Jan Patočka, Che cos’è la fenomenologia? Movimento, mondo, corpo, a cura di G. Di Salvatore, Fondazione Centro Studi Campostrini, Verona 2010.
La figura di Jan Patočka (1907-1977) è stata a lungo nota al pubblico italiano soprattutto per la sue vicende biografiche e politiche: da sempre inviso al regime cecoslovacco e per questo costretto a un sostanziale isolamento intellettuale, Patočka fu tra i principali promotori del documento dissidente «Charta 77» e morì in carcere in seguito ai duri interrogatori cui fu sottoposto dalla polizia. Tranne qualche sporadica iniziativa, a lungo è invece mancato uno studio approfondito della sua filosofia e in particolare di quello che ne costituisce il nucleo centrale e ispiratore, vale a dire la sua riflessione fenomenologica. Dopo il soggiorno a Friburgo nel 1933, in cui ebbe il proprio incontro umano e intellettuale con Husserl, Heidegger e Fink, Patočka ritorna tematicamente sulla fenomenologia a partire dall’inizio degli anni Sessanta, nel tentativo di elaborarne una nuova versione che insieme rilanci le domande dei suoi maestri e ne superi le difficoltà. Questo progetto, interrotto bruscamente dalla morte di Patočka, si è tuttavia sedimentato in una serie di saggi, corsi universitari e manoscritti di ricerca di grande interesse, che in ambito tedesco e soprattutto in ambito francese sono già stati abbondantemente tradotti e discussi. Da qualche anno a questa parte, tuttavia, anche nel panorama intellettuale italiano diversi segnali sembrano indicare l’emergere di un interesse concreto per il pensiero del fenomenologo ceco: se nel 2008 è stata pubblicata per Einaudi una nuova edizione dei Saggi eretici sulla filosofia della storia a cura di Mauro Carbone, una prima piccola raccolta di quattro testi fenomenologici di Patočka è stata realizzata con il volume Il mondo naturale e la fenomenologia (a cura di A. Pantano, Mimesis, Milano 2003). Ma un contributo decisivo per lo studio della fenomenologia di Patočka è ora apportato dalla pubblicazione di un’ampia raccolta intitolata Che cos’è la fenomenologia? Movimento, mondo, corpo (Fondazione Centro Studi Campostrini, Verona 2010): il volume è curato da Giuseppe Di Salvatore (che ne ha scritto la prefazione e ha realizzato la traduzione dei testi con la collaborazione di E. Novakova e M. Fuèikova) ed è arricchito dalla presenza di una postfazione di Renaud Barbaras, che è oggi uno dei principali studiosi di Patočka e soprattutto uno dei filosofi che ne hanno rilanciato in modo originale le questioni teoriche. Da un punto di vista generale, la raccolta Che cos’è la fenomenologia? presenta due meriti essenziali: da un lato rafforza la base testuale imprescindibile per ogni discussione rendendo finalmente accessibile al lettore italiano una quantità notevole di testi fenomenologici di Patočka (si tratta di 13 saggi o manoscritti di ricerca risalenti tutti quanti — ad eccezione del primo — agli anni Sessanta-Settanta e divisi in tre parti tematiche); dall’altro lato, Di Salvatore non si è limitato a dare questo contributo «materiale» e «quantitativo», ma lo ha inserito all’interno di un volume curato e pregevole, per la selezione dei testi guidata da determinati criteri interpretativi, per la qualità della prefazione e della postfazione che aiutano il lettore a inquadrare la figura di Patočka e a orientarsi nel carattere frammentario della sua produzione, per le ricche note di traduzione e note ai testi che completano il volume. Un primo criterio utilizzato per la selezione dei testi può essere richiamato fin d’ora: come segnalato esplicitamente nella prefazione (pp. 17-19), sono stati privilegiati testi che restituiscano il più possibile il lavoro fenomenologico concreto di Patočka, compresi i suoi aspetti più tecnici, minuti o incompiuti, e questo anche nell’intento dichiarato di trovarvi il supporto teorico di quello che Di Salvatore definisce l’aspetto «metafilosofico» dell’opera di Patočka, vale a dire le sue riflessioni sul senso della storia e dell’esistenza umana, sulla cultura e sull’Europa, che risulterebbero altrimenti sospese in un discorso indeterminato e poco fondato; questa opzione è del resto fatta valere sia come chiave interpretativa dell’opera di Patočka, sia con un intento polemico più generale verso quelle filosofie che indulgono troppo spesso in discorsi generici sulle grandi categorie. Questa scelta e le ragioni che l’hanno motivata ci sembrano del tutto condivisibili, malgrado qualche perplessità sull’uso del termine «metafilosofico» (che in un passaggio diventa anche «non strettamente filosofic [o] », p. 17) per indicare certi ambiti del pensiero, e fermo restando che, almeno per quel che ci riguarda, quegli ambiti andrebbero non tralasciati o espulsi, ma per l’appunto ricompresi adeguatamente.
Per far emergere gli altri criteri che hanno guidato la composizione della raccolta è necessario inoltrarsi, sia pure in modo sintetico, nel merito dei testi di Patočka qui presentati, a partire da quelli della prima parte riuniti attorno al concetto chiave di movimento. Quest’ultimo svolge infatti un ruolo centrale e fondante, tanto che la scelta e l’ordinamento dei testi di Che cos’è la fenomenologia? è «diretta conseguenza di una tesi interpretativa forte rispetto alla fenomenologia di Patočka: la sua formulazione matura della fenomenologia può essere compresa in tutta la sua portata solo a partire da una riflessione approfondita sulla nozione di movimento, quindi di corpo e di mondo» (p. 14). Il tema del movimento va compreso innanzitutto a partire dal confronto di Patočka con l’eredità aristotelica, testimoniato qui in particolare dal testo n. 2: Patočka riprende la definizione della kinesis come realizzazione di possibilità, ne sottolinea il carattere unitario, orientato, insieme pre-soggettivo e pre-oggettivo, e soprattutto ne approfondisce la valenza ontologica e manifestativa, giungendo ad affermare che «il movimento è il fondamento di ogni manifestazione» (p. 53) ed è «ciò che fonda l’identità dell’essere e del manifestarsi» (p. 54). Questa radicalizzazione della kinesis diventa così per Patočka il punto di partenza per realizzare uno degli elementi cardine della sua fenomenologia, vale a dire il tentativo di pensare l’esistenza stessa come movimento, elaborando una concezione radicalmente dinamica del soggetto intenzionale: sotto l’influenza di Heidegger e in particolare della sua concezione della temporalità, il concetto aristotelico di movimento viene a sua volta de-sostanzializzato ovvero sottoposto a critica per la permanenza in esso di un sostrato sostanziale; ma, prendendo le distanze dalla disincarnazione dell’esserci heideggeriano, Patočka sottolinea che concepire l’esistenza come movimento implica essenzialmente pensarla anche come corporeità, più precisamente porre la corporeità soggettiva come luogo costitutivo del relazionarsi dell’io al mondo e del farsi-fenomeno del mondo per l’io (cfr. in particolare il testo n. 5); il corpo a sua volta viene dunque non semplicemente aggiunto all’io come un pezzo di materia, ma indagato a partire dal modo di essere dinamico che lo costituisce e che lo correla alla manifestazione. Si può dire che Patočka cerca di mettere in luce il movimento dell’esistenza nel duplice senso del genitivo: il movimento che costituisce l’esistenza stessa (il movimento «genetico» in cui l’esistenza giunge a costituirsi e a divenire quello che è) e i movimenti che l’esistenza realizza nel suo rapporto al mondo; è in questo quadro teorico che può così essere compresa anche la teoria dei tre movimenti fondamentali dell’esistenza (su cui Patočka torna in numerosi saggi e che è qui esemplificata nel testo n. 3), che rappresentano le modalità essenziali in cui l’io realizza di volta in volta il proprio rapporto temporale, corporeo e intersoggettivo al mondo in cui è inserito. La scelta di fare del movimento il tema cardine di questa raccolta appare dunque pienamente motivata, dal momento che proprio questa radicalizzazione del movimento rappresenta il principio ispiratore e vivificante di molte analisi di Patočka e permette di ridefinire la correlazione intenzionale tra io e mondo nella sua interezza. Da un lato, come sottolinea Barbaras nella sua postfazione, la concezione dell’esistenza come movimento permette infatti a Patočka di pensare insieme la differenza dell’esistenza intenzionale rispetto agli altri enti (il movimento sancisce il suo essere originale, irriducibile a ogni reificazione e a ogni oggettività, perché è il modo stesso con cui l’esistenza si apre al mondo per lasciarlo apparire) e la sua appartenenza al mondo (l’esistenza in quanto movimento e dunque in quanto corporea non è un soggetto extra-mondano, ma è essa stessa inscritta e inglobata nel mondo come totalità). Dall’altro lato, se il movimento struttura l’intera correlazione intenzionale è anche perché in realtà esso non si limita a caratterizzare l’esistenza, ma assume agli occhi di Patočka una funzione ancora più ampia: pensare l’esistenza come movimento significa anche chiedersi che cosa fa sì che si possa parlare di movimento sia in riferimento a noi sia in riferimento alle cose e, quindi, più in profondità, aprirsi a vedere nel movimento il termine medio che correla l’apertura dell’io e la manifestazione degli enti; il movimento dell’esistenza rimanda dunque a un movimento più originario che non è altro che il venire alla manifestazione e il processo di realizzazione dei fenomeni. Se c’è un movimento dei fenomeni e con essi del mondo stesso, l’analisi dell’esistenza si radica allora in una cosmologia, nel quadro complessivo di un’ontologia fenomenologica che si fonda sul concetto onto-genetico di movimento come realizzazione.
Il tema del movimento così interpretato si articola concretamente, come abbiamo accennato, nelle questioni del corpo e del mondo, a cui sono infatti dedicati i testi raccolti nella seconda parte del volume. Proprio il concetto di mondo come totalità svolge un ruolo centrale nella fenomenologia di Patočka, che cerca di chiarirne lo statuto in numerosi testi, tra cui quello presentato nella raccolta come n. 6: il mondo non è la semplice somma degli enti, né qualcosa dotato di un grado di certezza minore rispetto all’io, ma è totalità originaria e irriducibile, onni-inglobante ed essenzialmente temporale, totalità mai totalizzabile in un’intuizione e tuttavia apriori concreto compresente in ogni singolo fenomeno. La fenomenologia di Patočka si configura così per molti aspetti come una cosmologia fenomenologica che fa del mondo il luogo autentico dell’apparire, tanto che si potrebbe affermare che il «risultato» dell’epoché è per Patočka non la coscienza, ma il mondo nel suo senso originario: «nessun singolo ente può essere esperito al di fuori di questa connessione che rappresenta l’a priori costante e fondamentale di ogni esperienza», ma anche «la condizione di ogni ente singolo nel suo essere singolo. Così, la forma-del-mondo dell’esperienza è anche ciò che rende possibile un’esperienza del mondo» (p. 137). Patočka approfondisce ulteriormente l’essenza del mondo caratterizzandolo come «campo di possibilità» (cfr. testo n. 9): il mondo non è una vuota apertura inerte da contemplare, ma un campo strutturato di possibilità; non di possibilità meramente rappresentate, ma di possibilità effettive, «ontologiche»; non di possibilità che io creo o progetto, ma di possibilità che mi sono date e che mi aprono a me stesso collocandomi nella mia situazione. Secondo l’eccellente formula dello stesso Patočka, «il tempo come av-venire è l’essenza del mondo — l’essere come totalità di possibilità che avvengono a noi, il quale apre la nostra situazione, e con essa le altre cose» (p. 226). A questo campo di possibilità corrisponde dunque un io che è essenzialmente agente (che corrisponde alle possibilità agendo e realizzandole, che diviene sé e si sceglie nell’azione) e corporeo (perché non c’è prassi senza corporeità: è proprio in quanto corporeo che l’io è realizzatore delle possibilità che riceve). Il tema del corpo (come Leib) è sicuramente una delle eredità husserliane che Patočka non cessa di riprendere e di variare e si lega a sua volta, sempre husserlianamente, a un’altra questione fondamentale, vale a dire il costituirsi del rapporto all’altro (cfr. testo n. 8). Le analisi di Patočka ci sembrano qui apportare un contributo significativo anche alla descrizione più concreta di questi problemi, ad esempio con la distinzione tra corpo-soggetto e corpo-oggetto, dove quest’ultimo non è il Körper come corpo oggettivato scientificamente o corpo delle cose, ma il mio stesso «corpo proprio» in quanto oggetto nel rapporto con l’altro: io e l’altro ci con-costituiamo reciprocamente, nel rispecchiamento infinito dei nostri corpi e nell’infinita reversibilità tra corpo-soggetto e corpo-oggetto; rispecchiamento e reversibilità che testimoniano della loro inscrizione nel campo asoggettivo e preliminare del mondo, come «spazio» primordiale in cui anche la relazione intersoggettiva può costituirsi e svilupparsi.
La terza parte del volume raccoglie testi di carattere più generale in cui Patočka riflette tematicamente sul senso, la collocazione storica e la definizione della fenomenologia; il fatto che questi saggi siano collocati in ultima posizione ci sembra rispondere alla volontà di mostrare come le affermazioni più programmatiche non siano per così dire isolate e sospese nel vuoto, ma emergano e si giustifichino effettivamente a partire dalle concrete analisi esperienziali condotte nei testi precedenti. È in particolare nei saggi n. 11 e 12 che Patočka delinea, per contrasto con il «soggettivismo della fenomenologia husserliana», il progetto di una «fenomenologia asoggettiva». Quest’ultima formulazione deve tuttavia essere subito sottratta ai possibili equivoci che può suscitare: «fenomenologia asoggettiva» non significa né eliminazione del ruolo del soggetto, né indifferenza per un’analisi filosofica di esso, ma subordinazione del soggetto stesso alla priorità della correlazione fenomenologica, dunque a un piano dell’apparire più originario rispetto al quale «il soggetto nel suo apparire è un “risultato” nella stessa misura che tutto il resto» (p. 233). Secondo la lettura di Patočka, Husserl finisce con l’offuscare la sua stessa scoperta riconducendo il piano dell’apparire a quell’ente peculiare che è la coscienza e operando così una indebita soggettivazione del campo fenomenale, interpretato nelle sue strutture come risultato di effettuazioni intenzionali soggettive. Rispetto a questo esito, per Patočka bisogna salvaguardare l’intento più profondo e originario della fenomenologia, cercando di accedere mediante l’epoché a un piano dell’apparire in quanto tale «che non può essere ridotto a nessun ente che appare al suo interno e che è perciò impossibile spiegare a partire dall’ente, che quest’ultimo sia di una specie naturalmente oggettiva o egologicamente soggettiva» (pp. 303-304). Questo campo fenomenale include in sé l’ego come una sua componente insieme necessaria e subordinata, perché la struttura dell’apparire implica sempre la correlazione tra «ciò che appare» e «colui al quale l’apparente appare», ma quest’ultimo non produce, effettua o «costituisce» ciò che gli appare. Il che non significherà sminuire in qualche modo il ruolo dell’uomo, ma interrogarlo più profondamente a partire dalla sua libertà finita e dal suo radicamento nel mondo, alla luce della responsabilità che gli deriva dal fatto di essere «il destinatario dell’apparizione» (p. 226): è qui che si potrà trovare l’anello di congiunzione tra queste analisi fenomenologiche apparentemente rarefatte e le riflessioni di carattere etico-storico di Patočka sul senso della civiltà occidentale e sulla «cura dell’anima». È inoltre a questo livello — vale a dire in questa de-soggettivazione della fenomenologia che risalga a un campo fenomenale non-ontico, pre-soggettivo e pre-oggettivo — che si fa più evidente l’influenza di Heidegger; e nel testo n. 13, che dà il titolo alla raccolta, si può anche apprezzare la lucidità interpretativa con cui Patočka cerca di ricostruire gli interrogativi e i passaggi concettuali che possono condurre in modo immanente dall’impostazione trascendentale di Husserl a quella ontologica heideggeriana.
Quello a cui questa pubblicazione ci consente di cominciare ad accedere è dunque un cantiere fenomenologico ricco e dinamico, che, come ogni autentica fenomenologia, fa trapassare le analisi descrittive concrete nella loro interpretazione teorica più generale e viceversa, cercando di mostrare come l’io e il mondo si articolino tra loro in virtù del movimento asoggettivo che li porta entrambi ad apparire e li pone nella loro inesauribile correlazione. Si tratta di una delle numerose «eresie» che hanno costellato la storia della fenomenologia, un’eresia che ha tuttavia la peculiarità paradossale di rivendicare esplicitamente un’unità di fondo della fenomenologia e della sua ispirazione filosofica; dove questa unità consisterà forse non tanto in un corpus statico e monolitico di dottrine, quanto proprio nel fatto che la fenomenologia «non è un sistema chiuso», ma «una filosofia aperta», «una filosofia che in un certo modo ricomincia ogni volta da capo» (pp. 215-216).