Felicità e significato dell’esistenza. Il contributo della fenomenologia all’analisi della «sindrome della felicità» di Rümke

I sentimenti dell’anima – ma in genere tutti i tipi di vissuto emotivo, a seconda dello strato che occupano – obbediscono alle loro proprie leggi di variazione […] Una persona i cui sentimenti dell’anima non fossero «motivati» […] e il cui equilibrio affettivo fosse in continuo disaccordo con i mutevoli stati emotivi del proprio corpo, sarebbe tanto incomprensibile quanto una che soffre di gravi disturbi cognitivi.1

1. Un’immagine ideale

Quello del significato della vita e nella vita della propria ragion d’essere, del fiore (Novalis 1997) cogliendo il quale potrebbe infine compiersi quanto ognuno di noi nell’attesa può solo presagire, è uno di quei problemi filosofici che, wittgensteiniamente, non possono essere posti senza rivelare la loro insensatezza. Occorre dunque astenersi dal farlo. Proprio questo divieto, che non ha impedito alla questione di impegnare fino ad oggi più di un cervello filosofico, rivela tuttavia, separando nettamente il dicibile dall’indicibile, il peso etico-valoriale, se non quello scientifico, che lo stesso Wittgenstein sarebbe disposto ad attribuire al problema. Rivela inoltre la legittimità della questione – di quanto può almeno «mostrarsi», nella sua terminologia – su altri piani. Per il filosofo austriaco su quello del «Mistico», nel suo regale silenzio. Per altri, come Novalis nella grande letteratura tedesca o come Max Scheler, che sul tema della vocazione o missione riflette, sul piano della «salvezza» personale, della fioritura della propria esistenza. Chi godrà dell’immensa fortuna di raggiungere simili vette, potrà incontrare se stesso nel proprio mondo, e compiere, forse, un’autentica scoperta di sé. Sul piano inteso in questa seconda accezione la questione può assumere una connotazione metafisica o estetico-artistica oppure spirituale. È questo infatti, secondo fonti attendibili, siano esse filosofiche o psicologiche, scheleriane, binswangeriane o anche seligmaniane, il regno della significatività per eccellenza. In un regno del genere, quando accade di abitarlo, in rari momenti della nostra esistenza, avvertiamo emotivamente la nostra vicinanza (a) o lontananza da noi stessi, da quell’«immagine ideale (Idealbild)» (Scheler 2013, 941) che, del nostro intero essere personale, potremmo un giorno guadagnare, magari in un incontro con altri che si riveli decisivo per la nostra rinascita morale. Potremmo guadagnarla, anche se mai in maniera definitiva, se potessimo estrarre «completamente, per così dire, dalla centrale comprensione (Verständnis)» della nostra «essenza individuale, le fondamentali mire intenzionali della» nostra «persona» (Scheler 2013, 941): le più importanti direzioni dell’intenzionalità quale proprietà della coscienza o presenza ad essa di oggetti prioritari in termini assiologici. Se chi riuscisse, in altre parole, a vederli meglio di noi stessi, potesse metterci davanti agli occhi i principali orientamenti dei nostri atti. Di quegli atti di preferire o amare, ad esempio, oppure odiare, che abbiamo diretto «significativamente» verso determinati oggetti dotati di determinati caratteri qualitativi, capaci di avere (o non avere) su di noi una determinata attrattiva, dei quali abbiamo avvertito la dignità o la superiorità, oppure la non dignità. Se potessimo estrarre, appunto, in virtù della piena comprensione che altri hanno del nostro centro personale, gli «oggetti» intenzionali che ci sono stati a cuore o che abbiamo maledetto, e riunirli «in una concreta immagine del» nostro «valore ideale intuitivamente data» (Scheler 2013, 941). È «a questa immagine» concreta, all’intero in cui ognuno di noi, per quanto imperfettamente, consiste, che una persona dallo sguardo non indifferente, né al nostro destino, né alla nostra destinazione, non estranea pertanto alla nostra unitaria «direzione di significato» – nel lessico anche binswangeriano –, potrebbe «commisurare le nostre azioni empiriche» (Scheler 2013, 941) e, sulla base dei contenuti dell’immagine, formulare eventualmente un giudizio, non diagnostico, ma «morale». Sarebbe una valutazione del nostro essere accessibile ad altri molto più profonda di quella che potrebbe darne in base a norme di validità universale o in base alle nostre attitudini mentali, una valutazione rispettosa, in ogni caso, della «sfera d’essere assolutamente intima» (Scheler 2013, 1083) che ogni singolo in quanto persona nondimeno possiede.

È in primo luogo quella «comprensione» (Verstehen) dell’originalità più profonda della persona, che acquistiamo mediante l’amore per lei, a permetterci di vedere la sua ideale essenza di valore individuale (individuellen Wertwesen). Questo intelletto d’amore (verstehende Liebe) è il grande artefice e (come nella bella e profonda immagine del celebre sonetto di Michelangelo) il grande artista plastico (plastische Bildner) che dalla folla dei dati parziali empirici – e talvolta da una sola azione o da un solo gesto espressivo – riesce a trarre a colpi di scalpello le linee dell’essenza di valore della persona: un’«essenza» che la conoscenza empirica, storica e psicologica della sua vita vela più che svelare; che non si manifesta mai pienamente in nessuna delle sue azioni o espressioni di vita, costituendo tuttavia il presupposto della completa comprensione (volles Verständnis) di ogni azione o manifestazione vitale.2

Indipendentemente quindi dal divieto wittgensteiniano, che pure ha le sue virtù, la fenomenologia, quale esercizio filosofico volto alla chiarificazione delle diverse ontologie «materiali», ontologie che presuppongono i contenuti esperienziali delle rispettive entità, può illuminare, fornendo di esso in prima istanza una rigorosa descrizione, questo ambito di realtà – la sfera della significatività per eccellenza – e farsi carico delle questioni che in esso si pongono e cercano una risposta. Possiamo chiederci allora, in questa prospettiva, se la vita abbia senso o non lo abbia affatto. Se ne abbia uno, magari diverso per ognuno di noi, anche se il destino della nostra stessa vita, nel corso della quale potremmo scoprirlo, è la morte, e la nostra esistenza non è affatto immune da disagi e sofferenze. Possiamo chiederci, in particolare, se possa averlo anche se quanto avvertiamo talvolta come un profondo sentimento di felicità può accompagnarsi, suo malgrado, a dolori e sofferenze più o meno intensi, a tristezze di vario tipo. Anche se la nostra felicità, in determinate situazioni, rischia di essere confusa, a prima vista, con un sentimento patologico.

2. Felicità e senso di un’esistenza: un nesso da indagare nel suo contesto

È un problema classico tuttora al centro del dibattito filosofico, catturando in anni relativamente recenti anche l’interesse del pensiero anglo-americano, quello di sapere, appunto, che cosa renda (o non renda) significativa per la persona che la esperisce, e la giudica magari in questi termini, la sua stessa vita. In un’ottica aristotelica potrebbe contribuire in tal senso l’esercizio delle capacità umane o la perfezione delle eccellenze umane; in un’ottica edonistico/epicurea, la quantità di piacere (e dolore) che contiene una vita mentale; in un’ottica kantiana, per fare ancora un esempio, il sommo bene. Se prescindiamo dai diversi approcci alla questione indicata, in tutti i casi contemplati è presente com’è noto un riferimento più o meno diretto alla felicità, oltreché alla vita morale. Rispetto al bene della nostra vita, quando esso si presenta come un bene morale universale e obiettivo, la felicità rischia talvolta di rimanere in ombra, costretta a ritirarsi in un mero soggettivismo che mal si concilia con l’assolutezza del bene. Eppure rimane, anche questa felicità umiliata, un termine ineludibile, per quanto relegato sullo sfondo, dell’intera vicenda della significatività della vita. Si tratta in generale di stabilire quale sia lo «scopo finale» (Endzweck)3 che una persona dovrebbe realizzare per fare della sua vita qualcosa che conti, e conti in particolare per lei. Kantianamente, si tratta di mettere a fuoco la posizione stessa dello scopo: la volontà buona (conforme al dovere) che lo pone. Terremo presente, sia pure implicitamente e per opposizione, questo sfondo concettuale nella breve indagine che andremo a svolgere sul senso di un’esistenza come la nostra, per sua natura vulnerabile. Declineremo infatti la questione nei termini di un’etica vocazionale – schelerianamente incentrata sull’ordine obiettivo di priorità assiologiche dell’individuo personal –, e non in termini deontologici, secondo i quali l’agire deve essere innanzitutto conforme al dovere morale (cfr. Scheler 1986; Scheler 2013), e nemmeno in quelli di un’etica empiristica, come quella dei beni e degli scopi. Di «un’etica», in questo secondo caso, «che intenda stabilire uno scopo (sia che riguardi il mondo, l’umanità o le aspirazioni umane, sia che riguardi uno “scopo finale” (Endzweck) per così dire) per misurare il valore morale del volere in base al rapporto che esso stabilisce con lo scopo» (Scheler 2013, 47). Ci soffermeremo soprattutto sul versante emotivo della questione, sulla felicità, e, assumendo la condition humaine in tutta la sua complessità, su eventuali manifestazioni abnormi o apparentemente tali dello stesso sentimento, cosiddetto positivo, che non cessa di svolgere, ancora oggi, un ruolo centrale in etica, in psicologia/psicopatologia e in psichiatria. Che cos’è la felicità? Può dare un senso alla nostra vita? O è il senso della nostra vita, invece, che inseguiamo costantemente, anche quando inseguiamo solo quanto ci gratifica, a rendere felice la vita in questione? È la felicità a fondarsi nel senso di una vita (la vita nel suo senso unitario), o è il senso di una vita a fondarsi nella felicità di quella vita ed esistenza? Oppure si fondano entrambe altrove, essendo precisamente cooriginarie? Il nesso tra le due realtà, se esiste come crediamo, esige per essere chiarito da un punto di vista fenomenologico una riflessione più ampia di quella focalizzata in maniera esclusiva su di esse. Richiede non solo un’integrazione, nei termini che lega, nel portatore della vita in gioco, buona o malvagia, sana o malata, fragile, sofferente o robusta che essa sia, ma anche una prospettiva dinamico-trasformazionale, più che adattivo-competitiva (rispetto a un ambiente, a una società, ad altri membri della società, un destino, un carattere), e senz’altro interpersonale. Una prospettiva non più limitata a un soggetto, sia pure sociale, direttamente volto all’oggetto delle proprie aspirazioni (felicità, benessere ecc.) o sacrificato, per altri versi, alla bontà di un volere astratto, poco individuato, ma allargata alle possibili aperture (o chiusure) dell’individuo personale o centro d’atti a quel mondo o centro d’oggetti, infinitamente ricco di esperienze da compiere eppure altrettanto individuato, che ne costituisce lo specifico correlato. Perché nella singolare monadologia scheleriana qui evocata ogni possibile mondo è un mondo precisamente, vale a dire, una struttura unitaria vincolata «alle relazioni eidetiche e strutturali che sussistono tra le essenzialità delle res» (Scheler 2013, 765), in quanto è insieme fonte delle esperienze della persona quale intero che, abitandolo e formandosi in esso, senza mai divenirne una parte, appunto, lo «forma» al tempo stesso: ne porta a evidenza l’intrinseca unitarietà secondo il proprio stile personale, unico e irriducibile. Ogni mondo, in altri termini, è «concreto» o inesauribile, «se e solo se è il mondo di una persona» (Scheler 2013, 765). Si tratta allora, diversamente dai modelli etici cui abbiamo accennato all’inizio, di allargare lo sguardo a quanto nel mondo, giungendo inaspettato, incontra nondimeno le preferenze emotive dell’individuo coinvolto, sebbene ne scuota talvolta la vita in profondità; a quanto, soprattutto, come un «fiore azzurro» di novalisiana memoria, si sottrae a una presa diretta e non viene illuminato, di conseguenza, dai raggi della coscienza volitiva ma, proprio per questo, può accompagnare più o meno segretamente un’esistenza ed esercitare un’influenza sulle sue scelte. Al di là in ogni caso dell’eventuale fondazione eidetica dell’una nell’altra, l’esistenza di una qualche relazione tra il senso della vita e quella felicità, riguardo alle cui variazioni consulteremo alcuni grandi classici di psicopatologia e psichiatria fenomenologica (Rümke, Binswanger), sembra assai intuitiva. Emerge addirittura nei casi negativi che ne offrono, a livello esemplare, una conferma indiretta. Così avvertiamo, ad esempio, nell’infelicità che tende alla disperazione, nella quale a volte sprofondiamo, senza avere in apparenza una qualche ragione per essere dannatamente infelici, un segnale e quasi un monito relativo alla nostra intera esistenza. Come se l’esistenza, appunto, si rivelasse all’improvviso svuotata di ogni senso. Non è affatto evidente però che la relazione, della quale ognuno di noi può avere sentore in certi momenti della propria vita, consista in una relazione di fondazione diretta. È possibile che una profonda infelicità o disperazione non dipenda ontologicamente dalla mancanza di senso di una vita; non si trovi necessariamente, cioè, in termini di ordine strutturale a priori, in una relazione di fondazione immediata rispetto alla mancanza di senso di quella vita. Potrebbe dipendere, ad esempio, dal valore che l’individuo coinvolto attribuisce alla sua vita o, nella prospettiva che privilegeremo – quella scheleriana –, dal valore morale o personale, intrinseco alla sua stessa identità, dell’individuo in questione.

Esistono inoltre determinate condizioni alle quali è possibile parlare di autentico senso di una vita. Potremmo essere disperati, ad esempio, anche se la nostra vita fosse significativa agli occhi altrui, ma non lo fosse per noi, anche se ce la raccontassimo magari significativa. Una vita significativa, a sua volta, non sembra dipendere ontologicamente dalla felicità di una vita, semmai esserne appunto cooriginaria. Potrebbe senz’altro essere significativa per noi anche se non fossimo allegri o gioiosi. L’allegria, tuttavia, la gioia o l’euforia – lo vedremo – non sono certo «felicità», almeno non lo sono in senso stretto. Il nesso da indagare sembra dunque presupporre una profondità e individuazione, nel soggetto che la vive, dell’esperienza di felicità, e una significatività della vita coinvolta che non si riduca a un’unità semantica o a una coerenza narrativa buona forse per qualche spettatore e capace di assecondare, a un livello periferico della sua vita, il rispettivo portatore. Non è evidente nemmeno che il rapporto di felicità, soprattutto di quella profonda e duratura, e significato di una vita consista semplicemente in una relazione causale. Esiste, rispetto a quelle contemplate, un’ulteriore possibilità riguardo al nesso in questione, che la teoria scheleriana della stratificazione della vita emotiva (Scheler 2013, 643-671) permette di giustificare. Secondo questa teoria gli svariati vissuti emotivi non sono solo qualitativamente diversi o diversi solo per intensità, ma si distinguono tra loro, e sono anzi irriducibili gli uni agli altri, anche per il livello di profondità al quale sono radicati nella vita emotiva della persona che li prova. Dell’ulteriore opzione, tenteremo di mostrare la validità. Il nesso tra le realtà indicate (la felicità e il significato di una vita), che si tratta appunto di chiarire muovendo dalla teoria scheleriana, si comprende alla luce di quanto risulta fondante, all’interno del nostro percorso, per entrambe: un atto di amore personale nel quale l’agente incontra, senza necessariamente puntare al proprio bene, ciò che risveglia e dona pienezza alla propria esistenza. Un atto del genere rende profondamente felice o lo conferma nel sentimento che in silenzio già provava, senza garantirgli tuttavia la liberazione da eventuali sofferenze, il portatore di quella vita che, nel compimento dell’atto, si rivela allo stesso portatore in tutta la sua significatività. La beatitudine così intesa o felicità radicata nel centro dell’esistenza di una persona è ben diversa, come vedremo, dall’euforia, vissuta piuttosto nelle zone superficiali e periferiche, rispetto a quel centro (l’io più profondo e centrale), della nostra vita emotiva. Una profonda felicità, di conseguenza, non ha nulla nemmeno degli accessi che caratterizzano certi stati d’eccitazione o dell’euforia, per altri versi, che si manifesta ad esempio nelle fasi maniacali delle psicosi maniaco-depressive. Per la sua profondità e irriducibilità ad altri vissuti emotivi, una felicità del genere può essere vissuta, al limite, anche in condizioni di sofferenza mentale, quando può accadere ad esempio che si vivano contemporaneamente esperienze più superficiali, anche se non meno violente o tragiche.

3. Fenomenologia e ricerca clinico-psichiatrica

In questo contesto, sia pure brevemente, avremo modo di valutare con lo psichiatra olandese Henricus Cornelius Rümke, la fecondità e gli eventuali limiti del metodo fenomenologico, in particolare nella sua versione scheleriana, per la ricerca clinico-psichiatrica. Il testo chiave in questo caso è un classico di psicopatologia fenomenologica, molto meno noto del saggio sul «praecoxgefühl» (Rümke & Neelemann 1990, 331–341), ma assolutamente degno di essere riscoperto, a fronte soprattutto di un crescente e trasversale interesse, non sempre supportato da adeguata strumentazione concettuale, per il topic della felicità. Si tratta di Zur Phänomenologie und Klinik des Glücksgefühl (1924). Ci riserviamo di approfondire in altra sede, nelle sue importanti implicazioni, l’esito di questo singolare percorso scientifico e la delicata questione del significato clinico della felicità. Il fenomeno dell’happiness in/as psychiatric disorders (Mayer-Gross, 1914; Bentall, 1992; Anderson, 1938), che solo in parte prenderemo in considerazione, dell’occorrenza della felicità, ad esempio, in determinate esperienze patologiche, o degli aspetti tipici, come quello dell’espansione, che in casi del genere la felicità può rivelare a un’osservazione clinica, è un argomento che richiede per essere affrontato adeguatamente, sia da un punto di vista storico-filosofico sia da un punto di vista sistematico-teorico, oltreché in una prospettiva empirico-sperimentale, un’analisi più ampia. Sul versante epistemologico, esso esige l’apporto di specifiche competenze in un panorama scientifico, come quello attuale, in cui dominano, nello studio della stessa psicopatologia, i modelli delle neuroscienze cognitive, della neuropsichiatria cognitiva (Broome and Bortolotti 2009) e della psicologia positiva. Nei limiti del presente lavoro è sufficiente mostrare, in riferimento all’oggetto in esame, la rilevanza filosofica della psicopatologia. E la possibile sinergia, insieme, che può stabilirsi tra discipline, per molti aspetti diverse, come la filosofia (dei sentimenti nel nostro caso) e la psichiatria, quando siano entrambe rivolte primariamente alla persona intesa appunto come un intero – anche dove la persona appare scissa o divorata dalla sofferenza –, piuttosto che a determinati stati considerati in astratto, piacevoli o spiacevoli, che si susseguirebbero nella sua mente o nel suo cervello, oppure a un complesso di sintomi e una serie di reperti somatici cui essa sarebbe riducibile. È proprio la raffinata descrizione della profonda felicità o beatitudine (Seligkeit), che Scheler offre nell’ambito della teoria della vita emotiva ricordata, a svolgere un ruolo cruciale nel rigoroso studio di Rümke, ancora oggi di grande attualità, sulla fenomenologia e la clinica della felicità.4 Non è possibile soffermarsi qui su ogni singolo importante problema che Rümke affronta, in questo volume, in funzione di una ricerca sistematica con un chiaro obiettivo clinico-psichiatrico che egli dichiara fin dalla Prefazione: caratterizzare nel dettaglio, le «sindromi della felicità (Glückssyndrome)» (Rümke 1924, Vorwort) osservate sul piano clinico, e tentare di comprenderle (verstehen), avvalendosi anche della strumentazione fenomenologica. L’accento sulla «comprensione», qui evocata, va senz’altro letto in un’ottica jaspersiana, dove la psicopatologia dialoga con la filosofia ed entrambe trovano una delle loro ispirazioni in Dilthey. Come più avanti nello stesso testo avrà modo di sottolineare, Rümke rimane fedele all’insegnamento di Jaspers, cui era stato introdotto dallo psichiatra L. Bouman con il quale si era formato ad Amsterdam e dal quale aveva probabilmente ottenuto come argomento della tesi di dottorato, che avrebbe discusso nel 1923, proprio quello sulla sindrome della felicità. Anche per restituire una temperie culturale, occorre inoltre ricordare che Scheler era stato a sua volta introdotto in Olanda da Anton Grünbaum nel periodo in cui quest’ultimo lavorava con Bouman alla Valeriuskliniek di Amsterdam, clinica psichiatrica presso la quale Rümke condusse la sua ricerca sulla sindrome della felicità, e che alla Valeriuskliniek era all’epoca impiegato addirittura il fisiologo, antropologo, psicologo Frederick Jacobus Johannes Buytendijck, ottimo amico di Scheler (Belzen 1995, 364-365). Va detto, comunque, relativamente alla psichiatria clinica, che Rümke teneva in grande considerazione il sistema di Kraepelin. Riteneva che la difficoltà di arrivare a una diagnosi corretta fosse dovuta, non tanto all’impianto classificatorio in questione, quanto allo stato primitivo in cui a suo parere versava la psicologia, costretta giusto ad abbozzare, di conseguenza, le sindromi psichiche (Belzen 1995, 369). Praticare la fenomenologia nella sua prospettiva, in parte diversa da quella di Binswanger, significa dunque, in prima istanza, compiere nei confronti della psicologia un’opera di purificazione che permetta allo psichiatra di discernere e meglio descrivere i sintomi. In Zur Phänomenologie und Klinik des Glücksgefühl Rümke si propone di testare in generale il valore del metodo fenomenologico per la ricerca clinico-psichiatrica. Questo stile di pensiero, incluso l’atteggiamento etico che lo caratterizza, nel rispetto per le cose stesse, è dunque dal punto di vista di Rümke innanzitutto al servizio del trattamento e della cura. Tuttavia lo studio qui al centro del nostro interesse si propone esplicitamente di apportare anche un «contributo alla conoscenza del sentimento di felicità» (Rümke 1924, Vorwort). Il valore della fenomenologia per la clinica psichiatrica consiste principalmente per Rümke nel mettere il clinico, appunto, in condizione di poter distinguere con maggior precisione quadri di stato che, a un’osservazione superficiale, appaiono del tutto simili. Egli adotta così il metodo fenomenologico, «per differenziare e analizzare stati clinicamente percepiti nei quali viene esperito un sentimento di felicità» (Rümke 1924, 1). Si tratta in primo luogo di fornire una descrizione priva, nei limiti del possibile, di pregiudizi del sentimento in questione, di attenersi a quanto il paziente afferma di esperire di esso. È un presupposto irrinunciabile, questo, per chiunque tenti di guadagnare direttamente, senza sovrapporvi dall’esterno griglie interpretative o conoscenze prestabilite che potrebbero portare fuori strada, il fenomeno nella sua «stoffa» intrinseca. Quali sono dunque i tratti specifici del sentimento di felicità? Quelli che ne fanno, cioè, qualcosa di essenzialmente diverso dalla gioia, ad esempio, o da una certa quiete emotiva che sembra poter convivere con l’esaltazione nell’estasi? Che ne fanno qualcosa di diverso dall’«ebbrezza (Glücksrausch)»? Ebbrezza che per Mayer-Gross (1914), ad esempio, costituisce proprio una delle forme nelle quali il sentimento di felicità «può essere esperito in stati patologici», essendo l’altra, nella stessa prospettiva, l’«eccitazione (Glücksaffekt)» (Rümke 1924, 11). Quali sono i tratti che ne fanno qualcosa di diverso dall’euforia o anche dall’eccitazione talvolta riscontrabili, ad esempio, nei maniaci? In effetti anche sulla felicità, sulla sua possibile durata o fugacità, che l’avvicina nel secondo caso a un piacere sensoriale rimane in generale una certa confusione a parere di Rümke. Scheler costituisce a suo avviso un’eccezione, da questo punto di vista.

3.1. Esperienza efficace o «motivante»

Non possiamo, come abbiamo detto, seguire questo studio nelle sue sottili articolazioni. Vale la pena tuttavia focalizzare l’attenzione sulla modalità di manifestazione del sentimento di felicità, sul suo essere o meno motivato, sulla questione della sua origine, anche in senso psicopatologico, perché una precisazione di simili aspetti del vissuto permette di enfatizzare, in una delle sue possibili accezioni, la rilevanza filosofica appunto della psicopatologia. È necessario aver presente a questo fine, anche solo vagamente, il concetto scheleriano di «motivo», l’essere «motivante» o ragione pratico-assiologica di un vissuto, in questo caso emotivo. Qualcosa, diciamo, è «motivante (motivierend)» quando viene «esperito come efficace» (Scheler 2013, 487), senza risolversi per questo in un effetto causale (fisico-naturale), dall’individuo che ne viene «attratto», almeno a livello basico, oppure «respinto». Un valore, poniamo la bellezza, può costituire in questo senso un «motivo», può essere per qualcuno «motivante», avere, in altre parole, una valenza positiva o negativa (una salienza) che suggerisce al soggetto correlato un certo comportamento. Il portatore della bellezza, ad esempio un paesaggio, in quanto unità di valore, può allora catturare il nostro sguardo, invitarci a sostare per così dire presso di lui. «La bellezza non «è» una qualche efficacia esperita (erlebte Wirksamkeit) di un paesaggio (libero da valori); è la bellezza del paesaggio, piuttosto, che esercita un’azione (wirkt), e la sua efficacia si traduce nella variazione (Wechsel) di uno stato affettivo» (Scheler 2013, 487). Ora, il sentire (Fühlen) un qualche valore «fonda la componente figurale o semantica (Bild- oder Bedeutungskomponente) di un tendere» (Scheler 2013, 673), ovvero del «fine» (Ziel) ad esso immanente, là dove «gli scopi del volere (Willenszwecke) sono innanzitutto, anche se in modo variabile, rappresentazioni dei contenuti finali delle tendenze» (Scheler 2013, 101). Sono, in altri termini, contenuti finali che si manifestano in un’esperienza oggettivante e, nel caso specifico, contenuti rappresentati. Quanto ai comportamenti che sarebbe opportuno assumere nella vita ordinaria per semplificarla, è evidente come certi oggetti possano diventare, in base ai loro contenuti, soprattutto ai contenuti valoriali che fondano precisamente quelli figurali, più o meno «significativi» (bedeutend) per noi: vantaggiosi, del tutto svantaggiosi, pericolosi, seducenti ecc. I contenuti vengono quindi selezionati da una percezione, non estranea a precisi interessi tendenziali, in senso adattivo, nella quale viene esercitata la singolare funzione del sentire.5 L’individuo umano rimane infatti in prima istanza un vivente, sensibile, come tale, alla propria sopravvivenza, sebbene sia irriducibile a questa unica tendenza. Solo contenuti figurali però che si candidino, essendone idonei, a divenire supporto di materia assiologica – dato che ogni tendere ha una certa coscienza valoriale –, possono costituire il contenuto figurale di un fine. Dove l’idoneità dei contenuti figurali consiste nella loro capacità di specificarsi o acquisire, in un orientamento del tendere, una fisionomia propriamente figurale, realizzando un certo contenuto valoriale. Ad esempio, sfuggendo a pensieri nei quali eravamo assorti, seguiamo all’improvviso in una certa direzione dell’ambiente l’attrazione esercitata su di noi dal profumo di un buon piatto. Il tendere al piatto dal profumo invitante potrebbe altrimenti, quando non seguiamo l’attrazione, rimanere incompiuto: non tradursi in un’immagine. Non esiste fine pertanto, immanente a un tendere, che non sia dotato innanzitutto di una componente valoriale. Le relazioni di fondazione indicate, assieme alla realtà incarnata e situata nel proprio ambiente del vivente, dunque a eventuali condizionamenti bio-psico-ambientali, sono piuttosto interessanti nella nostra prospettiva. Esse rendono sull’istante comprensibile, anche dal punto di vista sensori-motorio, in conformità, cioè, di una precisa legalità che vige nell’ambito della vita proprio-corporea6, la ragione per cui nella vita pratica, negli scambi individuo (in primis l’organismo) – milieu (in primis l’ambiente naturale), assumano rilevanza contenuti esperienziali significativi dal punto di vista vitale. Riguardo alla legalità cui abbiamo accennato, è sufficiente qui ricordare che il corpo-proprio svolge un ruolo cruciale, anche se non esclusivo, nelle interazioni e nei commerci di ogni giorno, addirittura quando viene in un certo senso rimosso o in apparenza scompare. È capace di condizionare, portandole o meno a maturazione, attraverso le proprie tendenze e i rispettivi orientamenti, determinate funzioni della nostra stessa sensibilità in generale. Quanto alla vita pratica, spesso in conflitto con quella della pura significatività, si tratta primariamente di una vita che cerca appunto di conservarsi e salvaguardarsi dalle diverse insidie che si annidano nel quotidiano e nei suoi affanni; di una vita che si consuma tra un impegno e l’altro, e si manifesta in larga parte negli atti di tendere e volere, nei bisogni più o meno pressanti.

3.1.1. Il sentimento di felicità è motivato?

Rivolgere l’attenzione a quanto possa o non possa motivare, occasionare o non occasionare un sentimento di felicità e all’eventuale concatenazione di vissuti nella quale esso sia o non sia inserito, in una prospettiva di realtà pratica, questione considerata sia da Rümke sia da Binswanger, anche se con diversi riferimenti filosofici, nelle indagini condotte rispettivamente sulla sindrome della felicità come abbiamo detto e, in relazione al fenomeno della fuga delle idee, sulla «gioia di vivere festosa» (Binswanger 2003, 185) nella forma di esistenza maniacale; la scelta quindi del nostro Leitmotiv, alla lettera, all’interno del percorso contemplato ha un ulteriore vantaggio. Essa permette di cogliere il valore del metodo e dell’atteggiamento fenomenologico, nella versione scheleriana che qui ne proponiamo, per la ricerca clinico-psichiatrica e, nel caso di Binwanger, anche per quella ontologica e antropologica. Sebbene Binswanger in questo lavoro, Sulla fuga delle idee (1933), che inaugura peraltro l’indirizzo daseinsanalitico nei suoi studi psichiatrici, muova indiscutibilmente dalla riflessione filosofica di Heidegger e, riguardo al punto indicato, dall’ontologia di Häberlin. Possiamo dire, conformemente al modo di manifestarsi del fenomeno, che la felicità sia motivata come è motivato un qualunque altro sentimento cosiddetto normale? O non sarebbe più appropriato dire che essa, quando davvero è profonda, appare svuotata di ogni motivo ordinariamente inteso? Che essa spunta, per così dire, naturalmente dal proprio terreno? In maniera autoctona (autochthon) (Rümke 1924, 5-6)? Quali aspetti della felicità o quali forme nelle quali essa viene esperita in stati patologici permettono di afferrarne, se ve ne sono, le variazioni abnormi o patologiche? In cosa consiste la sindrome della felicità? Può avere un valore predittivo, per uno stato (patologico o non patologico), il modo di esperire la felicità che dello stato costituisce una parte? Qual è il valore semeiotico dell’intera sindrome della felicità in un’ottica clinico-psichiatrica? Sono alcune delle questioni che Rümke affronta nel volume sulla sindrome della felicità.

3.1.1.1. La psichiatria come scienza naturale e come scienza umana: sintomi, segni, sindromi

Nella sua accezione medico-naturalistica un sintomo è un indice lineare, un «indizio» di «malattia», psichiatrica o meno, esistente, in quanto malattia, nella sfera somatica. In una prospettiva, qui ancora condivisibile, di rifondazione fenomenologica della psichiatria e psicopatologia di ascendenza griesingeriana, o meglio, «della psichiatria come scienza umana, e non solo come scienza naturale» (Borgna 2019, 7), un sintomo non si riduce tuttavia a un’unità strutturale granitica, declinandosi piuttosto nei termini di segno (Schneider 20044, 100-110; Borgna 1995, 24-28) Per sua stessa natura, il segno rinvia a uno o più significati, è dotato di senso, meno univocamente determinato perciò di un sintomo quale genere naturale. Esso appare come un carattere distintivo riscontrabile con frequenza, saliente. Di conseguenza può rivelare sia un disturbo psichico o «malattia» riconducibile, in chiave strettamente medica, a determinati processi organici sia una deviazione dell’essere psichico non necessariamente riconducibile a una lesione organica, a una «malattia» o malformazione. Una sindrome, nella stessa ottica, è un complesso di sintomi o segni. Felicità abnormi, o apparentemente tali, e nondimeno felicità – non piaceri, di conseguenza, né somme di piaceri e nemmeno estasi – possono avere, in quanto sindromi, un significato pronostico per un determinato quadro clinico? Su questi problemi, inevitabilmente legati alla condizione umana, vissuta insieme nelle sue fragilità e potenzialità, e non solo dunque sulla natura, somaticamente condizionata, del funzionamento psichico, verte in parte la nostra riflessione. Occorre mettere a fuoco, per poterne considerare con Rümke le eventuali variazioni abnormi e il manifestarsi in complessi di sintomi o segni psicopatologici, il cosiddetto fenomeno normale della felicità nella sua possibile relazione con la vita e l’esistenza (più o meno significativa) del rispettivo portatore, inquadrandolo in una personologia fenomenologica di matrice scheleriana. Ci soffermeremo, in particolare, sulla teoria della stratificazione dei vissuti emotivi.

4. Il sentimento di essere noi stessi

Non sono gli aspetti «fenomenici» della felicità, o un’apparenza ridotta a parvenza, a costituire l’oggetto della nostra indagine, ma quelli propriamente fenomenologici. Essi riscattano in quanto tali l’apparenza del fenomeno in gioco dalla parvenza cui una certa tradizione etica di stampo consequenzialista, ad esempio quella utilitarista, ancora viva negli attuali approcci edonici alla felicità7, l’ha ricondotta. In una prospettiva edonica l’esperienza di felicità si riduce in effetti a un vissuto sensoriale, a una minima parte, quasi anonima, dell’individuo che la esperisce. Quali sono allora, dal nostro punto di vista, i tratti eidetico-qualitativi di un’esperienza di felicità? Che cosa fa, cioè, di un semplice vissuto soggettivo una genuina, «oggettiva» esperienza di felicità? Perché esistono appunto, a livello di pura esperienza intuitiva, determinate strutture invarianti di quel tipo di entità, qui da portare a evidenza, cui corrisponde la felicità. Questo non esclude che le felicità, nelle loro stesse manifestazioni, siano suscettibili per altri versi di variazioni che non smentiscono, tuttavia, la specificità del tipo che esse esemplificano, nel senso che le variazioni sono iscritte nella loro stessa costituzione.8 Sono molteplici le esperienze positive, incluse quelle di felicità, che possiamo fare nel corso della nostra vita o che altri possono vivere e rivelare, magari, al nostro sguardo e alla nostra sensibilità. Mi rallegra, ad esempio, la visita improvvisa di una persona cara che non vedevo da molto tempo; il libro che un amico sta leggendo con passione, o un determinato dipinto, per il quale egli ha una spiccata predilezione, suscita in lui un’autentica esperienza «felicitante» (Von Hildebrand 2006, 691); l’esito negativo di un esame clinico rianima il paziente che sentiva a rischio la propria vita e di colpo lo rende felice, lo riempie di gioia e così via. Al di là delle analogie però, che possiamo riscontrare nelle diverse esperienze positive, di felicità o di gioia, poniamo, vissuti questi meno basilari di un mero stato di piacere; al di là ad esempio di una specifica apertura intenzionale e di un’altrettanto specifica coloritura che avremo modo di mettere a fuoco, nel loro massimo grado, nella felicità, che cosa soprattutto rende unica la mia o la tua profonda felicità? Il fatto, lo vedremo, che nell’atto di felicità così inteso la persona coinvolta, nel suo essere più intimo, possa fare esperienza del suo stesso valore morale, valore col quale coincide; che in quella felicità l’individuo possa completamente rispecchiarsi. Essa si manifesta, infatti, solo «quando non siamo più legati a un particolare dominio ontologico (società, amici, professione, Stato ecc.), e quando siamo dati a noi stessi, non più come relativi, dal punto di vista esistenziale e assiologico, a un atto (della conoscenza o della volontà) non ancora compiuto, ma come un assoluto esser “noi stessi in quanto tali”» (Scheler 2013, 671).

4.1. Non causalità, ma transmotivazionalità della felicità

Il nostro è uno studio della felicità volto, come sappiamo, alla ricognizione degli aspetti più centrali del fenomeno in esame e alla rilevanza qualitativa che esso assume nel contesto di una esistenza personale e del suo significato. Una delle tesi fondamentali di questo lavoro, che ha nel motivo e in quanto lo trascende il proprio filo conduttore, tesi che trova conferma nella natura della felicità quale si rivela sul piano fenomenologico, è la seguente: la felicità, che non rappresenta il mondo così com’è, alla maniera di un vissuto cognitivo in senso stretto, ad esempio di una credenza, non è uno «stato» mentale o causa (extrapersonale) – secondo un modello in larga parte condiviso dagli empiristi classici – del nostro agire. Non lo è per meglio dire se gli stati mentali, inclusi quelli di tipo emotivo, cui spesso vengono ridotte le dinamiche della mente o la sua stessa vita, si identificano con una semplice sequenza di stati (credenze, desideri, emozioni ecc.). Anche per un importante filosofo della mente come Davidson (1980), ad esempio, che pure non ammette né leggi psicofisiche né leggi psicologiche rigorose, la mente equivale di fatto a una sequenza di stati (eventi) mentali, ossia a una successione ordinata o razionale di stati. Ogni stato, in linea di principio, si trova in relazioni causali con i precedenti e i successivi, sebbene le azioni intenzionali, che in determinate cause hanno le loro «ragioni», non possano essere spiegate, appunto, in termini di leggi rigorose. Le credenze o le emozioni, in quanto stati così intesi, agiscono come cause delle azioni razionali. Per altri versi Searle (2003), in cerca di ragioni per agire indipendenti da desideri, ossia non strumentali (pensiamo di nuovo alla vita pratica), presuppone, certo solo come bersaglio polemico, il modello della spiegazione causale della ragione pratica che riduce le ragioni, precisamente, a cause delle azioni, e descrive le cause come leggi rigorose. Nel fenomeno della «lacuna causale» (Searle 2003, 46-49; 57-89), dello scarto che si viene a creare tra le cause dell’azione (credenze e desideri) e l’effetto (l’azione), rivelando l’apparente insufficienza della «ragione» che un agente offre, nei termini «classici» di spiegazione causale, della propria azione, l’azione in questione sembra recare il marchio della libertà o volontarietà: avere una genuina ragione o motivazione. Sebbene credenze e desideri non si limitino a svolgere, nella cornice searliana, il ruolo di condizioni casualmente sufficienti per un’azione, i vissuti affettivo-conativi non vengono valorizzati fino in fondo nella loro intelligenza emotiva. Le emozioni o i sentimenti, dunque la stessa felicità, assumono senz’altro una connotazione quasi cognitivistica, che li differenzia da altri vissuti psicologici, ma solo in virtù di determinati contenuti proposizionali, della loro idoneità a rappresentare il mondo così com’è (Searle 2003, 31-56; cfr. Deonna & Teroni 2012, 6), e non l’hanno di conseguenza per loro stessa natura. In un’ottica per molti aspetti diversa, non solo da quella di Davidson, ma anche da quella di Searle che propone in ogni caso un modello standard, sia pure corretto, di razionalità, secondo il quale le ragioni o i vincoli di razionalità sono iscritti witggensteiniamente nel pensiero e nel linguaggio, vogliamo dare qui un’idea, meritevole di ulteriore approfondimento, del sentimento centrale nello studio di Rümke e, insieme, di ciò che intendiamo sulla falsariga di Scheler con «felicità». Lo faremo innanzitutto via negationis, dicendo cosa non intendiamo per «felicità».

Quanto all’ambito delle facoltà dell’animo umano nel quale occorre collocare la felicità, per afferrarne almeno la profondità e la qualità che, nella nostra prospettiva, mostrano la stratificazione della vita che l’accoglie, non si tratta ovviamente di quello «cognitivo», in un’accezione stretta del termine, e nemmeno di quello volitivo, ma di quello emotivo. La felicità in ogni caso, come tutti i vissuti affettivi, ha una sua «logica», non desunta però dall’intelletto. Il volere, d’altra parte, non è affatto estraneo alla «storia» della felicità, al ruolo, ad esempio, che la felicità ha svolto nelle diverse teorie etiche o nella cosiddetta vita buona. Nella versione filosofica che ne offriamo i vissuti emotivi, dei quali descriviamo soprattutto la felicità, presentano infatti un deciso tratto cognitivo, un tratto di tipo specifico, appunto, rispetto ad esempio al tratto propriamente cognitivo che presenta un atto, poniamo, rappresentazionale. Quello che proponiamo, nell’ambito del presente lavoro, è un abbozzo di eco-fenomenologia dei vissuti emotivi; in particolare, di cosmo– fenomenologia della felicità. Si tratta di un modello dinamico-relazionale dei vissuti in questione. Più un vissuto che esperiamo è profondo, più ci apriamo al mondo, meno sprofondiamo in noi stessi. Il raccoglimento non è in questo caso ripiegamento in se stessi. Più un vissuto è profondo e centrale, più è motivato (“comprensibile” nel lessico fenomenologico) – meno causato (meno bisognoso di spiegazioni) – e più ne vieniamo motivati. Più un vissuto è profondo, più approfondiamo nel mondo, con altri, compiendo determinati valori positivi, la nostra esistenza (e conoscenza di noi stessi) nei relativi gradi di libertà. Più la nostra esistenza diventa significativa. La più profonda felicità, tuttavia, o beatitudine, costituisce (con la disperazione) da questo punto di vista un’eccezione. Questa eccezione ne rivela l’essere che vorrei definire «transmotivazionale» e descrivere, in via preliminare, nei seguenti termini. Più un sentimento di felicità è profondo e centrale, più sembra sciogliersi dall’intreccio di motivi (non di cause), senza diventare per questo immotivato. L’ «eternità», infatti, un qualunque frammento di essa, la fuoriuscita improvvisa dal tempo del prima e dopo della vita pratica, l’esperiamo soprattutto, se mai arriviamo a provarla, nei sentimenti metafisici o della personalità che, più d’ogni altro vissuto, ci mostrano l’abisso della nostra vita emotiva: beatitudine e disperazione. Essi sono assoluti (absoluti): di per sé compiuti, mai relativi a stati di cose estranei alla persona, nei quali troverebbero al massimo una (parziale) motivazione che ne farebbe qualcosa di diverso da quello che sono, e insieme liberi. Liberi dalle urgenze che caratterizzano la vita pratica e dalle angustie della mera soggettività, perché ogni stato dell’io considerato in astratto (separato dall’intero personale) appare «come spento per così dire» (Scheler 2013, 669). Impossessandosi di noi, essi sciolgono (absolvunt) la nostra intera esistenza dall’ordinaria catena motivazionale, rivelando tuttavia, della stessa esistenza, con la massima chiarezza, le altezze e le bassezze morali. Impossibile qui sfuggire alla realtà di quanto proviamo, alla nostra stessa realtà valoriale, a quanto si offre spontaneamente, «per pura “grazia”» (Scheler 2013, 659), oltre ogni possibile motivo sensibile e merito. Proprio per questo, simili sentimenti e il loro contenuto sfuggono al controllo del volere.

4.2. Cosa non è felicità

Non inseguiamo dunque, come se potessimo incontrarvi la felicità, vissuti puntuali allo stato puro. Un vissuto simile, una pura sensazione di piacere ad esempio, che non indica in quanto tale una «“relazione variabile” tra uno stato del proprio corpo e un fenomeno del mondo esterno» (Scheler 2013, 137), sembra poco naturale, quasi artificioso se ci atteniamo alle comuni esperienze che possiamo fare nella vita di ogni giorno in ogni sua possibile manifestazione (pratica, teorica, estetica ecc.). Sarebbero in ogni caso, vissuti del genere, suscettibili di essere innescati dall’esterno: causati, ad esempio, da un bombardamento di stimoli, altrettanto puntuali e del tutto neutri, oppure provocati nel soggetto che li vive, forse ciecamente, da un volere ad esso estraneo che potrebbe avere un proprio disegno e impiegare, senza alcun scrupolo, dei mezzi adeguati allo scopo che persegue. A maggior ragione, non inseguiamo nello stesso senso vissuti astratti, separati da un portatore che possa esperirli in prima persona, e come propri. Che cosa sarebbe del resto – per dirla con Scheler – un’esperienza «non esperita»? Che non potesse mai essere esperita da qualcuno? Un «vissuto solitario» forse? Le persone possono esserlo, solitarie, non i vissuti, tanto meno le felicità. Analogamente le gioie, o un qualunque vissuto positivo che riconduciamo a qualcosa di simile ad esse, anche quello più intimo, toccato dalla grazia o ravvivato dall’amore, oppure quello che si manifesta sotto forma di vero e proprio entusiasmo, di giubilo, non è in grado di volare, e nemmeno di cantare. «Sollevano» semmai «a un palmo da terra» la persona che li vive o «ne fanno cantare l’anima». Non prendiamo in esame quindi, se non per condurvi analisi specifiche, dei vissuti astratti, come se potessimo rintracciarvi felicità, gioie o piaceri ancora palpitanti, ma dei vissuti in linea di principio concreti, non indipendenti, cioè, in quanto parti, dall’intero di appartenenza, qui coincidente con la rispettiva persona. Non indipendenti, in terminologia fenomenologica, dall’intero di fondazione o concreto che, essendo concreto, precisamente, li strappa all’astrazione e li individua: dona loro concretezza. Proprio perché, nel caso specifico, è una persona, l’intero in questione fa letteralmente qualcosa di concreto delle singole parti o dei singoli vissuti: dona loro sangue e vita. Di qualunque tipo essi siano, i vissuti non sono mai del tutto irrelati, imprigionati in se stessi e nel proprio silenzio. Non si trovano nel più totale isolamento. Sono dati piuttosto con la persona che li esperisce, nella propria vita ed esistenza, e nelle relazioni che stabiliscono tra loro. I vissuti affettivi in particolare possono assumere, inoltre, diverse forme che dipendono, oltreché dalla loro stessa qualità, dalla profondità, come abbiamo anticipato, nella quale sono precisamente radicati nella vita (emotiva) di una persona. Esistono invero – ognuno di noi lo sa per esperienza – gioie effimere o maligne, travolgenti passioni, allegrie contagiose ecc. Esistono profonde felicità, addirittura, che non potranno assolutamente mai essere afferrate perché sono già «sulle spalle» (Scheler 2013, 683) della persona che ne avverte la discreta presenza. Tutto questo esiste perché le persone, appunto, sono loro stesse stratificate e hanno modi diversi di rapportarsi ai loro vissuti (emotivi): modi che indicano a loro volta, in gradi diversi, determinate forme di libertà, o quanto meno di autonomia, delle stesse persone (anche) rispetto ai loro vissuti e, nei vissuti, rispetto a determinati aspetti (valori) e oggettualità (beni) nei quali si rivela loro il mondo che abitano.

Non basta allora che qualcuno possa avvertirne la presenza nella propria presenza, o viverla solo in se stesso, oppure rivolto solo a se stesso, perché la felicità, o il vissuto che in determinate condizioni vive come tale possa davvero manifestarsi per quello che originalmente è: come una «robusta» esperienza di realtà, aperta al mondo. Per essere davvero concreta e sensata (o insensata), davvero significativa (o non significativa); per non cadere, quindi, nella trappola del proprio solipsismo o di quello eventuale del proprio portatore; per non essere mera e arbitraria soggettività, la felicità deve essere in comunicazione, soprattutto se è davvero profonda e obiettiva, con un mondo «condiviso» con altre persone che non diviene, per questo, un mondo diverso da quello del rispettivo portatore – come se nel singolo «microcosmo» di cui ognuno di noi costituisce il correlato, si manifestasse nel compimento di determinati atti, ad esempio, nell’atto di amare personale, qualcosa del «macrocosmo» (Scheler 2013, 771-773), come se potessimo esperirne un frammento nel nostro mondo di esperienze. Le genuine felicità hanno occhi rivolti verso l’esterno, confermando peraltro nella loro struttura il carattere tipicamente dinamico del sentimento che incarnano, irriducibile a uno stato (sensoriale o meno). A sua volta la persona che le porta ha occhi rivolti, non tanto all’interno, verso di sé, come se vivesse ogni esperienza emotiva ripiegata necessariamente in se stessa, ma verso l’esterno, verso la realtà intera che la circonda e che sente risuonare come un’eco «dentro» di sé. Grazie a questa realtà, della quale ogni vissuto emotivo trasmette nel «senso» di cui è dotato «differenze obiettive di valore» (Scheler 1986, 36), la persona può avere accesso (sensatamente, obiettivamente) anche alla propria realtà. È proprio «il senso immanente» (Scheler 1986, 36) ai vissuti emotivi, in quanto atti di esperienza, a distinguersi nettamente dalla loro possibile «origine causale» (Scheler 1986, 37) e, nel caso soprattutto dei sentimenti della personalità, «dalla conformità a scopo puramente obiettiva» (Scheler 1986, 37) che prevale nella conservazione e nelle faccende della vita pratica. È evidente che una felicità diretta per sua natura verso l’ «esterno», vissuta da una persona che fosse invece diretta solo su stessa, sarebbe impropriamente vissuta. Il sentimento e il suo naturale orientamento assiologico, nell’accezione eidetica del termine, sarebbero in contraddizione, oltreché col vissuto fattuale, con l’orientamento della vita della persona in questione. Il vissuto apparirebbe, agli occhi di chi tentasse di comprenderlo muovendo, sia dal rispettivo portatore, sia dalla conformazione e direzione valoriale del tipo di sentimento che esso dovrebbe esemplificare, piuttosto capriccioso, immotivato. Apparirebbe inoltre, se non privo di senso (sinnlos), senz’altro insensato (unsinnig).

4.3. Dove e come cercare (non la felicità ma) il senso della felicità e di un’esistenza

Il senso della felicità (o infelicità) così intesa (concreta e cosmologica) lo scopriamo allora nello stesso «sguardo» del vissuto, vale a dire, nel suo preciso orientamento. Nell’apertura, inoltre, o nella chiusura al mondo del rispettivo portatore: nel suo sguardo. Il senso (o non senso), insieme, di una vita ed esistenza (felice o disperata), è nel mondo là fuori, ovvero, nelle molteplici esperienze della (propria) realtà unitariamente intesa (nella beatitudine) che il portatore di quella vita (e di quella felicità/ disperazione) può fare (o non fare) e nel come le può fare (non fare); nelle mille forme nelle quali la felicità (o infelicità) o altri vissuti positivi (o negativi) si manifestano, quando uno sguardo umano diventa felice (o allegro, gioioso ecc. oppure infelice) proprio perché incontra (o non incontra) valori positivi che si accordano con i valori dello stesso tipo di quelli che ama o preferisce il portatore dello sguardo. Nella profonda felicità, soprattutto, la persona in questione è sempre aperta a una realtà più ampia di quella del proprio ambiente e all’incontro: aperta al mondo e ad altri individui. Ecco perché forme genuine di profonda felicità possono essere definite «concrete» ed «cosmologiche». Interpersonali. La massima espressione di queste forme di felicità è la felicità dell’amore, quella che in esso si fonda. Più una persona è profondamente felice, più la felicità si scopre fondata in un amore, presente o passato; più una persona è profondamente felice, più si apre a un mondo che cresce di fronte a lei a dismisura (nei valori), e può nutrire come una fonte (essa stessa nutrita dalla felicità), nel suo stesso orientamento verso determinati contenuti valoriali del mondo che sono parti del suo mondo, nella scoperta, quindi, di ulteriori valori di quel tipo, la segreta coscienza assiologica che ha di se stessa e, in eventuali giudizi fondati su quei contenuti esperienziali, la conoscenza di sé: «Più la persona è in se stessa ricca di valore, più assume un comportamento di valore e più a ogni passo sboccia a vista d’occhio il mondo dei valori» (Scheler 2013, 531). Affinché questo possa realizzarsi, la persona coinvolta deve liberare il proprio sentire assiologico, quale funzione diretta propriamente su valori ed esercitata nella rispettiva percezione, «dalla prigione della sua stessa» mera «soggettività» (Scheler 2013, 531).

5. Persona: dove si incontrano felicità e significato di una vita

Che tipo di entità è la persona? In una prospettiva scheleriana, la persona è un soggetto d’atti, non un soggetto in balia del proprio solipsismo; un soggetto d’atti o «centro d’atti concreto e in se stesso dotato di valore» (Scheler 2013, 1099). L’individuo, in altri termini, che non è un oggetto e soddisfa tra l’altro il requisito di «essere un (certo tipo di) animale umano», vive ed esiste nel compimento dei suoi atti. Proprio in quest’accezione ne costituisce il «centro», degli atti, senza ridursi di conseguenza a un’entità statica. La persona varia negli atti che compie e fonda. Non esiste, dunque, al di fuori o sopra di essi, ma solo in essi, costituendone appunto il centro o fondamento. Per questo motivo la persona, profondamente felice o meno, può conferire una determinata colorazione ai suoi atti e comportamenti e orientare questi ultimi. La persona, dunque, è quel centro d’atti in cui possono incontrarsi, nei momenti più luminosi della sua vita, «felicità» e «significato» (o, nei momenti più bui, disperazione e svuotamento di senso). Allora quella vita diventa una vita, non solo felice, ma anche significativa, sul piano del contenuto. E tanto più felice, quanto più significativa; tanto più significativa, piena di valore, quanto più è felice. Perché nel proprio portatore sente di realizzare, in momenti come questi, realizzando determinati valori, la propria vocazione o destinazione morale9, di approfondirla o di scoprirla.

5.1. Ruolo della felicità nella vita di una persona

La profonda felicità, irriducibile a uno stato, svolge un ruolo fondamentale nella vita e nell’esistenza di una persona. Non si limita, cioè, a costituirne la fonte e il nutrimento, che già di per se stessi la rendono preziosa. La nostra tesi, che la descrizione in positivo, in parte già fornita, della felicità conferma, rivelando insieme la cooriginarietà nella persona di felicità e senso di una vita, è da questo punto di vista la seguente: la felicità illumina, venendone a sua volta accresciuta, il significato dell’esistenza e della vita della persona in gioco; le chiarisce sul piano affettivo, nel senso stesso che rivela, il proprio intero valore morale, promuovendone e rinnovandone costantemente la ricerca che, a sua volta, può essere compiuta solo se la persona in questione non cerca direttamente la felicità. In quest’ottica, un certo tipo d’infelicità può segnalare alla persona che la prova, un vuoto di senso della propria vita, svolgendo in qualche modo, sia pure in negativo, indirettamente, una funzione anch’essa in parte chiarificatrice: quella di portare sotto gli occhi del corrispondente soggetto lo stato assiologico in cui egli versa, rivelandogli almeno un tratto propriamente morale di se stesso: la miseria morale, o la pochezza, addirittura la malvagità, quando l’infelicità diventa profonda disperazione, perché la «salvezza di sé» (la salute morale) appare ai suoi stessi occhi ormai «compromessa». Reciprocamente, il senso (là fuori) che una persona afferra della sua stessa vita ed esistenza (nella realizzazione di aspetti degni della realtà); il fatto, cioè, che ne percepisca correlativamente, a un qualche livello della propria coscienza assiologica, il valore morale (la bontà o la dignità), che le permette tra l’altro di sviluppare e affinare l’autostima, rende ancora «più felice» la sua stessa felicità, ovvero, la incrementa. La felicità, però, quando è autentica e ben salda sulle spalle del buono10 – per dirla con Scheler – non è mai motivo di compiacimento per il rispettivo portatore, come lo sarebbe se il buono potesse trovare nella propria felicità, attraverso se stesso, un facile appagamento, come se la felicità fosse per lui a portata di mano. Non può esserlo, «a portata di mano», perché la persona profondamente buona (o felice) non può prenderla di mira, portandola appunto sulle spalle.

6. La forma dell’intero e le leggi di variazione, o di senso, della vita emotiva

Riconoscere la logica o le leggi di senso della vita emotiva costituisce un passo imprescindibile per chiunque voglia affrontare, in termini di soggettività incarnata, senza assecondare forme di arbitrarietà, la questione del significato della vita. Si tratta dunque di presentare, con l’intento di mostrarne la fecondità nella direzione indicata, l’opzione teorica già ricordata di Scheler, quella relativa ai vissuti emotivi. Essa valorizza in materia affettiva le intuizioni di Pascal e, dal punto di vista metodologico, il principio di non riducibilità dell’intero integrale o strutturato – una melodia, ad esempio, o uno stormo di uccelli – alla somma («un intero è diverso dalla somma delle sue parti»). Questo principio, come ricorda De Monticelli (2013), è riconducibile, nella sua originaria formulazione e applicazione, agli psicologi della Gestalt (cfr. Köhler 1976; Toccafondi 2019) e, nella sua versione più sistematica (teoria dell’intero e delle parti), a Husserl (1988). In termini husserliani «la forma dell’intero, dell’unità di fondazione» (Husserl 1988, 73), dove l’idea di unità si basa su quella di fondazione delle corrispondenti parti costitutive, è una forma materiale, non indifferente cioè alla propria materia. Contenuti intuitivi dati in un’esperienza vissuta non potrebbero infatti lasciar sussistere la rispettiva forma, nell’accezione indicata, se variassero arbitrariamente. Non ignorando la natura dei contenuti che abbraccia, una forma simile «conferisce unità a un intero» (Husserl 1988, 71) senza tuttavia forzarla. Non unifica l’intero in modo del tutto estrinseco, come farebbe invece una forma categoriale (cfr. Husserl 1988, 72-73) o di pensiero, che non ne restituisse affatto l’unità costitutiva, indicando soltanto, come proprio correlato, un essere-insieme di contenuti qualsiasi. La forma materiale nasce al contrario spontaneamente, senza alcuna mediazione concettuale, nell’unità dell’intero, da contenuti che si trovano in un rapporto di fondazione, e non è imposta dall’esterno o da un pensiero.

Per quanto riguarda, in particolare, la stratificazione scheleriana della vita emotiva che vogliamo illustrare e il livello di profondità (o superficialità) che caratterizza i vissuti emotivi appartenenti a quella vita, occorre portare all’attenzione, in riferimento al criterio metodologico menzionato, un punto per noi di estremo interesse. Il 2principio di non riducibilità dell’intero integrale alla somma», o teoria dell’intero e delle parti, trova concreta applicazione proprio all’interno della regione «persona» che si tratta ora di esplorare, appunto, nelle sue dimensioni assiologico-affettive: un singolo vissuto del corpo e/o della persona interessata costituisce un momento fondamentale dell’intero di appartenenza o concreto, vale a dire, del corpo o della persona. Possiamo anche dire: il singolo vissuto è un momento non-indipendente del corpo e/o della persona, sottolineando così che, in conformità dell’ordine di fondazione (Fundierung) (Husserl 1988, 52), il singolo vissuto richiede di essere integrato o connesso al corpo e/o alla persona, senza i quali non può esistere – anche se può essere considerato in astrazione da essi. La persona, l’intero assoluto, non si riduce alla somma delle sue parti o momenti, esattamente come un corpo non si riduce, ad esempio, alla sua forma. La persona è irriducibile, dunque, al corpo-vivo più, ad esempio, i singoli vissuti, più i singoli organi, più i singoli stati sensoriali ecc. Da questo punto di vista, possiamo già intuire, in corrispondenza della struttura onto-assiologica della persona che prenderemo in esame (estensione corporea, sfera vitale, sfera psichica, sfera propriamente personale e/o spirituale), il senso di una stratificazione della rispettiva vita emotiva e dei rispettivi vissuti (stati sensoriali, sensi vitali, vissuti psichici o emozioni, sentimenti della personalità). Alle sfere onto-assiologiche della persona, e ad eventuali vissuti di quelle sfere, corrispondono, nella rispettiva altezza, determinate sfere di valori (valori del piacevole/spiacevole, valori vitali, valori culturali/personali e valori propriamente personali o del sacro e del profano). Le leggi di senso della vita emotiva o leggi di variazione dei vissuti emotivi regolano le relazioni che sussistono tra vissuti di questo tipo e valori. Simili variazioni, suscettibili di volta in volta di manifestarsi nella vita emotiva di una persona, possono essere intese in un’accezione musicale, come «variazioni su un tema» (Guccinelli 2016b, 121-125).

Conformemente alle variazioni dei vissuti emotivi, varia la persona intera, divenendo ogni volta altrimenti, ma simili variazioni, entro certi limiti, non ne pregiudicano tuttavia la forma (intero) o identità assiologico-morale (sempre in divenire), proprio come le variazioni, nei suoi aspetti ritmici, melodici ecc., di un pensiero musicale non ne pregiudicano l’identità – indipendentemente dal fatto che l’identità così intesa, nel nostro caso, possa rivelarsi o meno al suo stesso portatore. È lo sfondo musicale, quindi, che occorre tener presente per afferrare, nella loro sensatezza, le relazioni motivazionali che sussistono, sul piano strettamente pratico, tra il tendere e il sentire, e/o quelle che sussistono, anche su altri piani, tra i diversi vissuti emotivi di una stessa vita personale, e/o quelle tra vissuti e valori (o beni), che dei vissuti possono costituire il correlato. Nella stessa direzione possiamo afferrare la sensatezza o meno di determinate modalità di reazione affettiva di un vivente a un valore (a un bene, a un altro individuo ecc.) e le modalità di risposta affettiva della persona, e talvolta le modalità di scoperta, da parte della persona intesa come un intero assoluto, di quanto lei stessa all’improvviso realizza di essere (se stessa), per cui non più esserle dato ancora. Scheler espone la teoria dei vissuti emotivi nel Formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori (1913, 1916), un’opera monumentale, centrale nel nostro studio e ben presente a Rümke, che ancora oggi gode di grande freschezza.

7. Stratificazione della vita emotiva

È solo emancipandosi da uno stato di minorità, non necessariamente corrispondente allo stato anagrafico, che l’individuo umano scopre nelle sue preferenze e nei suoi amori, quindi da un punto di vista assiologico-emozionale, di essere ontologicamente stratificato e irriducibile, di conseguenza, al proprio corpo – alle singole parti del corpo-vivo (la sfera sensoriale) o al corpo-vivo unitariamente inteso (la sfera vitale) – alla propria mente (la sfera psichica) e ai modi parziali d’essere persona (nella sfera culturale, giuridica, scientifica). Ogni individuo vive, anzi, nella costante tensione verso l’intero d’appartenenza che esso stesso incarna e forse nasconde o dissimula, che non cessa di divenire (altrimenti) e senza il quale anche un atto sarebbe soltanto un’astratta essenzialità – verso la persona globalmente intesa (la sfera della salvezza o della dannazione). Vive, inoltre, nella costante tensione verso la pienezza e l’unità di senso che avverte talvolta, dal punto di vista esistenziale, nei momenti di autentica apertura agli altri, a loro volta esperiti come interi, e al proprio mondo, colto unitariamente nelle sue molteplici manifestazioni, nei momenti di condivisione dei valori più elevati o in quelli di puro raccoglimento e contemplazione.

Affezioni sensoriali (sinnliche Gefühle)

Muovendo dagli strati periferici della vita emotiva, quelli sensoriali, scopriamo innanzitutto i corrispondenti vissuti: le affezioni sensoriali o stati sensoriali (cfr. Scheler 2013, 651-661). Ci limitiamo, in questo caso come in quelli immediatamente successivi, a una breve descrizione delle diverse classi, che veniamo scoprendo, di fenomeni emozionali. Ciò che conta, nell’economia del nostro discorso, è avere un quadro minimamente perspicuo, conforme alla loro profondità, dei differenti tipi di vissuti emotivi, all’interno del quale collocare quella profonda, centralissima felicità sulla quale è opportuno invece soffermarsi ancora. Quali sono dunque i principali tratti eidetici dell’affezione sensoriale (sinnliches Gefühl)?

Un’affezione sensoriale, un dolore o un piacere sensoriale, si caratterizza nei seguenti termini:

  1. È estesa e localizzata in determinate parti del corpo-vivo;
  2. È data essenzialmente come uno stato, è priva cioè d’ogni forma d’intenzionalità;
  3. Si riferisce all’io e al corpo-vivo, inteso come un intero (nella sua identità unitaria)*, solo indirettamente.* L’intero di appartenenza è costituito, in questo caso, dall’«unità organica» (Scheler 2013, 653) o dall’organo untariamente inteso;
  4. È una realtà attuale;
  5. È puntuale, priva di durata e di continuità di senso;
  6. È, tra i vissuti emotivi, quello meno insofferente all’attenzione;
  7. È suscettibile d’essere modificata con la volontà sul piano pratico.

L’ultimo carattere (7.) è, dal nostro punto di vista, particolarmente interessante. Esso rivela la distanza dell’affezione sensoriale da vissuti emotivi meno periferici, quando venga con essi confrontata, distanza che diventa abissale rispetto a sentimenti centrali della personalità come quelli di beatitudine e disperazione. Diversamente dai vissuti emotivi più vicini all’io o al centro della persona e radicati più in profondità nella vita di appartenenza, che meno si prestano, infatti, a essere suscitati per mezzo di adeguate sostanze, meno tollerano interventi da parte del volere e, in certi casi, si sottraggono del tutto a un’influenza del genere, l’affezione sensoriale può essere in qualche modo causata dall’esterno ed è senz’altro modificabile mediante un atto di volere, può essere facilmente manipolata. Questo aspetto conferma gli stretti margini di libertà dei quali disporrebbe una persona, se dovesse ridursi ai suoi meri strati sensoriali, se non riuscisse mai a emergere, cioè, sui propri stati sensoriali e dovesse reagire, di conseguenza, solo a determinati stimoli provenienti dall’esterno. Esistono, ad esempio, forme di piacere stimolato ad arte. Se dovessimo subirlo solo passivamente, sarebbe un piacere che ci «farebbe fuori», per così dire, o non contemplerebbe, appunto, la nostra genuina partecipazione ad esso. Esistono anche forme di dispiacere suscettibili di essere narcotizzate (Scheler 2013, 657). Rimane il fatto, in negativo o in positivo, che si tratta di strati della vita corporea che, per essere pienamente apprezzati e sottratti al rischio di divenire proprietà altrui, esigono un portatore più articolato di un eventuale ens sensualis. Proprio perché, tuttavia, lo stato di piacere (o dispiacere) sensoriale ritaglia solo un momento della vita emotiva, e si presenta raramente allo stato puro, appare del tutto implausibile interpretare l’intera vita emotiva come «una successione di stati causalmente determinati che si svolgono in noi senza un senso e senza un fine (sinn- und ziellos)» (Scheler 2013, 515).

Sensi vitali (Lebensgefühle, Leibgefühle)

Il senso vitale o vissuto emotivo di ordine vitale (Scheler 2013, 661-667) può presentarsi in una duplice modalità, quella di «senso del proprio corpo» (Leibgefühl) in quanto «stato», e quella di genuino «senso vitale» (Lebensgefühl) in quanto «funzione» (Funktion) (Scheler 2013, 649). Un qualunque senso del nostro corpo è espressione del carattere unitario dello stesso corpo-vivo, del quale costituisce una parte non-indipendente: nel benessere o malessere, nel vigore o nella freschezza, ad esempio, della stessa vita del corpo così inteso. Quanto alla funzione vitale, essa è diretta, piuttosto che sulla propria vita, verso l’esterno, verso la vita dell’ambiente e dei suoi abitanti, inclusi gli animali non-umani e i vegetali. Ha un carattere spiccatamente ecologico che la separa da ogni possibile sensazione allo stato puro. La funzione vitale restituisce, infatti, il tratto proprio-corporeo del legame comunitario. Nella sua versione positiva ci permette, nei momenti di autentico benessere, ad esempio, nelle riprese e nelle crescite, di «risuonare» talvolta con il nostro ambiente, di stabilire con esso un contatto diretto, affettivo (affect attunement)11 capace di distinguersi, in quanto tale, da un contatto solo mentale o solo fisico. Rispetto alle affezioni sensoriali, il senso vitale, più legato al modo di vivere del suo stesso portatore, è molto meno docile a eventuali forme di intervento pratico e, in condizioni normali, svolge la sua attività sensatamente «solo al di là della sfera di luce dell’attenzione» (Scheler 2013, 657). È meno periferico, rispetto a uno stato sensoriale, e più individuato dal soggetto proprio-corporeo. Non gode, però, dello stesso grado di autonomia o liberta di cui gode un’emozione psichica come la gioia, ad esempio, tanto meno di quello di cui gode un autentico sentimento della personalità come quello dell’amore.

Sentimenti (Gefühle)

I «sentimenti» in senso proprio consistono, da un lato, nei sentimenti puramente psichici o dell’anima, dall’altro, nei sentimenti della personalità, al gruppo dei quali appartiene appunto la beatitudine.

Sentimenti dell’anima (seelische Gefühle)

Emozioni come una gioia psichica (Freude), ad esempio, o una felicita di questo livello della vita emotiva, mai estese – nemmeno vagamente – in certe parti del corpo, sono ancora più centrali dei vissuti fin qui contemplati. A differenza, ad esempio, di un’allegria vitale, identificano vere e proprie qualità dell’io (Ichqualitäten) psichico (Scheler 2013, 669). Proprio per questo, per la loro maggior individuazione, sfuggono «più dei sensi vitali, al controllo della volontà» (Scheler 2013, 657). Sono talmente insofferenti, inoltre, all’attenzione, da «sciogliersi», potremmo dire, come neve al sole, «sotto i» suoi «raggi» (Scheler 2013, 657). Mentre un dolore sensoriale persiste, addirittura cresce, quando vi si presta attenzione, non essendone affatto disturbato, e solo una fuga nella distrazione consente al massimo di respirare al rispettivo portatore, un diverso atteggiamento è richiesto, nei confronti di una sofferenza psichica, a chi speri di liberarsene. Il «peso» di una simile sofferenza «aumenta» (Scheler 2013, 657), e può diventare opprimente, quando si cerca nel divertissement una liberazione da questo sentimento. Non tollerando la sofferenza di essere portata all’attenzione, una messa a fuoco di essa, che ne permetta l’obiettivazione, può esserle fatale.

Sentimenti della personalità (geistige Gefühle). Gli esempi della beatitudine e della disperazione* (Seligkeit, Verzweiflung)

La beatitudine, ben distinta in quanto tale da ogni altra possibile felicità meno centrale, meno radicata in profondità e meno stabile, la massima felicità, quindi, e la disperazione o massima infelicità, in negativo, hanno il potere di mostrarci rispettivamente le altezze o gli abissi della nostra stessa vita emotiva e intera esistenza morale. Essi danno la misura della nostra stessa vicinanza a noi stessi o della lontananza da noi stessi, dal bene «in sé» «per noi», dal «massimo valore» (Scheler 2013, 233; cfr. anche Scheler 2013, 949)12, che può apparire giusto in un «oggetto» assoluto, non bisognoso d’integrazione, dotato della massima concretezza: inesauribile. Non si tratta tanto della vicinanza (a) o lontananza dalla nostra salute psico-fisico-sociale, quanto della vicinanza (a) o lontananza dalla nostra possibile salvezza o morte morale. La disperazione, «quando ogni possibile fuga dal sentimento negativo sembra, per così dire, stroncata sul nascere» (Scheler 2013, 671), sequestra nella prigione del proprio inferno morale la persona che la esperisce, annientandone, almeno in apparenza, le risorse esistenziali. A sua volta la beatitudine rivela, a chiunque abbia la capacità di afferrarla nello sguardo e/o nel comportamento altrui, lo stile morale della persona che la porta sulle spalle; che avverte infatti pudicamente, alle spalle di se stessa o del proprio volere (Scheler 2013, 77), la propria bontà. Felicità e bontà tuttavia, essendo compagne silenziose della persona in questione, essendo, appunto, sulle sue stesse spalle o alle sue stesse spalle, non potranno mai essere afferrate direttamente da un volere o tendere. Solo indirettamente quando realizzerà, talvolta sorprendendo addirittura se stessa, valori dello stesso tipo di quelli che preferisce e soprattutto ama; che conferiscono, inoltre, significato alla sua stessa esistenza; proprio in quei momenti, nel compimento dell’atto, la persona in gioco potrà forse evitare di mancare l’appuntamento con la propria destinazione (individuelle Bestimmung) o vocazione: con il bene in sé «per lei». E potrà magari prendere una posizione rispetto al suo stesso destino (Schicksal) che, diabolicamente, potrebbe confliggere con la sua destinazione individuale.

[…] qualcosa è buono «in sé» proprio nel senso di «indipendentemente dalla circostanza che io lo sappia o no», perché questa è l’implicazione di «in sé», ma inoltre è il bene in sé «per me», nel senso che in questo specifico contenuto materiale originario a priori del bene in sé c’è, a volerlo descrivere, un rinvio (esperito) a me stesso, quasi un dito puntato che esce dal contenuto e indica me, come se mi sussurrasse «per te». Questo contenuto mi assegna una posizione unica nel cosmo morale e, secondariamente, mi ordina azioni, atti, opere che sembrano dire: «io sono per te» e «tu sei per me» (Scheler 2013, 945).

Il fiore della felicità

Se l’identità (sempre in divenire) consiste nel peculiare mondo di valori di una persona, nella sua stessa struttura assiologica – nell’ordine dei suoi amori e delle sue preferenze, del suo odio, delle sue repulsioni ecc. ecc. – la libertà (o schiavitù) individuale, possiamo dire senza tradire il pensiero Scheler, consiste nel compimento (o non compimento) di un certo tipo di valori: i valori del tipo di quelli che preferiamo e amiamo (Guccinelli 2020, sui valori cfr. Guccinelli 2014). Anche se la libertà individuale, dunque la cura dei valori personali, non può mai violare il diritto altrui alla libertà, né può avvenire, di conseguenza, nell’omissione della cura, altrettanto essenziale, di un certo numero di valori universali che, dei primi, costituiscono il presupposto. Beatitudine e disperazione sono sentimenti nei quali esperiamo implicitamente il nostro stesso valore morale o valore intrinseco alla nostra identità. Nel correlato «oggettuale» della beatitudine, intravediamo, in positivo, il senso di una vita ed esistenza possibile. Il «fiore della felicità (die Blume des Glückes)» (Scheler 1986, 65), la beatitudine, appunto, o più profonda felicità che accompagna una vita buona, sboccia nell’atto d’amare personale, l’atto più individuato, nel quale emerge in piena luce l’intero di appartenenza, essendo l’amare lontanissimo da ogni eventuale stato considerato in astratto. Una vita significativa e una felicità così intesa si fondano nel rispettivo intero, nel suo stesso valore morale, che viene appunto alla massima evidenza in un «atto» di amore personale. La più profonda felicità, tuttavia, è contemporaneamente fonte di quel valore morale da cui dipende, e nutre e sostiene la persona che l’esperisce. Ogni atto di volere e tendere dipende pertanto, non solo dal nucleo valoriale della persona che lo compie, ma anche dalla «pienezza emotiva», nel nostro caso la beatitudine, «che la persona esperisce nello strato più centrale del suo essere» (Scheler 2013, 681). Impregnando la persona, la beatitudine non può costituirne un oggetto da prendere di mira, né dipendere da altri oggetti o stati di cose. Nella felicità che spunta dall’amore avvertiamo insieme, in un istante d’eternità per così dire, la nostra salvezza – là dove tutto accade e può accadere soltanto se voltiamo le spalle al nostro io, alla sua inappagabile ricerca di felicità. « […] daß das vom eigenen Ich abgewendete Verlorensein in das Subjekt der an unserer Liebe erwachenden Gegenliebe eben der Kern des Glückes der Liebe ist.»13

Il nucleo della felicità dell’amore (Kern des Glückes der Liebe) consiste precisamente nel perdersi, volgendo lo sguardo altrove rispetto al proprio io [= voltando le spalle al proprio io (das vom eigenen ich abgewendete Verlorensein)], nel soggetto di un amore capace di ricambiare l’amore che lo risveglia: il nostro stesso amore (an unserer Liebe erwachenden Gegenliebe).»14 (Scheler 1986, 65). Analogamente, il fiore azzurro di Novalis, è intrecciato alla vocazione (la poesia, l’amore) e al più recondito senso della vita di quella persona, e solo di quella persona, di cui accompagna l’intera esistenza. È il fiore che spunta dal terreno dell’«attiva, libera e amorevole dedizione (Hingabe) al mondo (o all’amata)» (Scheler 1986, 65).

Ma ciò che soprattutto lo attrasse fu un alto fiore azzurro chiaro, che stava presso la fonte e lo sfiorava con le sue larghe foglie lucenti. Tutt’attorno a quello erano innumerevoli fiori d’ogni colore, e il più dolce profumo empiva l’aria. Ma lui non vedeva che il fiore azzurro, e a lungo lo contemplò con ineffabile tenerezza. Infine volle avvicinarglisi, quando esso prese d’un tratto a muoversi e a mutarsi: le foglie divennero più lucenti e si strinsero al crescente gambo, il fiore si piegò verso di lui e mostrò un’espansa corolla azzurra, in cui si cullava un tenero volto. (Novalis 1997, 17-18)

8. Scheler e Rümke: tra teoria e clinica. Felicità e sindrome della felicità

Rümke non si spingerebbe forse così lontano, da un punto di vista strettamente deontologico, ma considera senz’altro la letteratura e la poesia, da lui stesso coltivate e praticate, una risorsa fondamentale nella comprensione della sofferenza psichica. Quanto alla teoria scheleriana qui esposta, ne apprezza l’originalità e l’incentivo che essa costituisce a un ulteriore avanzamento negli studi di psicologia dell’affettività, illuminando, come raramente accade a suo avviso nella letteratura specifica, il normale andamento della vita emotiva e la natura del sentimento di felicità. Manifesta solo qualche perplessità. Sono riserve dovute alle esigenze che pone la pratica psichiatrica, destinate tuttavia a svanire perché le osservazioni cliniche dimostrano in questo caso la bontà dell’impostazione scheleriana, coincidendo in larga misura i risultati di Rümke con quelli cui giunge in maniera autonoma il filosofo. Rümke sembra infatti sciogliere, piuttosto che consolidare, ogni dubbio che possa sorgere al riguardo nella mente del clinico inducendolo erroneamente a giudicare artificiosa, solo perché così gli appare a prima vista, la ripartizione in diverse classi dei vissuti emotivi. Si potrebbe in particolare non essere del tutto persuasi, riflette Rümke, dalla caratterizzazione scheleriana dei veri e propri sentimenti della personalità. Nel gruppo di questi vissuti il filosofo iscrive, come abbiamo visto, «la più profonda felicità (das tiefste Glück)» o «perfetta beatitudine (die vollendete Seligkeit» (Scheler 2013, 699) che, oltre a radicarsi nello strato più profondo e centrale della vita emotiva, nel cuore dell’esistenza personale, costituisce precisamente, del sentimento di felicità, lo «strato più profondo» (tiefste Schicht der Glücksgefühls) (Scheler 2013, 671).

Come può tuttavia la beatitudine costituire lo strato più profondo di un sentimento di felicità? È solo una parte, quindi, di un comune sentimento di felicità? O è invece una felicità autonoma? Una felicità nuova? Per dissipare le perplessità, che si potrebbero avere a un primo sguardo, sulla correttezza della descrizione scheleriana della beatitudine ed esplicitare quanto rimanendo in ombra potrebbe favorirle, occorre precisare che una felicità di questo livello può addirittura non essere più sentita «in senso stretto» (Scheler 2013, 671) – come se il sentirla passasse in secondo piano rispetto al modo in cui essa si offre originalmente. Può «non essere più sentita», in un’accezione sensori-funzionale del sentire (Fühlen), anche se vissuti emotivi di tipo diverso da quello che esemplifica una felicità come questa possono continuare ad essere sentiti. Può continuare ad esserlo forse una felicità più ordinaria, della quale la beatitudine ritaglia precisamente lo strato più profondo, prima di separarsene. Ogni vissuto del resto, intrinsecamente articolato, può essere sentito in modo più o meno parziale, oltreché esperito in modo più o meno parziale – non esaurendosi l’esperienza, fenomenologicamente intesa, nel proprio contenuto sensoriale. Può non essere più sentita allora, la più profonda felicità, nella sua stessa stratificazione (nel suo strato meno profondo, non ancora il più profondo ecc.), come se tutto questo adesso, mentre la esperiamo, fosse irrilevante, adesso che conta soltanto lo strato più profondo con il quale essa coincide. Felicità o gioie solo in apparenza simili ad essa sono invece ancora suscettibili di essere sentite; sentite, inoltre, nelle loro articolazioni interne ed «esperite» in maniera più o meno centrale. Dall’intreccio di questi vissuti (da felicità, ad esempio, meno compiute) la beatitudine può senz’altro emergere all’improvviso in tutta la sua autonomia e novità rispetto ad essi, a quanto la precede, appunto, o la introduce in qualche modo, rispetto a un sentimento psichico di felicità, ad esempio, che ancora non è la più profonda felicità, un sentimento di cui essa costituisce al massimo lo strato più profondo e centrale ancora inesplorato – prima di emanciparsi, lo ripetiamo, da quel vissuto. Possiamo non sentire più una felicità come questa, non provarla semplicemente, tanto meno «sentirci» felici (Scheler 2013, 671), proprio perché lo siamo noi stessi, felici, siamo pieni di felicità: siamo profondamente, al massimo grado felici, interamente felici. Possiamo dunque non sentire affatto che siamo più felici di quanto lo fossimo poco prima, nella serie di concatenazioni affettivo-motivazionali nelle quali eravamo presi, ed esserlo nondimeno felici, nella maniera più completa. Esserlo, cioè, in un’ «esperienza» assoluta, libera dalle ristrettezze dell’io, come se la più profonda felicità, coincidente adesso con lo strato più profondo di sé, ormai resosi autonomo dai precedenti vissuti – coincidendo noi stessi con il nostro centro personale –, si manifestasse adesso in tutta la sua quieta, potente presenza. La beatitudine investe, come la disperazione, la nostra intera esistenza.

Rümke sembra tener conto di questo possibile aspetto, apparentemente così singolare, della più profonda felicità «secondo» Scheler quando si chiede, anticipando lui stesso un’eventuale obiezione al riguardo, se sia sempre possibile operare una distinzione così netta nella realtà tra sentimenti psichici, o dell’anima, e sentimenti della personalità. Deve ammettere che non lo è quando i sentimenti della personalità sono poco pronunciati, ma lo diventa quando essi si manifestano in maniera così esplicita, e in ogni loro tratto, da richiedere loro stessi di essere separati da ogni altro vissuto, sia pure positivo, meno radicato in profondità nella rispettiva vita emotiva e incapace di coincidere, essendo ancora esperibile in qualche strato relativamente periferico (anche di sé) e/o non essendo ancora esperito centralmente, con lo strato più profondo di sé che ne farebbe un autonomo sentimento della personalità. Nei sentimenti di felicità che Rümke ha avuto modo di osservare in pazienti di diversa tipologia clinico-nosologica una simile distinzione appare del tutto appropriata perché i vissuti in questione spiccano, anche per la loro intensità, su altri fenomeni contestualmente presenti e dominano anzi l’intero quadro all’interno del quale compaiono, rivelandosi in tutta la loro specificità. Al complesso di fenomeni esaminato essi conferiscono la propria colorazione, svolgendo inoltre nelle esperienze vissute dei pazienti un ruolo del tutto preminente (cfr. Rümke 1924, 9; 13). Nell’analisi della sindrome della felicità Rümke muove quindi legittimamente, per individuare eventuali anomalie del sentimento in gioco, dalla descrizione scheleriana della più profonda felicità, o meglio, ne conferma sul piano empirico la correttezza, dal momento che il suo studio sulla sindrome della felicità era in gran parte già terminato, come afferma, quando egli è venuto a conoscenza del lavoro di Scheler (cfr. Rümke 1924, 10).

In base alle proprie osservazioni Rümke definisce «sentimento di felicità» un’esperienza vissuta indicata precisamente come «sentimento di felicità» e come il più alto sentimento che sia possibile concepire dagli stessi pazienti che ne sono ricolmi (Rümke 1924, 19). Conferma inoltre l’utilità, anche da un punto di vista pratico, della teoria della stratificazione della vita emotiva. Essa ha l’enorme vantaggio tra l’altro di rivelare in maniera quasi plastica, come potrebbe fare una topografia, le zone «centrali», «periferiche» e «profonde» della vita emotiva, rivelando al tempo stesso la peculiare conformazione dei corrispondenti vissuti. Possono «coesistere nello stesso atto e momento di coscienza» (Scheler 2013, 647), se ammettiamo una simile configurazione strutturale, diversi tipi di vissuti emotivi, come dimostra, in maniera lampante nei casi estremi, la possibile contemporanea presenza, nei termini indicati, di vissuti a diversa valenza, l’uno positivo, l’altro negativo, (possiamo essere profondamente felici, in un esempio scheleriano, e patire insieme un dolore fisico). La sottile consapevolezza delle dinamiche emozionali, ravvivata dal confronto con Scheler, permette a Rümke di fare un’ulteriore considerazione, a questo proposito, che il suo lavoro sul campo è in grado di suffragare: «non soltanto vissuti emotivi, appartenenti a diversi strati, di diversa salienza (entgegengesetzt gerichtete Gefühle), ma anche vissuti emotivi, appartenenti a diversi strati, della stessa salienza (gleichgerichtete Gefühle) devono poter essere esperiti senza escludersi reciprocamente» (Rümke 1924, 8). Del primo caso, quello che illustra la possibile esperienza simultanea di vissuti a valenza contraria, Scheler ha fornito numerosi esempi. Del secondo, poco valorizzato dal filosofo a parere di Rümke, è lo stesso psichiatra a fornire, sul piano dell’osservazione clinica, un esempio che vale dal suo punto di vista come un’integrazione delle descrizioni scheleriane delle diverse esperienze emotive, e non solo come una prova a favore della loro correttezza. Poiché importa poco qui che il sentimento prevalente coincida necessariamente con la felicità, ma interessa piuttosto che il sentimento in questione abbia la stessa valenza degli altri vissuti emotivi presenti, e poiché la felicità esaminata non costituisce, né qui né altrove come vedremo, un criterio per decidere la patologia o la non patologia dello stato di cui essa fa parte (cfr. Rümke 1924, 43), possiamo prescindere dallo specifico complesso di fenomeni esaminato da Rümke. Mettiamo giusto a fuoco, nel caso da lui illustrato, i vissuti emotivi coinvolti. Osserviamo allora che vissuti positivi di diverso tipo possono senz’altro coesistere senza annullare per questo il principale sentimento di felicità a sua volta presente, o quanto viene definito come tale dalla paziente che ne viene afferrata, e senza confluire in esso. In particolare assume qui un peso non irrilevante la componente somatica – «Il calore del sole lo sentivo così carezzevole […] Tutti i sensi possono e osano godere di più […] Persino il gusto è diverso e più intenso di prima» (Rümke 1924, 23-24) –, mentre il sentimento dominante, «un sentimento più chiaro e di gran lunga più nobile» (Rümke 1924, 23), per certi versi analogo alla gratitudine, pervade la paziente, rimanendo tuttavia fortemente legato all’io, ma ben distinto dagli altri vissuti emotivi positivi.

Rümke apprezza quindi la fedeltà ai fatti di questa teoria, benché sottolinei, come abbiamo visto, l’apparente ambiguità del sentimento di felicità o beatitudine descritto da Scheler, che potrebbe indurre un osservatore superficiale a pensare che il filosofo lo abbia collocato arbitrariamente in un determinato gruppo di vissuti emotivi, quello dei sentimenti della personalità. Coerentemente con quanto abbiamo esposto, potremmo parlare, piuttosto, di una certa tensione insita nella natura della felicità, tensione che si scioglie quando la più profonda felicità viene a piena evidenza. Nella prospettiva «scheleriana» di Rümke il sentimento di felicità può appartenere quindi, in base alla propria fisionomia per così dire, all’una o all’altra classe. Esso appartiene non di rado al gruppo dei sentimenti psichici, quelli «originalmente, e nella maniera più decisa, propri dell’ “io”» (Rümke 1924, 41), rivelando di conseguenza tratti conformi al rispettivo livello di vita emotiva. In questo caso si tratterà, più precisamente, di un semplice sentimento di felicità, di un’emozione in fondo legata a qualcosa «“per cui” (über das)» (Scheler 2013, 671) proviamo felicità. Talvolta pero, nei casi più interessanti e molto più frequenti di quanto non si immagini di solito, «il sentimento di felicità sembra scaturire da quel nucleo più profondo dell’“ego”ità che Scheler considera quale strato dei sentimenti spirituali o della personalità. Qui il sentimento di felicità e il sentimento della grazia sono pressoché indistinguibili.» (Rümke 1924, 41). Comprendiamo facilmente, muovendo da questi presupposti, la definizione rümkiana di «sindrome della felicità». Il vissuto emotivo in gioco corrisponde, per lo psichiatra olandese, a quello esaminato da Scheler. La sindrome consiste infatti in un «sentimento di felicità, fortemente marcato, schelerianamente appartenente allo strato dei sentimenti psichici o a quelli della personalità, connesso a una modificazione (Veränderung), nel senso del sentimento in questione, dell’esperienza vissuta del mondo esterno e a una modificazione del mondo interno dell’esperienza empirica, e all’esperienza empirica che tutto abbia un senso più profondo, tutto possieda maggior chiarezza e maggior rilievo» (Rümke 1924, 71)

8.1. Il normale sentimento della più profonda felicità. Virtù della descrizione scheleriana

Grazie a Jaspers, la fenomenologia si è rivelata a Rümke «un mezzo incredibilmente adatto a conoscere e rendere conoscibile l’avvenimento psichico del sano e del malato» (Rümke 1924, 1). Dal punto di vista epistemologico essa ha ridotto in effetti la distanza che separava, nella pratica di una psichiatria unilateralmente somatica, determinati esseri umani da altri esseri umani, il «normale» dal «patologico». Una simile separazione non presupponeva o lasciava impensato il comune orizzonte umano e la dimensione, con Scheler, propriamente personale, che salva per così dire, anche nei casi più gravi, il segreto di ogni esistenza individuale (il fiore) – l’identità morale – da ogni giudizio meramente diagnostico su di lei. Per un fenomenologo come l’autore del Formalismus, infatti, «le cosiddette “alterazioni di carattere” (Charakterveränderungen) in determinate malattie psichiche, quali ci vengono descritte dalla psichiatria non possono riguardare la persona. Soltanto la presenza all’esterno della persona è abolita. E nei casi gravi una sola cosa può dirsi, che la malattia ci ha reso invisibile la persona altrui e che un giudizio su di lei, quindi, non è più possibile […] A prescindere dai casi in cui la persona sembra diventare completamente invisibile a causa delle gravi alterazioni di carattere dell’agente, in tutti gli altri casi c’è evidenza di testimonianza del fatto che quelle alterazioni descritte dalla psichiatria sono del tutto indipendenti […] dagli orientamenti (intenzionali) morali e spirituali in genere della persona.» (Scheler 2013, 937). Orientamenti, questi ultimi, nei quali si manifesta con la massima evidenza il concreto o intero personale, capaci di strappare di conseguenza, in certi momenti davvero ri-generanti, una vita dalla propria dispersione e parzialità storica; di raccoglierla in modo che possa mostrarsi, anche allo sguardo del rispettivo portatore, nell’unità di uno stile individuale. Dove nulla deve ancora compiersi, come in una piena felicità, dove tutto è già dato, proprio lì si manifesta per un momento, oltre i singoli, sensibili motivi, la nostra ragion d’essere:

[…] se qualcosa «per cui» («über das») siamo profondamente felici e disperati non ci è ancora dato15, ed è suscettibile di esserlo, sicuramente non siamo ancora profondamente felici e disperati. Certo, può accadere che una serie d’altre esperienze vissute in una concatenazione di senso motivata (motivierte Sinnverkettung) ci strappi questi sentimenti, oppure li lasci affiorare alla fine della serie: ma dall’istante in cui si manifestano, essi si separano, nella loro originalità, dalla catena dei motivi (Motivkette) e, a partire dal nucleo della persona, riempiono per così dire la totalità della nostra esistenza e del nostro «mondo» […] Pertiene, infatti, all’essenza dei sentimenti della personalità di non essere affatto esperiti o d’impossessarsi di tutto il nostro essere. Come nella disperazione un «no!» emotivo si nasconde nel cuore della nostra esistenza personale e del nostro mondo – senza che la «persona» diventi, per questo, oggetto di riflessione – così nella «beatitudine» – lo strato più profondo della felicità – si nasconde un «sì!» emotivo. E’ il valore morale dell’essere stesso della persona, di cui i sentimenti sembrano costituire i correlati. (Scheler 2013, 671) La descrizione scheleriana della cosiddetta normale (più profonda) felicità, qui condensata in un passo cruciale, è ben presente a Rümke. Un passo che accenna, nel «mondo» individuato e «riempito» per intero di felicità (o, in negativo, di disperazione), a un orizzonte più ampio di quello della realtà pratica, rivelando precisamente la natura «transmotivazionale», come l’abbiamo definita, del sentimento in questione. Piuttosto che non motivata (unmotiviert) o insensata, la beatitudine è «transmotivazionale». Lo è in questa precisa accezione del termine: essa trascende, nell’intera esistenza personale, che riempie egualmente di sé, ogni singolo motivo (e il corrispondente stato di cose) che possa altrimenti essere esperito, nella sua efficacia, in qualche regione circoscritta della vita della persona interessata, dove la vita è correlato essenziale di un ambiente. Dire questo vuol dire inoltre che, in tutta la sua peculiarità, una simile felicità rimane, in linea di principio, comprensibile. Il fatto, cioè, che si dia «beatitudine in senso pieno solo “indipendentemente” da uno stato di cose, o stato di cose assiologico, esterno o interno, che motiva sensibilmente questa perfetta felicità» (Scheler 2013, 671), ovvero, che motiva l’agente, a livello di sentire, a realizzarla, non implica di necessità che essa debba costituire l’oggetto di una spiegazione fisico-causale – dovesse pure manifestarsi in stati «patologici».

Rispetto ad altre possibili versioni della felicità, filosofiche o psicologiche, cui possiamo solo alludere in questa sede, quella di Scheler presenta indubbiamente dei vantaggi che la rendono di gran lunga preferibile. Della stessa opinione è senz’altro Rümke che riscontra, peraltro, nella psicologia a lui coeva una certa genericità nell’approccio ai vissuti emotivi e scarsa attenzione, in particolare, al processo di formazione del sentimento di felicità e ai rispettivi presupposti. Il primo dei vantaggi che la descrizione scheleriana della beatitudine offre, dal nostro punto di vista, è la perfetta aderenza ai contenuti esperienziali, a dispetto della sua apparente artificiosità, come nota, l’abbiamo visto, lo stesso psichiatra olandese. Anche il linguaggio, quando sia impiegato correttamente, rispetta la legalità dei fatti cui di volta in volta si riferisce. Scheler (2013, 669-671) osserva quanto sia inadeguato rispetto al fenomeno emotivo che si presume di vivere, quello di una piena felicità, affermare di essere beati o disperati «per qualcosa» («über etwas»), mentre non lo sarebbe affermare di essere ad esempio contenti o scontenti «di» qualcosa, oppure felici, di una felicità meramente psichica, «per qualcosa». Dichiarare o pensare di esserlo, profondamente felici e disperati «per qualcosa» è un segno evidente del fatto che in quel momento, per quanto varie possano esserne le ragioni, non distinguiamo, nemmeno verbalmente, la specificità del fenomeno che abbiamo la presunzione o l’ingenuità oppure l’illusione di esperire, o quella del fenomeno che stiamo realmente esperendo. L’uso scorretto del linguaggio però, quando nasce da una rimediabile forma di leggerezza, ci mette, non appena apriamo bocca, di fronte all’inadeguatezza delle nostre parole, che avvertiamo immediatamente come un qualcosa di eccessivo, e di non ben calibrato, rispetto a quanto in realtà viviamo. Una simile inadeguatezza tradisce, infatti, il livello autentico cui si situa l’esperienza che stiamo vivendo, scoprendone insieme la vera natura. Non il livello della vita personale, ma il livello di quella vitale, ad esempio, per cui la sedicente beatitudine o disperazione finisce per smascherare se stessa, mostrandosi per quello che realmente è: contentezza o allegria oppure un qualunque altro vissuto appartenente al medesimo strato, nella vita emotiva, della contentezza.

Analogamente Scheler sottolinea nel passo citato come tutto, nella beatitudine o nella disperazione, sia già venuto a datità, ovvero noi stessi, sul piano emotivo. Egli può dire allora che «se qualcosa “per cui” siamo profondamente felici e disperati non ci è ancora (noch) dato, ed è suscettibile di esserlo, sicuramente non siamo ancora profondamente felici e disperati (Wo das Etwas noch gegeben und angebbar ist, “über das” wir selig und verzweifelt sind, da sind wir sicher noch “nicht” selig und verzweifelt)». Pure qualcosa che fosse «ancora (noch) dato», in una traduzione più letterale, rispetto a quella contemplata, della premessa in questione (Wo das Etwas noch gegeben […] ist), traduzione che presupporrebbe fosse noto al lettore quanto non necessariamente lo è – il fatto che si tratta qui come nel caso precedente di un semplice oggetto (dato/gegeben) cui corrisponde, in quanto tale, un modo parziale (non ancora intero) di essere persona –, confermerebbe il senso del ragionamento scheleriano sul quale abbiamo posto la nostra attenzione: che altro non deve compiersi, di extrapersonale, perché qualcuno possa essere davvero profondamente felice o disperato. Quel venire «ancora» a datità, infatti, di un oggetto particolare, non potrebbe che rinviare, nell’avverbio di tempo precisamente, vale a dire nell’ «ancora», a una successione ininterrotta nel tempo e nello spazio ordinario, o a una ripetizione di qualcosa, come se tutto (ciò che davvero è in gioco) dovesse di nuovo compiersi, come se non avesse «ancora» finito di farlo – come se non tutto fosse ancora dato. Se davvero lo siamo, profondamente felici o disperati, in quel momento lo siamo del tutto, e lo siamo ora, ma come se dovessimo esserlo per sempre – anche se così non sarà mai. «Per sempre» dunque, e non invece «ancora», sembra dire «attraverso» il tempo (e non «nel» tempo), come se lo squarciasse, l’attimo di quella beatitudine o disperazione che noi siamo. Io sono disperato, io sono beato: beato e disperato identificano qualità di valore «ontologiche», che non restituiscono un singolo tratto, più o meno contingente, della persona. Di qui la grave serietà del «sì!» o «no!» emotivo che, nell’uno o nell’altro sentimento, «si nasconde nel cuore della nostra esistenza personale e del nostro mondo». Nella beatitudine, come nella disperazione, una persona coglie ontologicamente se stessa, nel proprio valore morale («è il valore morale dell’essere stesso della persona, di cui i sentimenti sembrano costituire i correlati»), come il «fondamento (Fundament)» (Scheler 2013, 671) o l’unica possibile ragione del sentimento. Di quel sentimento del quale l’individuo in gioco è completamente impregnato; nel quale, essendo felice, l’individuo si rispecchia. Solo uno sguardo d’amore, in un momento simile, potrebbe afferrare l’immagine ideale di questa persona, senza fissarla in una posa e allargandone anzi la sfera valoriale. Un’immagine che sarebbe assolutamente perspicua, se la felicità fiorisse, per così dire, sul terreno di un amore capace di nutrirla – l’amore che risveglia l’amore altrui –, dove la persona felice, come in un frammento d’eternità, apparirebbe allo sguardo altrui raccolta nel proprio bene, nel «bene in sé» «per lei», o nella propria salvezza morale. Scheler è capace pertanto di restituire, da un lato, il carattere onto-assiologico di una felicità che si impossessa, non a caso, del nostro essere intero, mettendoci di fronte al «motivo» integrale, al di là di ogni possibile motivo parziale, che noi stessi diventiamo, del sentimento che proviamo, o meglio, nel quale ci incontriamo. È qui che scorgiamo il nostro stesso valore propriamente personale. Dall’altro lato, egli mostra il processo di formazione della massima felicità e la novità, insieme, che essa costituisce rispetto a eventuali esperienze vissute «motivate», nella più ordinaria accezione (scheleriana) del termine, che abbiamo potuto precederla e che avrebbero potuto, in determinate circostanze, strapparcela («[…] può accadere che una serie d’altre esperienze vissute in una concatenazione di senso motivata ci strappi questi sentimenti, oppure li lasci affiorare alla fine della serie: ma dall’istante in cui si manifestano, essi si separano, nella loro originalità, dalla catena dei motivi e, a partire dal nucleo della persona, riempiono per così dire la totalità della nostra esistenza e del nostro «mondo»).

Altri possibili resoconti della felicità

La descrizione scheleriana della più profonda felicità è molto più soddisfacente per lo psichiatra olandese di altri possibili resoconti di essa disponibili nel repertorio di materiali da lui consultati sull’argomento. Non solo Rümke può confermare, a livello empirico, la validità di una simile descrizione, corroborando al tempo stesso la tesi dell’autonomia della beatitudine o del suo stesso sciogliersi «dalla catena dei motivi», nella quale vengono invece trattenute altre esperienze vissute. Non solo questo, dunque. Egli può anche mostrarne la raffinatezza e maggior precisione rispetto ad analisi psicologiche, come quelle a suo avviso di Ribot, ad esempio, o per altri versi di Ebbinghaus e Wundt, che si limitino sostanzialmente a classificare i vissuti emotivi secondo le linee direttrici del piacere e del dispiacere. Anche quando tradiscono, del ricercatore in gioco, una piena consapevolezza della ricchezza qualitativa dei fenomeni, come nel caso di Wundt, approcci simili tendono inevitabilmente a fornire una lettura generica del sentimento di felicità (cfr. Rümke 1924, 3-4). D’altra parte, riguardo alla spontaneità della felicità centrale, una felicità non passibile di essere provocata volontariamente e priva di motivi riducibili all’esercizio, mediante singoli stati di cose extrapersonali, di una certa efficacia sul soggetto interessato; riguardo a tutto ciò che Rümke considera a sua volta un tratto decisivo del sentimento in gioco, altro ancora parla in favore del resoconto scheleriano della beatitudine. Permette di registrare ad esempio ampie convergenze sulla natura non reattiva, appunto, di questo sentimento e sul manifestarsi di esso senza un apparente motivo, o in modo «autoctono», nel lessico di Rümke (1924, 6), come tutto ciò che sfugge a un’ordinaria «relazione di senso con quanto lo precede» (Rümke 1924, 34), un’analisi comparativistica. Il confronto, cioè, che lo psichiatra stabilisce tra quella di Scheler e altre descrizioni, psicologiche o filosofiche, oppure attinte dalla letteratura, di vissuti emotivi. Sono descrizioni in alcuni casi notevoli di fenomeni, se non sempre coincidenti con quello della beatitudine, almeno analoghi ad esso, coinvolgendo in qualche misura, dove questo avviene, il centro della psiche o della vera e propria personalità. Psicologi come William James, ad esempio, il cui lavoro sulle esperienze cosmico-religiose (Le varie forme dell’esperienza religiosa) risulta assai proficuo per chiunque svolga un’indagine sulla profonda felicità, o come William McDougall, attento al rapporto tra felicità, o quanto egli definisce come tale, e sviluppo della personalità, oppure filosofi come Nietzsche e Schopenhauer offrono nella direzione indicata, ognuno a suo modo, spunti interessanti per Rümke, anche se talvolta affetti a suo parere da una certa vaghezza. Essi rimangono tuttavia, rispetto a Scheler, meno focalizzati sul sentimento di felicità in senso proprio, sulla sua specifica struttura assiologica. Individuano però un aspetto centrale di vissuti emotivi, gratificanti e assai meno fluttuanti di un mero piacere, che in Scheler è senz’altro tipico del sentimento di profonda felicità e che lo psichiatra olandese, con tutte le cautele necessarie a garantire la correttezza del suo lavoro, riscontra nelle esperienze di felicità che ha modo di osservare.16

James, ad esempio, riferendosi all’origine di quello che ritiene il più profondo sentimento di felicità, conoscibile a suo avviso solo nell’esperienza religiosa, parla del vissuto in questione come di un «dono», di un’esperienza riconducibile alla «grazia» (Rümke 1924, 5). Più o meno negli stessi termini di Scheler, potremmo dire, anche se nei passi di James commentati da Rümke, funzionali dunque al nostro percorso, avvertiamo un accento quasi estatico, che tende a spostare il presunto sentimento di felicità verso qualcosa di diverso dalla felicità in senso proprio. Prescindiamo in ogni caso qui dalla perfetta coincidenza o meno con la genuina felicità del sentimento descritto da James. Atteniamoci piuttosto al tratto che il vissuto in questione, così come lo presenta Rümke, sembra condividere con i sentimenti scheleriani della personalità: quello relativo alla gratuità del suo scaturire. Prescindiamo inoltre dal disturbo maniaco-depressivo dal quale sarebbe stato affetto James (cfr. Roth 2000, 320) e dalla possibilità, di conseguenza, che la sua lettura del fenomeno, si trattasse pure di un’interpretazione verosimile della felicità, possa risultarne compromessa. Come abbiamo anticipato, l’intero studio di Rümke dimostra che nella qualità dei sentimenti di felicità, almeno quelli da lui esaminati, o nel loro stesso manifestarsi, non c’è nulla che permetta di distinguere il patologico o non patologico dello stato complessivo in cui essi compaiono. Limitiamoci dunque al profilo del vissuto delineato, nel caso specifico, da James. Il modo singolare in cui scaturisce nella sua prospettiva questo sentimento si manifesterebbe con estrema chiarezza, secondo Rümke (1924, 5), nei cosiddetti vissuti di conversione (Bekehrungsgefühle), nei quali ci si libera dalle avversità della vita e un senso di pace sembra prevalere su tutto il resto, anche se le condizioni di vita rimangono, se lo sono, spiacevoli. In questo stato emotivo di pace e serenità, analogo a quello di «quiete interiore» che Rümke (1924, 34) ritiene possa costituire in certi casi un presupposto del manifestarsi del sentimento di felicità, le cose, trasfigurate, appaiono come inondate di una luce divina, e un’emozione che James definisce «cosmica» viene in primo piano. «Se ci si attiene al dato empirico» – scrive Rümke (1924, 5) a questo proposito – «allora non si può considerare questo vissuto emotivo come sorto, nel flusso degli accadimenti psichici, in maniera psicogena (reattiva). Esso giunge come un dono, sbocciando (erblühend) in maniera autoctona dall’anima». È significativo che Rümke, per illustrare l’origine e l’esperienza di un vissuto del genere, consistente per James nella massima felicità, impieghi proprio il verbo «erblühen» («fiorire», «sbocciare»). Il vissuto spunta, in (esplicita o implicita, casuale o non casuale) sintonia con Scheler o con Novalis, come un fiore (azzurro?) da una zona senz’altro non periferica, come vuole James, della vita emotiva della persona che ne viene afferrata. Rümke (1924, 6) precisa immediatamente dopo che, da un punto di vista psicopatologico, il sentimento di felicità così inteso avrebbe un’origine endogena. Proprio in questo senso la quiete o silenzio interiore, cui abbiamo accennato, potrebbe costituire in determinati casi una «condizione» dell’ «insorgenza» del sentimento.

9. Tra il «normale» e il «patologico». Reattivo e/o endogeno?

Riguardo al sentimento di felicità, quale oggetto d’osservazione clinica, Rümke (1924, 34) si pone, d’altra parte, una questione fondamentale. La felicità si presenta, nella sua indagine, in complessi psicopatologici di sintomi. L’ipotesi che la sindrome della felicità sia in sé patologica è allora plausibile? A questa domanda, secondo lo psichiatra olandese, non è possibile rispondere in modo affermativo, soprattutto quando si è di fronte a uno stato, nel rispettivo quadro, della cui patologia si può ragionevolmente dubitare. Anche per il ruolo costruttivo che assegna, in determinati casi, al dubbio epistemico, la sua indagine sulla sindrome della felicità si rivela ancora oggi molto istruttiva. Rimane prezioso il suo invito, rivolto a chiunque operi in ambito psichiatrico, a non emettere giudizi clinici in modo precipitoso, giudizi che segnalano, in quanto tali, una scarsa attenzione all’esperienza del paziente. La sindrome osservata da Rümke si manifesta significativamente in casi per lo più di complicate psicosi che inducono, per loro natura, alla cautela. Lo stesso Binswanger (2003, 107), su questo punto in linea con Rümke, ritiene sia opportuno, in determinati casi dubbi sospendere il giudizio clinico, «per poter avere la possibilità di una visione d’insieme su un lungo arco di tempo della vita del paziente».17 La prudenza dello psichiatra olandese nasce dalla consapevolezza dei limiti che presenta inevitabilmente ogni distinzione poco fondata innanzitutto nella vita, anche di quella della psiche, e dalla costante necessità di affinare in base all’osservazione empirico-intuitiva, buona cioè per l’uso clinico, le categorie diagnostiche. È lo «studio dell’essere umano nella sua situazione» (Belzen 1995, 360)», dunque una «psicologia di superficie» (cfr. Belzen 1995, 359-361) che rivela primariamente, quando riesce a farlo, o almeno suggerisce, l’irriducibilità di una persona alla sua eventuale patologia, la sua stessa profondità. Proprio nell’ambito di una lucida, onesta riflessione sul lavoro clinico-psichiatrico, che rifiuta ogni approccio relativistico alla psichiatria e all’assistenza, Rümke (1924, 30) non esita ad affermare che «il confine che separa «patologico» da «non patologico» non va tracciato in modo brusco, poiché non abbiamo solidi criteri per conoscere il patologico e il non patologico». In questo contesto va accolto il prezioso contributo della fenomenologia dei cosiddetti normali sentimenti psichici. Seguire il profilo individuale di un soggetto nei suoi intrecci motivazionali, così come si mostrano nella vita pratica, seguirli fino al punto in cui essi possono essere trascesi in direzione del «motivo» concreto, o intero personale, di ogni possibile atto, costituisce senz’altro, non l’unica, ma una delle possibili vie di accesso alla profondità. Costituisce insieme un tentativo, dove la persona sembra scomparire dietro la «patologia», di ricostruirne quel profilo. La normale felicità, che Scheler ha saputo restituire nella sua più alta manifestazione in modo esemplare e del tutto convincente sul piano fenomenologico, corrisponde perfettamente, agli occhi dello psichiatra olandese, al sentimento che appare nei complessi psicopatologici di sintomi osservati. Questo significa che la felicità esaminata dallo psichiatra non rappresenta affatto per lui un’esperienza lontana, o troppo lontana, dalla normalità, anche se non tutti arrivano magari a conoscere un sentimento del genere o alcuni possono pensare, ingannevolmente, di esperirlo mentre vivono in realtà un semplice vissuto, ad esempio, di piacere.

Per restare al «patologico» e «non patologico», che non sia sempre facile distinguere il concetto di «reattivo»(/«endogeno») da quello di «autoctono», termine quest’ultimo che possiamo intendere anche in un’accezione più lata di quella psichiatrica, lo dimostrano secondo Rümke le sindromi psicotiche a insorgenza reattiva e autoctona (nel senso di «endogena»). In esse, appunto, non si reagisce a un qualche avvenimento (felicitante) che ne costituirebbe la motivazione, anche se di una reazione in un certo senso si tratta. Il complesso di fenomeni in questione sembra in questi casi non avere né un’evidente motivazione né evidenti cause organiche. «Se un intero complesso di fenomeni strettamente connessi da un punto di vista interno insorge», infatti, «come reazione a un processo di per sé insignificante nel suo insieme, allora l’insorgenza si può considerare autoctona, perché essa deriva quale intera manifestazione da cause interne, dal terreno psichico in cui era radicata, nasce, se si vuole, in maniera endogena» (Rümke 1924, 34). In linea di principio, dunque, la differenza tra manifestazioni di fenomeni di tipo reattivo-endogeno, sul piano psicopatologico, e manifestazioni più in generale autoctone, nelle quali viene meno in ogni caso la loro relazione di senso con eventuali precedenti esperienze, ma non di necessità la loro intrinseca ragione, appare qui trascurabile. Tuttavia, deve ammettere Rümke (1924, 34), se ci atteniamo ai fatti puramente positivi, nell’insorgenza di fenomeni di tipo reattivo-endogeno è sempre dato, almeno nei casi specifici, un qualche presupposto, che manca invece nella maggior parte dei fenomeni che si manifestano in modo autoctono. Se invece facciamo valere, con lo stesso psichiatra, i diritti dell’esperienza soggettiva e prendiamo sul serio, inoltre, nei limiti del possibile le dichiarazioni dei pazienti, allora la questione, che si pone in maniera lampante in certi casi di frontiera, si semplifica notevolmente. Da un punto di vista almeno fenomenologico è del tutto legittimo affermare che, ovunque manchi la relazione di senso, nell’accezione indicata, con le esperienze precedenti, dunque anche in situazioni cosiddette «normali», siamo in presenza di manifestazioni autoctone. Del resto, anche in situazioni considerate del tutto normali possono manifestarsi sentimenti di felicità analoghi o del tutto identici, come riscontra Rümke, a quelli che si manifestano, nei casi osservati clinicamente, in stati della cui patologia o anomalia si è certi. In alcuni esempi di felicità citati a questo proposito dallo psichiatra, nei quali si esclude una «patologia» del soggetto, il fatto che si possa parlare di una sindrome della felicità, di una sindrome non dovuta, appunto, a una patologia dello stato complessivo, non autorizza coerentemente a parlare di patologia del sentimento o dell’intera sindrome. Il fatto, inoltre, che lo stesso tipo di sentimento possa presentarsi sia in stati patologici sia in stati non patologici senza subire sostanziali modificazioni, se non quelle legate nel primo caso all’empatizzabilità del modo di esperirlo, non fa del sentimento in questione, nemmeno in quel caso, rimanendo ovviamente su un piano fenomenologico, un sentimento patologico. Indipendentemente dalla diagnostica clinica, un sentimento di felicità può addirittura costituire un fenomeno favorevole dal punto di vista pronostico (Rümke 1924, 95). Esistono sindromi di conseguenza che, sebbene possano assumere un qualche significato per eventuali stati patologici, non possono essere definite in sé patologiche. Esistono, per altri versi, sentimenti di profonda felicità, stando alle descrizioni delle persone che hanno vissuto simili esperienze, che sebbene tendano a essere condizionate, dal punto di vista di un osservatore clinico, da altri fenomeni nella loro stessa manifestazione, non possono essere definite tout court reattive. Si consideri in questa prospettiva l’esperienza di felicità riferita da un giovane studente di medicina psichicamente normale:

«Oggi, inaspettatamente, è di nuovo sceso il silenzio in me. Non c’era nulla d’insolito nella giornata e non mi aspettavo il dono che la sera doveva arrivarmi. C’è in me un sentimento molto strano, come un movimento assai lento. Avverto qualcosa in me che insieme è in un’ampia distesa d’acqua in cui si riflettono nuvole, tagliate dal sole, che si spostano lentamente. È qualcosa di molto chiaro e trasparente. È il sentimento più vicino alla felicità; è una quiete infinita, infatti, non una quiete dovuta all’assenza di difficoltà, ma una quiete legata alla pura armonia dell’avvenimento in me. Come è potuto accadere tutto questo così all’improvviso? … Tutto appare nella luce di una giornata molto limpida, in cui le case sul mare a tratti sono così illuminate che non sembrano essere costruite in pietra, ma di luce e colore … È qualcosa di assolutamente peculiare. Si conserva in me il ricordo di qualche ora soltanto in cui ho potuto raggiungere questa bellezza. È strano come adesso, rientrato nella sfera ordinaria, possa vedere la spiegazione generale degli stessi momenti. La mia stanza mi appare come la vedo nelle ore più felici. Ora il ticchettio del mio orologio da tasca è carico di un senso (Bedeutung) di qualcosa che non conosco. Sono molto felice e non so come dirlo» (Rümke1924, 32).

Si tratta di un complesso di fenomeni nel quale Rümke riconosce la sindrome già osservata nei suoi pazienti. Siamo davanti, infatti, a un sentimento che appare all’improvviso nello studente, come un «dono» inatteso. Nulla lasciava immaginare, in quella giornata ordinaria, che un oceano calmo di felicità si sarebbe impossessato di lui e del suo mondo, conferendo loro rilievo, trasparenza e bellezza. Lo psichiatra riconosce nel vissuto «un puro sentimento di felicità» (Rümke1924, 32), non essendo presenti tra l’altro, in questa complessiva esperienza, altri vissuti emotivi positivi, come allegria poniamo o piacere. «Questo sentimento» – continua Rümke (1924, 32) – «è spuntato in maniera autoctona in mezzo all’esperienza; non è legato a un motivo (Motiv). Non si riscontra nulla di quanto può essere considerato un fattore scatenante». Il silenzio che si fa in lui, secondo quanto riferisce il giovane, non comporta «assenza di difficoltà» o di peso, ma ha a che fare con la «pura armonia dell’avvenimento» in lui. Un punto, quello della quiete interiore, che può nondimeno diventare cruciale, se non qui altrove, nella risposta che è possibile dare al problema in parte già evocato e «dissolto» in termini fenomenologici: è possibile influenzare in qualche modo un sentimento del genere nella sua stessa manifestazione autoctona? Un caso simile a quello dello studente permetterà di chiarire ulteriormente la questione. Osserviamo però un fattore, innanzitutto, cui Rümke attribuisce un certo peso, in chiave biologica, nel processo di formazione di certe profonde felicità, quello dell’eventuale «predisposizione» (Prädisposition) intesa in un’accezione medica: nell’accezione di «cagionevolezza» (Anfälligkeit), cioè, (di costituzione ad esempio), o di un «andare soggetti a» (infezioni, raffreddori ecc.). Questo anche per dare il senso dell’articolazione, su più livelli, di un’indagine sulla sindrome della felicità come quella rümkiana. Per quanto l’esperienza sia vissuta e riferita dal soggetto intervistato come spontanea, in determinate circostanze, l’emergenza in primo piano, nello stesso campo esperienziale, di fattori significativi in una certa direzione, può indurre il clinico a parlare di (segni) precursori del più profondo sentimento di felicità. Questo può accadere sia in relazione a soggetti affetti da una patologia, sia in relazione a soggetti nei quali non si riscontra alcuna patologia o della quale sia ragionevole dubitare, come nel caso dello studente. In situazioni analoghe a quelle dello studente, nelle quali si manifesta appunto un sentimento del genere, uno dei presupposti per la formazione della felicità sembra consistere verosimilmente nel silenzio interiore cui potrebbe corrispondere, nel rispettivo soggetto, una «predisposizione interiore (innere Prädisposition)» (Rümke1924, 34). In casi come questi un certo ambiente magari naturale, immerso ad esempio nella quiete serale, potrebbe favorire il manifestarsi di quel sentimento di felicità che appare dominante nelle sindromi, anche psicotiche, indagate dallo psichiatra. La pura felicità, così difficile da tradurre in parole, anche quando si conserva nel ricordo di «qualche ora soltanto» o di «momenti» davvero speciali, come nello studente di medicina («Sono molto felice e non so come dirlo»), spunta come abbiamo detto, per chi riesca a offrirne un’immagine in ogni caso perspicua e per chi raccolga l’immagine, in maniera del tutto autoctona. Essa diventa l’elemento dominante nell’intera esperienza. Proprio il rinvio tuttavia, da parte dello studente, a «momenti» di felicità e al «silenzio» interiore, aspetti comuni peraltro a determinate esperienze di profonda felicità descritte da un preciso gruppo di persone, in linea di massima come lui psichicamente normali, potrebbe insinuare in Rümke un sospetto. Un sospetto che di fatto si palesa, assumendo una certa consistenza, se non nel caso specifico, in altri casi, molto più espliciti da questo punto di vista, che richiederebbero però, in quanto tali, un’analisi circostanziata. In questi ultimi casi potrebbe veramente trattarsi, in corrispondenza della tranquillità interiore, intesa allora come una possibile condizione del manifestarsi della felicità, di una predisposizione interiore.

Interrogata dallo psichiatra olandese sulla felicità più profonda che avesse mai potuto esperire nella sua esistenza, una signora, ad esempio, si riferisce in tutta evidenza, nel racconto che ne offre, a determinati «momenti felicitanti» (Rümke 1924, 32), in lei frequenti per sua stessa ammissione, sia pure di diversa profondità. Il ricordo, soprattutto, di quel sentimento che spicca tra l’altro in bellezza e intensità su altri possibili vissuti emotivi, esperiti nel corso della sua vita, è sempre vivo in lei, a distanza di molti anni. La felicità la colse «all’improvviso» (Rümke 1924, 33), senza che potesse manifestarsi ai suoi occhi alcuna ragione. È un sentimento, riflette Rümke (1924, 33), che dà «l’impressione di essere autoctono», ma di fatto è connesso a particolari momenti: il crepuscolo, il cielo stellato, una passeggiata all’aria aperta col padre ecc. «Momenti predisponenti», li definisce Rümke (1924, 33), che potrebbero aver influenzato, appunto, il processo di formazione della felicità. Un dubbio però rimane. Qualcosa, almeno, pare sottrarsi a una spiegazione in termini meramente fisico-biologici e non avere nemmeno una motivazione in termini psicologici. «Rimane inspiegabile […] il motivo per cui (warum) un sentimento di felicità, che nel corso degli anni non si è più ripresentato in questa forma, venga esperito proprio in quel momento, e non in un altro» (Rümke 1924, 33). Manca infatti la «forza motivante», nel lessico di Scheler, di quel momento. Per questo, potremmo aggiungere, esso sembra separarsi dal tempo ordinario della vita della persona coinvolta che, proprio allora, si è riempita di felicità, in quel preciso istante che aveva per lei il sapore dell’ «eternità» e si è impresso non a caso in modo indelebile nella sua memoria. Diverse altre persone comunque, oltre alla signora in questione, su esplicita domanda riguardo all’origine del più elevato sentimento di felicità cui fossero pervenute consapevolmente nella loro esistenza, escludevano, per lo più in maniera categorica, che il sentimento fosse nato in loro come reazione a quanto si designa di solito nei termini, non di momento, ma di «avvenimento» felicitante. Queste note autobiografiche, come la descrizione scheleriana dei normali sentimenti della più profonda felicità, mostrano chiaramente quanto vissuti in apparenza così singolari siano molto più frequenti di quanto potremmo immaginare, anche in persone che godono appunto di salute mentale, o di supposta salute mentale. Da questo punto di vista la conclusione di Rümke (1924, 40) è la seguente: il «sentimento di felicità, che abbiamo incontrato come sintomo in stati patologici, si presenta nella stessa forma, esperito nello stesso modo, in cui compare il medesimo stato dell’ “io” nelle esperienze vissute di persone normali. Esso appare in loro nello stesso modo: autoctono in mezzo al flusso dell’esperienza vissuta». Sono vissuti, d’altra parte, quelli della felicità così intesa, che non tutti e non sempre sono in grado di esperire o scoprire, soprattutto chi, vivendo prevalentemente alla «periferia» di se stesso, in un’accezione scheleriana del termine, si limita ad esperire vissuti emotivi di strati inferiori, rispetto a quel centro esistenziale nel quale è radicata la beatitudine, e chi, nel bene e nel male, rimane impigliato, talvolta suo malgrado, nell’intreccio pratico di motivi. Per quanto possano manifestarsi in uno stato patologico simili vissuti, non rivelano alcun tratto patologico. Lo dimostrano precisamente i casi nei quali il sentimento compare nelle esperienze di persone normali o presunte tali. Lo dimostrano, inoltre, i casi osservati clinicamente da Rümke, dei quali vogliamo riportare alla fine un solo esempio, essendo nota ormai, nella sua struttura complessiva, la sindrome della felicità. Non possiamo ovviamente prendere in considerazione i molti casi, di soggetti che presentano o non presentano determinate patologie, che Rümke cita a sostegno delle sue ipotesi. Fra i possibili stati di frontiera o classificabili tra il normale e il «patologico», ricordiamo solo quelli riscontrabili in alcuni soggetti, nella descrizione di Janet (Rümke 1924, 36), sui quali grava lo «stigma» della psicoastenia. Il sentimento di felicità, o quanto viene esperito come tale dai soggetti in questione, «compare qui in sindromi che non possono essere definite psicotiche.» – scrive Rümke (1924, 36) – «Sono stati che si manifestano in pazienti psicoastenici in periodi in cui essi non presentano, tra l’altro, alcun sintomo specifico. Questi stati costituiscono, per così dire, delle transizioni verso il normale, esattamente come la psicoastenia presenta transizioni verso il normale».

10. Diagnostica e osservazione clinica

Discutere nel dettaglio problemi inerenti alla diagnostica dei quadri di stato nei quali lo stesso psichiatra ha osservato la sindrome della felicità esula dai nostri scopi. Accenniamo soltanto, concludendo questa riflessione su felicità ed esistenza, a un fatto in ambito diagnostico per noi di particolare interesse, quello relativo alla possibile non univocità di certe diagnosi. La sindrome della felicità viene individuata da Rümke in nove casi di psicosi più o meno atipica su diverse migliaia di pazienti della clinica di Amsterdam, molti dei quali con disturbi psichiatrici (Rümke 1924, 93). Proprio l’atipicità del disturbo, o meglio, il senso che essa viene ad assumere nella sua criticità nell’economia del nostro discorso, esige una breve messa a fuoco. È utile insistere, da questo punto di vista, su un aspetto dell’approccio rümkiano alla classificazione diagnostica sul quale ci siamo in parte già soffermati: la portata metodologica della descrizione. Per i vantaggi che offre in sede psicopatologica e sul piano del trattamento clinico, e per motivi, ovviamente, deontologico-professionali, legati quindi all’etica della cura, Rümke ritiene che una buona descrizione sia preferibile a una diagnosi frettolosa. Diversi casi dei quali egli si occupa direttamente nell’indagine in esame non sono, come abbiamo detto, di facile soluzione diagnostica. L’attenzione tuttavia che presta, oltreché al sentire del clinico, fino a farne uno «strumento di conoscenza» (Fonzi et al. 2011), alla vita emotiva dei pazienti, in particolare, al sentimento centrale di felicità, attenzione unita a una spiccata sensibilità per le situazioni concrete, gli permette tra l’altro di iscrivere gli stati cui appartiene come una parte la stessa felicità a un determinato gruppo di psicosi, quelle atipiche appunto. Ne mostra così la «specificità», sottraendoli ai più vasti ambiti della psicosi maniaco-depressiva e della dementia praecox (Rümke 1924, 95). Ci limitiamo a fornire giusto un esempio, in questa direzione, dell’orientamento essenzialmente clinico di Rümke, senza tuttavia poterlo qui approfondire nelle sue implicazioni pratiche e nemmeno discuterlo nel suo versante epistemologico. Prescindiamo ovviamente, per semplificare, dai molteplici fattori che, al fine di emettere un onesto giudizio diagnostico, lo psichiatra olandese prende in considerazione e dalla conclusione cui giunge. Ci interessa piuttosto sottolineare, coerentemente con i nostri obiettivi, la sua capacità di saper guardare oltre i confini standard, quelli posti dalla casistica e dalla sintomatologia tradizionali, pur rimanendo per altri aspetti, diversamente da Binswanger, ad esempio, un «classico» a suo modo fedele a Kraepelin e a Jaspers. Nel formulare la diagnosi di una paziente nel cui stato, che non rientra peraltro in modo pacifico nel quadro delle psicosi degenerative, ha riscontrato un sentimento di felicità per molti versi riconducibile a quello da lui (e da Scheler) isolato, rispetto ad altri vissuti emotivi positivi in apparenza ad esso simili, Rümke (1924, 79-80) riflette più o meno in questi termini. La soluzione più semplice sarebbe quella di considerare lo stato esaminato come una forma di ipomania con tratti isterici, ma l’anamnesi non depone a favore di questa ipotesi. Non si rilevano, cioè, né fattori ereditari né una costituzione maniaco-depressiva. Si notano l’assenza, nel quadro, di una pura fuga delle idee, la costanza dello stato e – punto per noi cruciale – la peculiarità di vissuti emotivi positivi assolutamente non coincidenti, anche là dove in apparenza lo fossero, con l’eccitazione tipica dei maniaci. Rümke fa giocare dunque nella decisione da prendere, assieme a considerazioni di altra natura, in larga misura fattuali, elementi propriamente fenomenologici, che gli permettono di afferrare anche le più sottili sfumature, in questo caso emotive, e di affinare pertanto il giudizio diagnostico.

10.1. Rümke e Binswanger. Il modo di esistenza maniacale

Il taglio clinico-diagnostico, rigorosamente empirico-descrittivo, del suo lavoro sul campo e della sua ricerca, induce talvolta Rümke (1950) a criticare il taglio, a suo avviso eccessivamente filosofico-antropologico, di certe analisi binswangeriane, in particolare quelle relative alla struttura dell’essere maniacale, che considera non prive di una certa arbitrarietà. Sono analisi che si presteranno a ulteriori sviluppi, in direzione husserliana, in uno dei più importanti volumi della maturità di Binswanger nel quale egli intende esplorare, nel loro stesso costituirsi, i mondi maniacali e depressivi: Melanconia e mania (Binswanger 2015). Paradossalmente agiscono, nondimeno, elementi altrettanto filosofici (scheleriani) nella resistenza, da parte di Rümke, all’interpretazione, in termini di «festiva gioia “esistenziale”» (Belzen 1995, 375; cfr. Binswanger 2003, 176; Binswanger 1955), che Binswanger offre sul piano emotivo della forma di vita maniacale. Non solo quindi l’approccio per certi versi (ma non per altri) classico-psichiatrico, le osservazioni cliniche, la valorizzazione in psichiatria sia della componente biologica sia di quella psicologica, ma anche l’assunzione della stratificazione della vita emotiva scheleriana, la modificazione che constata, da questa angolazione, nello strato dei sensi vitali negli stati maniacali della psicosi maniaco-depressiva (Rümke 1924, 59) portano lo psichiatra olandese a dubitare fortemente che il maniaco possa vivere per lo più un’esperienza emotiva di quel tipo. Proprio muovendo dalla struttura qualitativa del vissuto affettivo che il maniaco essenzialmente esperisce ed esibisce sul piano empirico; muovendo, quindi, dalla scarsa profondità e dalla natura sensori-vitale che il vissuto tradisce, Rümke esclude che esso possa coincidere col sentimento indicato da Binswanger. Non si tratta ai suoi occhi di gioia, di un sentimento, cioè, che avrebbe la profondità dei vissuti propriamente psichici, tanto meno di gioia esistenziale, ma di un vissuto emotivo radicato a un livello superficiale e periferico della vita del rispettivo portatore, nel quale egli coglie appunto uno stato di eccitazione. Tra i due psichiatri, che apprezzavano entrambi il lavoro di Scheler e intrattenevano al tempo stesso un dialogo fecondo, assai singolare per chi adotti il metodo fenomenologico, con la psicoanalisi18, esisteva comunque un rapporto di reciproca stima. La nostra impressione, del resto, è che il divario tra le descrizioni che essi offrono della più evidente esperienza emotiva maniacale, soprattutto alla luce delle differenze terminologiche, delle rispettive fonti filosofiche e di un approccio in parte diverso alla psichiatria, finisca per ridursi. Anche se i vissuti emotivi sui quali focalizzano la loro attenzione, nel caso delle psicosi maniaco-depressive, non coincidono ovviamente, Binswanger è senz’altro consapevole della specificità, nella sua stessa ambiguità per altri versi, dell’emozione con la quale il maniacale sembra prevalentemente intrattenersi. Ne riconosce a suo modo il livello di profondità cui appartiene, nella rispettiva vita emotiva, e l’attitudine, insieme, a trascendersi verso un altrove affettivo-valoriale, verso uno strato potremmo dire, in base alle nostre riflessioni scheleriane, «più profondo» di quello che in effetti occupa. Nemmeno per lui, in altre parole, la gioia festosa identifica un sentimento propriamente centrale, nel senso scheleriano del termine, ma esibisce in gran parte quel tratto vitale, «ludico» e «saltellante», in sostanza «estetico», che sembra ancorarlo alla sfera bio-psichica della vita emotiva, avvicinarlo all’ebbrezza, al giubilo. Eppure il maniacale vive per Binswanger in una costante tensione verso un piano d’insieme della propria vita, vive la propria antinomia tra superficie e profondità come un «destino (Schicksal)» (Binswanger 1980, 130: tr. it Binswanger 2003, 170) – se non come una destinazione – e la vive, in determinate situazioni, «in modo del tutto religioso» (Binswanger 2003, 170). La esperisce talvolta, potremmo dire, in una delle modalità esistenziali (metafisica, estetico-artistica, spirituale ecc.) che abbiamo definito altamente «significative». Riferendosi al mondo di un uomo con fuga incoerente e disordinata di idee, lo psichiatra svizzero parla di «un evento o un vissuto unitario, una forma di destino unitaria, che non soltanto può essere qualificata come un centro, a partire dal quale si forma in prima linea la vita del paziente, quale riprodotta nei nostri protocolli, ma che anzi “riempie” così completamente (völlig ausfüllt) il centro dell’esistenza del nostro paziente da non lasciare “più spazio” per qualcos’altro» (Binswanger 1980, 130: tr. it Binswanger 2003, 170). Questo vissuto che, nel senso indicato, riempie completamente il centro di un’esistenza, questa gioia danzante che aspira a sciogliere il rispettivo portatore dalla vita pratica, definita da Binswanger (Häberlin) «problematica» (Binswanger 2003, 52) e «conforme a scopo (zweckhaft)» (Binswanger 1980, 39, 37: tr. it Binswanger 2003, 55, 52), non si avvicina per questi versi, allontanandosi da un mero stato di eccitazione, alla più profonda felicità esaminata da Rümke (Scheler) nei casi da lui contemplati? La pura gioia festosa dell’esser-ci che Binswanger, nella sua analisi antropo-fenomenologica di un modo di comportamento umano abnorme, quello della fuga delle idee, riconosce appunto nella forma di vita maniacale, in quanto forma di vita «estetica» – in un’accezione häberliniana o ontologica dell’estetica –, sembra davvero avere molto in comune con la profonda felicità rümkiana. Sul piano emotivo, in effetti, Binwanger non esita a parlare, rispetto all’esperienza estetico-religiosa vissuta dal paziente in questione, di vera e propria felicità, di un essere «colmi di gioia» o di un’esperienza felicitante (Beglücktheit), di beatitudine (Seligkeit):

Adesso noi vediamo anche che non si può affatto parlare di atteggiamento estetico puro nel nostro malato; per questo manca già solo il centro stabile (beständige Mitte) dal quale soltanto qualche cosa che è puramente dono (Geschenk) può essere ottenuto o trovato. Ma la stessa cosa vale anche […] per il dono dell’illuminazione (Erleuchtung) religiosa, e tuttavia noi non abbiamo esitato a parlare nel nostro caso di un vero (echt) vivere religioso […] Il malato non esprime in alcun modo la «felicità estetica» (ästhetische Beglücktheit) in quanto tale, tranne quando parla del più bell’istante della sua vita (schönsten Augenblick). Qui l’essere-protetto religioso nell’esistenza sembra essere amalgamabile con una ingenua gioia di vivere festosa (naiven festlichen Daseinsfreude). Ma anche al di fuori di questo momento specifico «il senso della bellezza» (Sinn für die Schönheit), inteso come «senso della spontaneità (Selbstverständlichkeit) dell’esistenza», non abbandona mai il nostro paziente. Noi percepiamo, certo, «accanto» a ogni dissidio dovuto alla problematica profonda del suo destino di figlio (Sohnesschicksal) e «accanto» a ogni nostalgia religiosa di essere mantenuto nell’esserci, una beatitudine (Seligkeit) innocente, spontanea, «pre-problematica» ()vorproblematische), un contatto sicuro, spontaneo con gli uomini del suo mondo […] di modo che il nst. paziente sembra effettivamente spuntarla con tutto (mit allem fertig zu werden) e stare davvero al di sopra dei problemi (über den Problemen zu stehen) (Binswanger 1980, 142-143: tr. it Binswanger 2003, 184-185).

Si tratta, per così dire, di un sentimento «transmotivazionale». Sarebbe opportuno in questa prospettiva, anche tenendo conto dell’interesse di Rümke per la fenomenologia scheleriana, aprire un possibile terreno di confronto con Binswanger. Mi auguro di poterlo fare in maniera più approfondita in uno dei prossimi lavori.

10.2. Clinica del sentimento della più profonda felicità

Quanto all’osservazione clinica, così importante nell’indagine rümkiana sulla sindrome della felicità, non rimane a questo punto del nostro percorso che illustrare concretamente, col rispettivo autore, la genesi del sentimento in gioco nel quadro di uno stato patologico. Prima di procedere in questo senso, fissiamo l’esito per noi più interessante, nell’ambito del presente lavoro, della ricerca condotta da Rümke. In generale, per i casi osservati dallo psichiatra olandese, vale quanto segue, sebbene questo «fatto» appaia allo stesso clinico «sorprendente» (Rümke 1924, 59): « […] nella maggior parte delle esperienze non è stata scoperta alcuna traccia, nemmeno la più piccola, né dello stato precedente né di una motivazione» (Rümke 1924, 59).

Il caso cui vogliamo riferirci, quello di un ingegnere di trenta anni affetto da una psicosi degenerativa, costituisce nell’ottica di Rümke un chiaro esempio di pura manifestazione autoctona. Riportiamo per intero il racconto del paziente con le opportune integrazioni dello psichiatra.

Paziente B. Sotto l’influsso di un amore non corrisposto, di costante inquietudine e di un senso di affaticamento da lavoro intellettuale, si palesò improvvisamente la seguente condizione: «Un pomeriggio ero seduto nella mia stanza quando, all’improvviso, avvertii un impulso ad alzarmi e a guardare fuori; per un breve istante vidi un colombo bianco passare in volo davanti alla finestra superiore, un colombo che si stagliava sullo sfondo di un campo d’aria blu scuro; sentivo un battito d’ala; era proprio come se in alto, dall’aria, risuonassero uno o due suoni d’organo. Sopraffatto, volevo sedermi, ma invece di sedermi sulla sedia mi sedetti accidentalmente sul pavimento, vicino ad essa. Dopo po’ pregai Dio di non chiedermi di provare questa esperienza e, con essa, l’esistenza di Dio, poiché questo compito per me sarebbe stato troppo difficile e sarei stato preso sull’istante per un malato di mente (geisteskrank). Non mi è nemmeno venuta l’idea di associare l’accaduto al mio stato mentale (geistigen Zustande); tanto il percepito era per me reale verità. Da quel momento in poi fui sorpreso dalla bellezza di tutto ciò che mi circondava, soprattutto della natura; che splendide illuminazioni e stati d’animo; ma più di tutto un’immensa pace, anche interiore (über allem so große Ruhe, auch innerlich); assolutamente sicuro di me stesso, consapevole di me stesso, anche solo nel camminare, nei miei movimenti, un equilibrio così bello, nessun senso di affaticamento. Arrivai a convincermi che la gente iniziava a notare sempre più la peculiarità della mia personalità, che stavo diventando sempre più famoso e che per strada attiravo l’attenzione degli estranei. Durante un viaggio in treno, il treno era guidato con particolare attenzione perché vi stavo viaggiando proprio io e il giorno in cui dovevo viaggiare, furono adottate le opportune misure come se fossi una persona d’alto rango». Questo sentimento viene considerato dal paziente il più alto sentimento di felicità e per anni si è conservato nella sua memoria come qualcosa di molto prezioso. (Rümke1924, 17-18)

Nulla impedisce, nemmeno davanti a felicità che sono parti, come in questo caso, di sindromi psicotiche, di attenersi innanzitutto alle dichiarazioni del soggetto in merito alla complessiva esperienza da lui vissuta. L’essenziale mossa fenomenologica dello psichiatra olandese consiste precisamente nel lasciar parlare, con il paziente, i fatti, così come si offerti nell’originale. Su questo piano, fenomenologico appunto, quel vissuto emotivo ritenuto dall’ingegnere «il più alto sentimento di felicità» che, sul piano causale, potrebbe essere considerato reattivo, si rivela invece autoctono. Il vissuto in questione è autoctono, o può essere qui definito come tale, in quanto «la continuità dell’esperienza viene meno e [….] nell’avvenimento psichico», esso «nasce come qualcosa di completamente nuovo» (Rümke 1924, 19). Lo stato globale, nel quadro, rimane senz’altro patologico. Il delirio sembra evidente («per strada attiravo l’attenzione degli estranei».) Nella felicità, tuttavia, riconosciamo facilmente gli stessi tratti che abbiamo individuato in esperienze della felicità più profonda descritte da persone considerate normali. Siamo davanti, infatti, a un sentimento capace di imporsi su tutto il resto, di sorprendere, un sentimento che viene colto nella sua stessa spontaneità e come se dipendesse, nella sua realtà, solo da sé. L’esperienza complessiva si manifesta nell’impressione che suscita la natura. Quanto viene percepito assume, conformemente al sentimento, una forte connotazione realistica o una peculiare colorazione. Il sentimento, anche in questo caso, non ha di per sé nulla di «patologico». Solo «l’esperire la felicità (das Erleben des Glücks)» o «modo» di esperirla (Weise des Erlebens)» (Rümke 1924, 62) lo è. Riguardo al problema della normalità o meno del sentimento di felicità in stati patologici, i risultati cui perviene nella sua indagine autorizzano Rümke a trarre da essi una conclusione più generale (per i suoi pazienti). Astraendo, in altre parole, dai casi che si trovano al limite o al di là di quanto rimane, nella sua prospettiva, empatizzabile (per certi versi quello dell’ingegnere è un caso del genere), egli può escludere, in base alle osservazioni effettuate, la patologia del sentimento: «L’intera sindrome – il sentimento di felicità dominante (beherrschendes Glücksgefühl), la modificazione della realtà obiettiva, il sentimento che tutto abbia un senso profondo, l’estrema chiarezza e l’estrema profondità – in sé non va definita patologica, se è empatizzabile e viene esperita a un livello d’atto normale o elevato. Questi stati, uguali fin nei particolari, sono noti anche alla vita sana» (Rümke 1924, 62).

Per restare al quadro di stato del paziente in esame, e trarre infine anche le nostre conclusioni, soffermiamoci in particolare, lasciandoci guidare ancora dallo psichiatra olandese, su alcuni aspetti per noi di maggior interesse. L’intero quadro, nota Rümke, è dominato da un sentimento di felicità che impregna ogni contenuto dell’esistenza del paziente. Il vissuto in questione conferisce a ogni possibile momento del quadro la propria colorazione. È una felicità di grande intensità e l’esperienza in generale è a tratti solenne («pregai Dio di non chiedermi di dover provare questa esperienza e, con essa, l’esistenza di Dio, poiché questo compito per me sarebbe stato troppo difficile»). Un aspetto, quest’ultimo, che avvicina il nuovo stato, in terminologia jamesiana – oltreché scheleriana (Scheler 2013, 935), vorremmo aggiungere – a un vissuto di conversione (Bekehrungsgefühl). Una simile felicità, inoltre, è capace di «riempire» – di nuovo schelerianamente – «l’intero avvenimento psichico» (Rümke 1924, 18). In effetti, conferma lo psichiatra olandese (1924, 18) «ci muoviamo qui, per dirla con Scheler, negli strati più profondi dell’“io”». In simili strati si radicano, lo ricordiamo, i genuini sentimenti della personalità, quelli che «sembrano scaturire dal punto sorgivo degli atti stessi della personalità, e avvolgere nella loro luce e nelle loro ombre tutto ciò che negli atti si dà del mondo interno e del mondo esterno» (Scheler 2013, 669; cfr. Rümke 1924, 54). I sensi vitali, che pure sono contemporaneamente presenti nel quadro («nei miei movimenti, un equilibrio così bello, nessun senso di affaticamento»), sotto forma di leggerezza, non rinviano al «senso di affaticamento» che precede invece, secondo lo psichiatra, lo stato che potremmo definire di beatitudine. Non c’è nulla qua del precedente trauma psichico sofferto. Ovunque prevale adesso l’equilibrio dell’insieme, e questa «pace» o quiete, «anche interiore», nella quale, secondo Rümke (1924, 18), il paziente esperisce la propria massima felicità. Non è solo James, però, a richiamare l’attenzione del lettore, nella sua descrizione della felicità, su vissuti di questo tipo, sulla pace, ad esempio. E non è nemmeno solo Rümke ad attribuire ad esso, sotto forma di silenzio o quiete interiore, un’importanza centrale nel suo lavoro. Anche Scheler (2013, 669), occorre precisare, contempla sentimenti simili nella sua ampia riflessione sulla stratificazione della vita emotiva: la «serenità (serenitas animi)» o la «pace dell’anima (Seelenfrieden)». Si tratta di vissuti dell’anima appunto, dal suo punto di vista, nei quali, tuttavia, viene anticipato quanto, nella beatitudine e in altri sentimenti della personalità si manifesta, come abbiamo visto, nella maniera più completa o assoluta: lo spegnimento di ogni stato parziale dell’io o stato separato dall’intero personale. Deve spegnersi ogni singolo momento dell’intero di appartenenza perché possa emergere in piena luce, anche solo un istante, il concreto: l’intero personale nella sua più limpida, perfetta manifestazione. Proprio in questo senso Scheler (2013, 661) parla di un «raccoglimento (Einkehr) della persona in se stessa», di un «ritorno agli strati più profondi del suo essere e della sua vita» e invita ogni individuo umano «a cogliere quindi la “salvezza” morale […] nella rinascita interiore (innere Wiedergeburt) della persona». La «conversione» (Bekehrung) sopra ricordata, possiamo dire, condivide col «raccoglimento» o sosta (Einkehr) la svolta (della propria vita): un «volgersi» (kehren) altrove. Un movimento, questo, consistente, appunto, nel voltare le spalle al proprio piccolo io19, al proprio essere parziale, per «sostare» (ein-kehren) e trovare pace nel proprio essere intero, nella propria persona, persona di cui la felicità più profonda costituisce il correlato morale. Raccogliersi in se stessi, non significa in questo caso, ripiegarsi in se stessi, ma aprirsi al mondo, ad altri: al senso della propria esistenza. Tornando adesso all’ingegnere, osserviamo infine come il nuovo stato, «il percepito», sia per lui «reale verità». Secondo Rümke (1924, 18), «l’“io” rimane prima, durante e dopo la psicosi lo stesso», non siamo di fronte quindi a una «depersonalizzazione»: a una trasformazione del sentimento della propria personalità per cui, nel caso in questione, l’io più profondo o «io fondamentale» (Rümke 1924, 53) sarebbe allora disturbato o compromesso.

Riguardo al nostro tema, quello del significato dell’esistenza, vorremo concludere in modo ancora più scheleriano di Rümke nel modo seguente: il nucleo più profondo dell’io o persona, nell’ingegnere, sembra rimanere inalterato, attraverso la sofferenza mentale, e rispecchiarsi nella «propria» centrale e più profonda felicità. Una felicità che, di per sé, non ha nulla di patologico, che si apre «a suo modo» ad altro (Dio, la natura), non come se dovesse necessariamente rassegnarsi al proprio destino (psicosi ecc.), ma come se potesse aprirsi alla propria destinazione (Bestimmung) o «salvezza morale». Tutto questo non sminuisce la gravità della psicosi, ma ricorda che, pure in condizioni di grave sofferenza psichica, la persona – l’essere unico e unitario che sia Rümke sia Binswanger hanno ben presente – non può essere ridotta alla propria patologia.A suo modo, anche lo psichiatra olandese riconosce alla fenomenologia, in quanto atteggiamento, la capacità di salvare questo nucleo irriducibile:

Attraverso un atteggiamento rivolto all’esperienza degli esseri umani, si comprenderanno meglio i loro stati d’animo, si conoscerà, penetrando in esso, il regno dell’avvenimento psichico, si imparerà a intuire la specificità dello psichico, la variazione delle qualità, a portarle a evidenza intuitiva. Attraverso tutto questo, che lo rende particolarmente adatto appunto alla ricerca clinica, il metodo fenomenologico obbliga a mettersi sempre di nuovo nello stato altrui e a individualizzare (Individualisieren) nei limiti del possibile e con il massimo rigore (Rümke 1924, 96-97).

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  1. Max Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori↩︎

  2. Scheler 2013, 941. ↩︎

  3. Sull’intreccio di «felicità», «moralità», e «scopo finale», e sulle diverse opzioni, riguardo al meaning of life, nel dibattito filosofico contemporaneo cfr. Metz (2013). Sempre in ambito filosofico, su felicità e significato della vita cfr. Bortolotti (2009). In una prospettiva sia contemporanea sia storica cfr. Haybron (2019). Sulle emozioni in generale cfr. Ben-Ze’ev (2000). Sulla felicità, in un’ottica fenomenologica, cfr. Heffernan (2014). Sulla fenomenologia del sentire cfr. Cusinato (2014, 85-131). Su fenomenologia e well-being cfr. Lundin, Berg, Hellström, Mühli (2013). Su questi temi, in ambito psicologico-positivo, cfr. Seligman (2011, 2013). Per un’introduzione ai contemporanei approcci psicologici al well-being cfr. Deci & Ryan (2008). ↩︎

  4. Anche Kurt Schneider (1920), in riferimento però alla psicopatologia degli stati depressivi, si è costruttivamente confrontato con la teoria scheleriana della stratificazione emotiva. Ricordiamo inoltre, in dialogo con Scheler e con Schneider, il prezioso contributo di Eugenio Borgna (2008, 245-259) sulla psicopatologia dell’esperienza malinconica: Fenomenologica scheleriana e psicopatologia degli stati depressivi. Sull’applicazione, da parte di Schneider, della filosofia scheleriana in psichiatria e, più in generale, sulla «filosofia della psicopatologia» scheleriana cfr. anche Guccinelli (2020); Guccinelli (2016a; 2016b, 221-260; 2019). Sulla psicopatologia dell’ordo amoris cfr. Cusinato (2018). ↩︎

  5. Il sentire, infatti, per Scheler non è uno stato inerte, nemmeno a un livello del tutto primitivo, o un movimento del tutto casuale, ma è un «movimento finalizzato (zielbestimmte)» (Scheler 2013, 507): determinato (bestimmt), come se ne avesse però la «vocazione», da un fine (Ziel). Un movimento che non si esaurisce, tuttavia, in una vera e propria attività proveniente dal centro. Esso può nascere, infatti, da un’oggettualità o correlato assiologico e dirigersi di conseguenza verso gli strati proprio-corporei dell’io, oppure dall’io così inteso verso un’oggettualità nella quale trova verifica intuitiva. È proprio in questo movimento, che non si dispiega nel tempo e manca, pertanto, di ogni carattere «progettuale» o volontaristico; in questo preciso puntare che, insieme, è un’aprirsi originalmente a uno specifico tipo di oggetto, che qualcosa ci «viene dato (gegeben wird)» (Scheler 2013, 507). Analogamente a una rappresentazione, che ha con il proprio oggetto una relazione intenzionale, il sentire ha con il proprio correlato una relazione intenzionale. Da questo punto di vista, Scheler può scrivere che «sentire» è «un avvenimento dotato di senso (ein sinnvolles […] Geschehen)» (Scheler 2013, 507). Sul sentire assiologico cfr. Guccinelli (2014). ↩︎

  6. In questi termini Scheler (2013, 809) introduce la relazione di dipendenza che sussiste tra la struttura funzionale della sensibilità e la struttura delle tendenze di movimento: «[…] nella sfera complessiva del corporeo e della vita, la relazione tra la struttura delle tendenze di movimento e la struttura funzionale della sensibilità, è conforme alla legge, secondo la quale la seconda dipende dalla prima, sviluppandosi, di volta in volta, solo quelle funzioni sensoriali (e, a maggior ragione, i corrispondenti organi di senso e sensibilità) che possono costituire uno strumento di trasmissione adeguato alla possibile intuizione di oggetti che si trovino in linea con gli orientamenti finali delle tendenze di movimento corporee.» ↩︎

  7. Sui contemporanei approcci edonistici o eudemonistici a felicità e well-being cfr. ad esempio Søraker, van der Rijt, de Boer, Wong, Brey (2015) o Rodogno (2016). ↩︎

  8. Su questo punto ci permettiamo di rinviare a Guccinelli (2016b, 11-63). ↩︎

  9. Su questi punti e sul concetto scheleriano di «destinazione morale» cfr. Guccinelli (2013). ↩︎

  10. Cfr. Scheler (2013, 993). ↩︎

  11. Sul concetto di «attunement» e sulla teoria delle «affordances» cfr. Gibson (1999). ↩︎

  12. Sul concetto di bene «in sé» «per no» cfr. Scheler (2013, 943-953). ↩︎

  13. Scheler 1986, 65. ↩︎

  14. L’io, in altri termini, è di solito così attaccato a se stesso, alle proprie tendenze e pulsioni, da «evitare» (abwenden) di perdersi in altro/i, dal rifuggire l’attiva e amorevole dedizione o completa apertura ad altro/i (mondo o persona amata). ↩︎

  15. Alla lettera: «se qualcosa […] prima o poi è dato (noch gegeben […] ist)», «se qualcosa […] è ancora dato». ↩︎

  16. Così Rümke (1924, 2): «Sia posto qui nel giusto rilievo il fatto che non intendiamo assolutamente generalizzare i risultati cui siamo giunti in questa ricerca. I nostri risultati valgono per i sentimenti di felicità esaminati. Essi sono rappresentativi forse di un determinato tipo di sentimento. Non intendono, in ogni caso, il “sentimento di felicità” nella sua accezione più generale». ↩︎

  17. Così prosegue Binswanger (2003, 107) nello stesso luogo, in riferimento alle molte diagnosi di schizofrenia: «A testimonianza del fatto che anche successivamente non è sempre possibile giungere a una diagnosi univoca cito solo due autori che si sono occupati senza pregiudizi della classificazione di sindromi in parte analoghe. W. Mayer-Gross […]; H. C. Rümke, Zur Phänomenologie und Klinik der Glücksgefühl […]» ↩︎

  18. Su fenomenologia e psicoanalisi cfr. Waldenfels (2019). ↩︎

  19. Sul concetto di «personal non-self» cfr. Cusinato (2018, 211-212). ↩︎