Nella sua riflessione, Michael Dummett ha sempre posto in primo piano l’analisi del significato. Quest’impostazione gli deriva dalla lettura di Frege, che lui stesso ha definitivamente consacrato come figura di primo piano. Anche se oggi qualcuno mette in dubbio il valore di Frege — anche tra coloro che ne hanno ereditato, per così dire, la tradizione — rimane il fatto che l’interpretazione di Dummett non solo costituisce il punto di riferimento per un’adeguata presentazione del filosofo tedesco, ma rappresenta anche un indispensabile momento di confronto per chiunque voglia occuparsi della filosofia cosiddetta «analitica».
La definizione di questo indirizzo è stata oggetto di riflessioni non sempre illuminanti: la distinzione tra analitici e continentali non ha l’efficacia che potrebbe avere, dato che tende a mettere in due gruppi contrapposti filosofi che, molto spesso, hanno i loro principali punti di confronto con gli appartenenti alla stessa scuola. Più che sancire due approcci a confronto, la distinzione finisce per indicare due mondi che raramente tengono conto delle posizioni opposte: due gruppi quasi estranei tra loro, piuttosto che due partiti impegnati nella conquista della sovranità sulla nazione dei filosofi.
In effetti, è proprio tra gli altri membri della scuola «analitica» che Dummett trova gli interlocutori più agguerriti e anche più polemici. In questa sede, non mi interessa stabilire chi abbia ragione su questioni come il significato dei nomi propri, la realtà del passato o l’esistenza di Dio: vorrei guardare al rapporto tra significato e conoscenza, per giustificare l’idea che la realtà abbia una dimensione epistemica e che questo non viola il primato dell’analisi del significato.1
1. Significato e verità
Il primato dell’analisi del significato viene da Dummett ricondotto a Frege: in particolare, esso riguarda il principio del contesto, formulato a più riprese da Frege nei Fondamenti dell’aritmetica, dove è utilizzato per costruire la risposta alla domanda «come ci sono dati i numeri? ». In questo modo La chiave del programma fregeano è l’analisi degli enunciati che facciamo intorno ai numeri2: con questa scelta Frege concentra la sua attenzione sugli enunciati in cui parliamo di numeri: il problema fondamentale non è più gnoseologico ma logico e semantico. Da qui, negli anni successivi, Frege proporrà la celebre distinzione tra senso e significato, quella che secondo Dummett rappresenta il primo abbozzo di una «teoria del significato» [theory of meaning] . Tale teoria riguarda, a un livello generale, nozioni come significato, verità ecc., colte nei loro rapporti reciproci. Ad essa si deve affiancare una teoria-del-significato [meaning-theory], volta a spiegare in che cosa consista conoscere il significato di un enunciato.3
A questa idea si affianca la riflessione sul realismo. Secondo il filosofo inglese, si può definire una caratteristica comune a tutti le argomentazioni in favore del realismo: il punto è la possibilità o meno di accettare il principio di bivalenza (l’idea che un enunciato p sia o vero o falso) per una data classe di enunciati. Il realismo equivale all’accettazione del principio e l’antirealismo al rifiuto: in questo modo, si ha una caratterizzazione semantica molto semplice di che cosa comporta essere realisti relativamente a qualche porzione di realtà (oppure rispetto alla realtà tutta intera, se si pensa che il principio di bivalenza abbia validità universale). Ciò equivale a riconoscere, da un punto di vista teorico, una caratteristica intuitiva: se dico qualcosa riguardo alla realtà intorno a me, questo enunciato è o vero o falso, a seconda di come stanno le cose.
Una caratteristica notevole dell’analisi della nozione di verità è la grande distanza che su questo punto separa Frege da Dummett. Per Frege la verità è un primitivo impossibile da analizzare: la logica studia le leggi dell’esser vero, ma il predicato «vero» non è esso stesso sottoponibile a un’indagine logica. Dummett opera invece in un quadro post-tarskiano, avendo a disposizione un metodo per definire la proprietà dell’esser vero in un determinato linguaggio formale.4 Il suo problema è, quindi, non tanto quello di rinvenire le leggi dell’esser vero a partire da una riflessione sul rapporto di questa nozione con il pensiero, ma di interpretare il predicato «vero» tenendo conto sia dei linguaggi naturali sia dei linguaggi formali nei quali il predicato stesso è introdotto. L’indagine, secondo il metodo della teoria del significato, cerca di chiarire il ruolo possibile della nozione di verità all’interno di una teoria-del-significato.
Per quanto riguarda la teoria-del-significato, Dummett sottolinea che è possibile dare alla verità un ruolo forte oppure debole.5 Nel primo caso, abbiamo una semantica classica che adotta il principio di bivalenza, cioè l’esistenza di due soli valori di verità. Il valore semantico di un enunciato viene identificato con il suo valore di verità e l’interpretazione del linguaggio è di tipo diretto, con la semantica del linguaggio oggetto dotata della stessa logica del metalinguaggio. Contro una simile concezione della verità Dummett ha prodotto un argomento assai noto, basato sul principio di manifestabilità, secondo il quale è impossibile manifestare la conoscenza del significato degli enunciati indecidibili, in quanto non potremo mai conoscere il loro valore di verità. Il ruolo debole della verità all’interno di una teoria-del-significato la presenta come una proprietà centrale degli enunciati, senza per questo identificarla con il valore semantico degli stessi. Per illustrare il suo punto di vista, Dummett propone una proporzione secondo la quale la verità sta al significato come una strategia vincente ad un gioco,6 sottolineando in tal modo la natura costruttiva della sua nozione di verità.
Per comprendere meglio l’origine del concetto di verità, dobbiamo fare riferimento all’atto linguistico dell’asserzione. Nel momento in cui asserisco qualcosa, il criterio fondamentale di valutazione riguarda la correttezza o la scorrettezza di quanto sto dicendo e la mia capacità di riconoscere tali proprietà (un altro criterio collegato al primo è l’esistenza di ragioni per asserire l’enunciato in questione). Il concetto di verità sorge come generalizzazione di questa pratica linguistica: esso però non può essere ridotto ad essa, come dimostra il caso del cosiddetto «paradosso dell’inferenza». La soluzione sta nel distinguere la verità dal riconoscimento di essa: il fatto che la verità della conclusione derivi dalla verità delle premesse può essere informativo per me, se fino a quel momento non mi ero reso conto dell’implicazione che le legava.
Prima di procedere oltre, è bene esaminare in modo sommario l’argomento antirealista di Dummett. Si tratta di un argomento controverso, sulla cui struttura e portata lo stesso autore ha mostrato dei dubbi. Come abbiamo detto, l’argomento sfrutta il requisito di manifestabilità per concludere che nel caso di un enunciato indecidibile questo requisito viene violato. La verità intesa classicamente è, infatti, completamente indipendente dalla capacità che i parlanti hanno di riconoscerla: nel caso di un enunciato indecidibile, identificare il valore semantico degli enunciati con il loro valore di verità classicamente determinato significa rendere il significato non manifestabile (in quanto il valore di verità dell’enunciato è per definizione impossibile da determinare). Il risultato è che l’enunciato dovrebbe essere considerato incomprensibile, ma ciò va contro l’intuizione (proprio perché capiamo l’enunciato sappiamo che è impossibile decidere il suo valore di verità).
Una ricostruzione interessante dell’argomento è stata proposta da Usberti e discussa da Casalegno.7 Seguendo la semplificazione di Casalegno, l’argomento può essere così ricostruito8:
(1) Esistono enunciati indecidibili.
(2) Se un enunciato E è indecidibile, allora un parlante non è in grado di riconoscere se le condizioni di verità di E siano soddisfatte o meno.
(3) Esistono enunciati tali che un parlante non è in grado di riconoscere se le loro condizioni di verità siano soddisfatte o meno. [da (1) e da (2)]
(4) Se un parlante P non è in grado di riconoscere se le condizioni di verità di un enunciato E siano soddisfatte o meno, allora la conoscenza delle condizioni di verità di E non può manifestarsi compiutamente nel modo in cui P usa il linguaggio.
(5) Esistono enunciati la conoscenza delle cui condizioni di verità non può manifestarsi compiutamente nel modo in cui un parlante usa il linguaggio [da (3) e da (4)]
Secondo Usberti, non funziona il passaggio da (3) a (5), in quanto (4) non va accettata. In linea di principio, infatti, è possibile che un parlante P conosca le condizioni di verità di un enunciato E, senza avere tuttavia a disposizione un metodo per stabilire il valore di verità di E. Casalegno ribatte che per Dummett il modo in cui manifestare la conoscenza delle condizioni di verità di E è la capacità di usare l’enunciato correttamente (e cioè asserirlo se è vero oppure asserire la sua negazione se è falso). Secondo Casalegno, il passaggio problematico è invece quello da (1) a (3), in quanto esso presuppone un’interpretazione forte del requisito di manifestabilità, ossia un’interpretazione che rende il requisito stesso decidibile: dire che la conoscenza del significato deve essere manifestabile equivale, sotto questa interpretazione, a richiedere che ci sia un metodo effettivo per stabilire se un parlante P conosce il significato di E. In altre parole, (2) significa:
(2’) Se un enunciato E è indecidibile, allora non esiste un metodo (effettivo) per determinare se un parlante sia in grado di riconoscere se le condizioni di verità di E siano soddisfatte o meno.
Questo equivale a richiedere che la conoscenza del significato di un enunciato sia essa stessa una proprietà decidibile, il che rende vulnerabile lo stesso Dummett alla sua critica. Infatti, se la conoscenza del significato deve essere decidibile, deve essere decidibile, dal punto di vista di Dummett, se un dato parlante è in grado di verificare direttamente un enunciato o meno. In altre parole, data una qualsiasi verifica di un enunciato, il parlante dovrebbe essere in grado di decidere se essa è una verifica dell’enunciato oppure no. È chiaro che a questo punto possiamo riformulare l’argomento antirealista di Dummett contro Dummett stesso:
(1) Esistono enunciati indecidibili.
(2) Se un enunciato E è indecidibile, allora un parlante non è in grado di riconoscere se le condizioni di verificabilità di E siano soddisfatte o meno.
(3) Esistono enunciati tali che un parlante non è in grado di riconoscere se le loro condizioni di verificabilità siano soddisfatte o meno. [da (1) e da (2)]
(4) Se un parlante P non è in grado di riconoscere se le condizioni di verificabilità di un enunciato E siano soddisfatte o meno, allora la conoscenza delle condizioni di verificabilità di E non può manifestarsi compiutamente nel modo in cui P usa il linguaggio.
(5) Esistono enunciati la conoscenza delle cui condizioni di verificabilità non può manifestarsi compiutamente nel modo in cui un parlante usa il linguaggio [da (3) e da (4)]
Un’interpretazione forte del requisito di manifestabilità ci obbliga a scindere il significato dalle condizioni di verità, a prescindere dal modo in cui si determinano le condizioni di verità dell’enunciato. Ciò che l’argomento evidenzia, insomma, è che non è possibile considerare come decidibile la proprietà metalinguistica «essere in grado di riconoscere se le condizioni di verità siano soddisfatte o meno», per una qualsiasi interpretazione dell’espressione «condizioni di verità».
Alla critica della nozione di verità da un punto di vista verificazionistico si può quindi rispondere con una critica del verificazionismo, che ne mette in luce un limite intrinseco. Si tratta di una difficoltà analoga a quella messa in luce da Moriconi e Napoli9: la nozione di dimostrazione canonica di Prawitz richiede, per una sua completa giustificazione, l’assunzione che A è vero se e solo se esiste una derivazione normale di A. Se traduciamo la verità nella dimostrabilità, abbiamo per così dire bisogno di garantire tale dimostrabilità a priori.
Anche se è possibile tentare una riformulazione dell’argomento di Dummett che mette comunque in difficoltà il realista, rimane da chiarire un’interpretazione accettabile del requisito di manifestabilità. Sorge il dubbio, però, che non si possa fare a meno di una nozione realista di verità, o, più correttamente, che non sia plausibile rivedere in senso antirealista la nozione di verità che adoperiamo nel linguaggio quotidiano.
2. Verità e verificabilità
Prendiamo in esame l’idea che bisogna distinguere la verità dal riconoscimento di essa da parte di un parlante. Di per sé, questa conclusione è neutra: essa è accettata dal realista (che sottolinea l’esistenza di un profondo iato tra la verità e la nostra capacità di riconoscerla come tale), ma anche dall’antirealista, purché gli venga fornita una specificazione soddisfacente della verità in termini non classici. Il problema, quindi, è sostanzialmente quello di stabilire in quale punto tracciare la linea, per conservare l’intuizione sulla verità e mantenere al contempo la posizione antirealista. La cosa non è facile, come dimostrano le considerazioni su sistemi a più valori di verità con un insieme di valori designati corrispondenti al valore ‘vero’ di un sistema bivalente.
Questi sistemi, sottolinea Dummett a più riprese in The Logical Basis of Metaphysics,10 non presentano effettive differenze rispetto alla logica classica dal punto di vista della nozione di verità impiegata. In realtà, essi rappresentano un modo più raffinato di trattare con una nozione di verità determinata, utile, ad esempio, nel caso di enunciati complessi contenenti l’operatore di negazione. La differenza essenziale rimane quella tra vero e non vero: intuitivamente, potremmo dire che questi sistemi introducono un terzo valore di verità, che però viene inteso allo stesso modo dei valori di verità nella logica classica. Per un intuizionista, invece, si tratta essenzialmente di avere delle ragioni per una posizione o per l’altra, di poter dimostrare che una cosa è vera oppure non lo è. Non sorprende pertanto che dal suo punto di vista la differenza tra la logica classica e logiche a più valori con un valore designato sia minima: la modifica del sistema a due valori operata da quelle logiche, infatti, mantiene la stessa concezione fondamentale della verità. Il problema è che l’intuizionista si muove in un mondo (quello della matematica) nel quale è relativamente facile definire procedure rigorose di dimostrazione, mentre i contesti del linguaggio naturale presentano una serie di difficoltà in questo ambito. La cosa più importante, però, è che la nozione di verità usata tutti i giorni è una nozione originariamente realista: essa sorge proprio nel momento in cui si voglia distinguere tra il fatto che una cosa è vera e l’atteggiamento soggettivo di un parlante/ascoltatore. La transizione verso una concezione antirealista della verità sembra pertanto piuttosto difficile, specialmente quando il paradigma sia quello dell’intuizionismo.
Un’alternativa potrebbe essere quella di una funzione di verità parziale, che ammettesse cioè l’esistenza di enunciati non classificabili in base al valore di verità. Si noti che questo non equivale a un sistema a tre valori di verità (vero, falso, né vero né falso): i valori di verità rimangono due, ma non è possibile attribuirne uno a ciascun enunciato (ci sono enunciati che non riusciamo a classificare, mentre nella logica a tre valori tutti gli enunciati ricevono uno dei tre valori previsti). Una funzione di verità siffatta rappresenta, in realtà, una soluzione solamente apparente. Per gli enunciati ai quali viene attribuito un valore di verità si ripropone infatti il problema del modo in cui determinare questo valore. Se sono ammessi procedimenti deduttivi validi solo classicamente, ci troviamo ancora una volta di fronte a un sistema realista. Se invece adottiamo una concezione della verità simile a quella intuizionistica (per esempio, una prova di «a oppure b» equivale a possedere una prova di «a» oppure di «b»), abbiamo un sistema intuizionistico che si adatta al linguaggio naturale, ma ci troviamo di fronte a un certo numero di enunciati che non ha più un valore di verità (per esempio, molti enunciati riguardanti il passato che non possono essere né dimostrati né confutati) .11
In una risposta a un saggio di Prawitz, Dummett descrive in modo molto succinto la propria oscillazione tra due modi diversi di intendere la verità,12 uno più adatto al linguaggio della matematica e un altro tipico, invece, di un linguaggio capace di parlare della realtà empirica. Nel caso del linguaggio della matematica, si può fare a meno di una nozione di verità che sia più forte dell’interpretazione ridondantista di Ramsey. Il matematico può benissimo accontentarsi di dimostrare con metodi costruttivi una qualsiasi proposizione matematica. La disponibilità di una simile dimostrazione per chiunque voglia farne uso è sufficiente, secondo Dummett, a caratterizzare compiutamente ogni aspetto della pratica matematica, ivi compreso il significato degli enunciati. In questo ambito, una possibile alternativa all’approccio verificazionista o ridondantista consiste nell’ammettere una nozione più robusta di verità, che identifichi la verità di una proposizione matematica con l’esistenza di una dimostrazione, indipendentemente dal fatto che qualcuno sia a conoscenza di una simile dimostrazione. Dummett fa notare che il ricorso a una simile nozione di verità è bloccato, se si permette il ricorso a verifiche indirette di una proposizione solo nel caso in cui esse rappresentino un metodo per reperire una verifica diretta.
Le cose stanno diversamente nel caso di un linguaggio naturale. In questo caso, infatti, il ricorso a una nozione di verità classicamente intesa appare pressoché irresistibile. Nel caso della realtà empirica il possesso di una verifica indiretta non assicura che si possa trovare una verifica diretta, ma solo che «si sarebbe potuta trovare»13 una verifica del genere, a causa dei limiti spazio-temporali della realtà empirica. Ci troviamo pertanto di fronte a un dilemma: o accettiamo l’idea che ci siano dei fatti empirici [facts of the matter] che assicurano una risposta determinata alla domanda se un enunciato è vero o meno, anche se non possiamo verificarlo direttamente, oppure rinunciamo alle verifiche indirette per le proposizioni empiriche, il che di fatto equivale a rinunciare ad applicare loro il ragionamento deduttivo. Dummett conclude la discussione confessando di non avere le idee chiare circa quest’alternativa.
Il risultato raggiunto alla fine della sezione precedente, per cui l’argomento antirealista di Dummett può essere interpretato come un argomento a favore della totale indipendenza del significato dalle condizioni di verità, comunque determinate, può essere visto come una sconfitta del suo programma di ricerca. Allo stesso modo, la sua difficoltà nello scegliere una nozione di verità che lo soddisfi può esser considerata la prova di un’incertezza di fondo della sua impostazione. Il cuore di tale posizione riguarda però la necessità, anche nei confronti del realismo e della logica classica, di puntare a una chiarezza nel significato, affinché posizioni contrapposte siano messe davvero in grado di dialogare l’una con l’altra.14 La preminenza dell’analisi del significato non comporta, di per sé, l’adozione dell’anti-realismo: ciò che sta a cuore a Dummett è infatti, prima di tutto, la possibilità di mettere in dialogo le due posizioni, di rendere chiara la posta in gioco.
3. Antirealismo e naturalismo
L’interesse per il pensiero di Dummett ha coinciso spesso con l’interesse per l’argomento antirealista, che ha portato molti a considerare Dummett un antirealista convinto. Tuttavia, è possibile citare una vera e propria messe di luoghi nei quali egli rifiuta la qualifica di antirealista e sottolinea il carattere esplorativo del suo lavoro.15 In realtà, Dummett si è generalmente presentato come una persona interessata a stabilire se sia possibile sostenere un certo tipo di argomentazione contro il realismo, avendo egli stesso presenti le difficoltà che affliggono una posizione antirealista. La cosa più importante, tuttavia, è che per sua esplicita ammissione egli non mira a «convincerci» che il realista ha torto e l’antirealista ha ragione.16 Una simile ammissione fa uno strano effetto quando si ricordi che Dummett ha dedicato gran parte del suo lavoro a giustificare quelli che sembrano pezzi importanti della sua argomentazione antirealista. Se il suo scopo dichiarato non è quello di convincerci circa l’antirealismo, dobbiamo cercare altrove le sue convinzioni fondamentali.
Anche da questo punto di vista, si può ricondurre il pensiero di Dummett a quello di Frege: se il filosofo tedesco ha combattuto con molta convinzione lo psicologismo, si può sostenere che Dummett scelga come proprio bersaglio polemico il naturalismo.17 La sua (presunta) avversione al realismo va letta in questa luce: non è in discussione la nostra capacità di attingere il reale, piuttosto l’idea che il nostro rapporto con esso sia da formulare in termini empiristici. Il binomio realismo-naturalismo infatti induce quello scetticismo nei confronti della nozione di significato, di cui Quine è il campione più deciso.
Letta in quest’ottica, la posizione di Dummett sembra più coerente e convincente: il realismo — specie nella versione naturalistica — è problematico, in quanto ha presente in sé un aspetto di scetticismo. Nell’attrarre l’attenzione sullo iato tra ciò che è vero e le nostre capacità di riconoscerlo come tale, il realismo ingenera un duplice scetticismo, sia verso la possibilità di conoscere la realtà, sia verso la nostra capacità di riconoscere le cose per quel che sono (e in particolare, di renderci conto del fatto che conosciamo qualcosa). Più che al realismo in quanto tale, Dummett sembra voler reagire alla possibilità di una deriva scettica della posizione realista: l’antirealismo, viceversa, blocca questa deriva sul nascere, sottolineando la stretta connessione tra ciò che è vero e le nostre possibilità di conoscerlo. Il principio K di Dummett (se un enunciato è vero, allora deve essere in linea di principio possibile conoscere che è vero)18 esprime proprio questa intuizione: non ha senso parlare di verità oltre le nostre possibilità conoscitive, in quanto si apre un inutile spiraglio per lo scettico, che immediatamente ci chiede che senso abbia parlare della verità di un enunciato, senza che sia possibile conoscerla. Non si vuole con questo sostenere che per Dummett tutto ciò che è vero deve essere conoscibile e viceversa: ma se è il significato di un enunciato a determinarne il valore semantico, e se questo significato è frutto della nostra attività di parlanti, è fuorviante rinunciare a chiedersi in che cosa consista la conoscenza di questo significato. Lo iato tra verità e riconoscimento della verità rimane aperto: la difficoltà è stabilire proprio in che misura occorra divaricare queste due nozioni. Nel caso degli enunciati empirici la distanza tra le due nozioni è piuttosto chiara, in quanto in questi enunciati è più evidente l’intervento, per così dire, di una realtà esterna al linguaggio e da noi non controllata.
Da questo punto di vista, la peculiarità di Dummett, cioè il collegamento tra una difesa della logica intuizionistica e un programma di ricerca sul significato, è più chiaramente comprensibile. La ragione della scelta della logica intuizionistica rispetto ad altre logiche non classiche deriva proprio dalla stretta connessione che in questo tipo di logica si ha tra il significato di un enunciato e la sua verità.
Una conseguenza di questo approccio è l’avversione per ogni forma di olismo del significato, che viene attaccato da Dummett perché rende inintelligibile l’idea che il significato sia qualcosa di strutturato, di articolato, la cui struttura ci è trasparente. Rivelatorio in questo senso è il riferimento a procedure di verifica diretta (o canoniche): si tratta di procedure intrinsecamente trasparenti, riguardo alle quali non ha senso avere dubbi. Il naturalismo attacca l’idea che il linguaggio sia «l’attività razionale per eccellenza»,19 cercando di spiegare il fenomeno del significato attraverso teorie causali che colgano le regolarità dei fenomeni linguistici. In questo modo, si perde la connessione tra pensiero e linguaggio e di conseguenza risulta opaca una delle due funzioni fondamentali del linguaggio, l’essere veicolo del pensiero. La posizione di Quine risulta emblematica: il suo comportamentismo è chiaramente una forma piuttosto esasperata di naturalismo, mentre le sue considerazioni olistiche sul linguaggio hanno la scomoda conseguenza della tesi dell’indeterminatezza della traduzione, una tesi scettica sulla possibilità di specificare il significato di un enunciato.
Infine, l’interpretazione dummettiana di Frege intende restiturci proprio un filosofo assai preoccupato della dimensione epistemica del significato. La difesa della nozione di senso — e le accanite polemiche contro chiunque abbia tentato di sminuirne l’importanza, come ad esempio Kripke — confermano un’inclinazione complessiva a scorgere nella conoscenza del significato la forma vera e propria della nostra conoscenza filosofica. Questa conoscenza, si vorrebbe dire, è un tentativo di comprendere verità già conosciute, piuttosto che la scoperta di nuove verità. Non a caso per Dummett il capolavoro di Frege sono i Fondamenti, l’opera nella quale il filosofo tedesco cerca di chiarire ‘che cosa sono i numeri naturali’. Come dice Dummett (1991), «il filosofo non cerca di sapere di più, ma di capire meglio ciò che già sa».20
Da un punto di vista storico, occorre sottolineare l’aria kantiana che si respira in molte pagine di The Logical Basis of Metaphysics: la volontà di fondare la metafisica su basi salde, il punto di partenza fornito dalla logica, l’insistenza sulla propedeuticità di questo lavoro sono suggestivi punti di affinità tra l’opera di Dummett e la Kritik der reinen Vernunft. Più in generale, sembra appropriato qualificare il lavoro di Dummett come una riflessione trascendentale sui modi in cui la nostra conoscenza si organizza nel linguaggio.
Lo scetticismo dell’olista, conseguenza dell’approccio naturalistico, porta a rifiutare la possibilità stessa dell’indagine filosofica: per questo il confronto non può limitarsi a uno studio caso per caso. Dummett invece opera una netta differenziazione tra scienza e filosofia, che può essere esemplificata proprio da diverse concezioni dell’olismo. Per lo scienziato l’olismo è un atteggiamento ammissibile, in quanto ci invita a riconoscere il fatto che non sappiamo in che modo la realtà sia costituita, fino a che non lo scopriamo. Per il filosofo, invece, si tratta di capire ciò che già si sa, ma l’olismo nega questa opzione: dato che non c’è una realtà esterna alla quale fare riferimento, in questo caso l’olista finisce per essere solo uno scettico.
In conclusione, rimangono da fare due osservazioni. La prima riguarda le evidenti affinità, rimandi e reciproche influenze tra Dummett e Putnam: il «realismo interno» del secondo assomiglia molto all’anti-realismo del primo. Anche se Putnam si è distaccato solo in parte dall’empirismo, è evidente in entrambi una concezione di realtà che definirei non naturalistica. Putnam sottolinea come i nostri schemi di descrizione della realtà facciano parte della realtà stessa21 e come questi schemi siano variabili. Non sono estratti dall’esperienza: sono modi di organizzare l’esperienza in base a scelte logiche e valoriali diverse. La possibilità di organizzare la realtà in modi diversi, che rispondono a scopi diversi, dissolve la dicotomia tra fatti e valori.22 Allo stesso modo, l’antirealismo esplorato da Dummett vuole anzitutto dissolvere la falsa opposizione che si crea in un approccio naturalistico, secondo il quale abbiamo a disposizione solo i mezzi della scienza per spiegare il reale e la conoscenza, ma non dobbiamo fare appello alla nostra coscienza e ai nostri scopi, fino a quando non siamo in grado di mostrare come inserirli in una descrizione scientifica del reale. Il problema ovviamente è che siamo noi a fare questa descrizione, così come siamo noi a fare altre cose, grazie al significato, il vero tramite tra i vari ambiti dell’esperienza umana del reale. La stessa differenza tra descrizione scientifica del reale e altri modi di espressione non sarebbe possibile senza una previa comprensione dei significati.
Emerge qui la profonda rilevanza pratica di questi approcci: a differenza di chi sceglie risolutamente un approccio di tipo scientifico — insomma, scientista — Dummett e Putnam ci permettono di considerare il dialogo come un’opzione, anzi come l’opzione primaria di cui tenere conto nella riflessione filosofica. Dobbiamo anzitutto sforzarci di rendere intelligibile e comprensibile la posizione di chi ci sta di fronte, non per sostenere una sorta di accordo previo (anzi, i due filosofi in questione sono entrambi polemisti di prim’ordine), ma per evitare le contrapposizioni ideologiche, che spesso invece caratterizzano il dibattito anche sul versante pubblico.23
L’altra osservazione riguarda il rapporto tra analisi del significato ed epistemologia: sembrerebbe infatti che la caratterizzazione del rapporto con il reale sia, più che semantica, epistemica. Di sicuro Dummett ha un tono kantiano, che però non è mai disgiunto, come in Frege, da una radicata attenzione all’oggettività del reale. Al di là delle etichette, mi sembra chiaro che la proposta di Dummett sia volta da un lato a costruire una teoria che spieghi in che cosa consiste saper parlare un linguaggio, dall’altra a garantire la possibilità di conoscere il reale, a partire dal fatto che siamo agenti razionali, autocoscienti e liberi. Il principio del contesto nella filosofia di Frege serve a mostrare come l’analisi del significato, unita a un approccio logico diverso e più flessibile, permetta di uscire dalle secche in cui per secoli era rimasta incagliata la riflessione su logica e matematica. In modo analogo Dummett ci propone di impostare la soluzione del problema del reale (che cos’è, ma anche come lo si conosce) a partire da ciò che possiamo dire di vero al riguardo: l’approccio logico e semantico rappresenta la risposta sia al problema metafisico sia a quello epistemologico. Per qualcuno gli esiti della sua ricerca non saranno convincenti, ma dovremmo riconoscere a Dummett uno sguardo innovativo sui problemi fondamentali della filosofia, mosso da uno spirito di «ottimismo» e «avventura».24
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Anche se la responsabilità di questo lavoro è mia, devo ringraziare S. D’Agostino, K. Flannery, G. Sans, G. Alfiero, A. Rossi per alcune discussioni in merito. ↩︎
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Il cuore di questa strategia è la sezione 62 dei Fondamenti dell’aritmetica: cfr. M. Dummett, Frege. Philosophy of Mathematics, Duckworth, London 1991, capitolo 10. ↩︎
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Seguo qui l’impostazione di M. Dummett, The Logical Basis of Metaphysics, Duckworth, London 1991; trad. it. a cura di E. Picardi, La base logica della metafisica, Il Mulino, Bologna 1996. Altre fonti precedenti sono i due articoli What is a Theory of Meaning? (I) (1975) e What is a Theory of Meaning? (II) (1976), ora ristampati in The Seas of Language, Oxford University Press, Oxford 1993, rispettivamente p. 1-33 e p. 34-93. Una panoramica molto accurata del pensiero di Dummett è il volume di C. Cozzo, Introduzione a Dummett, Laterza, Roma-Bari 2008; si veda anche B. Weiss, Michael Dummett, Princeton University Press, Princeton 2002. ↩︎
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Alcuni interpreti di Frege insistono molto sulla distanza tra Frege e Tarski: per esempio, si veda H. Sluga, Frege on the Indefinability of Truth, in E. H. Reck (a cura di), From Frege to Wittgenstein. Perspectives on Early Analytic Philosophy, Oxford University Press, Oxford 2002, p. 75-95. ↩︎
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Cfr. M. Dummett, The Logical Basis of Metaphysics, cit., p. 113 (trad. it., p. 165-166). ↩︎
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Cfr. M. Dummett, The Logical Basis of Metaphysics, cit., p. 159 (trad. it., p. 225). ↩︎
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Cfr. G. Usberti, Significato e conoscenza. Per una critica del neoverificazionismo, Guerini Scientifica, Milano 1995, p. 93 e seg.; P. Casalegno, «Come interpretare l’argomento antirealista di Dummett?», Lingua e stile, XXXIII, n. 2 (1997), p. 519-529; G. Usberti, «Risposta», Lingua e stile, XXXIII, n. 2 (1997), p. 529-536. ↩︎
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Cfr. P. Casalegno, «Come interpretare?», cit., p. 520. Una precisazione terminologica riguarda il significato di «nunciato indecidibile» per Dummett questa classe comprende enunciati dei quali, al momento, non conosciamo né la verità né la falsità, nel senso che non disponiamo nemmeno di un metodo effettivo per decidere se siano veri o falsi. ↩︎
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E. Moriconi - E. Napoli, «Dimostrazione e significato», Lingua e stile, XXII, 2 (1987), p. 153-178. Lo stesso tipo di considerazioni viene avanzato da P. Pagin, «Bivalence: Meaning-Theory vs Metaphysics», Theoria, LXIV (1998), p. 157-186. ↩︎
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Cfr. per esempio il passo cui si è già fatto riferimento: M. Dummett, The Logical Basis of Metaphysics, cit., p. 113 (trad. it., p. 165) ↩︎
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Per un’esplorazione del problema della concezione anti-realista del passato, si veda M. Dummett, Truth and the Past, Columbia University Press, New York 2004. ↩︎
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Cfr. M. Dummett, Reply to Prawitz, in B. McGuinness - G. Oliveri (a cura di), The Philosophy of Michael Dummett, Kluwer, Dordrecht-Boston-London 1994, p. 294-298. ↩︎
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M. Dummett, Reply to Prawitz, cit., p. 296. ↩︎
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Cfr. ad esempio M. Dummett, The Logical Basis of Metaphysics, cit., p. 299-300 (trad. it., p. 415-416): la logica intuizionistica può funzionare come mezzo di discussione di altre logiche, proprio grazie alla richiesta di esplicitare il rapporto tra verità e significato (degli operatori) in termini di dimostrabilità. ↩︎
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Per esempio, M. Dummett, Realism and Anti-Realism, in The Seas of Language, cit., p. 462-478, è tutto dedicato a questo problema. ↩︎
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Cfr. M. Dummett, Replies to Essays, in B. Taylor (a cura di), Michael Dummett - Contributions to Philosophy, Nijhoff, Dordrecht-Boston-Lancaster 1987, p. 221-230; qui p. 269. ↩︎
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La definizione del termine è - come sempre in questi casi - piuttosto difficile, visto che il termine è piuttosto di moda. Per un primo orientamento nel dibattito, rimando a A. Agazzi - N. Vassallo (a cura di ), Introduzione al naturalismo filosofico contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1998; D. Marconi (a cura di), Naturalismo e naturalizzazione, Mercurio, Vercelli 1999; M. De Caro - D. Macarthur, Naturalism in Question, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2008. ↩︎
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Cfr. M. Dummett, What is a Theory of Meaning? (II), in The Seas of Language, cit., p. 61. ↩︎
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M. Dummett, Replies to Essays, in B. Taylor (a cura di), Michael Dummett, cit., p. 256. Cfr. anche M. Dummett, The Logical Basis of Metaphysics, cit., p. 91 (trad. it., p. 134). ↩︎
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M. Dummett, The Logical Basis of Metaphysics, cit., p. 240 (trad. it., p. 334). ↩︎
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Cfr. per esempio H. Putnam, The Many Faces of Realism, Open Court, La Salle 1987; trad. it. La sfida del realismo, Garzanti, Milano 1991. ↩︎
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Il riferimento obbligato è H. Putnam, The Collapse of the Fact/Value Dichotomy and Other Essays, Harvard U. P., Cambridge (MA) 2002; trad. it. di G. Pellegrino, Fatto/valore. Fine di una dicotomia, Fazi, Roma 2004. ↩︎
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Per un breve sguardo, mi permetto di rimandare a R. Presilla, Alcune note su filosofia, scienza e fede, in G. Boffi (a cura di), Scienza e fede, APES, Roma 2012, p. 273-327. ↩︎
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Le espressioni sono di A. Matar, From Dummett’s Philosophical Perspective, De Gruyter, Berlin 1997. ↩︎