1. Derrida e il premio Adorno
È il 22 settembre 2001 quando il filosofo franco-algerino Jacques Derrida si reca nella città di Francoforte per ritirare il premio Theodor W. Adorno. Precedentemente ricevuto da Habermas, Boulez e Godard, tale premio viene normalmente conferito a quei pensatori che si distinguono per il fatto di muoversi trasversalmente nei campi della filosofia, delle scienze sociali e delle arti. A seguito della ricezione di questo prestigioso premio, Derrida fa un discorso nell’ambito del quale cerca di riflettere su quale sarebbe potuto essere il modo migliore per farsi carico dello stesso:
Per commisurare in modo accettabile la mia gratitudine all’altezza di ciò che mi viene donato da voi, cioè un segno di fiducia e l’assegnazione di una responsabilità per rispondere e corrispondere a questo dono, avrei dovuto vincere due tentazioni. Nel chiedervi di perdonarmi un doppio scacco, vi dirò in forma di denegazione, quel che avrei voluto non fare o quel che dovrei non fare. Sarebbe stato necessario evitare, da una parte, ogni compiacimento narcisistico e, dall’altra parte, la sopravvalutazione o la sovrainterpretazione – filosofica, storica, politica – dell’evento a cui oggi, così generosamente, mi associate: me, il mio lavoro, e anche i paesi, la cultura e la lingua in cui la mia modesta storia si radica o di cui si nutre, per quanto infedele e marginale vi rimanga. Se un giorno scrivessi il libro che sogno per interpretare la storia, la possibilità e la grazia di questo premio esso richiederebbe almeno sette capitoli.1
Una certa distanza sembra essere invocata da Derrida. Si tratta, per l’appunto, di una distanza con la quale il pensatore franco-algerino sembra voler mantenere uno scarto rispetto ad Adorno evitando, così, la confusione narcisistica. Probabilmente questa distanza avrebbe dovuto caratterizzare anche il testo che, stando a quel che dice, Derrida avrebbe sognato di scrivere. In questo testo, nell’ambito del quale la decostruzione da un lato e la teoria critica dall’altro sarebbero dovute entrare in dialogo, ci sarebbero dovuti essere sette capitoli di cui il terzo, sarebbe dovuto essere dedicato alla psicoanalisi:
L’interesse per la psicoanalisi. Decisamente estraneo ai filosofi dell’università tedesca, fu condiviso con Adorno da quasi tutti i filosofi francesi della mia generazione e di quella che mi ha immediatamente preceduto. Tra le altre cose, bisognerebbe insistere sulla vigilanza politica che, senza reattività né ingiustizia, dovrebbe esercitarsi nella lettura di Freud. Mi sarebbe piaciuto intrecciare un certo passo di Minima moralia, intitolato “Al di qua del principio di piacere”, con quello che ho chiamato “L’Al di là dell’al di là del principio di piacere”.2
La questione psicoanalitica è suscettibile di essere considerata, alla luce di quanto detto, come di primo piano per comprendere il rapporto tra Derrida e Adorno,3 motivo questo per il quale, nell’ambito di quest’articolo è proprio dal lascito freudiano che ripartiremo, il tutto ponendoci la seguente domanda: sino a che punto è possibile compiere quello che si può definire alla stregua di un sentiero interrotto della decostruzione? Sino a che punto è possibile sovrapporre l’adorniano al di qua del principio di piacere ed il derridiano al di là dell’al di là del principio di piacere? Quali sono i passaggi in cui questi due concetti (che più che due concetti sono due strategie di amministrazione libidinale) camminano parallelamente? E quali, posto che ne esistano, i punti in cui entrano in frizione?
2. Al di là del principio di piacere
L’adorniano al di qua ed il derridiano al di là dell’al di là del principio di piacere implicano entrambi una zona rispetto alla quale smarcarsi. Questa zona è l’al di là che Freud ha teorizzato in Al di là del principio di piacere producendo una vera e propria rivoluzione psicoanalitica, ovvero distinguendo qualcosa che prima di quest’opera, prima del 1920, il padre della psicoanalisi non aveva mai differenziato: il piacere da un lato e ciò che l’eccede dall’altro. Se cioè fino al 1920 il piacere aveva regnato sovrano nell’ambito dello psichismo, a partire da questa fatidica data, Freud erge il principio del piacere, come si legge in Il problema economico del masochismo,4 a custode della vita, che purga il piacere dai suoi eccessi facendoli residuare al di là. Al di là del suddetto principio. Quest’ultimo agirebbe, dunque, da argine contro gli eccessi del piacere. Ma donde questi eccessi?
Si tratterebbe, stando a Freud, dei tentativi messi in atto dalla vita per combattere la sofferenza o stato di tensione che subentra a fronte di un accumulo libidinale la cui neutralizzazione è realizzata riportando la libido anzidetta al valore Q=0. Stando a queste premesse, Freud ne ha concluso che la vita tende all’azzeramento energetico (o piacere puro), contro cui si frappone il principio di piacere. Considerando che questo azzeramento energetico riporta ad una condizione inorganica, si evince che la tendenza a scaricare l’energia azzerandola altro non sia che la cosiddetta pulsione di morte. L’al di là del principio di piacere è dunque, freudianamente parlando, la pulsione di morte (o piacere puro), che, in Al di là del principio di piacere, Freud definisce come:
una spinta, insita nell’organismo vivente, a ripristinare uno stato precedente al quale quest’essere vivente ha dovuto rinunciare sotto l’influsso di forze perturbatrici provenienti dall’esterno; sarebbe dunque una sorta di elasticità organica, o, se si preferisce, la manifestazione dell’inerzia che è propria della vita organica.5
Ma quali sono gli aspetti di tale “al di là” che tanto Adorno, tanto Derrida, tengono in conto al fine della teorizzazione dell’al di qua e dell’al di là dell’al di là del principio di piacere? Si tratta, essenzialmente, di presupposti di natura etico-politica la cui trattazione è reperibile grossomodo (anche se non esclusivamente) nelle riflessioni sulla guerra e sul disagio della civiltà. In Perché la guerra, Freud non manca di rilevare il collegamento che esiste tra la guerra da un lato e la pulsione di morte dall’altro, il tutto considerando che quest’ultima è talmente onnipresente da condizionare persino la gestione del potere politico. Alla luce di ciò, tutti gli strumenti scorti da Freud prima della scoperta della pulsione di morte (e funzionali ad un certo padroneggiamento pulsionale: l’Edipo, la sublimazione, l’idealizzazione, l’identificazione, la psicogenesi dei tabù, della legge e della morale) vengono riformulati finalisticamente al compito di arginare la pulsione di morte così da esorcizzarne la scarica tanatologica.
Il disagio della civiltà, da questo punto di vista, costituisce forse l’opera più significativa, e ciò per via del fatto che, se nelle opere precedenti Freud aveva lavorato al fine di ridurre le pressioni delle interdizioni (così da favorire l’appagamento pulsionale), in quest’opera sembra come in preda ad un pessimismo che lo spinge a credere che un certo gradiente di repressione non sia in fondo così male, ma sia, al contrario, la sola maniera di lottare contro Thanatos. Morale della faccenda: nonostante Freud abbia scorto l’esistenza di un al di là del principio di piacere corrispondente alla pulsione di morte, e nonostante questo al di là sia stato considerato dal padre della psicoanalisi come irresistibile, la posta in gioco della psicoanalisi sembra essere culminata nella ricerca di una strategia con la quale cercare di arginare la morte [Thanatos].
3. Al di qua e al di là dell’al di là del principio di piacere
Una volta chiarito cos’è l’al di là del principio di piacere, occorre farsi carico di studiare l’al di qua del principio di piacere di cui parla Adorno e l’al di là dell’al di là del principio di piacere di cui parla Derrida. Cominciando con il primo dei due autori, è a Minima moralia, che occorre fare cenno, ove è possibile recuperare l’aforisma trentasettesimo intitolato proprio Al di qua del principio di piacere. Come emerge subito, Adorno non adopera direttamente questa espressione (se non nel titolo dell’aforisma), però fa espressamente uso della parola piacere che fa comparire rapportandola a quella che, stando sempre ad Adorno, è possibile considerare alla stregua della nozione freudiana di razionalità:
La ragione è per lui una semplice sovrastruttura, e non tanto (come gli rimprovera la filosofia ufficiale) per via del suo psicologismo, che penetra abbastanza a fondo nel momento storico della verità, quanto piuttosto perché rigetta lo scopo, senza significato e senza ragione, solo in funzione e in vista del quale la ragione potrebbe dimostrarsi razionale: il piacere. Se quest’ultimo è svalutato e incluso tra gli espedienti della conservazione della specie, e risolto così, in qualche modo, in ragione astuta (senza mettere in rilievo il momento che, nel piacere, trascende l’abito della necessità naturale), la ratio scade di colpo a razionalizzazione.6
Come si evince dalla citazione appena riportata, il problema di un al di qua del principio di piacere viene messo in luce da Adorno connettendo il tema del piacere e del suo principio a quello della ragione. Ciò che Adorno rimprovera a Freud è di considerare oppositivamente ragione e piacere, svalutando così entrambi. Il piacere in quanto astuzia che la spunta sempre e comunque, la ragione in quanto fredda entità che, invece di essere razionale, ovvero di agire in vista del piacere, diverrebbe irrazionale, mera astrazione che pretende di controllare il piacere. In un certo senso, sembrerebbe che Adorno auspichi ad un al di qua del principio di piacere ove ragione e piacere non si oppongano più, bensì si congiungano, cosa fattibile se si tiene in conto quel che sostiene il francofortese nella citazione riportata, ossia che ci sarebbe un momento (di cui Freud non terrebbe conto) in cui il piacere trascende la necessità naturale. Ma cosa sarebbe questa trascendenza della necessità naturale? Si tratterebbe della fase in cui il piacere perde la propria autoreferenzialità così da armonizzarsi al mondo e divenire, esso stesso, razionale.
L’al di qua del principio di piacere sarebbe, dunque, quello spazio che non coincide né con l’al di là del principio di piacere, né con il principio di piacere stesso: se quest’ultimo esiste come entità moderatrice da opporre alla tentazione in forza della quale il piacere si spinge sempre oltre, l’al di qua del principio di piacere sembra essere uno spazio nel quale non occorre nessun principio di piacere, e ciò poiché un piacere che ha trasceso l’abito della necessità naturale non ha bisogno del principio di piacere.7
Venendo adesso a Derrida, e quindi al concetto di al di là dell’al di là del principio di piacere, dobbiamo ricorrere primieramente a Stati d’animo della psicoanalisi, testo di una comunicazione tenuta nel 2000 a Parigi in occasione degli Stati generali della psicoanalisi. In questo contesto, Derrida indaga la posta politica della psicoanalisi. Si chiede cosa possa offrire la psicoanalisi alla politica se si tiene in conto che la dottrina freudiana ha esplicitato l’inestirpabilità della pulsione di morte che si spinge sempre al di là del principio di piacere. È nel tratteggiare una risposta a questa domanda che Derrida offre la definizione di al di là dell’al di là del principio di piacere:
Il problema non è se esiste la pulsione di morte (Todestrieb) ovvero – Freud le associa regolarmente – una pulsione crudele di distruzione e di annientamento, o ancora, se esiste una crudeltà inerente alla pulsione di potere o di appropriazione sovrana (Bemächtigungstrieb) al di là o al di qua dei principi – per esempio dei principi di piacere o di realtà. Il mio problema, più in là, è piuttosto: c’è per il pensiero, […] un aldilà che si tenga al di là di questi possibili che sono ancora sia i principi di piacere e di realtà sia le pulsione di morte o di appropriazione sovrana, che sembrano esercitarsi ovunque vi sia crudeltà.8
Quindi, se Derrida parla di un al di là dell’al di là del principio di piacere è per via del fatto che questo al di là sarebbe al di là della pulsione di morte, la quale, essendo già al di là del principio di piacere, non può che essere superata da un’istanza sita al di là dell’al di là del principio in questione. La domanda è donde questo al di là dell’al di là? Per rispondere occorre fare un passo indietro. Occorre regredire al testo a partire da cui il franco-algerino perviene al substrato pulsionale di un al di là dell’al di là: Speculare su – “Freud”. In questo testo Derrida decostruisce il dualismo pulsionale esplicitando che prima dell’opposizione tra pulsione di vita e pulsione di morte, la vita tende alla propria origine, ossia ad appropriarsi di sé, funzionando come una pulsione di appropriazione. Considerando che freudianamente parlando l’origine della vita coincide con la morte [Thanatos], ne consegue che l’appropriazione vitale (intesa come ritorno all’origine) sia sempre coincisa, per paradossale che possa sembrare, con la ricerca della morte. Con una ricerca la cui esecuzione ha necessitato (pena l’esecuzione medesima) il differimento del proprio compimento, al punto che, invece di essere appropriatrice, la pulsione di appropriazione finisce per assumere i tratti di una pulsione di espropriazione, e, più correttamente, di ex-appropriazione. Detta istanza, che si appropria espropriandosi e si espropria appropriandosi, è ciò a partire da cui Derrida deduce l’al di là dell’al di là del principio di piacere: se è vero come dice Freud che la vita tende al ripristino dell’inorganico, e quindi al di là del principio di piacere, altresì vero è che questo al di là non coincide con sé perché, come già detto, differisce nel principio di piacere stesso, il tutto spingendosi al di là di sé, ossia al di là dell’al di là del principio di piacere.
Ricapitolando, dunque, mentre l’al di qua del principio di piacere pare corrispondere ad una zona che sta al di qua tanto del cosiddetto custode della vita (di quel custode o principio del piacere che, per la psicoanalisi freudiana, si istituisce mediante i processi ontogenetici e filogenetici che permettono lo sviluppo psichico “normale”) tanto della pulsione di morte, l’al di là dell’al di là del principio di piacere viene dedotto da Derrida dalla différance tra pulsione di morte – o al di là del principio di piacere – e principio di piacere.
4. Ideologia borghese, fantasma di sovranità e principio di piacere
Giunti a questo punto, è possibile farsi carico dell’obiettivo di comprendere in che senso Derrida abbia potuto auspicare ad una messa in rapporto di questi due concetti che sono l’al di qua e l’al di là dell’al di là del principio di piacere. La nostra ipotesi è che tali concetti convergano, anche solo parzialmente, nel momento in cui tentano di disinnescare il loro rispettivo nemico: l’ideologia borghese (nel caso di Adorno) e il fantasma di sovranità (nel caso di Derrida). Per rendere conto di quanto detto, il primo gesto da compiere è, evidentemente, quello di mettere a confronto l’ideologia borghese ed il fantasma di sovranità esplicitandone, in prima istanza, i rapporti con il principio di piacere freudiano e con il suo al di là, ed in seconda battuta il modo in cui la polemica messa in atto dai due autori contro di essi possa implicare un’approssimazione di ciò che, rispetto al principio di piacere, si tiene al di qua o al di là del suo stesso al di là. Cominciando da Adorno vale la pena dare risalto al passaggio in cui il teorico francofortese rintraccia la collisione tra clinica del principio di piacere e ideologia borghese:
la fatalità sta in ciò, che se Freud, da un lato contro l’ideologia borghese, perseguì materialisticamente l’azione consapevole sino alla sua radice inconscia, tuttavia e nello stesso tempo, aderì alla condanna borghese dell’istinto, che è già un prodotto delle razionalizzazioni demolite dello stesso Freud. Egli si dichiara esplicitamente d’accordo, nelle Lezioni, con «la valutazione generale…che colloca i fini sociali più in alto dei fini sessuali, sostanzialmente egoistici». Come psicologo professionale, egli accoglie acriticamente, staticamente, il contrasto socialità-egoismo, in cui non riconosce l’opera della società repressiva e il segno dei fatali meccanismi che egli stesso ha descritto. O piuttosto, egli oscilla, senza rigore teorico, e conformandosi al pregiudizio, tra la negazione della rinuncia all’istinto come repressione contraria alla realtà e l’esaltazione di questa rinuncia come sublimazione promotrice di cultura.9
Parafrasando quel che dice Adorno, è possibile sostenere che, con la clinica del principio di piacere, Freud abbia portato alla luce quanto dell’umano, o meglio del vivente, è stato solamente lambito in secoli di storia della filosofia: la radice materiale ed inconscia della volizione. Il problema è però che detto principio sarebbe poi stato represso dal padre della psicoanalisi al fine di fare gli interessi dell’ideologia borghese. È ovvio, in tal senso che ad essere preso di mira da Adorno non sia il principio di piacere in quanto tale, il principio di piacere nella sua prima formulazione, ma, molto più probabilmente, il principio di piacere inteso dopo la pubblicazione del famoso Al di là del principio di piacere. Ossia il principio di piacere bonificato dal principio di realtà ed avente le fattezze di un’istanza che agisce nel senso di edulcorare le pretese del piacere socializzandole, piegandole alle esigenze della classe sociale dominante. È per questo che la presa di distanza di Adorno rispetto al principio di piacere è evidentemente indissociabile da una critica diretta al cosiddetto principio di realtà:
l’organizzazione degli impulsi divergenti sotto il primato dell’io, sede del principio di realtà, si potrebbe concepire sin dall’inizio come una banda di ladroni interiorizzata, con capo, seguito, cerimoniale, giuramento di fedeltà, rottura del giuramento, conflitto d’interessi, intrighi e tutto il resto. Basta osservare certi impulsi in cui l’individuo si fa valere energicamente contro l’ambiente, come ad esempio il furore. Il furioso appare sempre come il capobanda di se stesso, che impartisce al proprio inconscio l’ordine di darci dentro, e dai cui occhi sprizza la soddisfazione di parlare per i molti che egli è. Quanto più uno ha assunto su di sé il compito della propria aggressione, tanto più perfettamente rappresenta il principio oppressivo della società. In questo senso, forse, più che in ogni altro, vale l’affermazione che il più individuale è il più generale.10
Come non richiamare, a questo punto, il famoso detto freudiano che recita: laddove era Es deve divenire Io. Laddove zampillavano gli istinti ribollenti, deve subentrare una vera e propria organizzazione che sia capace di arginare le spinte pulsionali in questione. Ora, se consideriamo come si genera l’io nell’ambito della psicoanalisi, è possibile notare che si tratta di un’istanza che, come si evince in il Progetto di una psicologia,11 deve imparare a controllare i propri impulsi sulla base del principio di realtà. Sin da quest’opera piuttosto vecchia, è possibile prendere contezza del fatto che questi impulsi avversi alla realtà coincidono tutti con il desiderio edipico. Con il desiderio di ripristinare la supposta totalità intrauterina praticando l’incesto e togliendo di mezzo l’ostacolo alla realizzazione di questo desiderio: il padre (portavoce del principio di realtà). Questa conversione si compie, come si evince in L’Io e l’Es, in ragione del fatto che l’ostilità nei confronti del padre non è in grado di estrinsecarsi, e ciò per almeno due ragioni. In prima istanza perché il piccolo d’uomo non è in grado di competere con un adulto. In seconda battuta perché nei confronti del padre non sussiste solo odio ma anche affetto, e quindi ambivalenza emotiva. Ne consegue che la risoluzione del complesso edipico passa per l’interiorizzazione dell’ostacolo, ossia dell’immagine paterna, a partire dalla quale si ingenera un’istanza interna all’Io, il cosiddetto Super-io. Facendo le veci paterne, quest’istanza super-egoica agisce come censore dei moti pulsionali asociali che, ogni tanto, riemergono e che, in tal modo, vengono repressi. Questa repressione può essere considerata come una riconfigurazione dell’al di là del principio di piacere o Thanatos il quale, non potendosi scaricare all’esterno dell’Io in modo completo (pena la stabilità sociale) si reinteriorizza assumendo, appunto, la forma di un censore con cui l’Io frustra le proprie volizioni. È proprio in questo meccanismo che Adorno scorge il punto di massima collisione tra il principio di piacere freudiano e l’ideologia borghese: quello che per Freud è un inevitabile processo psichico, ossia il fatto di dover interiorizzare contro di sé parte della propria aggressività, per Adorno, al contrario, è ciò a cui lo psichismo si condanna nel momento in cui istituisce specifiche condizioni sociali, politiche ed economiche (di cui la clinica del principio di piacere sarebbe divenuta promotrice). Il modello di produzione capitalistica, per Adorno, sarebbe ciò che richiede il surplus di castrazione a partire da cui i soggetti scaricano l’aggressività contro se stessi. Che il capitalismo, quale culmine dell’ideologia borghese (di cui la clinica freudiana del principio di piacere e del suo aldilà fungerebbe da dispositivo attuativo), sia il vero responsabile di questo surplus super-egoico ed autodistruttivo, Adorno lo dice a chiare lettere:
Se fosse possibile qualcosa come una psicoanalisi della cultura-tipo di oggi, se l’assoluto predominio dell’economia non irridesse ad ogni tentativo di spiegare lo stato di cose a partire dalla vita psichica delle sue vittime, e se gli psicoanalisti non avessero pronunciato da tempo il loro giuramento di fedeltà a questo stato di cose, un’indagine di questo genere dovrebbe mostrare che l’odierna malattia consiste proprio nella normalità. Gli atti libidinosi richiesti all’individuo che appare sano nel corpo e nell’anima, sono tali da poter essere eseguiti solo a prezzo della più profonda mutilazione, di una interiorizzazione della castrazione negli estrovertiti, di fronte alla quale il vecchio compito dell’identificazione col padre è il gioco da bambini in cui si si è esercitati a quella. Il regular guy, la popular girl, debbono rimuovere non solo i loro desideri e le loro conoscenze, ma anche tutti i sintomi che, in epoca borghese, seguivano alla rimozione.12
Venendo a Derrida si tratta ora di capire in che senso sia possibile scorgere una certa collisione tra la clinica del principio di piacere da un lato ed il fantasma di sovranità dall’altro. Il termine psicoanalitico fantasma è adoperato al fine di svelare una specifica caratterizzazione di quel concetto politico di sovranità che, mentre una certa storiografia filosofica fa iniziare da Bodin e culminare con Schmitt (passando per Hobbes, Rousseau, Kant e Hegel), Derrida, al contrario, spalma su tutta la tradizione occidentale, rintracciandolo, oltre che in Platone e Aristotele, anche nell’ambito della ben più arcaica mitologia esiodea. Con questo gesto, non si tratta solamente di modificare la cronologia della sovranità ma di ripensare l’essenza di quest’ultima. Se la teoria politica moderna si è concentrata nel sottolineare i caratteri di indivisibilità, inalienabilità, assolutezza ed eccezionalità della sovranità, Derrida ha mostrato come questi caratteri siano la diretta conseguenza del fatto che la sovranità è stata pensata come un’entità ipsocentrica. Dal latino, ipse significa la corrispondenza a sé, vale a dire la presenza a sé che, nel suo stesso corrispondersi, funge da base imprescindibile senza la quale i predicati che i pensatori politici hanno attribuito alla sovranità non sarebbero stati nemmeno pensabili.
Resta comunque da comprendere per quale ragione Derrida parli di sovranità nei termini di un fantasma. Come dicono Laplanche e Pontalis,13 fantasma è l’appagamento mascherato di un desiderio inconscio talché: se è vero che la sovranità è un fantasma, allora ad essere in gioco, ogni volta che c’è la sovranità, è un desiderio. Dal latino, desiderium è una parola composta dal sostantivo “sidum” che significa stella e dalla particella privativa “de” che significa l’assenza di stelle. Quell’assenza che spinge alla ricerca di ciò che manca. È proprio quest’assenza che, in un certo senso, sollecita a ricercare quel che manca, al punto che il desiderio e la spinta sembrano due istanze profondamente interconnesse. Spinta è il termine che si utilizza normalmente, come si evince con il tedesco Trieb, quando si vuole definire il termine pulsione, motivo questo che ci induce ad affermare che laddove compare un desiderio compare sempre, anche, una pulsione. Ne consegue, sulla base di quanto detto, che sia di capitale importanza chiedersi quale sia la pulsione che il fantasma di sovranità soddisfa, pur in modo surrogatorio. Si tratta di quella spinta la cui scarica compie sul piano libidinale ciò che la sovranità tenta di concretare politicamente: il circuito ipso-centrico d’auto-appropriazione. Abbiamo già analizzato poco sopra questa pulsione quando si è visto che, stando a Freud, la vita tenderebbe primieramente a ripristinare la propria origine che, coincidendo con l’inorganico, traduce la pulsione di appropriazione in una pulsione di morte. È a fronte di ciò che diventa possibile comprendere per quale ragione la sovranità sia un fantasma di sovranità: se la pulsione mediante la quale l’istanza sovrana è tale, vale a dire la pulsione di appropriazione, si soddisfacesse come tale (e quindi senza un appagamento allucinatorio quale può essere l’appagamento fantasmatico) culminerebbe nella morte, motivo questo per il quale sembra lecito affermare che il fantasma di sovranità sia l’appagamento allucinatorio della pulsione di appropriazione.
Ora qual è l’azione che la pulsione di appropriazione vorrebbe compiere lo si è già detto: la scarica energetica completa. E si è già detto anche qual è il modo con il quale la pulsione di appropriazione si manifesta in tenera età: come pulsione ad appropriarsi dell’oggetto materno togliendo di mezzo l’ostacolo paterno. Risulta abbastanza chiaro, a questo punto, comprendere che il mascheramento fantasmatico consiste nell’appagare il desiderio incestuoso in maniera indiretta invece che diretta: mediante l’identificazione con la figura interiorizzata, ossia con la figura del padre, il quale, come tale, diventa l’agente tramite cui l’incesto viene realizzato sul piano dell’immaginario. E perché mai questo fantasma sarebbe un fantasma di sovranità? Per via del fatto che mediante quest’appagamento mascherato la pulsione di appropriazione non si scarica immediatamente. Non giunge immediatamente al proprio fine, alla morte, bensì differisce quest’ultima, evitando di lasciarsene investire, evitando di subirne la violenza distruttiva e, addirittura, rendendosene appunto sovrana. E proprio questa maîtrise dei propri stimoli è il senso di quella presenza a se stessi che Derrida chiama, abitualmente, sovranità. Naturalmente Derrida è lungi dal credere che questa padronanza sia effettiva. Si tratta di un’illusione di padronanza e di sovranità dovuta al fatto che, come si è già detto, la pulsione di appropriazione non è mai davvero capace di sconfessare la pulsione di morte, la quale, al contrario, assume una nuova forma. Una forma consona alla nuova configurazione psichica e libidinale che subentra posteriormente all’interiorizzazione dell’immagine paterna. A partire da quell’interiorizzazione che, come si è già notato precedentemente, spinge l’Io a dirigere l’aggressività tanatologica contro i propri oggetti di desiderio che, un tempo amati, rischiano di fare riemergere quelle fasi libidiche ormai, solo presuntivamente, trascese. Se si considera, a questo punto, che detta strutturazione psichica scaturisce dal normale evolversi del principio di piacere in principio di realtà, ne consegue che il fantasma di sovranità, che per Derrida è l’archetipo di tutte le forme di potere politico storicamente esistite, abbia trovato terreno fertile al proprio sviluppo nell’ambito della clinica del principio di piacere e del suo cosiddetto aldilà:
Potere, dominio [maîtrise], supremazia (Herrschaft), il PP estende la sua dominazione sullo psichico, sul dominio [domaine] dello psichico. Dal momento che domina ogni soggettività vivente, il senso di tale dominazione non conosce limiti regionali: altro modo di dire che non si parla qui di dominazione in senso puramente metaforico. E proprio muovendo dalla dominazione esercitata da quello che si è usi chiamare PP su ogni soggetto psichico (su ogni vivente, cosciente o incosciente), si può in seguito determinare una dominazione qualsiasi, per derivazione o come sua figura. Da questa dominazione “psichica” sarebbe così derivata la dominazione in quel senso corrente, usuale o letterale, o addirittura proprio, nei “domini” della tecnica e della perizia, della politica o della lotta fra coscienze.14
Tanto Adorno, tanto Derrida, dunque, e come si è appena dimostrato, sembrano scoprire, anche solo implicitamente, una collisione tra il principio di piacere da un lato e la politica (incarnata dall’ideologia borghese piuttosto che dal fantasma di sovranità) dall’altro. Resta ad ogni modo da comprendere in che senso la critica dell’ideologia borghese e la decostruzione del fantasma sovrano convergano nel momento in cui auspicano rispettivamente ad un al di qua e ad un al di là dell’al di là del principio di piacere.
Per rendere conto di ciò la prima cosa da fare è tenere in conto che Derrida rintraccia l’al di là dell’al di là del principio di piacere dal fatto che l’al di là di questo principio, vale a dire la pulsione di morte, è un’istanza la quale, per realizzarsi, deve differire da sé, convertendosi nella pulsione di vita e viceversa, motivo questo per cui, ad essere al di là di sé non è solo il principio di piacere, ossia la pulsione di vita, ma anche la pulsione di morte, ossia l’al di là del principio di piacere. Con questo ragionamento, dunque, anche Derrida, come Adorno, cerca di farla finita con quel dualismo pulsionale mediante cui Freud ha opposto Eros e Thanatos, e, quindi, il principio di piacere al suo al di là. Derrida non crede alla “tesi”15 per cui la clinica del principio di piacere possa consentire di pervenire ad una padronanza dei propri impulsi libidici. Se c’è infatti una cosa che Derrida sottolinea in Speculare su – “Freud” è proprio la non padronanza del principio di piacere:
Se assicura il suo dominio, il principio del piacere deve dunque farlo anzitutto sul piacere e a scapito del piacere. Diventa così il principe del piacere, il principe di cui il piacere è soggetto in soggezione, incatenato, legato, limitato nei movimenti, affaticato. Necessariamente, il gioco si gioca su due scacchiere. Il piacere vi perde nella misura stessa in cui fa vincere il proprio principio. Perde ad ogni mossa, vince ad ogni mossa nella misura in cui c’è prima d’esserci, sin da quando si prepara alla propria presenza, e c’è ancora quando si riserva per prodursi, sconfinando in ogni al di là di se stesso. Vince ad ogni mossa, perde ad ogni mossa nella misura: fuori controllo, la sua intensità lo distruggerebbe immediatamente se non si sottomettesse alla strettura moderatrice, alla misura stessa. […]. Il PP, il signore, non è padrone, soggetto o autore di questa speculazione. È soltanto l’incaricato in missione, l’emissario, un fattore si direbbe quasi un piazzista.16
Questa non-padronanza del principio di piacere fornisce un dato quanto alla prossimità tra l’al di qua e l’al di là dell’al di là del principio di piacere: se l’al di qua di questo principio, e di cui ha parlato Adorno, è servito a quest’ultimo per sottolineare il fatto che detto principio non è l’inverso della pulsione di morte, l’al di là dell’al di là del principio di piacere, compie, per certi versi, e da certe angolazioni, lo stesso gesto. Se da un lato sottolinea che il piacere non può non lasciarsi imbrigliare nelle maglie del suo principio, pena il divenire eccessivo e quindi mortale, dall’altro lato sottolinea l’esatto contrario, ossia il fatto che un certo grado di godimento, e quindi una piccola morte, sussiste in ogni tentativo posto in essere dal principio rispetto al proprio piacere.
Ma è possibile portare le cose ancora più avanti di così. Se Derrida rintraccia nell’adorniano al di qua del principio di piacere un’istanza avente una certa parentela e prossimità con l’al di là dell’al di là del principio di piacere è perché quest’ultimo, esattamente come l’al di qua adorniano, decostruisce il paternocentrismo della clinica del principio di piacere. Infatti dare per buono quel che abbiamo detto sino a questo punto, ossia che la pulsione ad appropriarsi dell’oggetto materno deve differire da sé, onde evitare di culminare nell’incesto, non equivale a sottoscrivere la risoluzione patriarchica di questo differimento, il tutto per almeno due ragioni. In prima istanza perché, se è vero che non c’è, come si è detto, nessun padrone e nessun signore che si ingenera mediante la clinica del principio di piacere, allora è del tutto ingenuo credere che l’interiorizzazione della figura paterna sia tale da sconfessare le scariche mediante le quali Thanatos si apre un varco di manifestazione.
In seconda battuta perché, il fatto che la pulsione di appropriazione differisce non coincide con il fatto che questa pulsione debba essere sottomessa al processo di interiorizzazione della figura paterna. Seppure sia corretto affermare che l’interiorizzazione della figura paterna sia una maniera di realizzare il differimento della pulsione di appropriazione, non altrettanto corretto è credere che questo differimento non possa che accadere mediante l’interiorizzazione della figura paterna e quindi mediante la castrazione. Utile, al fine di confermare quanto stiamo dicendo, può essere l’effettuazione di un piccolo detour che conduce a La bestia e il sovrano I, e, più esattamente, all’ottava serie di lezioni ove Derrida, tra le altre cose, ricorre ad una figura mediante la quale caratterizzare quello che, fino a questo punto, si è chiamato fantasma di sovranità: la figura di Priapo. In un certo senso, si ha l’impressione che, mediante questa figura mitologica, Derrida abbia semplicemente voluto rimarcare quanto detto in Speculare su – “Freud” affermando che la pulsione di appropriazione deve differire da sé per essere sé. Nel possedere un fallo sempre eretto, questo personaggio è tale da teatralizzare il godimento mortifero stesso. Quel godimento che, nel caso della pulsione di appropriazione, è realizzato culminando nella scarica mortifera, motivo questo per cui, a fronte di quest’istanza, Derrida dice:
Forse sopportabile per le bestie (bêtes) o per i semidei, questa erezione imperturbabile e impassibile causerebbe negli uomini solo un’impronta senza emissione seminale, dunque senza potenza generativa, produrrebbe solo dolore senza gioia. Questa patologia chiamata priapismo porta alla morte. E il priapsimo, questo itifallismo infinito, l’itifallismo estraneo a questa detumescenza che è la finitudine dell’erezione e che, in quanto tale rende possibile il tempo dell’erezione – che essa minaccia, certo, ma di cui è anche la possibilità. Un’erezione priapica, cioè permanente e indefinita, non è nemmeno più un’erezione – ed è una patologia mortale. Ma la detumescenza è una castrazione.17
Quello che è significativo nell’ambito di questa citazione non è che Priapo teatralizza il differimento della pulsione di appropriazione esplicitando, così, i limiti del principio di piacere, ossia svelando che del principio di piacere non esiste solo un al di là ma anche al di là dell’al di là, bensì che il differimento non è un detour che si esprime necessariamente nella castrazione. La castrazione è solo la torsione patriarchica di una detumescenza, e quindi di una finitezza, che prescinde dalla figura del padre, motivo questo per il quale, esattamente come l’al di qua del principio di piacere, l’al di là dell’al di là di questo principio funge da perno della decostruzione della configurazione patriarchica del potere politico.
5. Contro ogni iperedonismo
Quanto detto potrebbe indurre a credere che tanto l’al di qua del principio di piacere, tanto l’al di là dell’al di là di questo principio, culminino in una specie di scenario iperedonistico nell’ambito del quale il desiderio possa essere liberato una volta per tutte dalle grinfie del principio di piacere e, quindi, dal potere. Tale prospettiva costituisce solo un’apparenza. Tanto l’al di qua del principio di piacere, tanto l’al di là dell’al di là, sembrano, infatti, irriducibili ad un tale scenario, e ciò per via del fatto che rompono con le opposizioni intrinseche al freudismo,18 vale a dire con l’opposizione tra principio di piacere e principio di realtà, nonché tra pulsione di vita e pulsione di morte.
Rottura questa che, precedentemente, si è palesata affermando che Adorno considera l’al di qua del principio di piacere come una zona in cui ragione e piacere, principio di piacere ed al di là di questo principio, non si lasciano distinguere più, così come Derrida considera l’al di là dell’al di là del principio di piacere alla stregua di una contaminazione differenziale tra pulsione di vita e pulsione di morte. Per dimostrare che questa rottura con il dualismo freudiano impedisca tanto all’al di qua tanto all’al di là dell’al di là del principio di piacere di culminare nello scenario iperedonistico di una totale liberazione del desiderio è opportuno riprendere le opere di cui si è fatto uso in questo scritto. Volgendosi nuovamente a Minima moralia, imprescindibile sembra l’aforisma sessanta Una parola per la morale, ove, a fronte di una certa parentela tra economia capitalistica e culto dell’abbondanza (e, con esso, dell’appagamento dei desideri), Adorno sembra rovesciare le proprie carte, le carte della critica all’ascetismo borghese, affermando:
Di fronte alla possibilità immediata dell’abbondanza, la limitazione non può apparire superflua, non solo al non conformista, ma anche al più limitato borghese. Il senso implicito della morale dei signori – chi vuol vivere deve arraffare – è ormai una menzogna più meschina della morale dei pastori nel secolo decimonono. […]. Gli ideali ascetici incarnano oggi un grado superiore di resistenza alla follia dell’economia di profitto che non la rivolta vitalistica di sessant’anni fa contro la repressione liberale.19
Un altro aforisma particolarmente significativo quanto alla questione di cui si sta dicendo è, senz’altro, Costanza, ove, pur confermandosi tutto quel che si è detto addietro, vale a dire il fatto che occorre opporsi all’economia libidinale dell’ideologia borghese, emerge che quest’opposizione non deve e non può culminare nel culto iperedonistico del piacere immediato; con le parole di Adorno:
Amare significa saper impedire che l’immediatezza sia soffocata dall’onnipresente pressione della mediazione, dall’economia, e in questa fedeltà l’amore si media in se stesso, accanita contropressione. […]. Ma colei che, sotto l’apparenza della spontaneità irriflessa, e fiera della sua presunta sincerità, si abbandona interamente a quella che ritiene essere la voce del cuore, e fugge non appena crede di non avvertire più quella voce, è – proprio in quella sovrana indipendenza – lo strumento della società. Passivamente, senza saperlo, registra i numeri che escono via via alla roulette degli interessi. Mentre tradisce l’amato, tradisce stessa. L’ordine della fedeltà, che la società impartisce, e strumento d’illibertà, ma è solo nella fedeltà che la libertà si ribella all’ordine della società.20
Come si legge in queste righe, Adorno cerca di slacciare l’amore dai vincoli sociali, dalle mediazioni che la società impone all’amore giacché queste mediazioni ne reprimono l’immediatezza. Allo stesso tempo, tuttavia, Adorno nota come l’immediatezza sia una condizione che occorre praticare riflessivamente invece che irriflessivamente (come se un’immediatezza riflessa non fosse già in qualche modo mediata dalla propria riflessione), il tutto di modo da evitare di divenire burattini della società. L’immediatezza riflessa sarebbe, quindi, adornianamente parlando, la pratica che consente di amare in modo da smarcarsi sia dalle mediazioni sociali, sia dal culto iperedonistico che subentra non appena ci si oppone alle mediazioni in questione.
Venendo adesso a Derrida, occorre sottolineare che, le precauzioni prese da Adorno per evitare di appiattire l’al di qua del principio di piacere sul culto iperedonistico risultano acuite. Nonostante infatti il franco-algerino abbia chiarito che il principio di piacere non riesce a ergere la propria maîtrise nei riguardi del piacere, al medesimo tempo non ha ritenuto si fosse in presenza di una totale liberazione del piacere suddetto. Dire che la relazione tra piacere e principio del piacere sia differenziale significa infatti: sia che il principio del piacere abbisogna del suo altro, ossia del piacere puro e nirvanico (onde evitare di divenire dannoso per la vita), sia l’esatto contrario, e, quindi, che il piacere puro e nirvanico implica sempre il proprio principe/principio onde evitare di culminare nel godimento o dispendio pericoloso. Di questo Derrida offre una certa esplicitazione in Speculare su – “Freud” e, esattamente, nel passaggio in cui afferma:
E se il piacere non si producesse che differendo se stesso, e se non raggiungesse se stesso che a questa condizione? […]. Niente [pas de] piacere, certo, ma se fosse il piacere a limitarsi incessantemente, trattando con se stesso, per produrre, risolvere, rigenerare, perdere e conservare se stesso al servizio d’una funzione generale di cui costituisce la tendenza, allora, per la stessa ragione, non ci sarebbe altro che Piacere. È possibile? Il principio stesso del piacere si manifesta come una specie di contro-piacere, una tensione contrapposta ad un’altra nel limitare il piacere e renderlo così possibile. Tutto avviene allora nel quadro delle differenze di messa in tensione. L’economia non è generale. Spesso, sotto questo nome, s’intende un’economia semplicemente aperta ad un dispendio assoluto. Qui, fin nel suo cedimento ultimo, l’economia sarebbe un’economia di strettura.21
Differito da sé, il piacere in un certo senso non è. Non è per il fatto che differendo si sottomette al suo principe/principio (il quale, lo si è visto, a sua volta non ne possiede mai il controllo assoluto e pieno). Senza questa specie di auto-limitazione, il piacere non potrebbe godere perché il godimento diverrebbe mortifero, ragion per cui, dice Derrida, il piacere sta solo nell’assenza di piacere. Non nel senso negativo del termine per cui piacere e dolore si equivalgono, bensì nel senso per cui il piacere implica una certa perdita in assenza della quale si trasforma in godimento e, quindi, in assenza di piacere. A questo punto, giustamente, Derrida chiama in causa l’economia specificando che questa peripezia del piacere testimonia che l’economia del piacere è lungi dall’essere un’economia generale e, quindi, del cosiddetto dispendio assoluto. Con questo riferimento alla dépense, che implica il rinvio a Bataille, Derrida una volta di più sembra approssimare l’economia libidinale dell’al di là dell’al di là del principio di piacere a quella dell’adorniano al di qua del medesimo principio, il tutto andando al di là del dualismo freudiano e, quindi, confermando che la decostruzione del principio di piacere, o meglio la sua auto-decostruzione, non culmina in nessuna apologia del piacere puro (o godimento).
6. Nota conclusiva
Si potrebbe concludere, a questo punto, affermando che è stato esplicitato il punto di contatto esistente tra al di qua e al di là dell’al di là del principio di piacere. Criticando e decostruendo il binarismo interno alla psicoanalisi, tanto l’al di qua, tanto l’al di là dell’al di là, sembrano proporre un’inedita economia libidinale irriducibile al sistema di potere veicolato all’interno della tradizione occidentale, oltre che al suo rovescio puramente materialistico ed iperedonistico. Nonostante ciò, ed al di là dell’intento di Derrida, sarebbe opportuno chiedersi se qualche precauzione non debba comunque essere presa quanto all’avvicinamento dell’al di qua e dell’al di là dell’al di là del principio di piacere.
Ci si dovrebbe chiedere se lo smontaggio del binarismo psicoanalitico sia messo in atto dai due pensatori sulla base di comuni presupposti e, altresì, se, in caso di differenti presupposti, proprio queste differenze non siano foriere di approdi etico-politici distanti l’uno dall’altro. Parlando di presupposti, diventa imprescindibile chiedersi in nome di cosa è condotto il discorso a partire dal quale i due pensatori qui oggetto di studio pretendono di tenersi, rispettivamente, al di qua ed al di là dell’al di là del principio di piacere.
Cominciando da Adorno, è evidente che l’economia libidinale dell’al di qua del principio di piacere sembra essere auspicata in nome di una specie di natura arcaica che, per l’appunto, e come si è detto, l’ideologia borghese avrebbe pervertito, o meglio alienato, anteponendovi una specie di “seconda natura”, cosa che trova conferma nella parole adoperate da Ceppa nell’Introduzione a Minima moralia quando afferma:
L’affermazione adorniana che il tutto è falso (aforisma 29) significa appunto che il mondo dell’immediatezza arcaica – che agli occhi della modernità può apparire come ingenuo, naturale, organico – si è capovolto in una «seconda natura» storicamente prodotto ma umanamente nefasta. In questo senso l’idea regolativa, metaforica, utopistica della natura arcaica e della natura redentrice sembra indicare in Adorno la prospettiva storica del superamento dell’universalità borghese in forme nuove, più emancipate, di ricambio organico e di sintesi sociale.22
Nonostante in Adorno la natura arcaica di cui si è appena detto non sia concepita alla stregua di un terreno fertile verso il quale regredire (tanto che per il teorico francofortese si tratta di una specie di idea regolativa il cui attingimento sembra persistere alla stregua di un compito infinito ed inesauribile), resta il fatto sia presente nell’argomentazione adorniana una tensione dis-alienante che, per certi versi, ed al di là delle intenzioni dello stesso Adorno, potrebbe condurre verso una regressione all’arcaico i cui effetti sarebbero anche più letali dell’alienazione borghese.
Venendo adesso a Derrida, emerge abbastanza chiaramente come non sia possibile rintracciare nell’al di là dell’al di là del principio di piacere, il presupposto che si è visto caratterizzare il discorso adorniano: se è vero che l’al di là dell’al di là del principio di piacere scaturisce dalla différance intrinseca alla pulsione di appropriazione, la quale, dunque, è una pulsione di espropriazione, o meglio di ex-appropriazione, allora ne consegue che, derridianamente parlando, la dis-alienazione come tale non sia un terreno possibile, né auspicabile. Non è né possibile, né auspicabile, per via del fatto che la vita è destinata ad espropriarsi mentre si appropria e viceversa. Consegue da quanto detto che, se è vero che nessuna appropriazione, e quindi dis-alienazione, è mai possibile, allora del tutto chimerica appare la nozione di natura arcaica, anche se la si ammette come un semplice ideale regolativo, ciò dal momento che l’ex-appropriazione pulsionale (da cui scaturisce l’al di là dell’al di là del principio di piacere) è il contrario di una mitica condizione di auto-appartenenza naturale e paradisiaca. Queste ipotesi trovano conferma nelle prese di posizione derridiane quanto al tema dell’alienazione di cui Derrida ha parlato in Il monolinguismo dell’altro nel momento in cui si è trovato a studiare le politiche della lingua scaturite dal colonialismo europeo. Ciò che si è scorto in questo testo è che, per quanto le politiche linguistiche del colonialismo siano responsabili di aver alienato i popoli colonizzati, imponendo loro una lingua straniera, resta il fatto che ad essere alienante sia, in realtà, il fatto stesso di parlare una lingua, e ciò poiché della lingua non si è mai, ed in nessun caso, possessori: le lingue sono infatti ricevute, e sono sempre di qualcun altro, tanto che si è sempre alienati da un’alienazione pre-originaria che accomuna colonizzato e colonizzatore.23 Traslando adesso quest’argomentazione sul piano pulsionale, sembra lecito ammettere che Derrida rintracci un’alienazione, o meglio un’ex-appropriazione, pulsionale alla radice del suo al di là dell’al di là del principio di piacere che conduce quest’ultimo in una direzione abbastanza differente dall’utopismo tipico della critica francofortese adorniana, ossia verso un pensiero dell’esposizione vulnerabile motivato proprio dall’ex-appropriazione summenzionata. Motivato, cioè, dall’idea per cui: se è vero che la vita pulsionale è estranea a se stessa, allora ne consegue che la relazione all’estraneo sia il tratto specifico del vivere.
Per concludere, dunque, ci sembra lecito dire che: se da un lato il gesto derridiano di avvicinare l’al di là dell’al di là del principio di piacere all’adorniano al di qua del medesimo principio sia motivato dal fatto che i due dispositivi pulsionali menzionati convergono in un certo disinnesco del potere politico (pur differentemente identificato) e dell’iperedonismo a quest’ultimo normalmente opposto, dall’altro lato si tratta di un’approssimazione che dovrebbe essere compiuta con una certa attenzione, e ciò dal momento che, al cuore dei due dispositivi pulsionali qui analizzati, si trovano dei presupposti – natura arcaica e ex-appropriazione – che, nonostante tutte le approssimazioni possibili, finiscono per torcere al di qua e al di là dell’al di là del principio di piacere verso due orizzonti non del tutto prossimi: l’utopia dell’arcaico nel caso di Adorno e l’esposizione vulnerabile all’estraneo nel caso di Derrida.
-
J. Derrida, Il sogno di Benjamin, Bompiani, Milano 2003, pp. 41 42. ↩︎
-
Ivi, p. 44. ↩︎
-
Rapporto che, detto per inciso, non è stato molto studiato dalla ricezione del pensiero derridiano, né di quello adorniano. Tra i pochi contributi esistenti, segnaliamo: S. Wilke, «Adorno and Derrida as Readers of Husserl: Some Reflections on the Historical Context of Modernism and Postmodernism», Boundary 2, 1989; F. A. Durão, «Adorno e Derrida: uma tentativa de aproximação», Forum Deutsch: Revista Brasileira de Estudos Germanicos IX, 2005; C. Menke, «Subjektivität und Gelingen: Adorno – Derrida» in Markus Wolf & Andreas Niederberger (eds.), Politische Philosophie Und Dekonstruktion: Beiträge Zur Politischen Theorie Im Anschluss an Jacques Derrida. Transcript Verlag, 2007; P. Terzi, «Critica e decostruzione dell’immediato. Adorno e Derrida di fronte a Husserl», Discipline filosofiche 2, 2016. ↩︎
-
S. Freud, Il problema economico del masochismo, in Opere (1924-1929). Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti, vol. 10, ed. dir. da C.L. Musatti, Boringhieri, Torino 1978, p. 7. ↩︎
-
S. Freud, Al di là del principio di piacere, in Opere 1917-1923. L’Io e l’Es e altri scritti, vol. 9, ed. dir. da C.L. Musatti, Boringhieri, Torino 1977, p. 222. ↩︎
-
T. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, 3ª ed., Einaudi, Torino 1994, pp. 61-62. ↩︎
-
Come dice il pensatore francofortese: «anche le più remote oggettivazioni del pensiero traggono alimento dagli impulsi, il pensiero, distruggendoli, distrugge la condizione di se stesso. Non è la memoria inseparabile dall’amore, che vuol conservare ciò che passa, ed ogni moto della fantasia non è generato dal desiderio, che trascende ciò che esiste e pur gli resta fedele, in quanto traspone i suoi elementi? E la più semplice percezione non si modella sull’angoscia di fronte all’oggetto percepito o sul desiderio del medesimo? Certo, con la crescente oggettivazione del mondo, il senso oggettivo delle conoscenze i è sempre più svincolato dal loro fondo impulsivo; e la conoscenza manca al suo compito, quando la sua attività oggettivante resta sotto l’influsso dei desideri. Ma se gli impulsi non sono superati e conservati nel pensiero che si sottrae a questo influsso, non si realizza conoscenza alcuna, e il pensiero che uccide suo padre, il desiderio, è colpito dalla nemesi della stupidità» (Ivi, pp. 141-142). ↩︎
-
J. Derrida, Stati d’animo della psicoanalisi. L’impossibile aldilà di una sovrana crudeltà, ETS, Pisa 2013, p. 18. ↩︎
-
T. W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 61. ↩︎
-
Ivi, p. 42. ↩︎
-
S. Freud, Progetto di una psicologia, in Opere (1892-1899). Progetto di una psicologia e altri scritti, vol. 2, ed. dir. da C.L. Musatti, Boringhieri, Torino 1968, p. 203. ↩︎
-
T. W. Adorno, Minima moralia, cit., pp. 58-59. ↩︎
-
J. Laplanche, J.-B. Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari 1968: «Fantasma». ↩︎
-
J. Derrida, Speculare – su “Freud”, Cortina, Milano 2000, p. 158. ↩︎
-
È per questo che il franco-algerino gioca proprio con il termine tesi che, etimologicamente, significa porre. Dei concetti psichici, afferma Derrida, non è possibile alcuna tesi, poiché essi non si lasciano porre, sfuggono al posizionamento, e ciò, come detto, dal momento che sconfinano l’uno nell’altro, tanto che si dovrebbe parlare, più che di tesi, di a-tesi: «Vorrei offrire alla lettura la struttura non posizionale di Al di là…, il suo funzionamento in ultima istanza a-tetico, vale a dire ciò che si sottrae al requisito di un’istanza suprema, e non dell’istanza senz’altro» (Ivi, p. 3). ↩︎
-
Ivi, pp. 166-167. ↩︎
-
J. Derrida, La Bestia il Sovrano II (2002-2003), Jaca Book, Milano 2010, pp. 280-281. ↩︎
-
Tanto la dialettica adorniana, tanto la différance derridiana sono due maniere di decostruire le opposizioni della metafisica. Quanto alla différance, vale la pena citare il seguente passaggio: «tutte le opposizioni concettuali che solcano il pensiero freudiano mettono in rapporto l’uno con l’altro ciascuno dei concetti come i momenti di una deviazione nell’economia della différance. L’uno non è che l’altro differito, l’uno differendo l’altro. L’uno è l’altro in différance, l’uno è la différance dell’altro. È così che ogni opposizione apparente rigorosa e irriducibile (per esempio quella di secondario e primario) la vediamo qualificata, una volta o l’altra, come “finzione teorica”. È ancora così che, per esempio (ma un esempio di questo genere comanda tutto, comunica con tutto), la differenza tra il principio del piacere e il principio di realtà non è che la différance come deviazione» (J. Derrida, Margini della filosofia, Einaudi, Torino 1997, p. 47). Venendo invece alla dialettica adorniana significativo il risulta l’aforisma seguente: «Il pensiero dialettico si oppone alla reificazione anche nel senso che si rifiuta di confermare alcunché di singolo nel suo isolamento e nella sua separazione: e determina l’isolamento come prodotto dell’universale. Funge così da correttivo contro la fissazione maniaca, come contro il tratto vuoto e passivo dello spirito paranoide, che perviene al giudizio assoluto a prezzo dell’esperienza della cosa» (T. W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 75). Per ulteriori approfondimenti in ordine alle implicazioni della dialettica adorniana, cfr. T. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004. ↩︎
-
T. W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 107. ↩︎
-
Ivi, p. 203. ↩︎
-
J. Derrida, Speculare – su “Freud”, cit., pp.165-166. ↩︎
-
L. Ceppa, Introduzione a T. W. Adorno, Minima moralia, cit., p. XX. ↩︎
-
J. Derrida, Il monolinguismo dell’altro o la protesi originaria, Raffaello Cortina, Milano 2004. ↩︎