Recensione a Daniel C. Dennet, Breaking the Spell: Religion as a Natural Phenomenon

Daniel C. Dennet, Breaking the Spell: Religion as a Natural Phenomenon, Viking, New York 2006.

(Sumer) La tua mente fervida, il luogo che riesce a far nascere gli stessi dèi, è irraggiungibile così come il cielo.

—G. Pettinato, Mitologia sumerica, p. 132.

Se Al Qaeda invece del World Trade Center avesse distrutto la Statua della Libertà, come avrebbero reagito gli americani? Nel suo ultimo libro Daniel C. Dennett Breaking the Spell: Religion as a Natural Phenomenon (Rompere l’incantesimo, la religione come fenomeno naturale, Viking, New York 2006) si dichiara propenso a ritenere che nel caso i terroristi avessero colpito Lady Liberty la furia con la quale molti americani avrebbero reagito all’attacco al loro più amato simbolo nazionale, la più pura immagine delle loro aspirazioni in quanto democrazia, avrebbe reso difficile una risposta lucida e misurata al terrorismo. Questo perché i simboli, secondo Dennett, nascondono in sé un grande pericolo: “possono diventare troppo sacri”. Se questo vale per tutti i simboli a maggior ragione vale per quelli religiosi. La diffusa e in qualche caso violenta reazione di una parte dei credenti musulmani alla pubblicazione in Europa delle vignette satiriche su Maometto, intervenuta a libro ormai pubblicato, sembra dare ragione a questa tesi. Secondo Dennett uno dei compiti più importanti dei capi religiosi di tutte le fedi dovrebbe essere quello di diffondere e consolidare la convinzione che è estremamente disonorevole colpire i fedeli di un’altra religione nei loro simboli: bandiere, croci, testi sacri, ecc. Cosa dalla quale peraltro lui stesso, poco più avanti, si guarda bene dall’astenersi sbeffeggiando, sulla scia di Dawkins, i cattolici che nella comunione credono di assumere il corpo e il sangue di Cristo, invitandoli a sottoporre a esame il pane e il vino per ritrovarvi il DNA di Gesù.

Breaking the Spell può essere considerato il manifesto dei brights una specie di confraternita neoilluminista, costituita da atei militanti, materialisti, liberi pensatori, agnostici e scettici che si propone di orientare l’opinione pubblica verso un approccio naturalistico alla religione e di far convergere i voti verso le personalità politiche che adottano un punto di vista “secolare”. Molti di loro sono convinti che il mondo sarebbe un posto migliore se non ci fossero le religioni. Questo perché le religioni, come dimostrerebbe la storia, sono portatrici di divisioni, guerre, terrorismo, morti e distruzioni. Dennett tuttavia non si sofferma a riflettere che le più grandi tragedie del Novecento la shoah e il gulag sono state l’esito di ideologie come il nazismo e il comunismo che si proponevano l’una di applicare un programma razzista ispirato maldestramente al darwinismo e l’altra il materialismo scientifico. Il fallimento dei tentativi di abolire la religione messi in atto nell’Unione Sovietica e nella Cina maoista, in ogni caso, sembrano aver dimostrato che neanche in questo campo il proibizionismo paga. Questo perché, secondo Dennett, la maggioranza degli uomini è ancora preda di un meccanismo mentale, una specie di innamoramento del soprannaturale, e non riesce a fare a meno di credenze e pratiche religiose. Un tempo utili oggi le religioni sono divenute idee parassite, non servono più a niente; in compenso sono diventate molto pericolose, sia per la stabilità dei singoli Paesi sia per gli intralci che frappongono allo scorrere delle relazioni internazionali, in quanto terreno di coltura di fondamentalismi e di terrorismi di vario tipo. Il pensiero di Dennett va, naturalmente, alla particolare situazione religiosa degli Stati Uniti, alla paura suscitata dagli attentati dell’11 settembre 2001, alla preoccupazione per il proliferare del mercato delle fedi religiose. L’idea che vi sono credenze che ci fanno vivere e miti che a nessun costo vanno demoliti, come quelli delle religioni, si scontra sempre più spesso, secondo lui, non solo con quella che è l’esigenza della verità scientifica ma anche con quelle che sono le richieste di relazioni pacifiche, giuste e libere. Le idee, le credenze i fenomeni culturali, esattamente come gli altri prodotti della natura, possono essere molto utili, ma possono anche ammalarsi e degenerare. In questo caso vanno curati o eliminati. E l’idea, a dir il vero piuttosto pericolosa, di Dennett è che “il campo della salute pubblica allargato a includere la salute culturale (corsivo nostro) sarà la più grande sfida del prossimo secolo”. Per decidere ciò che è culturalmente sano o insano, come la religione per l’appunto, Dennett suggerisce di ricorrere a una giuria di scienziati.

Dennett dichiara di non voler entrare nel merito delle discussioni pro o contro l’esistenza di Dio (in realtà lo farà a più riprese, soprattutto a proposito dell’argomento ontologico, ignorandone peraltro la sua espressione più formale, La prova matematica dell’esistenza di Dio di Gödel), perché, se anche esistesse, Dio sarebbe un oggetto non conoscibile e quindi il problema della sua esistenza è del tutto privo di interesse. Dennett, che entra molto in ritardo nell’epoca del disincanto, sostiene che è giunta l’ora di rompere l’incantesimo (l’innamoramento) nel quale è ancora racchiusa la maggior parte della gente, i supers, che ritiene la religione frutto di una rivelazione soprannaturale. Bisogna finalmente gridare che il re è nudo, cioè che le credenze e le pratiche religiose sono fenomeni del tutto naturali. E, se proprio non si possono abolire del tutto, bisogna almeno incominciare a studiare le religioni con lo stesso rigore e metodo scientifico con cui si studiano gli altri fenomeni naturali, come i monsoni o i virus, in modo da imparare a controllarne gli effetti più devastanti. Scontata e persino un po’ stucchevole, a questo punto, la riproposizione dei più triti argomenti a sostegno del fatto che le scienze naturali “possono e devono” poter passare le religioni al loro vaglio, e contro la cortina fumogena sollevata, al dire di Dennett, dalla scienza accademica che, un po’ per convenienza, un po’ per pigrizia, un po’ perché suggestionata dal relativismo postmoderno (è curioso, notiamo incidentalmente, come le invettive contro il relativismo di un agnostico come Dennett si incontrino con le preoccupazioni antirelativistiche di Joseph Ratzinger) considera questo tipo di approccio riduzionistico, scientistico e filisteo. Nei fatti però Dennett, a parte lamentarsene, non suggerisce alcun serio argomento contro queste critiche.

Il naturalismo religioso di Breaking the Spell va collocato all’interno del programma di completa naturalizzazione della filosofia e delle scienze sociali i cui esiti sono, almeno fino ad oggi, piuttosto controversi (per una prima ricognizione su questi temi si può vedere Agazzi-Vassallo [a cura di] Introduzione al naturalismo filosofico, Franco Angeli, Milano 1998). Il principio generale del naturalismo è che l’umanità fa parte della natura e quindi l’esistenza umana partecipa a una certa forma di vita, quella terrestre, basata sulle condizioni naturali che costituiscono le condizioni di riferimento (gli universali fisici, biologici e ambientali). Come nei suoi libri precedenti anche in questo Dennett adotta una posizione di naturalismo radicale. “La religione, come l’amore e la musica è naturale. E lo sono anche il fumo, la guerra e la morte. In questo senso di naturale ogni cosa artificiale è naturale! La diga di Assuan non è meno naturale della diga dei castori e la bellezza di un grattacielo non è meno naturale della bellezza di un tramonto. Le scienze naturali hanno come oggetto ogni cosa in natura e ciò comprende le giungle come le città, gli uccelli come gli aerei, il buono, il cattivo, il brutto, l’insignificante come anche l’assolutamente importante”. Il “naturale” è declinato qui, come da altri naturalisti, semplicemente come opposto a “soprannaturale” (ma, paradossalmente, per il naturalismo radicale anche il soprannaturale è naturale) e considera natura non soltanto il mondo esterno, ma anche quello interiore in quanto può essere reso oggetto di studio scientifico. Anche la cultura rientra quindi nella nozione di natura in quanto campo di esercizio delle scienze naturali. In Dennett questa concezione è retta da una epistemologia rozza che pone una distinzione netta tra “conoscere” e “credere” o meglio tra le credenze della scienza e quelle della religione in quanto le prime entrerebbero nel campo dell’accertabile, mentre le altre no. Essa non sembra tenere conto che il nostro modo di conoscere è inestricabilmente connesso al nostro modo di essere nel mondo: ancora prima di conoscere noi sviluppiamo una naturale attitudine a credere nell’esistenza dei corpi materiali, delle altre menti e dell’uniformità della natura. Il credere nel credere non è, come propone Dennett, un eccesso del processo del conoscere, ma la sua origine. Purtroppo questi temi cruciali per qualunque teoria naturalista e degni di pacate riflessioni trovano in Dennett, forse non a caso, soltanto sporadici accenni per lo più superficiali o polemici e non sempre del tutto coerenti.

La maggior parte di Breaking the Spell è dedicata a ricostruire i meccanismi mentali e i percorsi evolutivi che, secondo Dennett hanno fatto sorgere, sviluppare e consolidare le credenze e le pratiche religiose. Per questa ricostruzione Dennett si avvale di due teorie. La prima è un’applicazione alla religione della sua eterofenomenologia e più in particolare della nozione di “disposizione intenzionale” già elaborata nel saggio The Intentional Stance; la seconda, che inevitabilmente riguarda i rapporti tra evoluzione biologica e culturale, fa perno sulla teoria dei “memi” proposta da Richard Dawkins nel suo Il gene egoista (1976). Entrambe queste teorie adottano il punto di vista darwiniano della selezione naturale, anche se divergono sulle modalità e sul livello della sua applicazione.

Bisogna riconoscere che il tema della “intenzionalità”, come sviluppato da Dennett, può rivelarsi un percorso molto suggestivo e fecondo sia sul piano ontologico sia su quello epistemologico. Quella che Dennett chiama “la disposizione intenzionale”, la tendenza cioè a trattare tutti gli altri esseri animati come “sistemi intenzionali” dotati di credenze e di desideri, di conoscenze e scopi si propone come un dispositivo in grado di mettere in connessione la coscienza individuale con le altre coscienze. Secondo Dennett la disposizione intenzionale si è dimostrata così efficace per il successo degli individui e dei gruppi umani da assumere i caratteri di un vero e proprio virtuosismo mentale. Il nostro impulso innato ad attribuire agli altri intenzioni e desideri sarebbe così potente che non riusciamo a frenarlo neanche quando esso è vistosamente fuori posto. Sarebbe proprio questo eccesso, questa iperattività della mente nell’uso della disposizione intenzionale a creare le idee selvagge dei fenomeni prereligiosi: la sepoltura rituale dei cadaveri da parte dei Neandertaliani, l’animismo, cioè la tendenza ad attribuire un’anima a tutti gli esseri viventi, la divinazione, lo sciamanesimo, ecc. di cui le religioni attuali non sarebbero altro che la versione addomesticata. Nei fatti però la ricostruzione della religione preistorica offerta da Dennett, se viene messa a confronto con quelle basate sulle ricerche archeologiche, risulta del tutto speculativa, sterile e banalmente appiattita sul versante materialistico, tanto da suscitare la curiosa impressione di stare leggendo qualche autore sovietico degli anni cinquanta (come l’affermazione di Dennett che Marx definendo la religione “oppio dei popoli” aveva forse molte più ragioni di quanto lui stesso non pensasse; o l’altra che è esistito un tempo nel quale l’uomo non credeva a niente, che si ritrova quasi negli stessi termini all’inizio di un vecchio testo sulla religione della preistoria di Tokarev, ecc.).

Vi sono due elementi che congiurano a un risultato così deludente. Il primo è la sua definizione di mente come dispositivo di ricerca orientato alla fitness riproduttiva. Ora non vi è dubbio che le menti sono formidabili “dispositivi di esplorazione”, altrimenti l’individuo non riuscirebbe a scambiare informazioni con il mondo che lo circonda e nel quale deve vivere. Ma non vi è dubbio che sono anche molto di più: straordinari dispositivi di “invenzione” e di “elaborazione” cognitiva. A partire dalla invenzione di un mondo (o meglio di più mondi) entro cui l’esplorazione si può esercitare. Sottovalutare queste dimensioni a favore di quella più darwiniana e positivista di “esplorazione” può rendere molto difficile dare una qualche giustificazione al sorgere e allo svilupparsi dei linguaggi simbolici da quello verbale sintatticamente articolato a quello dell’arte (forse non a caso nel libro manca qualunque accenno al grande fenomeno dell’arte delle caverne), della musica, o, appunto, delle religioni (ma anche, naturalmente, della matematica). Il fatto è che Dennett applica l’idea darwiniana di razionalità che è una razionalità strettamente utilitaria (cui bono? È la domanda che percorre il libro dall’inizio alla fine) ma così facendo è obbligato a reintrodurre il vecchio dualismo tra idee selvagge e idee addomesticate e la discontinuità (antistorica) tra le interpretazioni religiose del mondo e quelle scientifiche.

Il secondo elemento è la definizione operativa delle religioni che Dennett considera “sistemi sociali i cui aderenti professano di credere in uno o più agenti soprannaturali dei quali domandano l’approvazione”. Non è il caso di addentrarsi in una disanima puntuale di questa definizione. Ma non si può evitare di osservare che, già a prima vista, essa risulta fortemente orientata a ritenere che la religione è un affare di creduloni facilmente plagiabili, ipnotizzabili, suggestionabili. Centrata sulla professione di fede di un credente piuttosto ruspante e astratto, senza tener conto delle raffinate elaborazioni teologiche presenti in quasi tutte le religioni, essa trascura che le credenze spesso “si radicano in affetti e danno origine a emozioni” (Boudon, 2001) talvolta più importanti delle credenze stesse.

L’aspetto più paradossale del libro di Dennett, tuttavia, è il suo ricorso, per spiegare i meccanismi di replicazione e di successo delle idee religiose, alla teoria del “meme egoista”. Per un autore che intende divulgare la scienza come antibiotico nei confronti delle infezioni religiose il ricorso alla memetica non è un buon viatico. Da una diecina d’anni tutti i tentativi di descrivere la trasmissione del linguaggio e degli altri tratti culturali da una generazione all’altra nei termini dei memi, cioè attraverso gli stessi meccanismi che presiedono alla trasmissione delle informazioni genetiche, hanno dato vita sostanzialmente a due versione della memetica: una versione forte per la quale la trasmissione dei geni e dei memi avviene esattamente con le stesse regole; e una versione debole per la quale tra geni e memi vi è soltanto qualche analogia. Ora, la versione forte si scontra in maniera insuperabile con i dati empirici, mentre la versione debole è talmente vaga che spiega molto meno degli approcci tradizionali. È la stessa situazione che caratterizza il tanto aborrito da Dennett “principio antropico”. Il fatto poi di assumere come punto di vista, come suggerisce Dennett, non l’evoluzione e la competizione dei gruppi umani, ma quella dei memi stessi in competizione con memi rivali, non fa che reificare e rendere meccanici quei processi di creazione e di trasmissione culturale che mostrano ben altra complessità.

Le religioni vanno eliminate perché ormai trasmettono soltanto idee parassitarie (ma non si può non osservare che tutta la produzione libraria dell’ateismo positivo, compreso questo libro di Dennett, è parassitaria del teismo) che possono diventare pericolose. Vi sono anche altri aspetti culturali che possono diventare pericolosi, come ad esempio l’innamoramento: non a caso per Dennett la religione è una specie di innamoramento romantico cieco e ottuso. Ora, osserva Dennett, tutti, vorrebbero vivere in un mondo in cui coesistono amore, giustizia, libertà e pace. Ma se bisogna scegliere va eliminato l’amore perché fra tutti è quello che presenta i maggiori rischi. Qualche dubbio c’è anche per la musica che serve a rendere più dolce la vita ma che con le canzoni di guerra, di rivolta, di protesta o con gli inni nazionali, può ispirare sentimenti contrari alla stabilità sociale e ai rapporti internazionali.

Ovviamente c’è da chiedersi se davvero un mondo senza religione, senza amore e magari senza musica sarebbe un mondo migliore. La religione è un fenomeno naturale, sviluppatosi in milioni, migliaia di anni di evoluzione mentale e culturale. Essa ha certamente contribuito a traghettare l’umanità dall’ istinto inconscio degli Australopiteci, qualche milione di anni fa, alla consapevolezza lucida dell’uomo attuale. Dennett tuttavia ritiene che il suo ruolo sia esaurito e che il suo posto possa essere preso dalla scienza. Ma in realtà le ragioni essenziali ch’egli porta a sostegno di questa tesi (1. il fatto che la religione esige un atto di fede; 2. il fatto che il fondamentalismo religioso può essere socialmente pericoloso) non sono certo convincenti. 1. Quello che egli considera l’erede più accreditato della religione, la scienza ufficiale, spesso esige dalla maggior parte dei cittadini, inevitabilmente ignari delle ricerche che si svolgono nel chiuso dei laboratori, un atto di fede non diverso da quello richiesto dalla religione. 2. Niente garantisce che il fondamentalismo tecnico-scientifico è meno pericoloso di quello religioso. Come osserva lo stesso Dennett “l’ingegneria memetica, come l’ingegneria genetica, se non sta attenta, può creare dei mostri che scappando dai laboratori possono proliferare a dispetto di tutti i nostri sforzi per contenerli”. E questo libro può rappresentarne un esempio.