In che senso il ripensamento della soggettività può spettare ancora alla filosofia?
La stessa formulazione dell’invito a ripensare la soggettività dopo la critica del soggetto evoca tre discorsi: il primo è quello che si invita a realizzare, cioè il discorso che dovrebbe ripensare la soggettività, il secondo è quello che ha criticato il concetto di soggetto e il terzo è quello che aveva elaborato tale concetto. Tentare di realizzare il primo discorso richiede evidentemente di confrontarsi con gli altri due, ma qual è la natura di tale confronto? Se lo si concepisce come una discussione argomentativa o un esame dialettico, allora quei discorsi saranno intesi come proposizioni rispetto a cui chiedersi se siano o meno vere (oppure se valide in qualche altra accezione), mentre non avrà alcun rilievo stabilire se siano o meno state tenute per vere. Se saranno state tenute per vere e se però risulteranno non vere nell’esame dialettico, allora non resterà che ammettere, molto semplicemente, che qualcuno ha tenuto per vero il falso, cioè che è incorso in un errore. Si profila così la seguente alternativa: o quei discorsi sono considerati come contenuti ideali di cui si interroga il valore di verità (o il grado di fondatezza) oppure sono considerati come mere opinioni di cui non importa stabilire né quanto siano state diffuse, né quali cause (se psicologiche o d’altro tipo) debbano spiegare questa diffusione.
Questa maniera di confrontarsi sia al discorso che articola il concetto di soggetto, sia a quello che ne articola la decostruzione non manca certo dei titoli per presentarsi come filosofica ed è ben rappresentata nel panorama teorico: per essa, la questione del soggetto, come ogni questione filosofica, si colloca fuori della storia e ciò che va discusso sono tutti i modi di risolverla logicamente possibili, indipendentemente dal fatto che qualcuno se ne sia fatto portavoce. Esistono tuttavia anche altre maniere di realizzare quel confronto, che si dichiarano filosofiche, ma che tentano di prendere più sul serio la portata storica di quei due discorsi, che non si accontentano, cioè, della nozione di “opinione diffusa”. Naturalmente, quanto meno quei discorsi sono ridotti a opinioni, tanto meno il confronto filosofico con essi può essere inteso come una critica di opinioni o una discussione argomentativa del loro contenuto proposizionale. E lo stesso “ripensamento della soggettività” non potrà più essere inteso come l’elaborazione intellettuale della teoria finalmente valida – in attesa che tale teoria, in virtù della sua intrinseca credibilità, divenga il contenuto di un’opinione diffusa.
Chiedendomi secondo quale idea di filosofia vada inteso e praticato un efficace ripensamento della soggettività, cioè un’efficace articolazione di un concetto di soggettività che non sia una riproposizione del concetto moderno di soggetto,1 variamente criticato da gran parte della filosofia (e non solo) del XX secolo,2 prenderò esclusivamente in considerazione quelle forme di filosofia che si misurano con l’effettualità storico-sociale sia di quel concetto, sia di quelli che ne esprimono la crisi e che dunque si pongono anche il problema delle condizioni grazie a cui tale ripensamento possa a sua volta avere un’effettualità. (In effetti, solo fino a che si ragiona in termini di opinioni diffuse ci si può illudere che la critica del contenuto di tali opinioni sia l’inizio e il nucleo essenziale di una grande trasformazione.) In particolare, traccerò una distinzione tra queste filosofie a seconda che impieghino o meno il concetto, che definirò, di evento filosofico e difenderò quelle che non lo impiegano – e che per questo si allontanano dalla più familiare pratica della filosofia. Come è evidente, tutto questo non ha solo una valenza metodologica e preliminare: ridefinire i rapporti tra i “pensieri” e la “storia” fa già parte di un ripensamento del concetto di soggetto.3
Che cos’è un evento filosofico?
Se accettiamo come un asserto descrittivo valido, per quanto generico e vago, quello che registra come una certa idea di soggetto, che è stata dominante, ora non lo sia più e vada perdendo credibilità, allora possiamo chiederci se tale asserto tratti di un evento che merita di essere classificato come filosofico. In effetti, se fosse così, sarebbe plausibile sostenere che la più adeguata risposta allo stesso dovrebbe essere filosofica nello stesso senso.
Intendendo in generale un evento come un accadimento che innesca una trasformazione in qualche senso “globale”, un evento filosofico sembrerebbe dover essere rappresentato come un evento in cui un discorso o un pensiero, espresso in uno o più testi e/o proferimenti di un certo genere, impatta sulle coscienze dei membri di una società e, attraverso un processo di natura prevalentemente intellettuale che ammonta a un convincere razionale, li porta ad agire diversamente e dunque, progressivamente, a modificare le pratiche cui partecipano e le istituzioni entro cui vivono. Questa succinta caratterizzazione risulterà più chiara se la inseriamo in una morfologia più ampia: all’estremo opposto dello spettro, potremmo collocare un evento naturale, come un terremoto, che ha cause e condizioni naturali e che impatta sulla vita sociale innanzitutto colpendo gli edifici e le infrastrutture e dunque poi i corpi vivi di alcune persone, ma anche le coscienze di altre, traumatizzandole in vario modo e imponendo la necessità di una risposta e di una rielaborazione socio-simbolica e politica;4 tra questi due tipi di eventi, dovremmo collocare un evento come la pandemia che ci ha investito due anni fa, perché ha cause e condizioni sia naturali, sia sociali e impatta in maniera inestricabile tanto sui corpi vivi quanto sulle pratiche sociali e le risorse simbolico-culturali attraverso cui sono articolate;5 tra gli eventi come la pandemia e gli eventi filosofici, dovremmo poi collocare gli eventi schiettamente sociali come ad esempio le rivoluzioni: queste hanno innanzitutto cause e condizioni sociali e raggiungono tutti i membri della società in quanto sono coinvolti nelle pratiche che il movimento rivoluzionario trasforma. Questo pur rapido abbozzo di morfologia ci impone di tornare sui presunti eventi filosofici per chiedere innanzitutto che tipo di cause e condizioni abbia l’emergenza del pensiero o del discorso che poi ingenererà la catena di effetti trasformativi.
Non è inevitabile rispondere che all’origine di quell’emergenza ci sia un singolo pensatore che avrebbe saputo rielaborare le categorie e le questioni ereditate, in maniera così creativa da arrivare a ideare una problematica, se non una dottrina, nuove, cioè appunto la problematica o la dottrina articolate nel discorso la cui emergenza innesca l’evento. In effetti, sono state tentate risposte meno umanistiche, ad esempio parlando di una dialettica della ragione che troverebbe nei singoli filosofi innanzitutto dei supporti, oltre che coloro che dovrebbero saperla esplicitare. L’idea di fondo si può riformulare così: ciò che accade nella fase che la versione umanistica chiama la “rielaborazione delle categorie e delle problematiche ereditate” è una rielaborazione che nessun soggetto individuale padroneggia per intero; che cosa abbia fatto risaltare proprio quel grappolo di criticità (quelle “contraddizioni”), che cosa abbia indotto a cercare una via di risoluzione (la “negazione determinata”) in una certa direzione piuttosto che in altre ecc. sono accadimenti di cui nessuno è propriamente autore – cioè nessuno è autore nel senso in cui l’umanismo immagina l’autorialità. Come d’altronde nessun pensatore padroneggia quel significato del “suo” discorso, che diviene efficace e operativo nella catena degli effetti trasformativi innescati dall’evento e che è un significato in cui c’è di più e di meno di quanto c’è nell’immagine che il pensatore si fa del suo proprio discorso.
Sebbene il tipo di analisi di un evento filosofico appena richiamata non sia umanistica, è ancora razionalistica, pur mobilitando una comprensione complessa, “dialettica”, della ragione: il nuovo discorso non è qui inteso semplicemente come differente da quello che lo precedeva, ma come più profondo, più vero, insomma un superamento dialettico del precedente. Esistono analisi dell’evento filosofico che negano anche questa continuità nella discontinuità. Ad esempio, le diverse epoche che corrispondono ad altrettanti eventi dell’Essere, per Heidegger, non procedono l’una dall’altra neppure attraverso rovesciamenti e superamenti dialettici, eppure tali eventi meritano di essere classificati come eventi filosofici per le due seguenti loro caratteristiche comuni. Innanzitutto, l’apertura di un’epoca, pur vincolando i destini socio-politici e culturali delle civiltà coinvolte, consiste essenzialmente nell’imporsi di una precomprensione ontologica, cioè nel radicarsi di una costellazione di categorie, figure e dispositivi concettuali, un radicarsi che si realizza anche grazie all’opera di questo o quel pensatore (filosofo o meno che sia), ma che non può essere inteso come l’opera di questo o quel pensatore – e neppure dell’Essere, che è posto nella posizione grammaticale del soggetto solo in assenza di formulazioni meno fuorvianti. In secondo luogo, la precomprensione ontologica di volta in volta vigente, sebbene non viva solo e innanzitutto nelle coscienze (o negli scritti) dei filosofi, è qualcosa che spetta al pensiero filosofico delucidare.
A questo punto, possiamo correggere la caratterizzazione iniziale dell’evento filosofico, attestandoci su questi punti: data una certa globalità socio-storica, che sia caratterizzata come un’epoca o come una formazione sociale, la configurazione della vita in essa dipende principalmente ed è vincolata da un complesso di categorie e problematiche in cui sono incastonate le rappresentazioni di fondo di cose come il tempo, lo spazio, la verità e il sapere, la vita e la morte, la riuscita e il fallimento ecc.; l’imporsi di tale complesso o dipende da ragioni (dipende cioè da un processo razionale, dove tale razionalità può anche essere dialettica e dove il processo di elaborazione può anche non esser inteso, umanisticamente, come l’opera di un soggetto individuale o un’assemblea dialogante) oppure è in-fondato, ma comunque non è spiegabile facendo riferimento a cause di altro tipo; testi e proferimenti classificabili come “filosofici” costituiscono i documenti fondamentali in cui rinvenire le formulazioni più pure delle categorie e delle problematiche che costituiscono il complesso in questione; la pratica filosofica, come pratica che sa leggere e comprendere i testi e i proferimenti filosofici, ha, come minimo, un ruolo decisivo nella esplicitazione e ricostruzione del complesso concettuale dominante nella globalità socio-storica (sa apprendere il suo tempo con il pensiero, sa custodire il senso secondo cui l’essere si dà), ma le può anche venire attribuita la capacità di partecipare da protagonista nel processo critico-creativo che porta all’instaurazione di un nuovo complesso dominante.
Se si ammette che possano esistere eventi filosofici, allora si potrà poi tentare di sostenere che è stato un evento di questo tipo sia l’insorgere della metafisica moderna della soggettività con il connesso divenir rappresentazione del mondo,6 sia il suo tramonto nel XX secolo (o il suo andar tramontando, a partire dal XX secolo). A questo punto, si disporrà di una buona ragione per assegnare ancora alla stessa filosofia il compito di pensare questo secondo evento (e forse anche di discuterlo, se si ammette la possibilità di giudicare la verità o la profondità delle premesse della nuova problematica o la validità delle categorie che la articolano). E chissà che non sia proprio da questi tentativi che emergerà un nuovo evento filosofico. Chissà che non sia proprio una di quelle elucubrazioni filosofiche in cui si parla di un soggetto che non pretenderebbe più di assorbire l’alterità, ma che si nutrirebbe e si prenderebbe cura della relazione costitutiva con essa, ad innescare una nuova trasformazione globale della nostra forma di vita.
Contro l’idea stessa di evento filosofico
Resta da capire se questo modo di intendere il gesto filosofico, ossia come una risposta a un evento filosofico, risposta che potrebbe a sua volta divenire evento filosofico, non riposi su un assunto da rigettare e cioè che possano effettivamente esistere eventi filosofici. Marx, ad esempio, lo nega recisamente: tale negazione è una delle poste in gioco de L’ideologia tedesca. Come è noto, ciò che Marx ed Engels negano è che la coscienza degli uomini o le loro idee determinino la loro vita sociale.7 Questa celebre formula può essere sviluppata come la congiunzione delle seguenti quattro tesi:
- Il mutamento delle forme della coscienza determina il mutamento delle forme delle altre realtà sociali (le forme della politica, le forme del diritto, le forme della produzione ecc.) e dunque viene a determinare la configurazione generale, di volta in volta data, della società;
- il mutamento delle forme della coscienza è un processo autonomo (che eventualmente trova, in ciò che è fuori di sé, solo delle circostanze e dei limiti minimi);
- le forme della coscienza corrispondono alle produzioni ed elaborazioni simbolico-discorsive che Marx ed Engels riuniscono sotto la comune etichetta di “ideologie”, ma in cui si possono riconoscere ad esempio le dottrine della morale, della religione e della metafisica.8 Si potrebbe dire che le forme della coscienza sono tali dottrine, discorsi e idee, non in quanto espressi o contenuti in enunciati, bensì in quanto contenuti di convinzioni, disposizioni a credere o, ancora, credenze disposizionali. (Le forme della coscienza consistenti in disposizioni emotive o pratiche dipenderebbero per l’essenziale dalle disposizioni cognitive.)
- Nel processo di mutamento delle forme della coscienza ha o può avere un ruolo importante la critica filosofica, cioè esiste un mutamento di forme della coscienza realizzato dalla diffusione di idee e discorsi filosofici e tale tipo mutamento può investire tutte le forme della coscienza.
Insomma, l’obiettivo polemico di Marx ed Engel è la doppia convinzione che (a) siano solo o innanzitutto le idee attraverso cui ed entro cui i soggetti pensano a determinare il modo in cui viene a configurarsi la loro vita sociale e che (b) quali siano tali idee dipenda a sua volta da processi di formazione, apprendimento ed elaborazione sostanzialmente indipendenti – quei processi che, sulla base di un’ulteriore premessa secondo cui l’intera loro sequenza è una linea continua e ascendente, sono stati pensati come il progresso della ragione umana o lo sviluppo spirituale della civiltà o il crescente rischiaramento della coscienza universale. Ora, la critica di tale doppia convinzione colpisce alla radice anche l’idea stessa di evento filosofico quale l’abbiamo abbozzata prima: la dimensione delle idee e delle rappresentazioni non è né autonoma, né è l’istanza determinante o vincolante in ultima istanza.
Per una comprensione materialistica di ciò che era pensato come un evento filosofico
Dalla prospettiva aperta da Marx, ciò cui si poteva alludere attraverso la cattiva nozione di evento filosofico dovrà semmai essere compreso solo come un effetto di un evento sociale. O, forse, sarebbe ancor meglio dire, come un momento, non realmente separabile, di un evento sociale. Nella differenza tra queste due formule, “effetto” o “momento” di un evento sociale, si gioca la questione del grado di indipendenza e di operatività sociale riconosciuto alle idee da parte del materialismo storico. Quanto più ci si avvicina alla prima risposta, tanto più si considera il processo di elaborazione e trasformazione delle idee come del tutto dipendente da altri processi e le idee sono intese come «emanazione diretta (direkter Ausfluß) dei rapporti materiali» e come «sublimazioni (Sublimate) del processo materiale della […] vita».9 A questo punto, però, lo stesso discorso marxiano, nella misura in cui è esso stesso un pensiero e un’articolazione concettuale, rischia di non poter più avanzare legittimamente una pretesa di validità, se è vero che tale pretesa richiede che ciò che la supporta non sia considerato solo come un fatto tra fatti.10 Quanto più invece ci si allontana da questa risposta, qualificata come un “materialismo volgare”, e ci si avvicina all’altra, tanto più occorre riconoscere alla dimensione delle idee, cioè ai processi in cui vengono elaborate, sviluppate e criticate, un certo grado di indipendenza e dunque poi la capacità di «esercita[re] altresì la loro influenza» sui cosiddetti “processi materiali”:11 sono un momento del tutto sociale e non un epifenomeno della sua dinamica. Dall’interno di questa seconda prospettiva, un presunto evento filosofico può essere ridefinito, grosso modo, nel modo seguente:
- l’aprirsi di una nuova precomprensione ontologica corrisponde all’instaurarsi di una certa costellazione di idee, nella posizione di ciò che è dominante (cioè nella posizione delle «idee dominanti», herrschenden Gedanken)12 all’interno della più vasta dimensione delle idee e delle risorse simbolico-concettuali socialmente disponibili e in uso. (Questo implica che in una globalità socio-storica non c’è mai una sola precomprensione ontologica, sebbene la dominanza di una sulle altre abbia effetti anche su di loro, oltre che sul complesso della configurazione vitale.)
- Questo radicarsi o instaurarsi conferisce a tale costellazione un’effettualità e perciò una certa operatività nella realtà sociale (in uno o più dei vari modi in cui delle rappresentazioni possono operare sulla vita, ad esempio, come leggi, come istanze di legittimazione, come riferimenti autorevoli, come mediazioni entro cui viene elaborata l’esperienza e progettata l’azione ecc.).
- Questo radicarsi non dipende unicamente dalla credibilità o da altre qualità epistemiche (la coerenza, la validità, la verità, la capacità di produrre intellegibilità o comprensioni più profonde) di quella costellazione di idee, ma sempre anche dalla sua capacità di incontrare (per legittimarli o anche solo per esprimerli ed articolarli) alcuni degli interessi e delle istanze pratiche che circolano nella formazione sociale. Questo comporta che là dove un discorso ha effettualità (il che non vale per qualunque discorso, che potrebbe anche essere una semplice elucubrazione soggettiva o una bella pensata), questa effettualità ha tra le sue componenti il fatto che esiste una forza sociale che si riconosce oppure che usa e mette al lavoro quel discorso.13
- Quel radicarsi, comunque, non è neppure del tutto indifferente alle qualità epistemiche di quella costellazione, infatti tale costellazione, nella misura in cui si è radicata e instaurata, consente delle operazioni che hanno una dimensione intellettuale: persino la razionalizzazione di un interesse particolaristico abbisogna che il discorso razionalizzante sia dotato di una certa coerenza e plausibilità; la giustificazione di un bisogno o di una preferenza particolari, nella misura in cui conferisce loro « la forma dell’universalità» (die Form der Allgemeinheit),14 comporta un loro elevamento; l’articolazione di un’esperienza deve perlomeno consentire ai soggetti di quell’esperienza di riconoscersi in tale articolazione; un’analisi che pretende di essere accettata e impiegata come analisi scientifica deve saper produrre un effetto di conoscenza.15
- Proprio in quanto il radicarsi in posizione di dominanza di una certa costellazione di idee, categorie e problematiche non è indifferente alle sue qualità epistemiche, allora la locuzione “risposta critica a tale costellazione” può non essere una formula vuota, ma alludere a un processo reale che merita di venir meglio definito, ma che può essere capace di una certa effettualità.
- Che ne è della “risposta filosofica” a un evento?
Come abbiamo visto, ragionare in termini di eventi filosofici può portare a credere che l’esser divenuto e l’esser poi stato dominante nella modernità del concetto di soggetto fosse un evento filosofico, che lo sia anche il deteriorarsi di tale dominanza, ingenerato magari dalla critica filosofica di quel concetto e, infine, che possa divenire un terzo evento filosofico quel ripensamento della soggettività cui qui si invita. Ma che cosa può significare non ragionare più in questi termini, senza, però, rigettare l’idea che esistano delle cesure e che il lavoro del pensiero non si riduca alla discussione delle opinioni e delle pensate di questo o quell’individuo?16 Ad esempio, in rapporto al concetto di soggetto, non si tratta certo di ridurre quella che era intesa come la sua centralità storica a un suo mero albergare nelle menti di molti individui: piuttosto, si tratta di non intendere quella centralità attraverso il concetto di evento filosofico quale l’abbiamo tratteggiato. L’abbozzo di un altro intendimento della centralità storica di un concetto, l’ho fatto emergere riappropriandomi di un certo gesto marxiano.
Non è però ancora per nulla chiaro come debba essere conseguentemente ripensata la cosiddetta “risposta filosofica” alla centralità storica di un concetto, che sia il concetto di soggetto o quell’insieme di altri concetti e figure attraverso cui lo si sarebbe decostruito. Detto altrimenti: il riconoscimento, la tematizzazione, la riflessione su e infine la critica di un evento filosofico e del complesso di categorie e problematiche (la precomprensione ontologica) che, con tale evento, si instaura come l’orizzonte ermeneutico di una globalità storico-sociale, quella tematizzazione che dovrebbe senz’altro portare ad esplicitezza quel complesso, ma di cui talvolta si presume anche che, in quanto tematizzazione critica, possa preparare un nuovo evento, ecco, questa tematizzazione critica e le sue potenzialità come vanno intese all’interno di quell’altro sguardo sui cosiddetti eventi filosofici, che non vede eventi filosofici, bensì solo specifici momenti di eventi sociali? Per esaminare questo problema, sarebbero da considerare partitamente i suoi tre seguenti aspetti: (a) l’estensione del criticandum; (b) la natura del negativo che rende il criticandum appunto meritevole di critica (il rilevamento della falsità o quello dell’aporeticità, ad esempio, vanno distinti dal rilevamento di quel negativo che consiste nel produrre un’espressione o un’articolazione grossolane dell’esperienza o, ancora, dal favorire un riconoscersi in una rappresentazione di se stessi che è povera); (c) le condizioni grazie a cui quel criticandum si è radicato nella realtà sociale (in proposito, ho già suggerito che tali condizioni non sono afferrabili sulla falsariga dell’intellettualismo umanista, secondo cui tutto si riduce al fatto che individui dotati tutti delle stesse capacità razionali – la bona mens infatti sarebbe la cosa meglio distribuita – ma non tutti ugualmente attenti ad esercitarle, sono stati convinti in molti dallo stesso discorso). Per ragioni di spazio, ci dovremo limitare al primo aspetto e a un’osservazione finale sul terzo.
Dove vivono i concetti e che cosa può essere la loro messa in questione
Poco fa abbiamo richiamato la presa di distanza dal materialismo volgare che ritorna ciclicamente nella tradizione marxista, a partire dallo stesso Engels che, nella celebre lettera che ho citato, distingue la posizione sua e di Marx dalla semplificazione attribuitagli «da parte dei più giovani».17 Tale presa di distanza, tuttavia, può essere compiuta in maniera più o meno radicale. Posto che l’obiettivo polemico di ogni forma di materialismo sia la tesi per cui sono le idee (cioè i significati, non semplicemente degli stati o degli eventi mentali) ad avere tutta la potenza causale determinante le fattezze della vita sociale (o meglio, sono le idee, ma dato un certo ambiente naturale solo in parte tecnicamente modificabile sulla base e grazie a idee) e se la tesi opposta, quella del materialismo volgare, dice che le idee sono solo un epifenomeno senza alcuna efficacia causale, allora è tra queste due posizioni che si collocheranno le varie prese di distanza materialiste dal materialismo volgare. La prima si limita ad attribuire alle idee non tutta, ma una certa potenza causale: è la nota tesi del pluralismo dei fattori, che nel marxismo è associata per esempio al nome di Eduard Bernstein. La seconda comincia ad interrogare il piano comune su cui si distinguono, ma anche interagiscono questi vari fattori, tuttavia, non arriva ad affermare altro che una gerarchia tra questi: il fattore ideale opera nei limiti posti dall’esterno dal fattore materiale (ad esempio, la dinamica della base produttiva).18 La terza posizione finalmente interroga la stessa nozione di fattore ideale per smarcarsi da una sua comprensione ancora intellettualistica (per cui la sua surdeterminazione da parte della “materia” sarebbe un limitare dall’esterno, per intendere il quale ci si avvolge in problemi non dissimili da quelli in cui si è avvolta la tradizione cartesiana per pensare l’interazione tra res cogitans e res extensa). Per la terza posizione, che troviamo ben espressa ad esempio da Louis Althusser, le idee informano pratiche, sono “forme dell’agire”:19 la scienza esiste innanzitutto come pratica scientifica e le cosiddette “ideologie” sono innanzitutto pratiche ideologiche (che certamente offrono anche i contesti di enunciazione agli enunciati che esprimono quelle idee pure in forma linguistico-simbolica); ricorrendo ad un altro vocabolario, si potrebbe dire che le idee esistono innanzitutto nelle forme dei riti, sebbene all’interno di tali riti trovino posto anche gli atti che formulano e raccontano i miti. Esiste però ancora una quarta posizione, estrema, che forse non è neppure più possibile includere nel marxismo:20 essa rileva che ad essere informate dalle idee non sono solo alcune pratiche, ma tutte le pratiche che, nel loro complesso, costituiscono la formazione storico-sociale. Non vi sono pratiche, ad esempio quelle produttive, che sarebbero ordinate da norme o fini (ad esempio la norma che ingiunge di dominare sempre meglio la natura o quella, che non è affatto sicuro sia riducibile alla prima, che ingiunge di sviluppare sempre più le forze produttive), le quali opererebbero come tendenze naturali, cioè sulla base di un significato indipendente, che troverebbe nel complesso dei significati culturali qualcosa di simile alle fattezze geologiche dell’ambiente, cioè una delle circostanze esterne entro cui operare. Al contrario, queste tendenze dipenderebbero da norme mediate dal complesso delle idee socialmente operanti per cui, in ultima analisi, tali norme sarebbero parte di questo complesso. Non esiste dunque una dialettica della base produttiva che possa essere scorporata dalla dinamica sociale complessiva ed essere esaminata «con la precisione delle scienze naturali»:21 è semmai nella formazione sociale capitalista che alcune norme e ingiunzioni sono dominanti a un tale grado da sembrare espressione di una necessità naturale indipendente dall’orizzonte storico-ermeneutico.
La quarta posizione fa dunque spazio a una nozione di orizzonte ermeneutico, non dimezzata (come invece accade nelle altre forme di materialismo non volgare), e tuttavia neppure gravata da ipoteche idealistiche (come all’interno delle prospettive che ragionano in termini di eventi filosofici). A questo punto, si vede quanto può essere esteso il discorso o plesso di categorie e problematiche che la critica intende mettere in questione: non è inevitabilmente solo l’opinione intrattenuta da un qualche filosofo, ma può dominare l’orizzonte ermeneutico di un’intera formazione storico-sociale. Così, il concetto moderno di soggetto non opera solo nelle elaborazioni di Cartesio o di Kant, ma è riconoscibile nello stesso impianto teorico delle costituzioni moderne o nelle forme del diritto, nel modo in cui è definito il mercato o in quelli secondo cui si trasformano le pratiche religiose o si istituiscono le pratiche mediche ecc. Come va intesa tuttavia questa estensione del concetto di soggetto?
Nelle opere di Emanuele Severino è possibile rinvenire una risposta molto impegnativa a tale interrogativo. Ragionando sul rapporto tra quella che per lui è la persuasione fondamentale dei mortali, cioè la credenza che le cose oscillino tra l’essere e il nulla, e quella che chiama «la totalità delle opere prodotte dai mortali», arriva a sostenere che quest’ultima non è altro che «la totalità delle persuasioni necessariamente implicate da» quella persuasione fondamentale.22 Proiettata sul nostro problema, questa tesi potrebbe significare che tutte le determinazioni di cui si carica il concetto di soggetto operando in tutte quelle situazioni, pratiche e istituzioni sono implicate dal suo contenuto filosofico e dunque implicite in esso. Se le cose stessero così, allora in effetti la risposta più adeguata all’orizzonte ermeneutico dominato dal concetto di soggetto sarebbe la critica del nucleo filosofico di tale concetto, critica che non potrà che essere a sua volta filosofica.
Si potrebbe tuttavia sostenere anche che, se è vero che è in tutto quel complesso di forme pratiche e istituzionali che si rivela il significato concreto del concetto di soggetto, il rapporto tra questo significato concreto e quello astratto distillato e rinvenibile nei grandi testi filosofici della modernità non è un rapporto di implicazione del concreto (in posizione di conclusione) da parte dell’astratto (in posizione di premessa), bensì un rapporto di implicazione dell’astratto (in posizione di presupposto) da parte del concreto. Così, il complesso delle forme pratiche e istituzionali non è solo un luogo di rivelazione di quanto era già implicito nel concetto distillato dai filosofi, ma è un luogo di arricchimento del significato di quel concetto: il concetto si arricchisce di nuove determinazioni e di nuovi aspetti, evolve, assume fattezze che non aveva. La comprensione filosofica di quel concetto presenta degli spazi bianchi che nessuna esplicitazione delle implicazioni necessarie può riempire: quegli spazi si riempiono grazie alla dinamica storico-sociale. Così, tra il concetto cartesiano di res extensa e il concetto di corpo che opera nella medicina moderna non c’è un rapporto di semplice esplicitazione, ma di articolazione creativa. Naturalmente, per questa posizione, resta che il significato distillato dai filosofi è presupposto da tutti questi sviluppi, per cui la sua critica filosofica può ancora essere la risposta decisiva nella misura in cui appunto colpisce il presupposto comune a tutti quegli sviluppi e articolazioni creative.
Esiste anche una terza posizione secondo cui il complesso delle forme in cui esiste il concetto di soggetto non dà il suo significato concreto, di cui resta da definire il rapporto con il significato astratto dato nei testi filosofici. Quel complesso di forme semplicemente dà il significato del concetto di soggetto,23 mentre nei testi filosofici si trova solo un’immagine di tale significato. Più esattamente, il significato di quel concetto (o di altri concetti incastonati nell’orizzonte ermeneutico) si articola tanto nei processi in cui vengono definendosi le forme delle pratiche e delle istituzioni, quanto nei processi in cui consiste la pratica filosofica, ma quest’ultima non gode a priori di alcun privilegio semantico: se si isolano i suoi prodotti, lungi dall’avere per le mani il nucleo che altrove è presupposto, ci si trova di fronte solo ad un’immagine del significato socialmente operativo e dunque realmente effettuale (wirklich) del concetto. Dal punto di vista di questa terza posizione, insomma, la pratica filosofica, che è veramente competente solo nel maneggiare enunciati di filosofi, non è sufficiente per esplicitare e formulare il significato di un concetto che opera dall’orizzonte ermeneutico.
Se è vero che il concetto moderno di soggetto, come d’altronde i concetti che ne hanno testimoniato ed espresso la crisi nel Novecento, non sono stati semplici pensate o «ghiribizzi individuali»,24 ma hanno o hanno avuto l’effettualità sociale che, prima, abbiamo definito in un’ottica materialistica e, poi, assegnato alle idee che dominano all’interno di un orizzonte ermeneutico, allora la ricostruzione dei loro significati non può essere compiuta dalla sola filosofia: non possiede gli strumenti, né il metodo adeguato per farlo, infatti, qui non si tratta di saper legger i testi dei filosofi, ma di saper “leggere” il “testo” che si produce nella semiosi pratica immanente alla vita sociale e istituzionale. Per la ricostruzione riflessiva di tali significati occorre una collaborazione tra la filosofia e le diverse scienze storico-sociali e dunque una trasformazione delle pretese che sono costitutive di un certo intendimento della filosofia.
Alla filosofia intesa come autonoma discussione razionale, comunque, non può essere assegnata come sua prerogativa neppure la messa in questione dei concetti socialmente effettuali e operativi, una volta esplicitati. Per chiarire questo punto, torniamo a quella che è forse la più nota frase marxiana, l’undicesima tesi su Feuerbach: «I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo».25 In questa formula è stata letta una contrapposizione tra l’atteggiamento contemplativo, realizzato e difeso dalla filosofia, e un atteggiamento trasformativo, che richiederebbe di lasciarsi la filosofia alle spalle. In realtà, Marx sa bene, e fin dalla Prefazione della coeva Ideologia tedesca lo esplicita, che Feuerbach e i giovani hegeliani di sinistra volevano trasformare il mondo, per cui il suo rilievo critico va inteso come una contrapposizione tra il sogno o l’illusione di una trasformazione del mondo ottenuta solo attraverso una sua reinterpretazione, cioè attraverso la produzione di enunciati che vorrebbero, grazie unicamente alle loro qualità epistemiche, scalzare il precedente orizzonte ermeneutico e dar vita a uno nuovo e dunque poi a nuove forme della coscienza e infine a una nuova forma di vita, e un progetto di trasformazione che non si fondi su un’immagine tanto ingenua delle condizioni grazie a cui una organizzazione della vita sociale si radica e stabilizza. Nella interpretazione storicamente più influente di questo progetto di trasformazione, il ruolo pratico delle idee è assegnato tutto o quasi al marxismo inteso come scienza della storia: al (sogno de) la trasformazione solo attraverso le idee è contrapposta una trasformazione in cui le uniche idee che contano sarebbero quelle articolate dalla scienza della storia. L’operazione di attraversamento del materialismo che ho schizzato poc’anzi, però, apre lo spazio anche ad un altro intendimento della trasformazione e dunque della messa in questione: non è una trasformazione fatta solo con le idee e le parole, non già perché tali parole debbano piuttosto essere il programma che una qualche forza sociale dovrà realizzare, bensì perché le idee e le parole che mobilita sono radicate in pratiche, confermate da forme dell’agire e nutrite da esperienze non estemporanee, ma a cui si è divenuti familiari all’interno di contesti relazionali che durano nel tempo.
Ora, la filosofia, nelle forme in cui è perlopiù praticata – sia quelle in cui la storia non è presa sul serio, sia quelle che la elaborano in termini di eventi filosofici – è capace di articolare pensieri ed enunciati che abbiano il radicamento appena evocato e che dunque possano effettivamente contrapporsi a quei concetti che, in quanto socialmente operativi, hanno saputo incontrare delle forze sociali (a cui hanno offerto mediazioni di vario genere, dalla razionalizzazione alla legittimazione, dall’espressione comprendente alla conoscenza)? Quando i filosofi non si limitano a rilevare delle inconsistenze formali nei concetti che dominano l’orizzonte ermeneutico, ma pretendono di far leva su esperienze che quei concetti rimuoverebbero o deformerebbero o comunque semplificherebbero, che tipo di familiarità e consuetudine hanno con queste esperienze? Una pratica teorica notoriamente viziata da una troppo ristretta dieta di esempi26 e da una tendenza a equiparare esperienze concrete e casi inventati,27 non può essere salvata da semplici riferimenti aneddotici alla propria vita (o alla rappresentazione della vita realizzata nelle serie televisive). Un’altra possibilità è che si trasformi e si alteri abbastanza da entrare in un rapporto di collaborazione serio ed efficace sia con altri saperi radicati in pratiche istituite (ad esempio la psicoanalisi, per una riflessione sul soggetto), sia con quei luoghi di articolazione dell’esperienza che non sono pratiche istituite, ma in cui è messa in movimento la realtà sociale (e che, per stare al nostro caso, fanno esistere soggettività in nuove forme).28
Questo testo è in corso di pubblicazione negli atti del 66º Convegno di Ricerca filosofica del Centro Studi Filosofici di Gallarate, «Ri-pensare la soggettività. Oltre la critica del soggetto», tenuto a Roma nei giorni 16-17-18 settembre 2021.
-
Cfr. ad esempio, R. Morani, Soggetto e modernità. Hegel, Nietzsche, Heidegger interpreti di Cartesio, Franco Angeli, Milano 2007 ↩︎
-
Ispirandosi a J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, tr. di E. Agazzi et al., Laterza, Roma-Bari 1997, L. Cortella ricostruisce l’intero percorso della filosofia del Novecento come un tentativo di lasciarsi alle spalle la filosofia del soggetto, nel suo: La filosofia contemporanea. Dal paradigma soggettivista a quello linguistico, Laterza, Roma-Bari 2020. ↩︎
-
Si potrebbe chiedere: questa “parte” del ripensamento del soggetto, che si sviluppa come discussione della forma di filosofia che deve in-formare tale ripensamento, da quale forma di filosofia è a sua volta in-formata? Risposta: da quella che difenderà! Cfr. infra nota 23. ↩︎
-
Cfr. G. Ligi, Antropologia dei disastri, Laterza, Roma-Bari 2009. ↩︎
-
Cfr. R. Wallace, Dead Epidemiologists: On the Origins of COVID-19, Monthly Review Press, New York 2020. ↩︎
-
Cfr. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Id., Sentieri interrotti, tr. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 71-190. ↩︎
-
Cfr. K. Marx - F. Engels, L’ideologia tedesca, tr. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 13. ↩︎
-
Cfr. ibidem. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Una bella analisi di come questa condizione è articolata da Husserl è offerta da A. Staiti, Husserl sui concetti specificamente normativi, in «Etica & Politica / Ethics & Politics» XXIII/2 (2021), pp. 369-386. ↩︎
-
F. Engels, Lettera a Joseph Bloch (21/9/1890), in K. Marx – F. Engels, Opere XLVIII, Lettere (Gennaio 1888 – dicembre 1890), Editori Riuniti, Roma 1983, p. 492. ↩︎
-
K. Marx - F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., p. 35. ↩︎
-
Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, 4 voll., Einaudi, Torino 1975, p. 869 (fa parte del vol. II). ↩︎
-
K. Marx - F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., p. 37. ↩︎
-
È da Althusser che riprendo questa distinzione: egli in effetti assegna al discorso ideologico la capacità di produrre un effetto di riconoscimento (ci si riconosce nel discorso ideologico, sembra evidente che le cose siano come sono lì rappresentate), mentre assegna al discorso scientifico la capacità di produrre un effetto di conoscenza; cfr. L. Althusser, Dal Capitale alla filosofia di Marx in Id. et al., Leggere il Capitale, tr. di M. Turchetto et al., Mimesis, Milano 2006, p. 61. ↩︎
-
Cfr. M. Heidegger, Nietzsche, tr. Di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, p. 573. ↩︎
-
F. Engels, op. cit., p. 494. ↩︎
-
Tra le innumerevoli formulazioni più o meno mascherate di questa posizione, spicca per chiarezza quella di G.V. Plechanov, La concezione materialistica della storia, tr. di M. de Stefanis et al., Feltrinelli, Milano 1972. ↩︎
-
Su questo punto mi permetto di rinviare al mio: Forme dell’agire. Ontologia sociale, conflitto e ideologia in un confronto con Louis Althusser, Orthotes, Napoli-Salerno 2012. ↩︎
-
La posizione di Althusser spinge verso questo passo estremo, come ho cercato di mostrare nel libro citato nella nota precedente, ma ritengo che egli non lo abbia veramente compiuto. ↩︎
-
K. Marx, Per la critica dell’economia politica, tr. di E. Cantimori Mezzemonti, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 5. ↩︎
-
E. Severino, Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, p. 433. ↩︎
-
Cfr. V. Descombes, La denrée mentale, Editions de Minuit, Paris 1995. Si noti che, mostrando come il concetto moderno di soggetto e qualunque altro concetto non siano meri stati mentali, ma vivano nello spazio delle pratiche sociali, Descombes sta introducendo una diversa concezione della mente e dunque del soggetto. Non è tuttavia una filosofia intesa e praticata come indipendente elaborazione di pensieri che, contraddicendosi performativamente, elabora la tesi secondo cui i pensieri sono innanzitutto articolati ed elaborati nello spazio delle pratiche sociali: si tratta piuttosto di una forma di filosofia come quella che evoco nella conclusione del testo, che lavora a ridosso e in collaborazione con le pratiche scientifiche (qui in particolare quelle delle scienze sociali). ↩︎
-
A. Gramsci, op. cit., p. 869. ↩︎
-
K. Marx, Tesi su Feuerbach, tr. di F. Codino, in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. V, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 5. ↩︎
-
Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1999, p. 204 (§ 593). ↩︎
-
Cfr. ibi, p. 299. ↩︎
-
Si pensi ad esempio al nuovo concetto di soggettività elaborato, riflessivamente ma per dar parola alla novità pratica, in seno al movimento delle donne; cfr. ad esempio, C. Lonzi, Sputiamo su Hegel. E altri scritti, Et al., Milano 2013; L. Cigarini, La politica del desiderio. E altri scritti, in uscita presso Orthotes, Napoli-Salerno. ↩︎