed tota species humana consisteret in anima: quod patet esse falsum; quia si corpus non pertineret ad speciem hominis, accidentaliter animae adveniret. Non autem potest dici, quod secundum hoc nec manus est composita ex materia et forma non habet completam speciem, sed est pars speciei; manifestum est enim quod materia manus non seorsum sua forma perficitur; sed una forma est quae simul perficit materiam totius corporis et omnium partium eius; quod non posset dici de anima, si esset ex materia et forma composita. Nam prius oporteret materiam animae ordine naturae perfici per animam. Nisi forte quis diceret, quod materia animae esset aliqua pars materiae corporalis; quod est omnino absurdum.
Item positio prima ostenditur impossibilis ex hoc quod in omni composito ex materia et forma materia se habet ut recipiens esse, non autem ut quo aliquid est; hoc enim proprium est formae. Si ergo anima sit composita ex materia et forma, impossibile est quod anima se tota sit principium formale essendi corpori. Non igitur anima erit forma corporis, sed aliquid animae. Quidquid autem est illud quod est forma huius corporis, est anima. Non igitur illud quod ponebatur compositum ex materia et forma, est anima, sed solum forma eius.
Apparet etiam hoc esse impossibile alia ratione. Si enim anima est composita ex materia et forma, et iterum corpus: utrumque eorum habebit per se suam unitatem; et ita necessarium erit ponere aliquid tertium quo uniatur anima corpori. Et hoc quidam sequentes praedictam positionem concedunt. Dicunt enim animam uniri corpori mediante luce: vegetabile quidem mediante luce caeli siderei; sensibile vero mediante luce caeli crystallini; rationale vero mediante luce caeli empirei. Quae omnino fabulosa sunt. Oportet enim immediate animam uniri corpori sicut actum potentiae, sicut patet in VIII Metaphys. [com. 15s.]. Unde manifestum fit quod anima non potest esse composita ex materia et forma; non tamen excluditur quin in anima sit actus et potentia; nam potentia et actus non solum in rebus mobilibus, sed etiam in immutabilibus inveniuntur, et sunt communiora, sicut dicit Philosophus in VIII Metaphys., cum materia non sit in rebus immobilibus».
QDS, art. 1, resp.: «Dicendum quod circa hanc quaestionem contrarie aliqui opinantur: quidam enim asserunt substantiam spiritualem creatam esse compositam ex materia et forma, quidam vero hoc negant: unde ad huius veritatis inquisitionem ne in ambiguo procedamus, considerandum est quid nomine materiae significetur. Manifestum est enim quod, cum potentia et actus dividant ens, et cum quodlibet genus per actum et potentiam dividatur, id communiter materia prima nominatur quod est in genere substantiae ut potentia quaedam, intellecta praeter omnem speciem et formam, et etiam praeter privationem, quae tamen est susceptiva et formarum et privationum, ut patet per Augustinum XII Confessionum et I Super Genesim ad litteram et per Philosophum in VII Metaphisicae.
Sic autem accepta materia, quae est propria eius acceptio et communis, impossibile est quod materia sit in substantiis spiritualibus: licet enim in uno et eodem, quod quandoque est in actu quandoque in potentia, prius tempore sit potentia quam actus, actus tamen naturaliter est prior potentia. Illud autem quod est prius non dependet a posteriori sed e converso: et ideo invenitur aliquis primus actus absque omni potentia. Numquam tamen invenitur in rerum natura potentia quae non sit perfecta per aliquem actum, et propter hoc semper in materia prima est aliqua forma. A primo autem actu perfecto simpliciter, qui habet in se omnem plenitudinem perfectionis, causatur esse actu in omnibus, sed tamen secundum quendam ordinem: nullus enim actus causatus habet omnem perfectionis plenitudinem, sed respectu primi actus omnis actus causatus est imperfectus; quanto tamen aliquis actus est perfectior, tanto est Deo propinquior. Inter omnes autem creaturas Deo maxime appropinquant spirituales substantiae, ut patet per Dyonisium IV cap. Caelestis ierarchiae: unde maxime accedunt ad perfectionem primi actus, cum comparentur ad inferiores creaturas sicut perfectum ad imperfectum et sicut actus ad potentiam. Nullo ergo modo hoc ratio ordinis rerum habet, quod substantiae spirituales ad esse suum requirant materiam primam, quae est incompletissimum inter omnia entia, sed sunt longe supra totam materiam et omnia materialia elevatae». Il testo latino e la versione sono quelle della più recente edizione: S. Tommaso d’Aquino, Le Questioni disputate. Vol. 4: L’anima umana. Le creature spirituali (ed. Savagnone G.), op. cit., 540-43. Nel testo latino, per un uso consueto, abbiamo omesso di precisare i luoghi delle citazioni degli Autori fatte dall’Angelico, già inserite nella traduzione, che il curatore ripete con ammirevole zelo nei testi in ambedue le lingue.
De substantiis separatis, c. 6: «Sic haec positio tollit quidem veritatem materiae primae. Quia, si de ratione materiae est quod sit in potentia, oportet quod prima materia sit omnino in potentia: unde nec de aliquo exsistentium actu praedicatur, sicut nec pars de toto. Tollit etiam logicae principia, auferens veram rationem generis et speciei et substantialis differentiae, dum omnia in modum accidentalis praedicationis convertit. Tollit etiam naturalis philosophiae fundamenta, auferens veram generationem et corruptionem a rebus, sicut et antiqui naturales ponentes unum materiale principium. Neque enim simpliciter aliquid generari dicitur, nisi quia simpliciter fit ens. Nihil autem fit quod prius erat. Si igitur aliquid prius erat in actu, quod est simpliciter esse; sequetur, quod non simpliciter fiat ens sed fiat ens hoc quod prius non erat: unde secundum quid generabitur, et non simpliciter.
Tollit demum, et ut finaliter concludam, praedicta positio etiam philosophiae primae principia, auferens unitatem a singulis rebus, et per consequens veram entitatem simul et rerum diversitatem». La traduzione è quella dell’edizione Lobato: Tommaso d’Aquino, Opuscoli filosofici. L’ente e l’essenza, l’unità dell’intelletto, le sostanze separate, op. cit. , 189s., nn. 52s. Avremmo solo preferito che si omettesse l’aggettivo ‘prima’ nella seconda menzione iniziale della materia.
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Cfr. A. Rodolfi, «Tempo e creazione nel pensiero di Bonaventura da Bagnoregio», in Studi medievali, 37 (1996), 135-69, qui 155 nota 55. ↩︎
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Come noto il Commento alle Sentenze risale, all’incirca, agli anni 1252-56. Le datazioni delle opere tomiste le desumiamo da J.-P. Torrell, Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo, Piemme, Torino 1994, 367-403. ↩︎
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2 SN, d. 3, q. 1, a. 1, arg. 1: «1. Videtur quod Angelus sit compositum ex materia et forma. Quidquid enim est in genere aliquo, participat rationem illius generis. Sed ratio substantiae, secundum quod quod est praedicamentum, est quod sit composita ex materia et forma. Boetius enim dicit in Comment. Praedicamentorum (praed. subst.) quod Aristoteles, relictis extremis, scilicet materia et forma, agit de medio, idest de composito, cum de substantia determinat. Cum ergo Angelus sit in praedicamento substantiae, videtur quod ex materia et forma componatur». Il testo latino di Tommaso e la traduzione italiana le prendiamo dalla prima benemerita edizione bilingue di quest’opera: Tommaso d’Aquino, Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, (edd. Pandolfi C. -Coggi R.), voll. 10, ESD, Bologna 2001s. Qui il testo latino e la versione italiana sono a p. 160s. del vol. III; d’ora in avanti per le citazioni testuali di quest’opera citeremo quest’edizione con i soli cognomi dei curatori in maiuscoletto seguiti dal numero romano di volume e dai numeri arabi di pagina tra parentesi tonde dopo la citazione del passo tomista. Non facciamo nostro l’uso degli editori di riportare in corsivo il testo latino, poiché lo riportiamo già in nota. Inoltre abbiamo eliminato l’iniziale intitolazione ‘Problema’, traduzione del latino Ad primum sic proceditur. Chiamiamo ‘argomenti’le ragioni per una tesi portati per primi dall’Angelico. Ci esimiamo, seguendo l’uso più comune, dall’indicare il riferimento dei passi tomistici ai luoghi dell’edizione leonina, sia perché, in questo caso, l’opera citata non vi compare ancora, sia perché, diversamente da un Autore come Bonaventura, molte opere di Tommaso sono state edite separatamente e quindi sono facilmente consultabili con l’aiuto della sola divisione interna. Segnaliamo che l’uso di indicare i riferimenti anche all’edizione leonina è adottato da uno storico come J.-P. Torrell, Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo, op. cit. , e da un teorico come J.F. Wippel, The Metaphysical Thought of Thomas Aquinas (=Monographs of the Society for Medieval and Reinassance Philosophy 1), The Catholic University of America Press, Washinghton, D. C., 2000. ↩︎
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Ibidem, arg. 2 (Pandolfi-Coggi, III, 160s.): «2. Praeterea, quaecumque sunt in aliquo genere uno, communicant uniformiter principia illius generis. Sed principia generis substantiae sunt materia et forma. Cum ergo corpora quae sunt in genere substantiae, communicent ista principia, ita quod ex eis componuntur, videtur quod etiam Angelus, qui est in eodem genere, ex materia et forma componatur». ↩︎
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Ibidem, arg. 3 (Pandolfi-Coggi, III, 160s.): «3. Praeterea, ubicumque inveniuntur proprietates materiae, invenitur materia; cum proprietates materiae rei non sint a re separatae. Sed recipere, substare, et huiusmodi, sunt proprietates materiae. Ergo cum inveniantur in Angelo, videtur quod Angelus sit ex materia compositus». ↩︎
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Avvertiamo che questo è un pluralis modestiae usato da parte dello scrivente. ↩︎
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Ibidem, arg. 4 (Pandolfi-Coggi, III, 160s.): «4. Praeterea, omne quod est, vel est tantum actus, vel tantum potentia, vel utrumque. Sed Angelus non est actus purus, quia sic non differret a Deo: nec est potentia pura, quia sic non differret a materia prima: et praeterea nullam operationem haberet. Ergo est compositus ex actu et potentia: et hoc est componi ex materia et forma: ergo etc». ↩︎
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Ibidem, arg. 5 (Pandolfi-Coggi, III, 160s.): «5. Praeterea, in libro de Causis (prop. 4), dicitur, quod omne creatum compositum est ex finito et infinito. Sed Angelus et ens creatum. Ergo ex infinito, quod est materia, compositus est». È merito dell’Angelico aver scoperto la pseudoepigrafia del De Causis, trattato neoplatonico del IV sec. d. C., andato fino alla sua epoca sotto il nome dello Stagirita: nel commento al De Trinitate di Boezio, del 1257-58, q. 6, a. 1, arg. 22 (la numerazione è quella dell’Opera omnia edita da Busa in appendice all’Index Thomisticus: in realtà è la seconda obiezione al terzo argomento) ne parla ancora attribuendolo al Filosofo, ma nel proemio del commento al De Causis stesso, del 1272, è chiaro l’avvicinamento con Proclo e la sua Elementatio theologiae. ↩︎
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Ibidem, arg. 6 (Pandolfi-Coggi, III, 160s.): «6. Item dicit Boetius in lib. De Trinit. (3), quod forma simplex subiectum esse non potest. Sed Angelus est subiectum gratiae. Ergo non est tantum forma, sed etiam habet materiam partem sui». ↩︎
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Ibidem, resp. (Pandolfi-Coggi, III, 164s.): «Et tamen aliquam compositionem in Angelo ponimus: quae qualis sit, sic investiganda est. In rebus ex materia et forma compositis, natura rei, quae quidditas vel essentia dicitur, ex coniunctione formae et materiae resultat, ut humanitas ex coniunctione animae et corporis. De ratione autem quidditatis in quantum est quidditas, non est quod sit composita; quia numquam inveniretur simplex natura, quod ad minus in Deo falsum est: nec est de ratione eius quod sit simplex, cum quaedam inveniatur composita, ut humanitas. Esse autem secundum quod dicitur res esse in actu, invenitur ad diversas naturas vel quidditates diversimode se habere. Quaedam enim natura est de cuius intellectu non est suum esse, quod patet ex hoc quod intelligi potest cum hoc quod ignoretur an sit, sicut phaenicem, vel eclipsim, vel aliquid huiusmodi. Alia autem natura invenitur de cuius ratione est ipsum suum esse, immo ipsum esse est sua natura. Esse autem quod huiusmodi est, non habet esse acquisitum ab alio; quia illud quod res ex sua quidditate habet, ex se habet. Sed omne quod est praeter Deum habet esse acquisitum ab alio. Ergo in solo Deo suum esse est sua quidditas vel natura; in omnibus autem aliis esse est praeter quidditatem, cui esse acquiritur. Sed cum quidditas quae sequitur compositionem dependeat ex partibus, oportet quod ipsa non sit subsistens in esse quod sibi acquiritur, sed ipsum compositum, quod suppositum dicitur: et ideo quidditas compositi non est ipsum quod est, sed est hoc quo aliquid est, ut humanitate est homo; sed quidditas simplex, cum non fundetur in aliquibus partibus, subsistit in esse quod sibi a Deo acquiritur; et ideo ipsa quidditas Angeli est quo subsistit etiam ipsum suum esse, quod est praeter suam quidditatem, et est id quo est; sicut motus est id quo aliquid denominatur moveri; et sic Angelus compositus est ex esse et quod est, vel ex quo est et quod est: et propter hoc in lib. de Causis dicitur, quod intelligentia non est esse tantum, sicut causa prima; sed est in ea esse, et forma, quae est quidditas sua: et quia omne quod non habet aliquid ex se, sed recipit illud ab alio, est possibile vel in potentia respectu eius, ideo ipsa quidditas est sicut potentia, et suum esse acquisitum est sicut actus; et ita per consequens est ibi compositio ex actu et potentia; et si ista potentia vocetur materia, erit compositus ex materia et forma: quamvis hoc sit omnino aequivocum dictum: sapientis enim est non curare de nominibus». Di fronte a un testo dove Tommaso esprime così chiaramente la sua concezione di esse ut actus, ovvero actus essendi, ossia essere in quanto atto o atto d’essere, non ci sentiamo di condividere pienamente la traduzione fornita dalla nostra edizione del Commento. Ci permettiamo di discostarcene, qui e negli altri testi dell’Aquinate, tutte le volte che ci sembrerà opportuno mantenere anche nella versione italiana il latino esse col quale egli indica il suddetto senso tecnico dell’actus essendi. Talora qui ci sembrato opportuno conservare anche la terminologia quo est e quod est: ciò per cui qualcosa è e ciò che è. Per queste scelte linguistiche ci rifacciamo soprattutto agli studi di Fabro. Come ricordo personale teniamo a mente questa lapidaria frase di un nostro docente, il padre gesuita Peter Henrici: «Essere è ciò che non si può dire se non come verbo». ↩︎
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L’esempio di questo mitologico volatile è caro a Tommaso: lo cita anche, col medesimo valore, in De ente, c. 4. Ma nel seguito della sua riflessione non ripresenterà più l’argomento, evidentemente giudicato insufficiente allo scopo di porre in luce la reale distinzione e correlazione tra essentia ed esse. ↩︎
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Ci riferiamo ovviamente in primo luogo a La nozione metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d’Aquino, SEI, Torino 19633 (I ed. 1939) e Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino, SEI, Torino 1960. ↩︎
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Solo per citarne due fra i più illustri ricordiamo de Finance e Gilson; tra i più recenti possiamo citare J. Nijenhuis, «“Ens” Described as “Being or Existent”», in American Catholic Philosophical Quarterly, 68 (1994), 1-14; G. Ventimiglia, Differenza e contraddizione. Il problema dell’essere in Tommaso d’Aquino: esse, diversum, contradictio, Vita e Pensiero, Milano 1997. ↩︎
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Lo strumento più utile in proposito è B. Mondin Dizionario enciclopedico del pensiero di S. Tommaso d’Aquino, ESD, Bologna 1991. ↩︎
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Cfr. 1 SN, d. 37, q. 1, a. 1, resp. ↩︎
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Cfr. ST, p. I, q. 4, a. 2, ad 3. ↩︎
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Cfr. 1 SN, d. 37, q. 1, a. 2, ad 3. ↩︎
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È una specie di ritornello che torna in molti luoghi delle opere dell’Angelico: cfr. 1 SN, d. 8, q. 1, a. 3, resp.; 1 SN, d. 19, q. 5, a. 1, resp.; QDV, q. 1, a. 1, resp.; q. 21, a. 1, resp.; q. 21, a. 4, ad 4; QDP, q. 9, a. 7, ad 6; ST, p. I, q. 5, a. 2, resp.; p. I, q. 11, a. 2 ad 4; ST, p. I-II, q. 55, a. 4, ad 1; SCG, l. II, c. 83. Ma le citazioni potrebbero continuare a lungo. ↩︎
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Cfr. ST, p. I, q. 3, a. 3, resp. ↩︎
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Cfr. ST, p. I, q. 29, a. 2, resp. ↩︎
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Cfr. In Perihermeneias, proem.; Super Boetium De Trinitate, q. 5, a. 3, resp. ↩︎
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Cfr. 3 SN, d. 35, q. 2, a. 2, resp. ↩︎
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Cfr. SCG, l. IV, c. 29. ↩︎
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In questo senso, ma solo in questo, anche l’Aquinate sottoscriverebbe la celebre formula di Kant: «Essere non è affatto un predicato reale». ↩︎
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Per una recente trattazione della problematica della conoscenza dell’atto d’essere cfr. J.O. Gonzalez, «The Apprehension of Act of Being in Aquinas», in American Catholic Philosophical Quarterly, 68 (1994), 475-500. ↩︎
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Cfr. SCG, l. I, c. 27. ↩︎
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Cfr. 1 SN, d. 8, q. 1, a. 1, resp.; SCG, l. I, c. 25. ↩︎
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Sebbene alcuni testi dell’Aquinate inclinino in tal senso: cfr. De substantiis separatis, 10. ↩︎
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QDP, q. 7, a. 2, ad 9: «Esse est inter omnia perfectissimum, quod ex hoc patet, quia actus est semper perfectior potentia. Quaelibet autem forma signata non intelligitur in actu nisi per hoc quod esse ponitur […]. Unde patet quod hoc quod dico esse est actualitas omnium actuum et propter hoc est perfectio omnium perfectionum […]. Unde non sic determinatur esse per aliud sicut potentia per actum, sed magis, sicut actus per potentiam». Abbiamo ritenuto utile riportare questo testo perché esprime, forse meglio di altri, la coscienza che Tommaso ha dell’originalità della sua concezione, quasi insistesse a rivendicarne la paternità: hoc quod dico esse. Ciò non toglie che che l’Aquinate abbia molto imparato dalle sue fonti, in questo caso soprattutto lo Pseudo-Dionigi: cfr. F. O’Rourke, «Virtus essendi: Intensive Being in Pseudo-Dionysius and Aquinas», in Dionysius, 15 (1991), 31-80, qui 72s. ↩︎
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Cfr. ST, p. I, q. 4, a. 1, ad 3. ↩︎
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Cfr. QDA, a. 6, ad 2. ↩︎
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Cfr. SCG, l. III, c. 66; QDA, ibidem. ↩︎
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Cfr. ST, p. I, q. 8, a. 1, resp.; SCG, l. I, c. 23; QDA, a. 9, resp. ↩︎
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Cfr. ST, p. I, q. 3, a. 5, resp.; QDV, q. 2, a. 10, ad 3; q. 27, a. 1, ad 8; SCG, l. II, c. 54. ↩︎
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Cfr. QDP, q. 3, a. 7, resp. ↩︎
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Per questa sintetica presentazione delle principali caratteristiche dell’esse tomistico, nell’imbarazzo della scelta, ci siamo rifatti soprattutto a J. de Finance, Être et Agir dans la Philosophie de Saint Thomas, Presses de l’Université Grégorienne, Rome 19653 (I ed. 1945), 111-19; il paragrafo è significativamente intitolato: «L’excellence de l’esse». ↩︎
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2 SN, d. 3, q. 1, a. 1, ad 1 (Pandolfi-Coggi, III, 164-67): «1. Ad primum ergo dicendum est, quod de ratione substantiae est quod subsistit quasi per se ens; et ideo forma et materia, quae sunt pars compositi, cum non subsistant, non sunt in praedicamento substantiae sicut species, sed solum sicut principia. Quod autem hoc subsistens habeat quidditatem compositam, non est de ratione substantiae: unde non oportet illud quod est in praedicamento substantiae, habere quidditatem compositam; sed oportet quod habeat compositionem quidditatis et esse: omne enim quod est in genere, sua quidditas non est suum esse, ut Avicenna dicit (Metaph. 8, 4s.). Et ideo non potest Deus in praedicamento substantiae poni: unde Boetius intendit dicere, quod inter tria haec, scilicet materiam, formam, et compositum, ex his solum compositum est in genere substantiae sicut species; non autem intendit quod omne quod est in genere substantiae, sit compositum ex materia et forma». L’aggiunta del numero arabo all’interno delle virgolette è nostra. ↩︎
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Ibidem, ad 2 (Pandolfi-Coggi, III, 166s.): «2. Ad secundum dicendum, quod aliqua sunt unius generis logice loquendo, quae naturaliter non sunt unius generis, sicut illa quae communicant in intentione generis quam logicus inspicit, et habent diversum modum essendi: unde in X Metaphys. dicitur, quod de corruptibilibus et incorruptibilibus nihil commune dicitur, nisi communitate nominis: et ideo non oportet Angelos cum corporalibus eadem principia communicare, nisi secundum intentionem tantum, prout in omnibus invenitur potentia et actus, analogice tamen, ut in XII Metaphys. (text. 26) dicitur». Dispiace che l’edizione italiana del Commento alle Sentenze da noi seguita citi Aristotele abitualmente senza tener conto dell’edizione Bekker, costringendo alla ricerca sul testo del Filosofo; forse non in tutti casi sarà stato possibile effettuare tale ricerca e ci auguriamo che, quando compiuta, essa abbia dato sempre esiti testualmente esatti. Altre edizioni sono più precise in queste citazioni. ↩︎
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Ibidem, ad 3 (Pandolfi-Coggi, III, 166s.): «3. Ad tertium dicendum, quod, sicut dicit Commentator in III de Anima (comm. 5 et 12), recipere, et omnia huiusmodi, dicuntur aequivoce de materia et intellectu: materia enim prima recipit formam non prout est forma simpliciter, sed prout est hoc, unde per materiam individuatur; sed intellectus recipit formam in quantum est forma simpliciter, non individuans eam, quia forma in intellectu habet esse universale; unde etiam Philosophus ibidem (text. 14) dicit, quod intelligere, pati quoddam est; sed communiter et aequivoce dictum; und ex hoc non ponitur compositio vel materialitas substantiae intellectualis». ↩︎
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Ibidem, ad 4 (Pandolfi-Coggi, III, 166s.): «4. Ad quartum iam patet responsio per ea quae dicta sunt; ostensum est enim quod in Angelo est potentia et actus; non tamen sicut partes quidditatis; sed potentia tenet se ex parte quidditatis, et esse est actus eius». ↩︎
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Ibidem, ad 5 (Pandolfi-Coggi, III, 166s.): «5. Ad quintum dicendum, quod obiectio procedit ex falso intellectu litterae: non enim est sensus quod ens creatum componatur ex finito et infinito sicut ex partibus integralibus, sed sicut ex partibus subiectivis: quia entis creati quoddam est finitum, sicut incorruptibile, et quoddam infinitum, sicut corruptibile, quod non est determinatum ad esse tantum, sed quandoque est et quandoque non est: unde in quodam Comment. lib. de Causis exponitur infinitum «idest potens esse vel non esse». Vel dicendum, quod componitur ex infinito, scilicet ex potentia, et finito, scilicet ex actu». ↩︎
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Ibidem, ad 6 (Pandolfi-Coggi, III, 166s.): «6. Ad sextum dicendum, quod forma omnino simplex, quae est suum esse, sicut essentia divina, de qua Boetius ibi loquitur, nullo modo potest esse subiectum; sed forma simpliciter subsistens quae non est suum esse, ratione possibilitatis quam habet, potest subiectum esse; sed aequivoce a modo quo materia vel materiale subiectum dicitur, ut dictum est». ↩︎
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I luoghi paralleli per questa tematica, come per tutte le altre, sono ben indicati nell’edizione Marietti in relazione a ogni titolo di articolo della Summa theologiae e delle altre opere. ↩︎
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Cfr. QDL, n. 9, q. 4, art. 1. La domanda è sempre sulla composizione ilemorfica degli angeli. L’epoca di composizione di questo Quodlibetum è 1256-59 ca. ↩︎
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La redazione di quest’opera abbraccia gli anni 1259-1265. ↩︎
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Cfr. SCG, l. II, cc. 50s. ↩︎
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Non ci sembra di aver visto sufficientemente valorizzato questo principio nel saggio di D.R. Foster, «Aquinas on the Immateriality of the Intellect», in The Thomist, 55 (1991), 415-38. ↩︎
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Benchè sia certo legittima anche la denominazione Summa Theologica, (o meglio theologica) con l’aggettivo, seguiamo l’indicazione di J.-P. Torrell, Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo, op. cit. , 171 nota 15, che addita come più originario il titolo Summa theologiae, al genitivo, rifacendosi a un articolo di Walz del 1941. ↩︎
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Cfr. ST, p. I, q. 50, a. 2, dedicato proprio alla domanda se l’angelo sia composto di materia e forma. Questa Pars Prima risale agli anni 1265-68. ↩︎
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Tale opera risale al 1265-66 ca. ↩︎
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Cfr. II Sent., d. 3, p. 1, a. 1, q. 1, fund. a-b. ↩︎
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Ben sappiamo del rispetto reverenziale degli Autori scolastici per le auctoritates antiche, ma anche della delicatezza tra Autori contemporanei. Questi erano spesso detti quidam sia perché facilmente riconoscibili dalle loro opinioni, sia per non esporli direttamente a giudizi severi. Perciò il modo di parlare di Tommaso, il più delle volte così equilibrato, è degno di nota. ↩︎
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QDA, a. 6, resp: «Quomodo autem in anima actus et potentia inveniantur sic considerandum est ex materialibus ad immaterialia procedendo. In substantiis enim ex materia et forma compositis tria invenimus, scilicet materiam et formam et ipsum esse. Cuius quidem principium est forma; nam materia ex hoc quod recipit formam, participat esse. Sic igitur esse consequitur ipsam formam. Nec tamen forma est suum esse, cum sit eius principium. Et licet materia non pertingat ad esse nisi per formam, forma tamen inquantum est forma, non indiget materia ad suum esse, cum ipsam formam consequatur esse; sed indiget materia, cum sit talis forma, quae per se non subsistit. Nihil ergo prohibet esse aliquam formam a materia separatam, quae habeat esse, et esse sit in huiusmodi forma. Ipsa enim essentia formae comparatur ad esse sicut potentia ad proprium actum. Et ita in formis per se subsistentibus invenitur et potentia et actus, in quantum ipsum esse est actus formae subsistentis, quae non est suum esse. Si autem aliqua res sit quae sit suum esse, quod proprium Dei est, non est ibi potentia et actus, sed actus purus. Et hinc est quod Boetius dicit in lib. de Hebdomadibus, quod in aliis quae sunt post Deum, differt esse et quod est; vel, sicut quidam dicunt, quod est et quo est. Nam ipsum esse est quo aliquid est, sicut cursus est quo aliquis currit. Cum igitur anima sit quaedam forma per se subsistens, potest esse in ea compositio actus et potentiae, id est esse et quod est, non autem compositio materiae et formae». ↩︎
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Ci sembra ottima la terminologia di U. Meixner, «Aquinas on the Essential Composition of Object», in Freiburger Zeitschrift fur Philosophie und Theologie, 38 (1991), 317-50, qui 318: pure substantial form e actuating substantial form per distinguere la forma in quanto elemento metafisico costitutivo e in quanto mediatore dell’esse per la materia onde costituire una sostanza individuale completa ed esistente. Questo saggio, poi proseguito in U. Meixner, «Aquinas on Forms, Individuation and Matter», in Freiburger Zeitschrift fur Philosophie und Theologie, 43 (1996), 45-64, è un interessantissimo e originale saggio di formalizzazione di alcuni settori della metafisica tomista. ↩︎
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La datazione di quest’opera è 1267-68. ↩︎
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Devo questa interessante denominazione a G. Savagnone, curatore della recente edizione domenicana della Quaestio disputata de Anima e della Quaestio disputata de spiritualibus creaturis. ↩︎
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È databile, infatti, al 1271-73. ↩︎
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Cfr. De An., III, 7, 431 b 19. Alla lettera in questo passo il Filosofo promette di occuparsi della conoscenza intellettiva delle realtà separate dalla materia, pur non essendo l’intelletto separato dall’estensione. ↩︎
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Cfr. Tommaso d’Aquino, Opuscoli filosofici. L’ente e l’essenza, l’unità dell’intelletto, le sostanze separate, traduzione, introduzione e note a cura di A. Lobato, Città Nuova, Roma 1989, 185-201, nn. 40-82. ↩︎
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Cfr. Metaphys., II, 2, 993 b 24-31. È il testo alla base della quarta via della Summa theologiae. ↩︎
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Sarà ancora il medesimo autore delle condanne del 7 marzo 1277, nelle quali sarà coinvolto, sebbene in modo indiretto e postumo, anche Tommaso per la tesi dell’unicità della forma sostanziale e dell’impossibilità per Dio di creare una materia senza forma; cfr. J.-P. Torrell, Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo, op. cit., 335s., specie nota 21. ↩︎
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Non ci pare aggiungano ulteriori elementi importanti le considerazioni svolte brevemente in altre opere: De ente, c. 4; QDP, q. 6, a. 6, ad 4; Super Boetium De Trinitate, q. 5, a. 4, ad 4; Expositio in librum Boetii De hebdomadibus, c. 2, testo peraltro fondamentale sulla dottrina della partecipazione dell’esse; e Compendium Theologiae, l. I, c. 74. Ci esimiamo perciò dall’esaminarli. ↩︎