Wittgenstein e l’antropologia. Contro la spiegazione causale e la critica a Frazer

1. Wittgenstein e l’antropologia

Intorno al 1928 Wittgenstein ritorna ad occuparsi di filosofia dopo un silenzio durato circa 7 anni. Un anno più tardi esce a Cambridge un breve saggio Some Remarks on the logical Form che non sarebbe altro che una ricapitolazione delle teorie già espresse nel Tractatus logico-philosophicus. Nonostante ciò lo stesso autore austriaco confessa a Moore di non tenere tale scritto in nessun conto, maturando egli in quel periodo un mutamento, da alcuni ritenuto radicale, rispetto la fase e le teorie espresse nella sua opera giovanile.

Nel ’30 Wittgenstein comincia a stilare una serie di osservazioni che poi saranno pubblicate postume con il titolo Osservazioni filosofiche e nello stesso anno tiene delle lezioni universitarie dove tale mutamento comincia a delinearsi in modo definito.

All’interno di tale contesto assume rilievo l’interesse di Wittgentein nei confronti di Frazer in quanto sintetizza lo sforzo e la direzione del lavoro filosofico dell’autore austriaco che si esplicherà meglio nelle opere degli anni seguenti.

Sappiamo, grazie alla testimonianza di un suo allievo Rush Rhees, che proprio intorno al 1930 Wittgenstein si accostò per la prima volta all’opera di Frazer Il ramo d’oro. Probabilmente l’autore austriaco non lesse integralmente l’opera, ma ciò che ci interessa sono le osservazioni che dal confronto con tale lettura Wittgenstein scriverà. Queste si pongono, infatti, all’interno di quel filone critico della riflessione wittgensteiniana che ha di mira svelare le mistificazioni del linguaggio e il tentativo di penetrare entro le sue pieghe per far emergere le dinamiche sottese al nostro modo di parlare.

La critica fondamentale che Wittgenstein rivolge alle teorie proposte da Frazer sembra ruotare attorno all’idea che la spiegazione storica (l’ipotesi dello sviluppo di un’azione cerimoniale) più che non spiegare nulla risulta inefficace.

Cerchiamo di svelare i presupposti dai quali questa critica prende avvio e le conseguenze alle quali essa conduce.

Nell’affermazione secondo la quale la magia sarebbe «la sorella bastarda della scienza», Wittgenstein rintraccia il retroterra teorico dell’interpretazione frazeriana del rito. L’antropologo scozzese tenterebbe di spiegare la natura di una cerimonia religiosa partendo da un punto di vista scientifico; la magia si delineerebbe, così, come forma di sapere pre-scientifica.

Wittgenstein, a differenza di quanto faceva Frazer, parte dall’idea di una netta contrapposizione tra magia e religione da una parte e scienza dall’altra. Le prime due si fonderebbero, a parere del filosofo austriaco, su delle dinamiche che sono completamente differenti rispetto a quelle implicite alla scienza. Tra questi due ambiti non si pone solo una differenza qualitativa ma un vero e proprio salto categoriale.

La critica di Wittgenstein alla spiegazione di Frazer può essere così riassunta: non si può ridurre la magia alla scienza, per questo motivo «l’errore nasce solo, quando la magia viene spiegata in termini scientifici».1

Per questioni esegetiche potremmo individuare nelle Note al Ramo d’oro una pars destruens e una pars costruens: nella prima Wittgenstein critica il modello frazeriano, nella seconda, emerge l’idea dell’autore austriaco per quanto riguarda l’interpretazione non tanto di un rito storicamente determinato quanto dell’azione cerimoniale in generale.

2. «Una domanda designa un metodo di ricerca»2

Tutta la moderna concezione del mondo si fonda sull’illusione che le cosiddette leggi naturali siano le spiegazioni dei fenomeni naturali. (6. 371)

Così si arrestano davanti alle leggi naturali come davanti a qualcosa d’intangibile, come gli antichi davanti a Dio e al Fato. E ambedue hanno ragione, e ambedue torto. Gli antichi sono, tuttavia, in tanto più chiari in quanto riconoscono un chiaro termine, mentre il nuovo sistema pretende che tutto sia spiegato. (6. 372)

Sin dai tempi del Tractatus logico-philosophicus si afferma la decostruzione wittgensteiniana del mito scientifico. La scienza ha un valore principalmente pragmatico, ma non può dire nulla sulla dimensione metafisico-ontologica della natura. Ecco perché il Positivismo cadrebbe in un circolo vizioso: sorto in opposizione ai miti metafisici, ricade esso stesso nel medesimo vortice, opponendo ad un paradigma esplicativo della realtà (Dio, il Fato) un altro (le leggi naturali).

È fondamentale sottolineare, ai fini del presente intervento, come proprio la critica al mito scientifico rimandi a sua volta a un elemento essenziale sotteso all’intero arco della riflessione di Wittgenstein. Tale elemento si delinea in un bisogno, più etico che gnoseologico, di non cedere alle illusioni, ovvero rinunciare alla ricerca di un fondamento che tutto spieghi e che a sé tutto riconduca e risolva. La critica alla scienza non si presenta così come negazione del suo indiscusso valore pragmatico, ma si pone contro l’opinione, sbagliata, che essa possa risolvere le inquietudini degli uomini.

Già nel Tractatus, in effetti, lo stesso autore austriaco aveva sottolineato come le risposte scientifiche lascino insoluti i problemi vitali ponendosi, la dimensione etica, aldilà delle mere descrizione scientifiche.

Alla luce di questa premessa emerge la continuità con la critica di Wittgenstein a Frazer, che ha come principale obiettivo proprio la rivalutazione di un’esperienza umana come quella religiosa e magica, che Frazer, sotto l’influsso di un mito imperante ai suoi tempi, il mito del progresso, tende a ridurre.

Le spiegazioni di Frazer sottendono un’analisi metodologica che affonda le proprie origini in un retroterra che vede nella spiegazione della fisica il modello cui aspirare.3

In effetti, il modello della spiegazione storica offerta dall’antropologo scozzese presuppone la ricerca della causa (il rito deriva dall’opinione) e l’individuazione della finalità cui un’azione cerimoniale tende (ottenere un utile).

Frazer ci offre una spiegazione storica, essa consiste nella spiegazione dello sviluppo di un rito, ovvero il dire «questo è derivato da quest’altro». Una spiegazione storica, dunque, è una spiegazione causale, proprio perché, in quanto ne spiega lo sviluppo, presuppone un movimento dall’effetto alla causa.

Secondo Wittgenstein «nel nostro cercare con lo sguardo la causa, sta una delle radici del nostro gioco linguistico di causa ed effetto»,4 attraverso questo schema noi tentiamo di “dominare” la realtà, nel Tractatus l’autore ne parla come «intuizione a priori sulla possibilità e formulazione delle proposizioni della scienza».5

Questo schema, la forma della legge di causalità,6 infatti, ci permette di giungere a quelli che sono ritenuti i fondamenti dai quali ogni teoria scientifica prende le mosse. Ad esempio il secondo principio della dinamica recita «se una forza agisce su di un corpo libero, esso acquista un’accelerazione proporzionale alla forza applicata ed avente la stessa direzione e verso». Perciò la forza è la causa dell’accelerazione, se non fosse possibile attuare questa connessione non potrebbe darsi la dinamica meccanica in quanto scienza fisica.

Nel Della Certezza emerge come, secondo Wittgenstein, la scienza prenda avvio dal senso comune, ponendosi quest’ultimo come campo preliminare di azione all’interno del quale l’operare umano si dispiega e trova inizio. Infatti, affinché il gioco possa cominciare, esso deve partire da una serie di dati che sono pre-dati e di cui non è possibile dubitare altrimenti non giocheremo il gioco che stiamo giocando. Il senso comune viene, in un secondo momento, integrato da un sapere concettuale che si delinea come sapere scientifico. La differenza tra senso comune e scienza consiste nel fatto che il sapere scientifico, in seguito, comincia a porsi propri obiettivi. Ciò che qui ci preme è sottolineare il valore principalmente pragmatico della ricerca scientifica che pur differenziandosi dal senso comune trova in esso le sue radici.

Questa idea è già presente in Mach che spiega questo passaggio in maniera molto chiara:

Il pensiero comune è al servizio di scopi pratici, in un primo momento la soddisfazione di bisogni corporei. Il pensiero scientifico già rafforzato si crea da sé i propri scopi, cerca di soddisfare se stesso, di accantonare ogni disagio intellettuale.7

Ora la causalità fa parte di quel “campo”, se vogliamo intuitivo, del senso comune, di un modo “ingenuo” di percepire il mondo, sul quale si fonda la sovrastruttura della scienza.

Una spiegazione del tipo causale, dunque, si pone come metodo interpretativo della realtà fisica, utilizzando il quale ci è permesso di giungere alla formulazione di alcune leggi, le leggi fisiche ad esempio, che sono in grado di dare una descrizione del mondo.

Ciò nonostante proprio questo tipo di spiegazione, che Frazer utilizza per rendere conto di qualcosa come la credenza nella magia, risulta del tutto inadeguato per ambiti come quello etico e religioso.

Per spiegare le finalità di un atto rituale, infatti, Frazer non fa altro che offrire al lettore esempi di riti presenti presso varie popolazioni selvagge per poi tentare di ricondurli, nonostante le differenze, ad un unum: quest’unum è la concezione, l’opinione sulla quale, secondo Frazer, il rito in sé prende forma. Questo tipo di spiegazione, potremmo dire, risente di un pregiudizio che ci porta a «dover… » rinvenire un’origine. Questa ricerca dell’origine, che porta l’antropologo scozzese a cercare una legge che possa descrivere e spiegare un comportamento umano, si traduce in quella che come abbiamo detto è la ricerca delle cause prime e che fonda il sapere scientifico.

Insieme all’origine il metodo frazeriano procede nella individuazione della finalità di un’azione cerimoniale. La costruzione grammaticale della spiegazione offerta «si fa questo per quello», modello che sottende la ricerca di un utile, ci riconduce al paradigma scientifico che, nato per soddisfare bisogni biologici, mira, in primo luogo, ad un miglioramento delle condizioni di vita.

Il perché del rito si esplicherebbe, allora, nell’utile che il rito stesso vuole raggiungere; nella mente di Frazer il mago della pioggia bagnando un ramo e agitandolo sul suolo simulando una pioggia artificiale crede e si aspetta che realmente ciò propizierà la pioggia. In questo si evince, a nostro avviso, la riduzione attuata da Frazer della magia alla scienza, che Wittgenstein critica nelle Note sul “Ramo d’oro”. Secondo l’antropologo scozzese, infatti, la magia, in quanto pre-scienza, non si discosta dalla scienza nell’obiettivo che vuole raggiungere bensì nella impossibilità di un suo ulteriore sviluppo, in quanto fondata su una “fisica” sbagliata. « […] la differenza tra la magia e la scienza consiste in questo, che esiste un progresso nella scienza ma non nella magia. La magia non ha una direzione di sviluppo che le sia estrinseca»8

Presupposto questo, Wittgenstein critica Frazer: le finalità cui la magia tende sono ben altre rispetto quelle scientifiche, e probabilmente qui non si potrebbe neanche parlare di finalità vere e proprie.

In tale ottica la spiegazione storica, è solo un modo di presentare un evento, ma in questa non può essere rinvenuta, a parere di Wittgenstein, la ratio essendi del rito stesso.

La spiegazione storica, così, non è completamente inutile, presenta il materiale in un determinato modo, ma il significato profondo del rito non può solo con questa emergere realmente.

La spiegazione storica, la spiegazione come ipotesi di sviluppo è solo un modo di raccogliere i dati — della loro sinossi. È ugualmente possibile vedere i dati nella loro relazione reciproca e riassumerli in un’immagine generale che non abbia la forma di un’ipotesi di sviluppo cronologico.9

Inoltre dobbiamo aggiungere un’altra critica che Wittgenstein farà alla spiegazione storica offerta da Frazer. Questa pretende di rappresentare la vera, o meglio l’autentica, causa del rito. «La caratteristica dell’atto rituale non è una concezione, un’opinione, vera o falsa che sia, benché un’opinione possa anche essere rituale, appartenere al rito».10

Il rapporto tra concezione e rito che per Frazer è in un rapporto di tipo causale, l’una è causa dell’altro, in Wittgenstein è abbandonato, per lui causa del rito non è la concezione ma rito e concezione si danno assieme.

La spiegazione storica, in effetti, per Wittgenstein non è neanche un’autentica spiegazione causale.

Il dire, infatti, che il rito deriva da una determinata concezione in sé non può spiegare il rito, in quanto proprio da un punto di vista logico la concezione non può essere “grammaticalmente” la causa del rito.

Wittgenstein intende per individuazione della causa B di A la possibilità di una controfattualizzazione per cui senza B A non si sarebbe mai verificato .11 In conformità a ciò nelle Note sul “Ramo d’oro” Wittgenstein afferma:

Se dico: la storia non può essere la causa dello sviluppo, questo non significa che io non possa prevedere lo sviluppo a partire dalla storia, perché questo è proprio ciò che faccio; ma significa che noi non chiamiamo questa “una connessione causale”, che qui non si tratta di prevedere l’effetto a partire dalla causa.12

Potremmo dire che Frazer è vittima di un determinato modo di spiegare le cose, questo modo prevede di rintracciare una causa, e proprio ciò lo porta a rinvenire nell’opinione la causa del rito.

Wittgenstein obietta anche a Frazer che la spiegazione storica non è in grado di render conto di alcune obiezioni di ordine pratico.

In primo luogo l’autore austriaco evidenzia come anche l’uomo moderno, il cui retroterra culturale è quello determinato storicamente dalla rivoluzione scientifica, compie quotidianamente una serie di azioni che non trovano spazio entro una spiegazione scientifica. L’azione «baciare l’immagine dell’amato»13 non si può ridurre al modello «fa questo per quello», non c’è un effetto dell’azione, una sua utilità, c’è solo un fare, un agire. In secondo luogo bisogna notare che non solo l’uomo primitivo aveva una propria tecnica e quindi una concezione teorica non così imperfetta come Frazer sembra sostenere, ma anche che il selvaggio compiva cerimonie, ad esempio per propiziare la pioggia, nei periodi in cui sapeva che avrebbe dovuto piovere, tale osservazione va in parte contro l’ipotesi frazeriana che l’uomo compie un’azione cerimoniale affinché piova.

14. «I’ll teach you differences»14

La duplice critica di Wittgenstein alla spiegazione storica e come visto alla connessione causale, applicata in tale ambito, rimanda ad un altro problema che si collega direttamente ad una tematica fondamentale in tutto l’arco della filosofia wittgensteinania: la mancanza di immaginazione. Le teorie che tutto spiegano, perché tutto racchiudono, risentono probabilmente di un’esigenza umana, un’esigenza di razionalità, proprio ciò conduce, paradossalmente, a giudizio di Wittgestein, alla metafisica. Questa, infatti, sorge là dove c’è un impoverimento dell’immaginazione, là dove una totalità è ricondotta ad un unum. Questo, come detto, rimanda, probabilmente, ad un’esigenza della mente umana, più concretamente ad un’esigenza linguistica che, però non può se non condurre ad una certa ambiguità di senso.

Una teoria, per quanto espressa in simboli, è sempre una forma di linguaggio umano, e proprio in base a come questo linguaggio viene utilizzato non può che derivarne un particolare punto di vista sul mondo, determinato proprio dal modo in cui le parole ci portano a guardare un fenomeno. Potremmo dire che noi vediamo un fenomeno attraverso le nostre parole.

Da un lato la vita intellettuale guadagna molto dall’espressione linguistica, d’altro canto viene confinata entro forma convenzionali fortuite. Che io dica “il tronco galleggia nell’acqua” oppure “l’acqua sostiene il tronco” non comporta differenza di pensiero, è psicologicamente lo stesso. Ma nell’espressione linguistica il ruolo del soggetto è passato dal tronco all’acqua.15

Questo è inteso quasi similmente da Wittgenstein, quando, prendendo spunto dalla Teoria delle Descrizioni definite di Russell, affermerà nel Tractatus che il linguaggio traveste (verkleidet) il pensiero.16 Questo è un passaggio, riteniamo, fondamentale della presente trattazione costituendo il fulcro del rifiuto wittgensteiniano della ricerca di “una causa” per spiegare il rito, che si ripresenterà, all’interno della sua opera, nella formulazione di un’impossibilità, o forse più inutilità, di reperire il carattere essenzialistico.

Noi siamo portati a cercare questo carattere proprio nell’impostazione grammaticale del nostro sistema linguistico e soprattutto nell’idea di concetto non solo come entità psicologica ma anche, in un certo senso, come entità ontologica.

Lübbe fa emergere in maniera esemplare questa idea sottolineando come la difficoltà che Lachete, nel famoso dialogo platonico, prova a definire il coraggio, non si fonda sull’incapacità di Lachete stesso, quanto su un’impossibilità vera e propria di poter offrire un’immagine unitaria di ciò che nella nostra vita quotidiana chiamiamo coraggio; in sé il concetto rischia di tagliar fuori una parte di “mondo”, così come la connessione causale rischia di ridurre un evento.17 Nella ricerca di quell’unum linguistico, che si esprime nella ricerca della causa, siamo portati a trascurare il fenomeno sotto osservazione cercando aldilà dello stesso il suo significato.

Siamo così preoccupati di osservare la scala di misura che non possiamo lasciar posare i nostri sguardi su certi fenomeni o immagini. Noi siamo abituati a scansarli come se fossero irrazionali, come se corrispondessero ad un basso grado di intelligenza, e così via. Il nostro sguardo è tenuto prigioniero dalla scala di misura e viene da questa distolto da tali fenomeni, come se guardasse più in alto di essi.18

Il rito non si comprende a partire da qualcosa che trascende il fenomeno stesso, non bisogna uscire dal fenomeno per comprenderlo bensì bisogna su di esso posare lo sguardo e smettere per un momento di pensare «denk nicht, sondern schau! »,19 si vedrà come il punto d’avvio deve essere il fenomeno stesso, proprio dalla sua osservazione, infatti, lo capiremo. Sembra che Wittgenstein dica che il nostro modo di cercare, spesso, è determinato da una sorta di pregiudizio che ci impone di cercare solo ed esclusivamente in una data direzione. Nell’applicazione pratica ciò vuol dire che occorrerebbe tentare di reperire il senso di quest’ultima, non in un quid che travalichi la cerimonia, ma nell’atto stesso in cui sì “vedrà” la cerimonia.

Qui usiamo il termine “vedere” ad indicare come la vista ci permetta di cogliere, metaforicamente, uno sguardo d’insieme, proprio questo rimanda alla übersichtliche Darstellung, la nostra forma di rappresentazione «il modo in cui vediamo le cose».20 Ecco che cogliere le connessioni tra le cose è più importante che darne una spiegazione teorica vera e propria; noi cogliamo le connessioni proprio a partire da alcune osservazioni, e proprio ciò «… riesce a darci ciò che, spesso a torto, ci si è aspettati da una teoria».21

Wittgenstein cerca delle ragioni, non delle cause. La causa, infatti, rimanda a quella grammatica filosofica che, premettendo il verbo «deve… »,22 mira a cogliere un’improbabile essenza a priori delle cose.

Frazer non capisce il significato di un rito, in quanto non capisce il significato della magia, ciò si traduce in un’incomprensione delle esperienze umane che tentano di oltrepassare i confini tracciati dalla scientificità. Qui Wittgenstein offre un’immagine (non una spiegazione) dell’uomo, e tenta di farlo non tracciandone dei confini logici, bensì riconoscendogli ciò che l’esperienza ci dimostra appartenergli.

Nessun fenomeno, infatti, è per sé particolarmente misterioso, ma ciascuno lo può diventare per noi, e ciò che contraddistingue lo spirito umano al suo risveglio è appunto che per esso un fenomeno diviene significante23

Il concetto di significato qui è di fondamentale importanza in quanto, se da una parte delinea la posizione che viene ad assumere Wittgenstein nei confronti della magia e della religione, dall’altra viene a caratterizzare la posizione dell’autore austriaco rispetto a Frazer.

Usando Gehlen, potremmo dire che qualcosa è significante in relazione a quelli che sono gli interessi biologici di una specie. Per questo motivo il mondo della zecca non è lo stesso mondo dell’uomo, in quanto il sistema percettivo è differente, nel primo caso predominano sensazioni di calore e non ci sono grosse percezioni visive, nel secondo avviene l’esatto contrario. L’uomo percepisce un mondo e la sua ricezione è determinata dalla sua biologicità. Nell’osservazione della vita umana, secondo Wittgenstein, si palesano dei fenomeni, che non vanno spiegati, ricondotti a qualcos’altro da loro, ma di cui bisogna semplicemente prendere atto.

Se si osserva la vita ed il comportamento degli uomini sulla terra, si vede che essi, oltre ad azioni che si potrebbero chiamare “animali” quali nutrirsi, ecc, svolgono anche azioni che hanno un carattere peculiare e che si potrebbero chiamare “rituali”.24

La riconduzione ad altro, infatti, è un tipico processo cognitivo della scienza che si propone di ricondurre qualcosa di ignoto a qualcosa di già noto. Prendere atto vuol dire, qui, riconoscere che l’uomo celebra un rito in quanto per lui qualcosa diviene significante.

L’uomo di fronte i fenomeni naturali non si pone dunque, parafrasando Wittgenstein, solo dal punto di vista della scienza ma anche, una volta sottolineata la differenza tra magia-religione e scienza, da un punto di vista magico o ancora meglio «cerimoniale». Proprio questo atteggiamento, infatti, rende possibile la magia, ma non l’inverso. L’uomo è tanto animale scientifico quanto animale cerimoniale, ciò nonostante queste due dimensioni dell’uomo non sono riducibili l’una all’altra.

Al suo risveglio (la forma dello spirito che si risveglia è l’adorazione)^[25] un fenomeno diviene per l’essere “uomo” significante, tale possibilità che un evento assuma un significato rimanda, come detto, alla biologicità dell’uomo, all’uomo come datore di significati «Ogni prospettiva è significante per colui il quale la vede significante».25 Tale biologicità presuppone tanto il suo mero essere animale quanto il suo essere linguistico e cerimoniale.

In effetti, nel Tractatus Wittgestin afferma:

L’uomo possiede la capacità di costruire linguaggi, con i quali ogni senso può esprimersi, senza sospettare come e che cosa ogni parola significhi. […] Il linguaggio comune è una parte dell’organismo umano, e non meno complicato di questo.26

L’uomo può parlare proprio in quanto tale azione fa parte del suo “organismo”, così come mangiare, bere e riprodursi. La capacità di parlare è capacità di dar forma, è creazione simbolica, che si manifesta e contraddistingue tanto la magia quanto ogni azione cerimoniale. Nella ritualità l’uomo e la comunità umana istituiscono un simbolo, ad esempio la maestà della morte,27 attraverso la quale si tenta la rappresentazione di una profonda e fondamentale esperienza umana. In effetti, nel mito parola e immagine sono un tutt’uno, in quanto proprio nella parola è presente la cosa stessa «Allora non si contrapporrà più l’operare con segni grafici o acustici all’operare con “immagini rappresentative” degli eventi».28

La possibilità del rito, ben differentemente rispetto a quanto sostenuto da Frazer, si delinea come una possibilità della biologicità dell’uomo. Così, come la possibilità del bambino di comprendere un segno linguistico, presuppone la capacità del bambino di accogliere un linguaggio, in quanto per lui un segno può assumere un significato; così, per l’uomo la possibilità che una cerimonia assuma un significato presuppone che ogni uomo sia in grado di comprendere un’azione rituale. Questa comprensione non rimanda, come in Frazer, ad una spiegazione causale, ad una spiegazione storica, ma ad un assetto di capacità biologicamente determinate, grazie alle quali ogni uomo è capace di accogliere in un segno un nuovo senso.

Tali feste (le feste di Beltane) non vengono inventate da una persona, per così dire a capriccio ma richiedono una base infinitamente più larga per sopravvivere. […] Quanto siano svianti le spiegazioni di Frazer è dimostrato, secondo me, dal fatto che potremmo benissimo inventarci noi stessi delle usanze, e sarebbe un caso se in qualche luogo non si trovassero davvero. Vale a dire che il principio che regola queste usanze è molto più universale di quel che dichiara Frazer ed è presente nella nostra anima, tant’è vero che noi stessi potremmo escogitarci tutte queste possibilità.29

Come detto la cerimonialità dell’uomo è presentata dallo stesso Wittgenstein, a nostro avviso, in relazione alla sua capacità linguistica, proprio in quanto il rito si propone, come detto, di essere un simbolo. Questa capacità di agire simbolicamente, che seguendo Cassirer contraddistingue l’esser umano in quanto Capaso formae,30 si traduce a livello linguistico in un vocabolario che ben esprime questa potenzialità-capacità umana. «Nel nostro linguaggio si depositata un’intera mitologia. »31

In fondo tutta la nostra moderna filosofia, che affonda le proprie origini nella filosofia greca, e di cui, per questioni storiografiche, potremmo datare la nascita con l’avvento di Platone, si erge dalle ceneri, e fa proprie categorie, di un mondo che proprio la filosofa sembra, poi, allontanare come irrazionale: il mondo del mito. Nel’700 il termine mitologia è assunto in senso spregiativo e sta ad indicare il tentativo ingiustificato di ridurre il mito a qualcosa altro da sé, infatti, mitologia è lo studio razionale, scientifico del mito. Ma non si può dare una spiegazione scientifica del mito, semplicemente perché il mito non è scienza. Dietro il mito e le pratiche magiche si nasconde proprio un particolare significato, un modo di approcciarsi al mondo che non è quello scientifico né tanto meno quello filosofico tradizionale.

Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati. Certo allora non resta più domanda alcuna; e questa è la risposta.32

Proprio nell’ultima frase, a nostro avviso, emergerebbe un momento fondamentale della riflessione wittgensteinana che sarà presente nelle Note sul “Ramo d’oro”. La magia tenta di dare un tipo di risposta ad un problema vitale che nella scienza troverebbe espressione sotto ben altra forma. Fra i due momenti non c’è continuità alcuna, il mito offre una spiegazione che utilizza categorie e si pone obiettivi differenti, per cui non si potrebbe parlare neanche di una vera e propria spiegazione.

4. Conclusioni

Vorremmo concludere con una citazione di William James che a nostro avviso ben sintetizza la critica di Wittgenstein alla posizione frazeriana.

La conoscenza di una cosa non è la cosa stessa. […] capire le cause dell’ubriachezza come le capisce il medico non significa essere ubriachi. È ben impossibile che una scienza giunga a conoscere ogni cosa e ogni aspetto della religione, e persino a stabilire quali tratti debbano considerarsi autentici per la loro armonia generale con altri rami della conoscenza; e tuttavia il miglior rappresentante di questa scienza potrebbe essere colui che trova le maggiori difficoltà a essere personalmente devoto. […] una cosa è conoscere la vita e un’altra è occupare concretamente un posto in essa, con le sue correnti dinamiche che attraversano il nostro essere.33

Tale frase è a nostro avviso molto significativa. La conoscenza di qualcosa, non può essere ridotta alla semplice conoscenza delle sue cause; in questo modo, infatti, si rischia una riduzione del fenomeno e la perdita dell’intimità di un’esperienza che non è sottoponibile alla fredda analisi scientifica, in quanto quel qualcosa si radica sempre e solo concretamente in un posto. Questo posto verrà paradigmaticamente chiamato da Wittgenstein Lebensform ad indicare una situazione nella quale l’uomo dà adito ad una serie di comportamenti che non trovano e non abbisognano di alcuna giustificazione se non nella pratica stessa che essi comportano.

Questa riflessione, che nelle Note sul “Ramo d’oro”di Frazer è applicata alla cerimonialità e tende ad evidenziare il carattere antropologico della magia e della religione, si riproporrà sempre nella seconda fase del pensiero wittgensteiniano nell’analisi della matematica e del linguaggio.

Le Note sul “Ramo d’oro” si prefigurano così come un breve assaggio e un riassunto della speculazione del filosofo austriaco che, se da una parte influirà sulla seguente ricerca antropologica, dall’altra investirà anche autori come Freud che, come Frazer, a parer di Wittgenstein, sono schiavi dell’esigenza di applicare ai comportamenti umani una spiegazione simile a quelle utilizzate nelle scienze fisiche e meccaniche.34 Da ciò deriva, secondo Wittgenstein, un’interpretazione dei caratteri dell’uomo che mira ed esige non una risposta, ma un determinato tipo di risposta, una risposta che risente e rimanda al paradigma scientifico.

5. Bibliografia

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  1. Wittgenstein Ludwig, Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, p. 22. ↩︎

  2. Wittgenstein Ludwig (1999) Osservazioni filosofiche, Torino, Einaudi, p. 31. ↩︎

  3. Wittgenstein Ludwig (2005) Lezioni e conversazioni, Milano, Adelphi, p. 122. ↩︎

  4. Wittgenstein L. (2006) Causa ed effetto, Torino, Einaudi, p. 11. ↩︎

  5. Wittgenstein L. (1998) Tractatus logico-philosophicus,Torino, Einaudi, prop. 6.34. ↩︎

  6. Ivi, prop. 6.32-6.321. ↩︎

  7. Mach Ernest (1982) Conoscenza ed errore. Abbozzi per una psicologia della ricerca, Torino, Einaudi, p. 4. ↩︎

  8. Wittgenstein Ludwig, Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, p. 38. ↩︎

  9. Ivi, p. 28. ↩︎

  10. Ivi, p. 27. ↩︎

  11. Voltolini Alberto, Wittgenstein tra causalità e libertà p. XXI in Causa ed effetto di Ludwig Wittgenstein. ↩︎

  12. Wittgenstin Ludwig, Causa ed effetto p. 12. ↩︎

  13. Wittgenstein L., Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, p. 21. ↩︎

  14. Shakespeare William, Re Lear, atto I scena IV. ↩︎

  15. Mach Ernest, Conoscenza ed errore, p. 112. ↩︎

  16. Wittgenstein Ludwig, Tractatus Logico-philosophicus, prop. 4.002. ↩︎

  17. Lübbe, “Sprachspiele” und “Geschichten ”, Neopositivismus und Phenomenology in spät Stadium, zu Ludwig Wittgenstein, philosophische Untersuchungen-und W. Schlapp, Philosophy der Geschichten in Kant-studien, LII 1960-61, pp. 220-43; in Gargani A. G. Linguaggio ed espereinza in Ludwig Wittgenstein, p. 261. ↩︎

  18. Wittgenstein Ludwig, Causa ed effetto, p. 20. ↩︎

  19. Wittgenstein L., Ricerche filosofiche, prop. 66. ↩︎

  20. Wittgenstein L., Note sul Ramo d oro di Frazer, p. 29. ↩︎

  21. Wittgenstein L. (2000) Osservazioni sui colori, Torino, Einaudi, prop. 22. ↩︎

  22. Wittgenstein Ludwig, Causa ed effetto p. 12. ↩︎

  23. Wittgenstein L., Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, p. 26. ↩︎

  24. Ibidem↩︎

  25. Ivi, p. 32. ↩︎

  26. Wittgenstein Ludwig, Tractatus logico.philosophicus, prop. 4.002. ↩︎

  27. Wittgenstein L., Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, p. 20. ↩︎

  28. Ivi, p. 27. ↩︎

  29. Ivi, p. 23-24. ↩︎

  30. Cassirer Ernst, (2003)La Metafisica delle forme simboliche, Milano, Sansoni Editori, p. 56. ↩︎

  31. Wittgenstein Ludwig, Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, p. 31. ↩︎

  32. Wittgenstein Ludwig, Tractatus Logio-philosophicus, prop. 6.52. ↩︎

  33. James William, The varieties of Religious Experience, trad. It: L’esperienza religiosa, (1970) Torino, Utet p. 277. ↩︎

  34. Wittgenstein Ludwig, Lezioni e Conversazioni, p. 122. ↩︎