La vicenda di Bonconte da Montefeltro nella sua analogia con la vicenda di Camilla Battista da Varano: «per una lagrimetta»

1. Il canto V del Purgatorio

Il canto V del Purgatorio inizia con un episodio molto particolare, rappresentato dall’ammonizione di Virgilio a Dante, ammonizione concernente la fermezza e la coerenza nelle decisioni di un’esistenza intesa in modo etico. Il canto V si colloca all’interno della trattazione delle anime negligenti, convertite all’ultimo momento in seguito a morte violenta1 e segue immediatamente l’incontro tra Dante ed il suo amico Belacqua, il quale ci viene presentato in tutta la sua pigrizia ed abulia. Ben si capisce quindi, nel corso della Commedia, quanto sia significativa l’ammonizione virgiliana alla fermezza rivolta al sommo poeta allorché questi sembra fermare la sua ascesa verso la vetta della montagna, distratto dalla curiosità di alcune anime sbalordite dalla presenza di un corpo materiale e vivente nell’Antipurgatorio: «Vien dietro a me, e lascia dir le genti:/sta come torre ferma, che non crolla/già mai la cima per soffiar di venti;/ché sempre l’omo in cui pensier rampolla/sovra pensier, da sé dilunga il segno,/perché la foga l’un de l’altro insolla»2. Dante si compunge per l’ammonizione virgiliana, la quale riesce a penetrare così in profondità nell’animo umano e nei suoi conflitti, da far arrossire il poeta medesimo, aprendo, come il lampo che improvvisamente squarcia ed illumina i nembi, le intime profondità dell’animo umano in modo tale che, questi d’improvviso contempli in modo diretto e intuitivo ciò che dentro se stesso cova e confligge, spesso nell’intima e inconfessabile impulsività, in quell’ombra del nostro essere che imbarazza e affligge: «Che potea io ridir, se non “Io vegno”?/Dissilo, alquanto del color consperso/che fa l’uom di perdon talvolta degno»3. Ed ecco che al verso 21, Dante già ci indica una tematica fondamentale per tutta la cantica: il perdono della fragilità umana, fragilità di cui l’uomo prova vergogna e di fronte alla quale prova pena, per poi specificare, alcuni versi sotto: «Noi fummo tutti già per forza morti,/e peccatori infino a l’ultima ora;/quivi lume del ciel ne fece accorti, sì che, pentendo e perdonando, fora/di vita uscimmo a Dio pacificati,/che del disio di sé veder n’accora»4. Pentimento e perdono vengono accostati in virtù della grazia divina, di quel movimento di misericordia di Dio che illumina la nostra oscura vita di peccatori. Ma un aspetto, che è determinante per sondare la fonte della fragilità umana, è celato proprio dietro l’ammonimento virgiliano, il quale si articola in un accostamento di termini oppositori, tanto da sembrare un ossimoro, così come spesso un ossimoro sembra la vita stessa dell’uomo, dilaniata da opposte passioni e impulsi differenti. Virgilio si rivolge a Dante dicendogli: «Vien dietro a me», subito dopo gli consiglia di stare fermo come una torre al soffiar dei venti. E Dante, arrossendo, non si ferma ma segue e procede con Virgilio. La stabilità indicata da Virgilio è quindi una stabilità dinamica, che non si ferma nelle distrazioni o nei pensieri vani, bensì procede verso una meta ed un orizzonte. Il messaggio di Virgilio sembra profilarsi come un procedere dinamico, che pur mantiene un’interiore stabilità e fermezza, simile a quella della torre che resiste ai venti, di diversa e spesso opposta direzione: l’interiorizzazione dinamica della sicurezza offerta dalla figura di attaccamento è così in atto. Dalla torre possiamo guardare lontano, possiamo vedere minacce e rischi che si avvicinano, avendo maggiore possibilità e lucidità di previsione, e, soprattutto, possiamo vedere l’orizzonte, che è come se racchiudesse, in una prospettiva d’insieme che asseconda l’esigenza di chiarezza dello sguardo, l’intero nostro mondo, distinguendo e relazionando, ad un tempo, dimensione intramondana e senso della trascendenza.

Il primo personaggio che chiede a Dante di essere ricordato nella sua terra è Jacopo del Cassero. Jacopo, originario di Fano, nella Marca di Ancona, fu podestà di Bologna e poi fu chiamato come podestà di Milano, sul finire del Duecento, ma, mentre si recava nella città lombarda trovò una tremenda e violenta morte. E’ possibile che Dante abbia conosciuto Jacopo del Cassero, giacché questi fu messo a capo delle truppe fanesi intervenute, in occasione della battaglia di Campaldino, a sostegno di Firenze. Il canto V ruota tutto attorno alla battaglia di Campaldino e ai personaggi di Jacopo e Bonconte, i quali presero parte attivamente alla battaglia, e Bonconte vi trovò la morte. La battaglia di Campaldino avvenuta nel giugno del 1289 fu combattuta tra Arezzo e Firenze; la vittoria fiorentina sancì la supremazia della città su tutta la Toscana e fu durissima per Arezzo, che ebbe in quella battaglia 1700 morti. Jacopo prega Dante di essere ricordato nella sua Fano, affinché le preghiere dei concittadini lo aiutino a lavarsi dalle proprie negligenze. In seguito Jacopo racconta la propria struggente fine, la morte violenta che, però, lo portò alla salvezza, morte che cela la crudeltà umana, la perfidia che domina l’astio politico, allorché al bene l’essere umano predilige la misera particolarità della propria contingenza, allorché alla bellezza del bene, nell’armonia dei moti celesti, antepone «l’aiuola che ci fa tanto feroci»5. Jacopo, fu ucciso nel tentativo di raggiungere Milano dai sicari di Azzo VIII d’Este, suo acerrimo nemico, che lo aveva in odio non senza motivo. Jacopo evitò di attraversare i minacciosi territori estensi, dirigendosi per Milano attraverso la costa veneta ed il territorio padovano, ma a Mira, nei pressi di Oriago, i sicari di Azzo gli tesero un agguato, Jacopo nella concitazione della fuga si diresse verso il Brenta e le sue vesti si impigliarono in alcune canne sulla riva, lo fecero cadere e i sicari, così, lo fecero a pezzi. Vicino al fiume apparve così un lago, quello del sangue delle sue vene. «Corsi al palude, e le cannucce e ’l braco/m’impigliar sì, ch’i’ caddi; e lì vid’io/de le mie vene farsi in terra laco»6. In questo racconto compare tutta la miseria della nostra esistenza, in balia del caso ed della ventura; ma la grazia, che procede dalla superna gloria, non vanifica la dignità umana nei casi del cieco fato, e la provvidenza amorevole di Dio accoglie l’uomo nella sua luce perenne. Dopo Jacopo, subito si presenta a Dante Bonconte da Montefeltro, confessando immediatamente la condizione di solitudine e di oblio in cui la sua persona era caduta, dimenticato dai cari nelle preghiere: «Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;/Giovanna o altri non ha di me cura;/per ch’io vo tra costor con bassa fronte»7. Dante conosce il personaggio di Bonconte e chiede quale fu il destino del suo corpo, giacché la sorte di Bonconte, che morì nella battaglia di Campaldino, era ignota, e Dante desidera rinnovarne la memoria sottolineando l’azione salvifica e redimente della grazia di Dio, che sa accogliere anche le esistenze più travagliate. Bonconte, così come Jacopo del Cassero, racconta la propria fine struggente, in una modalità che si rivela parallela e speculare a quella di suo padre Guido da Montefeltro, opposta solamente nell’esito.8 Bonconte, ferito alla gola gravemente nella battaglia e grondando sangue, a piedi raggiunse le rive dell’Archiano, un affluente dell’Arno, proprio nel luogo in cui questo torrente si immette poi nel fiume che bagna Firenze. In tal punto, Bonconte perse coscienza e con essa la vita; ma in tale istante, quasi come un punto conficcato e immutabile in contesto di estrema fluidità, in cui l’atmosfera è caratterizzata dal fluire dei fiumi e dallo sciogliersi l’uno nell’altro tra vapori pregni di lacustri olezzi, Bonconte ha il cuore compunto ed effonde sulle sue labbra il nome misericordioso di Maria, e, appena pronunciatolo, sui suoi occhi compare un pianto, mentre le sue braccia si raccolgono nel petto quasi come se stringessero una croce. Quest’istantaneo pentimento, mentre la vita fluisce e si dissolve nella morte, proprio come lo sciogliersi delle acque dell’Archiano in quelle dell’Arno, si rivela decisivo, giacché la sua anima fu accolta dall’Angelo di Dio e volò con esso verso la salvezza, mentre al demonio, che voleva prendersela come quella di suo padre Guido, rimase solo il cadavere. Di questo però quel diavolo fece scempio, governando a proprio piacimento i fenomeni atmosferici e, scatenando un uragano nella foce dell’Archiano, tanto che i fossi non trattennero le acque ed esondarono, fece sì che il fiume si ingrossasse impetuoso e riversasse il corpo del povero Bonconte nell’Arno, facendolo inghiottire e travolgere dalle acque, di modo che le sue braccia esangui, strette al petto in forma di croce, si sciogliessero nel fondo del fiume. L’ira del diavolo si accanisce sul cadavere e si sfoga contro l’angelo e la sua misericordiosa grazia:«L’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno/gridava: O tu del ciel, perché mi privi?/Tu te ne porti di costui l’etterno/per una lagrimetta che ’l mi toglie;/ma io farò de l’altro altro governo»9.

Cosa è per la logica infernale una lagrimetta? Nulla. La logica infernale usa il freddo sillogismo di una ragione parziale volta solo al male e a fredde finalità di calcolo; la logica di Dio, invece, la quale è salvifica e mira alla totalità della persona, sa accogliere anche l’errore, il pentimento ed il pianto. Il lagrimare emotivo, frutto della debolezza e del peccato, simbolo di fragilità viene compreso da Dio, che legge nel nostro cuore, abitando il nostro intimo con quell’amore insondabile, che riesce ad interpellarci pur nelle nostre debolezze, voluttà ed infantili isterie. E il pianto, in cui traluce limpido il pentimento come tergendosi dalla fuliggine del peccato, scioglie il nostro rigido egoismo nell’autentico sentore di se stessi, che sa confessarsi allo sguardo amorevole di Dio. È l’interezza della persona ad aprirsi a Dio, secondo molteplici livelli e dimensioni, un’interezza spirituale, razionale ed emotiva, a quel Dio che è nuovo orizzonte in cui vivere una nuova esperienza di senso. La logica del diavolo ci viene espressa specularmente proprio nell’episodio che riguarda Guido da Montefeltro, padre di Bonconte, il quale fu, in punto di morte, strappato dalle braccia amorevoli di san Francesco, venuto a prendere l’anima di Guido, dalle grinfie del demonio, che, invece, utilizza beffardamente il sillogismo razionale per annientare l’uomo, invece che per salvarlo. Guido a differenza di Bonconte, non si pentì in punto di morte, per le astuzie e i misfatti tenuti in vita, bensì in età avanzata, meditando il proprio pentimento e convertendo il proprio operare e la propria esistenza verso la virtù e la compunzione. Guido decise di prendere i voti, entrando nell’Ordine minoritico, ma l’infido e infingardo piano di papa Bonifacio VIII contro i Colonna, ne vanificò gli esiti in un modo pietoso e struggente. I destini di padre e figlio, mai come in questo caso, nella Divina Commedia appaiono così intrecciati eppure così opposti negli esiti: è il destino di una stessa progenie che ritorna, quasi ripetendosi, ma testimoniando come l’amore e la misericordia di Dio siano superiori alla nostra stessa volontà, alle nostre forze ma anche alle nostre paure e fragilità. L’accostamento con l’episodio del padre di Inferno XXVII è sorprendente, opposta negli esiti e diversissima nelle dinamiche: il figlio si salvò per una lagrimetta ed un pentimento mentre il corpo esalava gli ultimi respiri; il padre, invece, viene rapito per opera del diavolo, dalle mani di san Francesco, e risucchiato all’Inferno per un astuto sillogismo del demonio. Accostando il padre e il figlio si ha la palese rappresentazione di una contrapposizione tra la fredda logica argomentativa del sillogismo e la logica dell’amore, che in se medesima contempla l’insondabile misericordia di Dio, l’inestimabile potenza del perdono divino, che legge nel cuore il pentimento, misto al timore e alla disperazione, e lo porta in cielo. L’incontro tra Dante e Guido da Montefeltro avviene immediatamente dopo il celebre episodio di Ulisse e Diomede, nell’ottavo cerchio tra i consiglieri fraudolenti. I due mitici personaggi sono avvolti dal fuoco, in una medesima fiammata che si protende in due lingue, una per dannato. Le lingue di fuoco emettono un suono comprensibile anche se confuso, simile al muggito di un bue, che Dante esprime rifacendosi allo struggente racconto del tiranno Falaride che fece creare un bue di bronzo dal grande artista Perillo. E in tal guisa, Guido racconta la sua raccapricciante vicenda, che molto ci insegna sulla terribile situazione politica e sociale dell’Italia al tempo di Dante, situazione illuminante anche per ciò che concerne la successiva vicenda biografica di Camilla Battista da Varano, come tra breve vedremo: «quand’un’altra che dietro a lei venia/ne fece volger li occhi a la sua cima/per un confuso suon che fuor n’uscia./Come ’l bue cicilian che mugghiò prima/col pianto di colui, e ciò fu dritto,/che l’avea temperato con sua lima,/mugghiava con la voce de l’afflitto,/sì che, con tutto che fosse di rame,/pur el pareva dal dolor trafitto,/così, per non aver via né forame/dal principio nel foco, in suo linguaggio/si convertian le parole grame»10. Qui Dante attraverso l’accostamento con una vicenda del passato ci offre una sottile indicazione, molto interessante circa l’uso dell’intelligenza umana. Dante ci dice, che a seguito di un’operazione che implica un’abilità tecnica ed un sapere, ciò che contraddistingue l’essere umano ossia il linguaggio, a motivo di fini perversi e malevoli, si converte nel muggito di una bestia. Il modo in cui Dante ci esprime questa dinamica, che poi si rivelerà fondamentale per il prosieguo di tutto il canto – e forse di tutta la cantica –, è un sottile gioco simbolico di immagini. Un tiranno, tramite un inganno, si avvale dell’abile e sottile arte di un artista per creare un’opera che si rivelerà tutt’altro che fonte di onore per l’artefice, bensì fonte di disgrazia. L’agire umano, quindi, seppur abilissimo e raffinato, se non indirizzato al bene e se non guidato dall’interiore onestà, risulta fonte di sventura, quasi a convertire l’uomo al rango inferiore di bestia, in quanto il linguaggio dell’uomo si riduce al muggito di dolore di un bue. Se non diretta al bene, dunque, l’intelligenza, per quanto coltivata, procura danni e sventure e invece di innalzare l’uomo lo degrada, apportando la degenerazione della sua opera e la dannazione della sua anima. La vicenda di Guido da Montefeltro ne è espressione, così come quella di Ulisse e la singolare vicenda di salvezza e conversione di Bonconte ne rappresentano il capovolgimento nella logica stessa. La fiamma che avvolge Guido si dirige verso i due poeti chiedendo la condizione della Romagna, ossia se questa terra sia in pace o in guerra. Dante risponde che ufficialmente in Romagna non vi sono guerre palesi e manifeste, ma nel cuore dei suoi tiranni arde sempre il fuoco bellicoso e guerrafondaio, quello che porta l’uomo alla distruzione ed alla propria dannazione. In seguito a questa introduzione sulla Romagna, abbiamo il palesamento dell’identità di Guido da Montefeltro. Quest’identità si snoda in una vicenda umana di conversione al francescanesimo e ad una vita di penitenza e di santità, conversione resa però vana dalla diabolica astuzia di Bonifacio VIII, che portò Guido, con l’inganno, alla dannazione. «Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,/credendomi, sì cinto, fare ammenda;/e certo il creder mio venìa intero,/se non fosse il gran prete, a cui mal prenda»11. La sua opera di condottiero fu assai celebre in terra, ma se, da una parte, fu opera assai acuta piena di accorgimenti, sottigliezze ed astuzie, dall’altro fu un’opera ingannatrice e maliziosa, che non mirava al bene, bensì alla frode. La similitudine che Dante usa è, come spesso avviene nella Divina Commedia, ripresa dal mondo animale, dai bestiari medievali, che associavano le varie fiere alle caratteristiche umane: l’attività di condottiero di Guido fu simile all’agire della volpe, la quale con la sua astuzia, divincolandosi in vario modo, specie nell’oscurità, inganna e compie ruberie e razzie di ogni bene. A questa infame opera, Dante contrappone il leone, il quale è simbolo della forza, sella sicurezza di sé e del coraggio, e, a volte, nel mondo medievale, associata alla figura dell’evangelista Marco, alla stessa Resurrezione di Cristo. La volpe torna nella Divina Commedia, nel Purgatorio, proprio nei canti relativi al Paradiso terrestre, quale simbolo sinistro di sventura, nella forma dell’eresia che divide e dilania la chiesa di Cristo. In quei frangenti è possibile rinvenire un’allusione sottile a Bonifacio VIII ed alla sua chiesa, che era soggiogata dal re di Francia, in un modo che sembra, se consideriamo gli eventi di poco successivi alla vita di Dante, veramente profetico.

Guido, tuttavia, con l’avanzare dell’età e l’appropinquarsi della morte, attraverso un atto di maturità confessa di essersi pentito ed aver deciso di abbandonare la precedente vita, vista ormai come incresciosa, per entrare in convento, votandosi ad una vita di preghiera e compunzione. L’opposizione tra la vita precedente e quella successiva al pentimento ricorda sorprendentemente il Testamento di Francesco d’Assisi. Dice infatti dice: «ciò che pria mi piacea, allor m’increbbe,/e pentuto e confesso mi rendei;/ahi miser lasso! e giovato sarebbe»12. E Francesco nel suo Testamento così si esprime: «Il signore diede ma me, fratello Francesco, la grazia di cominciare a fare penitenza così: quando vivevo nei peccati, mi riusciva insopportabilmente increscioso vedere i lebbrosi. Ma il Signore stesso mi condusse tra loro, e io li trattai con generosità e tenerezza. Al momento del commiato, ciò che prima mi pareva increscioso, mi si cambiò in dolcezza per l’anima e per il corpo. In seguito a questa esperienza passò poco tempo e lasciai per sempre il mondo»13. Ecco che sia in Guido che in Francesco assistiamo a questa vera e propria conversione,periagoghè, in virtù della quale si volgono le spalle a tutti i valori, le abitudini, le certezze, le voluttà e le ansie della precedente forma di vita. Ma la conversione di Guido, che all’orizzonte aveva l’esempio di vita di san Francesco, fu distolta da questo meraviglioso fine per essere, nell’opera più che nell’intenzione, vanificata dalla perversa figura del gran prete, del principe di novi Farisei, cioè di Bonifacio VIII. Quello che di questa figura, già evocata nell’Inferno, Dante pone immediatamente in evidenza è la guerra intestina, condotta all’interno della Chiesa medesima, una guerra guidata da una superba febbre, che non tiene alcun conto né della sacralità del ruolo del Pontefice, né del suo ufficio. Bonifacio VIII voleva, nella sua guerra contro i Colonna espugnare Palestrina, per raggiungere questo obbiettivo pregò l’ormai cordigliero francescano di consigliarlo sulla migliore strategia per espugnare la città. Contro le ragionevoli e sante resistenze di Guido, il papa porge tutta la sua autorità pietrina, assolvendo il complice peccatore già prima di compiere il peccato di frode: «lo ciel poss’io serrare e disserrare,/come tu sai; però son due le chiavi/che ‘l mio antecessor non ebbe care»14. Così per l’astuzia di Bonifacio, astuzia che apportò al pontefice il trionfo terreno, il cordigliero andò all’Inferno, malgrado il pentimento, il proposito di vita evangelica, la penitenza e i cinti più macri. Come morì, Francesco andò a accoglierlo, ma il diavolo, un cherubino nero, lo prese con sé adducendo una motivazione perfetta sul piano logico, ma dimentica della complessità spesso ambivalente della psiche umana, nel suo rapportarsi con le circostanze: «Venir se ne dee giù tra’ miei meschini/perché diede ‘l consiglio frodo lente/dal quale in qua stato li sono a’ crini;/ch’assolver non si può chi non si pente,/né pentere e volere insieme puossi/per la contraddizion che nol consente»15. Apparentemente la logica di Bonifacio può sembrare antitetica a quella del diavolo, giacché il pontefice si mostra indulgente verso il peccatore, perdonandolo per il peccato da compiere in anticipo, mentre il diavolo utilizza il principio di non contraddizione per condannare il peccatore. Tuttavia la logica è la medesima, in quanto rivolta al male e non curante del bene spirituale e morale della persona. Sia Bonifacio che il diavolo utilizzano il ragionamento con l’astuzia, e sembrano confliggere idealmente sullo stesso piano logico della sopraffazione altrui: Bonifacio argomenta ponendo come base la propria autorità petrina, mentre il demonio oppone a tale argomento il principio di non contraddizione. Tuttavia il piano ideale delle due logiche dimentica il bene della persona e si mostra ignaro di quel vero perdonare che si fonda sulla misericordia. Un’altra questione che ci interessa suggerire in modo aperitivo concerne l’immagine della volpe. Guido ci dice che le sue opere furono di un’astuzia simile a quella della volpe, opere basate sul sotterfugio e sull’inganno. Ora la volpe viene richiamata esplicitamente nella complessa simbologia relativa ai canti del Paradiso terrestre ed allude all’eresia che rovina la chiesa. L’eresia, già nella sua etimologia greca, diaireo, indica lacerazione e divisione di ciò che è unitario. L’eresia è ciò che, invece di corroborare l’unità della Chiesa di Cristo, provoca ferite e fratture, dissidi e conflitti interni, che ledono ciò che originariamente deve mantenersi unito ed armonioso: «Poscia vidi avventarsi ne la cuna/del triunfal veiculo una volpe/che d’ogne pasto buon parea digiuna;/ma, riprendendo lei di laide colpe,/la donna mia la volse in tanta futa/quanto sofferser l’ossa sanza polpe»16. Non a caso, l’opera di papa Bonifacio VIII, che si avvale del contributo di una «vecchia volpe», seppur pentita, come Guido da Montefeltro, provoca lacerazioni interne alla chiesa e di queste si alimenta e si serve per accrescere un potere nefasto, che allontana gli uomini sia da Dio, che dalla felicità terrena.

2. L’itinerario spirituale di Camilla Battista da Varano in Dio: dal Palazzo al Monastero

Una vocazione, osserva Carlo Serri, non si comprende in riferimento a ciò che si lascia, bensì in relazione a quello che si cerca. Bisogna capire come in concreto, nel singolo caso esaminato, si snodi quella sete di Assoluto, quell’anelito ad un superiore pienezza, quella ricerca dell’amore di Dio, in riferimento al quale una persona abbandoni la propria situazione precedente per sposarne una nuova. Il nucleo di questa scelta radicale, nucleo che spiega le varie rinunce e l’abbandono di precedenti abitudini di una vita anche agiata, è una nuova e più profonda positività, innervata nell’amore sponsale di Cristo. Quest’amore sponsale è la radice della scelta della nobile fanciulla Camilla da Varano, figlia di Cesare da Varano, Signore potentissimo di Camerino che educò Camilla alla sfarzosa vita di corte, al latino, alla letteratura, all’equitazione, alla danza, in un ambiente tutt’altro che austero, ma sontuoso e lussuoso. Questa nobile fanciulla decise di abbandonare quell’ambiente così ricco e prestigioso, come se fosse una gabbia dorata che imprigiona, ed involarsi libera, quale un airone che plana sulle acque di un lago, verso il suo sposo Cristo. Questo volo di libertà verso Dio, presenta alcune tappe assai significative, che assumono senso unitario se concepite non solo a livello del mero impegno personale, un impegno costituito dall’austerità e dalla penitenza, bensì a livello della relazione con Dio, relazione che sempre di più assume il carattere di un vero e proprio rapporto sponsale con Cristo. L’imitazione dell’esemplarità di Cristo si converte così in relazione di sponsalità con il Redentore, che ci ha amato pur nella sofferenza ed attraverso questa. Il cammino di Camilla partì da una situazione apparentemente «favolosa» diremo noi oggi: un palazzo sontuoso, in cui la nobile fanciulla, figlia amatissima del Signore di Camerino, vestiva abiti sfarzosi, cantava, ballava, studiava il latino e la musica, si dilettava cavalcando e, adornata in modo elegantissimo, passeggiava graziosa per le strade della città, da tutti osservata con curiosità, ammirazione, e forse invidia, come si osserverebbe la migliore gioventù proveniente dalle più facoltose e potenti famiglie nobili di un luogo. In questo contesto, opulento ed appariscente, nella vita di questa fanciulla, irruppe lo Spirito Santo, la chiamata di Dio, che con grande fantasia sa attirare verso di lui le strade e le esistenze più disparate: la provvidenza di Dio, senza che l’uomo se ne accorge, chiama a sé l’esistenza umana. L’evento che cambiò originariamente la vita di Camilla, all’interno però di un percorso esistenziale lungo, intriso di ripensamenti, conflitti, lacerazioni, ondeggiamenti, fu una predica del frate Domenico da Leonessa, tenuta proprio a Camerino il Venerdì Santo del 1466:

Nella fine della vostra santa predica feste una cordiale esortazione al popolo, per indurre le anime al pianto e memoria della passione di Cristo, pregando ognuno che almanco il venerdì si ricordasse di questa passione, e buttare una lacrimuccia sola sola, per memoria di quella: affermando con molta efficacia, che molto più sarìa accetta a Dio e all’anima più utile quella lacrima sola, che quanti altri beni si potessero fare, né operare.17

Le Parole del frate si impressero nel cuore e nella memoria di quella bambinetta così saldamente che mai vennero dimenticate, influenzando l’intera sua vita, così come il granello di senape del Vangelo, che, piccolo piccolo, si sviluppa sino a diventare un’ombrosa e rigogliosa pianta. Così fu per la fede di Camilla, una voce dentro l’anima, che progressivamente cresce e si fa sentire, dissipando tutte le false illusioni della società del suo tempo … quella voce era la voce di Dio, che tramite quell’umile frate, aveva raggiunto con un invisibile tocco il cuore della piccola Camilla: «Sicché essendo fatta un poco più grandetta, ricordandomi di questa santa parola, feci voto a Dio ogni venerdì voler buttare almanco una lacrima per amore della passione di Cristo: e di qui seguitata tutta la mia vita spirituale, come di sotto ordinatamente intenderete»18. A nostro avviso, un passaggio fondamentale, nell’intensa e complessa esperienza di Camilla, è quello che intercorre tra la lettura del libretto devozionale, scandito in quindici parti, ognuna aperta dalla preghiera dell’Ave Maria, e la meditazione ispirata da Dio della Passione di Cristo. Questo passaggio appare fondamentale, in quanto rappresenta la metabasis tra la scrittura ed il pensiero. Per questo passaggio ci sembrano fondamentali due contributi: quello di Platone nel Fedro e quello di Viktor Frankl sull’inconscio spirituale. Entrambi i contributi sono importanti in quanto si rivelano delle utili chiave di lettura per comprendere, fin quanto si può, la straordinaria esperienza di Camilla. Scrive infatti la Santa:

«Onde io perseverando in questo voto, con molta fatica, come ho detto, per più tempi, piacque a Dio mi venisse alle mani una meditazione della passione in quindici parti distinta. Pareva fosse fatta per qualche persona che non sapesse pensare. E come aveva detto uno dei quindici articoli della passione in quindici parti distinta. Pareva fosse fatta per qualche persona che non sapesse pensare. E come aveva detto uno dei quindici articoli della passione, assegnava si dicesse un’Ave Maria…»19.

E progressivamente, via via che seguì, nell’orazione, i passi di questo libro, successe quanto lei stessa afferma: «Tanta e tale impressione pigliai per questo continuare di leggere la passione, che io non la volli più leggere, ma pensarla: e non solo il venerdì, ma ogni dì voleva per buono spazio pensare non secondo quella meditazione scritta, ma secondo Dio si degnava ispirarmi»20. Platone nel Fedro tratta dell’oralità e della scrittura: secondo il filosofo greco la scrittura non è fonte del sapere, ma solo un aiuto per richiamare alla memoria i contenuti del sapere. Il sapere e la scienza si impiantano e crescono solamente nell’anima e nel pensiero, la scrittura, invece, accresce il sapere né lo produce, bensì si rivela solo un mero strumento per richiamare alla memoria quelle cose che già si conoscono. Di qui la differenza ontologica tra il livello temporale dello scritto e il livello spirituale dell’oralità, che discorsivamente può inserire i migliori semi della scienza nel pensiero, affinché crescano e diano buoni frutti. Lo scritto serve soltanto a richiamare alla memoria ciò che il pensiero, dalle ampie ali divine, già possiede e progressivamente esplicita e coscientizza; rispetto alla scienza dell’anima, la scrittura si rivela una sorta di giardino di Adone, ossia un artefatto di fattura e qualità inferiore rispetto al vasto orizzonte del pensiero.21 In tal modo, il dinamismo verso la contemplazione e conoscenza della verità non si enuclea nella scrittura, bensì nel vivo del pensiero medesimo, il quale, attraverso lo strumento della scrittura, richiama alla memoria ciò che già conosce ed esercita così la scienza, che gli deriva dalla dimensione più fluida e adeguata dell’oralità. In tal modo, la dimensione adeguata al sapere e all’itinerario che ci porta alla contemplazione della verità concerne l’oralità dialettica, discorsività dinamica che articola il pensiero e lo sviluppa progressivamente nella ricerca dei fondamenti del reale. La scrittura è statica e inerte, l’oralità dialettica, più congenere al pensiero è viva e dinamica e si apre alle realtà superne che il pensiero contempla come ritornando alla propria origine. Ecco così che l’itinerario di Camilla, conosce la medesima dinamica nell’articolazione tra uno scritto, che aiuta una ricerca in modo iniziale e introduttivo, e l’atto spontaneo e fluido del pensiero, che instaura un vero e proprio dialogo con Dio, simile a quell’autentica oralità dialettica, che caratterizzava la dialogica platonica.22 La chiave ermeneutica frankliana, concerne la teoria dell’inconscio spirituale del filosofo-psichiatra viennese Viktor Frankl, una delle più feconde e interessanti acquisizioni della psicologia contemporanea, che rivoluziona la visione freudiana dell’inconscio. Frankl, muovendosi in un territorio teoretico posto a confine tra psicologia e filosofia, opera una generale distinzione tra la concezione dell’uomo come «essere spinto» da impulsi difficilmente controllabili e la concezione dell’uomo come «essere responsabile» cioè essere spirituale che si decide.

Essendo una componente fondamentale dell’essere umano, quale essere spirituale, l’inconscio non può essere ridotto a mero magma di pulsioni, bensì deve possedere anche un carattere spirituale in quanto umano. Sulla base di questa spiritualità è possibile una nuova interpretazione dell’inconscio, dal quale proviene gran parte della vita spirituale umana e nel quale si cela la stessa apertura a Dio. La acquisizione frankliana, così, si mostra, da un lato, ben ancorata alla nostra tradizione filosofica occidentale, giacché su essa si radica, dall’altro, presenta dei caratteri rivoluzionari in quanto amplia decisamente la visione freudiana dell’inconscio, che appare riduttiva per quanto perspicacissima ed epocale. Nell’ambito dell’inconscio, oltre all’Es impulsivo, esiste anche una spiritualità inconscia, a partire dalla quale avvengono le grandi decisioni esistenziali, personali ed autentiche.23 La relazione con Dio e con la trascendenza è sempre presente nell’uomo, anche se spesso latente: dietro l’io immanente, dunque, c’è il Tu trascendente nell’inconscio spirituale. Oltre alla fede conscia c’è nell’uomo un’inconscia fede, nel senso che Dio è sempre inteso in noi in modo inconscio in ordine ad una relazione intenzionale seppur non conscia. Frankl ammonisce dal rischio di una divinizzazione dell’inconscio o di una riduzione di Dio a mera realtà dell’inconscio umano: l’inconscio spirituale e trascendente, infatti, esprime una nostra relazione intenzionale con Dio, relazione che non riduce affatto Dio a noi, ma coglie la nostra relazione con lui. Relazionare Dio ed inconscio, in tal modo, non è ridurre Dio all’uomo, ma approfondire le modalità umane di relazione con Dio, modalità che non possono essere solo consce.24 In questa poliedricità dell’essere dell’uomo si articola la realizzazione di quel rapporto intenzionale con la trascendenza che vive e sperimenta la relazione con il Tu divino sulla base di una sempre presente apertura a questo Tu già a livello inconscio. La relazione, così, si mantiene tra due realtà: quella di Dio trascendente e quella dell’uomo aperto alla trascendenza, come esprimono gli stessi Salmi della Bibbia. Scrive Camilla nella sua Vita spirituale: «L’anima mia era dove la tenevano quelli due angeli, i quali non si partivano mai da lei, ed io non mi ricordo che per prima avessi avuto desiderio mai di star continuo ai piedi di Cristo»25. E poco sotto: «Questo non era molto mio usato viaggio; ma lasciai andare la mente dove Dio la tirava. E cominciai a pensare cose infime e basse; ma subito per indicibil modo fui tirata alle cose alte, divine e sublimi; ed entrai in un mare tanto alto e profondo, che più di due volte avrei voluto tornare indietro, se avessi potuto»26. Camilla, pertanto, riesce ad esplicitare progressivamente una vocazione personale che diviene consapevole della propria origine e dipendenza dalla grazia di Dio. Questa grazia, che nella relazione inconscia è in forma di potenza attiva, si sviluppa in una realtà, sempre più consapevole nella coscienza, nella forma del senso di una dipendenza dalla infinita misericordia di Dio, misericordia rispetto alla quale la autoconoscenza dei propri limiti si percepisce come indegna. Ma l’autoconoscenza è la più alta forma di conoscenza, la quale, alla conoscenza del proprio limite, associa la coscienza della misericordia, oltre che dell’esistenza e della realtà, della nostra origine divina e trascendente, cioè Dio. L’uomo, pertanto, ben conscio riflessivamente della propria vita e della propria esperienza diacronica, tocca il proprio limite nell’apertura e nell’abbandono alla misericordia di Dio, una misericordia che ci crea ed origina, che è presente in noi, anche se non ne siamo consapevoli, e che si annuncia alla coscienza come amore e dono di sé, un dono così grande e straordinario, per il quale si desidera anche soffrire, partecipando così alla Passione del Cristo Salvatore. La struggente esperienza di Camilla, così intensa e travagliata, con punte di estasi contemplativa, esplica nella decisione dell’abbandono del mondo cortigiano e ipocrita, vero inferno dell’uomo e sede del demonio, una decisione del senso della propria esistenza che nella relazione con Dio diviene sponsalità e partecipazione, attraverso il male patire, alla sofferenza di Cristo sulla croce. Questa decisione, covata nell’inconscio, si estrinseca sempre più consapevole attraverso gli atti di una vita che è responsabilità e non solo godimento: nel dolore di Camilla di fronte alla Passione del Signore, infatti, risiede la cifra di un amore autentico in cui, Camilla decide il senso della propria esistenza, pur nella sofferenza e nel dolore, che a volte ricade nello sconforto. In questo amore relazionale, che cosciente libera ataviche energie inconsce, si esplicita una potenzialità mai sopita, a cui l’uomo arriva attraverso l’esperienza dinamica sempre più consapevole che coinvolge l’intera sua esistenza e l’intera sua personalità. Troviamo nel cammino spirituale di Camilla, la concretizzazione di quell’esperienza spirituale nella forma di un’adesione entusiastica alla sequela di Cristo che è consapevolezza del proprio limite e della propria miseria, all’interno di una relazione salvifica, nella quale Colui che salva muore e soffre. Il Salvatore così si presenta non solo come luce e gloria, bensì anche come colui che si china a soffrire e a patire, assumendo sulla sua propria croce tutti i mali e i limiti della nostra struggente umanità di peccatori. Le possenti spalle di Cristo accetteranno la nostra miseria, quella miseria che ci sconvolge e imbarazza, ma che nulla può di fronte alla misericordia di un amore che non distoglie il suo volto da noi:

«Allora risolvetti tutto il tempo della mia orazione nella meditazione della Passione di Cristo, e non volea più altro meditare, né pensare: e tutto lo sforzo della mente mia misi per entrar nel mare amarissimo delle pene mentali del cor di Gesù, e in quel luogo annegarmi se potea. Or non è meraviglia se mi vien voglia di entrare dentro al tuo cuore, o buon Gesù, perché in esso per il tempo passato mi avevi mostrato essere scritto il nome mio a lettere d’oro»27.

3. La Misericordia di Dio che asciuga il pianto dell’uomo

Le vicende di Bonconte e di Camilla Battista da Varano appaiono singolarmente accomunabili dalla immagine della “lagrimetta”. Per una lagrimetta la misericordia di Dio salvò Bonconte mentre il suo corpo si scioglieva nelle acque dell’Archiano, fluendo verso l’Arno; una lagrimetta versata il venerdì, in memoria della Passione, inaugurò il cammino di conversione di Camilla verso Dio. Dietro la lagrimetta, che fluisce spontanea dal cuore, si cela l’immenso mare dell’anima che per essa si esprime; questo mare insondabile compare alla riflessione, allorché l’uomo entra in contatto con Dio e si pente delle sue colpe, assaporando la commovente vastità della misericordia di Dio. L’uomo, così, sperimenta un sentimento di dolore per il suo peccato, misto alla commozione intensa, di una gioiosa dolcezza, di fronte alla misericordia di Dio. L’amore di Dio, in tal modo, rivivifica l’arida anima dell’uomo aprendola all’insondabile luce di un Bene, di cui l’uomo era dimentico, assorto nei suoi pensieri, nelle sue preoccupazioni e nelle sue ossessioni di una limitante piccolezza. Il dolore, che l’uomo prova nei confronti dei suoi peccati, è espressione del rammarico di fronte alla bellezza di ciò che ignorava, ma di cui sperimenta ora la dolcezza. L’uomo si pente dei suoi peccati, ma altresì del suo peccare, ossia della logica e della forma di vita che era alla base del precedente agire. Queste crollano dietro il vacillare dei falsi idoli, emblema di un essere che non più gli appartiene, essere dal quale il penitente si libera. L’anima si libra di fronte ad una nuova totalità di senso, che inaugura nuovi orizzonti e relativizza ciò che in precedenza appariva assoluto.

Il pianto liberatorio di fronte al proprio peccato fa sperimentare all’uomo la grazia di Dio, che, superiore a qualsiasi piano o calcolo umano, si riversa amorevole sui peccatori per perdonarli e destarli ad una vita nuova, in cui cambia il senso fondamentale e la motivazione dell’agire. Non sono più i vecchi valori a schiavizzare l’uomo in una vita falsamente libera, ma si sperimenta dentro l’anima la presenza di Dio che abita in noi e, nella persona dello Spirito Santo, accende il fuoco dell’amore. Ciò che prima preoccupava e dominava l’esistenza umana appare un inerte sepolcro scoperchiato dal quale l’uomo risorto in Dio si è liberato, nascendo a vita nuova, quasi come se le lacrime del pentimento e della compunzione possano rappresentare l’acqua di un nuovo battesimo, il battesimo della vita che arde nell’amore di Dio attraverso l’azione dello Spirito Santo. E così le acque dell’Archiano sciacquano e dissolvono la vecchia vita mortale di Bonconte e ne rinnovano il senso nella prospettiva della salvezza, così come si rinnova la vita di Camilla nel pianto di fronte alla sofferenza del Cristo Salvatore: l’acqua dissolve i vecchi valori mentre il fuoco dello Spirito Santo illumina il nuovo orizzonte di senso. In questo cambiamento di senso si sperimenta la dipendenza da Dio, un Dio amorevole che in Cristo ha assunto la condizione di massima umiliazione e dolore. Come abbiamo visto per Camilla, così notiamo e per Bonconte e per Guido la ferocia, l’aggressività e l’inquietudine degli ambienti politici delle città italiane, nelle quali le famiglie più potenti guerreggiavano per il dominio, il potere ed il lustro, presentatici quali superbi valori diabolici. Molto significative le pagine, nelle quali Camilla pare renderci partecipi del suo progressivo distanziamento dalle abitudini frivole degli ambienti della sua corte e della sua progressiva estraneazione da quel mondo, per avvicinarsi a quel Cristus patiens, che, abbandonato sulla croce e disprezzato da tutti, soffre in silenzio per la nostra salvezza, seguendo la volontà del Padre celeste:

«E questo fu per tre anni continui prima che mi deliberassi donarmi tutta a Dio, benché l’astuzia diabolica cercasse per nuove vie da questo lacrimare ritrarmi, mettendo in cuore a quelle persone dalle quali io non mi poteva guardare né nascondere, perché eravamo insieme, che dicessero che io piangeva mo’ per una pazzia del mondo, mo’ per un’altra. Le quali dicerie e ciarlerie mi passavano il cuore; pure per la grazia di Dio di tutte mi feci beffe, né per quello mai lasciai fare quanto io voleva; voltava le spalle a loro e il cuore a Dio, ed attendeva al fatto mio»28.

Dante sulle dinamiche delle città italiane, che faranno da cornice alla vicenda di Camilla, così si esprime nel canto sopra esaminato: «Ravenna sta come stata è molt’anni:/l’aguglia da Polenta la si cova,/sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni./La terra che fé già la lunga prova/e di Franceschi sanguinoso mucchio,/sotto le branche verdi si ritrova./E ‘l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio,/che fecer di Montagna il mal governo,/là dove soglion fan d’i denti succhio./Le città di Lamone e di Santerno/conduce il lioncel dal nido bianco,/che muta parte da l’estate al verno./E quella cu’ il Savio bagna il fianco,/così com’ella sie’ tra ‘l piano e ’l monte,/tra tirannia si vive e stato franco»29. Questa rassegna di Dante, vertente sulla condizione della Romagna, ci offre delle interessantissime indicazioni su quanti fossero i compromessi, le astuzie, le meschinità della politica di potenza delle maggiori famiglie italiane, sempre preoccupate ed indaffarate, con violenze e sotterfugi, alla conquista ed al mantenimento del potere. Il gioco del mondo era violento e cangiante, una stabilità mai quieta caratterizzava l’ira e la nequizia dei casati, casati per i quali il potere era il fine fondamentale dell’esistere … così era anche per i Varano. Quel luogo segreto e puro, terso dal pentimento, dalla compunzione, dalle lacrime provate di fronte all’esempio salvifico di Cristo, si mostra un piccolo pertugio che ci apre all’immenso orizzonte dell’amore di Dio, l’amore che perdona e che attira a sé l’anima inquieta. Al ridondante e fastoso sfarzo delle corti, epifenomeno di una società crudele e violenta, si contrappone l’essenziale sequela di Cristo, che redime l’uomo anche quando questi si sente indegno di tanto amore. Il sentimento della propria inadeguatezza vacilla di fronte alla presenza dello Spirito Santo, che non solo asciuga le lacrime con la soffice seta del perdono, ma infiamma il cuore di un amore che apre l’uomo a quell’unione con Dio che lo accende e lo spinge ad una sequela Christi che si inoltra sino al male patire, cioè sino alla condivisione dei dolori che Cristo provò sulla croce, abbandonato, sofferente e disprezzato. Ecco che le lacrime fanno rifiorire quel deserto dell’anima, come osserva Pietro Messa:

«Ma Camilla da Varano ne ha compreso il valore e dentro quelle lacrime ha scoperto che il dolore e il sacrificio in realtà sono la manifestazione di un grande amore. Così le ha prese sul serio e, seguendo le orme di Gesù che amò i nemici e gli amici anche nel momento del tradimento e del rinnegamento, ha scelto di rimanere ai piedi dell’amore crocifisso, alla scuola di questa sapienza. E qui Camilla Battista ha compreso che Dio è Padre misericordioso, e che solo Lui raccoglie le lacrime degli uomini e delle donne di tutti i tempi in un recipiente speciale, il suo otre, perché non vadano sprecate, per poi riversarle sulla terra così che il deserto torni a fiorire»30.

I pensieri santi riescono così a far rifiorire i deserti, sanano lacerazioni e risanano conflittualità; le attività meschine e ingannatrici, invece, conseguono un parziale e momentaneo vantaggio solo per alcuni, mentre producono mali e danni che si protraggono nel tempo per i più. Interessante, a tal proposito, l’immagine di Beatrice, simbolo di fede e di teologia, che scaccia dal carro la volpe nel Paradiso terrestre, a conferma di quanto la fede retta operi per l’unità e per il bene, combattendo ciò che perversamente opera divisioni e lacerazioni all’interno di una Chiesa che storicamente procede verso Dio. E la storia della Chiesa non può rettamente procedere e conservarsi integra senza quella fede certa, fonte di bene che si riversa nell’opera dell’uomo, quella speranza certa e quella carità perfetta che sostengono la quotidiana attività dell’uomo, motivandola in ordine al Sommo Bene, che conferisce senso alla vita umana.31 In tal modo, l’esperienza mistica si rivela di grande importanza anche per un’azione che, ad un tempo, si prefigga di essere incisiva sulla realtà e protesa al vero bene, il quale, in quanto sommo bene, si riversa come armonia ed unità tra le parti di una società e tra i membri che vi vivono. La testimonianza della mistica Camilla Battista, che imitò Cristo sino al male patire, ci illumina circa quella sofferenza che è confitta nella dimenticanza e nell’ingiustizia degli uomini, così come Cristo fu confitto nella croce tra il fiele e gli sputi; ma l’estrema ingiustizia non poté cancellare quell’amore insondabile nascosto ai più, ma con il quale la partecipazione del mistico entra in rapporto, illuminando la storia di una luce nuova e inedita, che veramente riesce a far rifiorire il deserto di nuova speranza, laddove il potere vano dell’uomo prova solo spavento ed impotenza. Una forza, quella dell’amore sofferente, spesso inconscia e silenziosa che, giunta alla coscienza, ci mostra tutta la sua potenza sconvolgente: la potenza degli ultimi, dei dimenticati e degli afflitti, di cui risuona la gloria sempiterna dei cieli e, nella croce, spoglia la storia dei suoi simulacri incrostati rivelandole la propria autentica destinazione.


  1. Cfr. Purgatorio. V, vv. 52-54: «Noi fummo tutti già per forza morti,/e peccatori infino a l’ultima ora;/quivi lume del ciel ne fece accorti». ↩︎

  2. Pg., V, vv.13-18. ↩︎

  3. Pg. V, vv. 19-21. ↩︎

  4. Pg. V, vv. 52-57. ↩︎

  5. Paradiso. XXII, v. 151. ↩︎

  6. Pg. V, vv. 81-83. ↩︎

  7. Id., vv. 88-90. ↩︎

  8. Il casato è sottolineato da Dante stesso, giacché Bonconte, come inizia a parlare, chiarisce la sua origine: «Io fui di Montefeltro, io son Bonconte». ↩︎

  9. Id. , V, vv. 104-108. ↩︎

  10. If., XXVII, vv. 4- 15. ↩︎

  11. Id. , vv. 67-70. ↩︎

  12. Id., vv. 82-84. ↩︎

  13. Francesco D’Assisi, Testamento, 1-3. ↩︎

  14. If. XXVII, vv. 103-105. ↩︎

  15. Id. vv. 115-120. ↩︎

  16. Pg., XXXII, vv. 118- 123. ↩︎

  17. Camilla Battista Da Varano, La Vita Spirituale, pp. 7-8. ↩︎

  18. Id., p. 8. ↩︎

  19. Id., p. 10. ↩︎

  20. Id., p. 12. ↩︎

  21. Cfr. Platone, Fedro, 276 B-C. L’immagine simbolica del «giardino di Adone» è molto suggestiva. Essa designa un artefatto, realizzato nel corso di una festa religiosa in onore della figura mitologica di Adone, che consiste in una conchiglia in cui veniva messa un po’ di terra ed alcuni semi che nel giro di pochi giorni germogliavano e poi sfiorivano a ricordo della breve esistenza di Adone. I semi che si ponevano nella conchiglia, non erano la migliore semenza a disposizione per la semina, giacché questa veniva utilizzata per coltivare piante più grandi e produttive. In modo analogo il filosofo non mette le cose di miglior valore nel piccolo territorio della scrittura, bensì nella vasta pianura dell’anima, nella quale sorgerà il vero sapere. ↩︎

  22. Cfr. Fedro, 273 B – 278 E. ↩︎

  23. Scrive Viktor Frankl in Dio nell’Inconscio. Psicoterapia e Religione, a cura di Eugenio Fizzotti, Morcelliana, Brescia 2014, p.71: «All’Es, quale inconscio impulsivo, si è aggiunto, quale nuova scoperta, l’inconscio spirituale. Con tale spiritualità inconscia dell’uomo – da noi considerata come assolutamente di carattere personale – fu schiusa quella inconscia profondità nella quale avvengono le grandi, esistenziali, autentiche decisioni». ↩︎

  24. Scrive Eugenio Fizzotti nella sua Introduzione alla Psicologia della Religione, Franco Angeli, Milano 2008, p. 71: «Frankl stabilisce che all’interno della spiritualità dell’uomo è presente una religiosità inconscia, nel senso di una relazione inconscia con Dio, una relazione con la trascendenza che risulta immanente all’uomo, pur se ancora troppo spesso latente, tale religiosità inconscia consente di scorgere il Tu trascendente dietro l’io immanente, da cui risulta che l’inconscio spirituale si schiude come inconscio trascendente. Questo è il motivo per cui Frankl indica questo Dio come inconscio». ↩︎

  25. Camilla Battista Da Varano, Vita Spirituale, p. 57. ↩︎

  26. Id., p. 58. ↩︎

  27. Camilla Battista Da Varano, Vita Spirituale, pp. 42-43. ↩︎

  28. Camilla Battista Da Varano, La Vita spirituale, p. 12. ↩︎

  29. If., XXVII, vv. 40-54. ↩︎

  30. P. Messa, Presentazione a sr. Chiara Laura - sr. Chiara Amata, Santa Camilla Battista dalle lacrime alla gioia, Elledici-Velar, Gorle 2010, p. 3 ↩︎

  31. Francesco d’Assisi, nella Preghiera davanti al crocifisso, così si esprime: Sommo, glorioso Dio,/ Illumina le tenebre del cuore mio,/ e dammi fede retta,/ speranza certa e carità perfetta,/ saggezza e conoscimento,/ o Signore,/ affinché io faccia il tuo santo e verace comandamento. Gli scritti di Francesco sono presi da: Kajetan Esser Ofm, Gli scritti di S. Francesco d’Assisi, nuova edizione critica e versione italiana, Edizioni Messaggero Padova, Padova 1982. ↩︎