Massimo Cacciari, Labirinto Filosofico, Adelphi, Milano 2014.
1. I giro
1.1. Die Welt ist nie, sondern weltet (M. Heidegger)
L’ incipit è il pelein-welten, la consistenza del non-nulla inscindibilmente in noi unita al trans-correre dei pensieri: il sempre già dato aporetico inizio al nostro essere-pensanti che pensano-enti. E ciò comporta l’inevitabile diairetico aggirarsi nel Labirinto di chiunque assuma l’abito filosofico: e cioè dell’uomo. Ma così come non ci può essere uomo-filosofo senza il necessario dipanarsi dinanzi a lui dell’intrico labirintico delle vie del suo pensiero, non ci può essere mondo-labirinto senza il suo ulissaico andare con la mente. E così, il che - è è costretto al viaggio nella mente che lo pensa, e tuttavia il viaggiatore che pensa non potrebbe pensare senza che esso-sia.
I due corni dell’aporetico dilemma originario si sono, nella storia del pensiero occidentale, logicizzati in molti modi: in sintesi, si può ricondurli ai termini Io e mondo. Ma, come ha detto Heidegger, il mondo non è, ma si mondifica; e l’io non è, ma mondifica mondi. I termini devono diventare verbi, devono essere verbalizzati. E solo così il filosofo può cominciare a dire, sapendo che non c’è termine al dire. Ecco allora che le vie del dire crescono e fioriscono in ventagli di innumerevoli diramazioni, e però, nel loro differire , sempre traggono origine dal pensare. Il mondo (i mondi) si struttura e prende corpo in inscindibile relazione all’uomo che lo pensa e lo dice. E’ il mondo, questo (sono i mondi, questi), umano. Nagel ci ha insegnato che il mondo del pipistrello, mondificato dai suoi vissuti di pipistrello, è diverso, differente.Ecco allora, procedendo nel Labirinto, che ci siamo imbattuti in nuovi bivi, in nuove differenze. Ma, pur trascendendo con questo pensiero-detto relativo al mondo del pipistrello (e di ogni altro vivente ) il mondo umano ,il trascendimento è pur sempre opera della mente umana: è un andar oltre che non porta, nel suo differire, al di là del mondo umano, così come mondificato dalla mente umana. Esso resta un differire, un dia-ferein , ove il dia significa un portar contro, non oltre,pur additandolo, l’oltre, e dicendo-che-è: contro i limiti del Labirinto, che, in quanto tali, rivelano la presenza di un oltre-che-è, ma, appunto, nel farne cenno, lo ri-velano, come dice Cacciari. Perché sempre dentro al Labirinto siamo. Siamo però è termine improprio, incongruo al nostro vivere da mortali: il nostro essere-nel-labirinto è infatti un andare, un infinito viaggiare, per dirla con Magris. Un infinito che sappiamo dover finire, consapevoli come siamo di essere Brotoi, mortali. Viaggio che però, viventi noi, non ha fine.
Le aporetiche biforcazioni, dopo quella prima ed originaria dell’inizio, si vanno moltiplicando. Il Labirinto, lungi dal condurre ad una uscita, si ingarbuglia e complica sempre più. Tuttavia, nel contempo, disvela sempre nuove vie, sempre nuovi spazi, e così assume morfologie sì sempre più complesse, ma anche sempre più significanti. I significati costellano il mondo che così si struttura, e si riferiscono agli enti che lo compongono, come a ciò-che-è. Tuttavia i referenti , sono termini che, frutto del nostro pensare, astraggono dal vivere-pensando-andando, che non può consistere, terminare. E così l’inestinguibile necessità umana del filosofo di dar senso al mondo ed a sé-nel-mondo, lo costringe, nell’impossibilità di dar termine, al perenne filosofare. Nessun significato, nessun insieme di significati, per quanto vasto e profondo, può essere esaustivo, e così, conferendo senso perfetto, dar termine al sempre incompleto ed imperfetto dire. Nella sua insufficienza, il dire degli uomini costruisce dia-loghi, che nel presentarsi gli uni agli altri si scontrano disvelando le loro assenze, proprio nel ri-velare le verità che pur nel sempre avanti andare colgono. Sì, perché anche la più scombinata delle affermazioni verbali differisce dal nulla, e, non potendo appunto dire-il-nulla ( che non è pensabile umanamente in forma positiva, non può esser posto, poiché non-è) nel suo differire dice sempre qualcosa.
Ci sono però ed appunto, molti modi di dire-qualcosa. Nel Labirinto una delle vie maestre, che spesso ci si ritrova a percorrere filosofando, è proprio quella inaugurata dagli antichi saggi greci, ed illuminata dalle parole platoniche prima, e poi aristoteliche, che mostrano, rivelano, il pollachos dell’essere. Si produce così una duplice molteplicità: quella dei diversi registri mentali e linguistici nel rapportarsi agli enti del soggetto, e quella dei soggetti fra loro nel dialogo. Il Labirinto, così, oltre alle sue sempre crescenti, tentacolari vie, si riempie di soggetti che percorrendolo ora si incontrano (e talvolta scontrano) ora si allontanano (per talvolta perdersi). La fantasmagorica giostra senza soste non è, pur nell’effimero di ogni evento che vi si svolge, priva di direzione di fondo: essa è data dalla traccia che ognuno dei vissuti al suo interno lascia: e questa è la storia. Storia che nel suo inconcluso andare, talvolta sembra ripetersi, ma non è mai uguale. Ogni giro, breve o lungo che sia, che riporta al medesimo punto del Labirinto, lo ritrova comunque cambiato, perché ad ogni passaggio di ogni passante esso, pur medesimo, cambia, come ogni uomo, pur se stesso, muta e cresce nella vita. Talvolta anche decade. Nel vortice dei giri che il singolo e l’umanità intera compiono, il processo comunque continua. Continua fra quell’aporetico originario incipit e l’inevitabile fine, del singolo e dell’umanità, la cui presenza-assenza si dà nel tempo.
Dunque l’incipit del processo (logico-linguistico-filosofico) non è l’Arché, non è il Principio. Anche il discorso originario è, in quanto umano, imperfetto. Ed è di ciò segno proprio l’uso del tempo imperfetto nel verbalizzare l’Origine degli enti che troviamo in Aristotele: to ti en einai , ciò che era l’essere. Prima del tempo, che squaderna eventi collegabili dalla mente umana con inferenze più o meno forti. Prima del manifestarsi del mutevole caleidoscopio dei fenomeni. Ed è questo un primo salto, da un piano all’altro del Labirinto, che ne disvela dimensioni ulteriori: una profondità che ne esubera l’area, e dischiude a nuovi percorsi, frutto di un trascendere i limiti dell’orizzonte dato. I limiti però permangono, anche se dilatati: il viaggio continua sempre dentro il Labirinto, anche se vengono così conquistate nuove altezze, che permettono allo sguardo di penetrare più a fondo, e, per così dire, dietro agli enti, ed al loro apparirci, offrendo la possibilità di formulare più radicali domande ( e poi, cos’altro ha da fare il filosofo, se non questo?) e che riguardino non solo il perché di qualcosa, e il perché di ogni ente, ma anche il perché dell’intero, dell’Archè come ciò per cui e da cui il non-nulla.
2. II giro
2.1. To Ti En Einai (Aristotele)
To ti en einai, ciò-che-era-l’essere. En, era: tempo imperfetto, poiché l’imperfezione è propria del Tempo. E noi viaggiamo (viviamo) nel tempo; pensiamo e diciamo nel tempo.Ciò dischiude, a noi umani viventi, accanto all’inarrestabile movimento del presente divenire e allo sconfinato aprirsi del sopravveniente futuro, l’abisso insondabile del passato. Al pensarlo, Jean Paul si dice che svenisse. Ed è ben spaesante e fonte di vertigine gettare lo sguardo della mente in questa direzione, per l’uomo. Per quanto lo scandaglio sprofondi nel pozzo, non ne può toccare il fondo. L’imperfetto allude allora, nel suo andare a ritroso nel tempo, al fuori del Tempo: al Principio Primo. Esso può essere pensato, ma, come ha detto Anselmo d’Aosta (nelle spesso trascurate risposte a Gaunilone), come «ciò che è maggiore di ciò che la mente possa pensare».
E, poiché il dire umano discende e dipende dal pensare, di ciò bisogna o tacere, accettando l’invito wittgensteiniano, oppure ricorrere all’uso dell’allusione, dell’additamento, della metafora. O, appunto, come ha fatto Aristotele, adoperare in modo improprio il linguaggio verbale umano, e con l’imperfetto-dire quell’Oltre, che si può così denotare, ma, se lo si vuole connotare, ( e si è spinti a farlo da una forza incoercibile, anche nella filosofica consapevolezza della sproporzionata dimensione del compito, dell’abisso che, smisurato e incommensurabile, come Cusano ha mostrato, si apre fra finito ed infinito) si deve ricorrere all’altrettanto imperfetto ed improprio linguaggio analogico. E ciò non solo nel conato di dire il Principio Primo dell’intero, di dire ciò che umanamente balbettiamo da secoli come l’Uno, ma, se si è ben illuminato questo pur breve tratto del Labirinto, e si son ben visti i suoi corridoi e le pareti che infrangibili li delimitano, ciò vale per il pensare-dire di ogni ente, ogni singolo (proprio nella molteplicità del loro proporsi, manifestarsi) ente.
Ciò-che-da-sempre-era, la radicale origine, si pone alla mente umana come una necessità non solo per l’intero dell’essere , ma anche per ogni particolare non-nulla e che in qualsiasi modo si presenti all’esperienza. Se si vogliono radicare i fenomeni (ogni fenomeno) nel loro non-nulla che permette il loro apparire, si deve fare questo salto non fattibile, e porsi dinnanzi all’aporia che ci costituisce, che nel costituirci ci pone in contraddizione. Il nostro dire è possibile solo nel contra-dire. La dialettica, nel dire, se dimentica la sua aporetica limitatezza radicale, incorre nell’errore di credersi percorso assoluto, via unica ed efficace per uscire dal Labirinto. Se lo sa, può (deve) continuare invece a percorrerlo instancabilmente, come strumento privilegiato del proprio destino: quello di conferire senso (Sinngebung) all’itinerario che in esso si compie: alla vita.In questi meandri del Labirinto Cacciari si aggira con questa instancabile tenacia, e fin da anni remoti. Il tema continuamente ripreso della differenza è già presente e formato nei suoi tratti costitutivi fin dai suoi saggi dallo Steinhof, di cui riporto qui un passo( Dallo Steinhof, Adelphi, Milano, 1980, pp.53-54):
L’intento distruttivo [della dialettica] dimostra, alla radice, una differenza metafisica tra il logos-che-dice e il che-cosa-detto. Ma ciò finisce col rivolgere la dialettica contro se stessa: ne irrealizza la forma, disvelandone l’insuperabile distacco dall’in sé della cosa, sulla cui esaustiva comprensione si fonda, invece, il costruire-trasformare della Ratio. Nei termini delle «origini»: il Logos vuol dire un Altro da sé, un luogo: Aletheia, la cui forma contraddice spietatamente quella meramente ri-velante della dialettica. La Ratio typische aufbauend della «grande corrente» della Zivilisation non è che la straordinaria rimozione di questa originaria differenza metafisica. (….) La differenza stessa è per la sua dialettica segno di malattia.
Ma, introdotti in questi vani del Labirinto, esso appunto continua, e mostra nuovi varchi oltre le stanze così raggiunte, nuovi imbocchi verso ulteriori corridoi, promessa di possibili nuovi percorsi. Nuovi - vecchi, percorsi, perché sempre attorno si gira, e molti di qui sono già passati, ma, come sopra accennavamo, i luoghi non rimangono mai uguali, e ripercorrerli comporta sempre la conquista di vecchio-nuovi spazi, l’accumulo di nuove esperienze. Al di là delle molteplici singolarità di queste,si presenta la domanda radicale sull’intero, sulla sua Causa essendi e sulla coincidenza o meno dell’intero dell’esperienza con l’intero dell’essere (che, come bene ha detto E. Agazzi, deve essere argomentata dal filosofo a sostegno di entrambe le tesi). Accanto a Io e Mondo , si completa così la triade dei termini della metafisica occidentale, e Dio e la problematica teo-logica ne caratterizzano la storia. Ma, appunto, di teo-logia si tratta. Se, come abbiamo visto, e come Cacciari esemplarmente mostra nei suoi scritti, per ogni ente di cui si voglia dire il proprio pensiero, nel dirlo si ri-vela la differenza fra il logos-che-dice e il che- cosa- detto, l’in sé della cosa, e ciò vale anche (soprattutto, e l’invito antico del gnothi seauton ce lo rammemora) per se stessi, a tanto maggior ragione la differenza si impone per il discorso-su-Dio.
Il nostro discorso su Dio, il nostro argomentare intorno a Dio, è come ha detto C. Arata, un filosofico parlare de Deo (complemento di argomento), e non il parlare di-Dio (genitivo soggettivo). Ciò che forse è sfuggito ad Arata, è che, anche in questo caso, rimaniamo dentro il Labirinto, e nessuna umana intuizione può portarci fuori, e, se Dio-non-parla (ma, se lo fa, questa è Rivelazione, e non filosofia, e chi ascolta e dice è profeta, e non filosofo) ciò che echeggia fra le pareti labirintiche è voce umana filosofica, e sempre de Deo. Consapevoli di ciò, possiamo però, come per i precedenti casi, continuare i nostri giri nel Labirinto, e, anzi, siamo costretti a farlo.
3. III giro
3.1. De Deo (C. Arata)
Dio, o l’Origine. L’Uno, l’Assoluto, l’Incondizionato, …. e tanti ancora sono i nomi filosofici di Dio. Ne discendono argomentazioni di diverso registro e tono, ma il tema è sempre quello che qui si è voluto nominare de Deo.Nomi filosofici, appunto, e non nomi rivelati.
Detto questo, ci si può inoltrare nel terzo giro. Sempre attenti a non diventare, come Loewith ha detto bene di Hegel, profeti alla rovescia, dimenticando i limiti della nostra mente umana, che permangono anche nella più radicale attitudine filosofica. Il che non esclude affatto che si possa (si debba) partire da un’intuizione . Ma, quella del filosofo, è pur sempre un’intuizione umana. E’ principio-di- pensieri e non Principio-del-che-è , nemmeno del più insignificante degli enti. Un apice della teoria, come ci ha insegnato Nicolò da Cusa, è imprescindibile, necessario luogo da cui muovere lo sguardo sullo spettacolo del mondo; punto indecifrabile, non collocabile nello spazio esterno, ma da cui si svela all’uomo la prospettiva di questo mondo, e grazie alla quale, nell’immensa meraviglia che ogni apparire del non-nulla, e per essa, da essa mossi, fiorisce la domanda sul grande perché, sull’Incondizionato, che deve esserci dacché tale fiore sia sbocciato.
Il thauma che scuote la mente vivente in ogni sua esperienza vitale, rimanda a questo interrogarsi, a questo chiedere la Ragione. Thauma che il vero filosofo vive con tale terribile forza, da non poter non cogliere la necessità che la sua Fonte sia Altro-da-sé, pur sgorgando dal più intimo di sé. Non la assolutizzazione della Ratio, frutto di un suo umano illusorio costruire da se stesso, che pretende di darsi ragione del che-è in ogni suo proporsi e nell’intero del suo proporsi, dunque, è la risposta adeguata alla scossa della torpedine che attiva il chiedere, ma la consapevolezza della propria umana condizione , che come tale, per poter esercitare qualsiasi atto vitale e mentale, e dunque anche il filosofico, deve presupporre l’Incondizionato. E per non cadere fin da subito in un’ auto contraddizione, che obbligherebbe la mente al silenzio, da qui deve prendere le mosse per il suo dire, che è un dis-correre.L’Incondizionato, la Fonte, come tale trascende il pensare-dire umano, e, anche se con questi ed altri nomi è denotata, poiché solo per questa via questa nostra dipendenza dalla Trascendenza è comunicabile, rimane avvolta da un superiore Silenzio, che niente ha a che fare con lo scacco che il dire-umano incontra se, non presupponendola, si fonda supponente in se stesso.
Un itinerario quasi parallelo nel Labirinto (una sorta di canone inverso, per usare il linguaggio della musica), è percorso da Cacciari, ma, come vedremo, da questo separato da un sottile diaframma, cosicché porta ad esiti in parte diversi ( in diversi spazi del Labirinto, beninteso, non all’uscita).
4. IV giro
4.1. La molteplice trascendenza, Pollachos legetai to on (Aristotele)
Ed ogni esito è frutto di un trascendimento posto in atto dal pensare-dire umano, e dal commercio verbale che fra gli uomini permette l’apertura al dia-logo. Il sempre oltre andare dentro il Labirinto, con-dividendo le diverse prospettive, che per l’essere-situati di ciascuno divergono, e, pur nel loro divergere comunicano, promuove un dialogo che sempre va innanzi, costruendo la storia del nostro umano pensare: in un continuo trascendersi. La trascendenza, frutto dell’umano pensare-dire-comunicare, è dunque molteplice.Alla molteplicità della trascendenza operata dal pensare-dire –comunicare non può non corrispondere la molteplicità dell’apparire degli enti (non dimentichiamo che da lì abbiamo mosso i primi passi in questo Labirinto). E lungo questo itinerario ritroviamo Cacciari, che, nel riprendere le riflessioni del neo-platonismo, dice che, spinti dal thauma originante il necessario dis-correre, ci si trova a percorrere «il cerchio infinito che avvolge l’essente (p. 103)» e a predicare l’essente come unum.
L’unum e i molti si toccano così in ogni punto che chiude l’infinito (apeiron) anello. Ma Cacciari vi giunge dicendo che unum non va inteso nel «senso generale e astratto che suona in to einai, ma nel senso dell’infondabile, impredicabile singolarità del tode ti, anzi: del to ti en einai; qui sta il fondo e, ad un tempo, il cerchio infinito che avvolge l’essente(p. 103).» Il fondo impredicabile dell’ente, però, nel proporre alla mente la sua inattingibile realtà, non spinge a compiere con necessità anche il salto al fondo, sì altrettanto infondabile e impredicabile, ma altrettanto proprio perciò reale, generale e astratto dai particolari, dell’Unum?
Certo, l’einai, l’essere, è, nella mente raziocinante, frutto di astrazione da to on, dall’ente; ma l’ente, il to de ti, è davvero il primum fra le presenze che si propongono all’esperienza frutto degli umani vissuti? O non presuppone piuttosto il presentarsi dell’intero, di un mondo? Non viene innanzitutto (primum quoad nos, quanto meno) mondificato un mondo, fin dal più originario Erlebniss vitale di ogni essere umano? E non rimanda esso ad un fondo infondabile e impredicabile, ma proprio perciò reale? Alla Trascendenza? All’Unum? Sembra che, nonché al neonato, già al feto, prima di nascere, si presenti un intero-indifferenziato-che-è, in cui io e mondo non sono distinti, e questo intero non può che galleggiare sul mare infinito ed avvolgente del en, dell’era di se stesso.Unum, proteron fusei, oltre che pros emas, prima ancora dell’unum, che solo così può far emergere l’ente nell’umana esperienza cognitiva. Da un più profondo e sommerso fondale emerge innanzitutto un intero, che è, poi, alla luce della mente matura, frazionabile in un mondo-di-enti distinti (e ciascun ente è unum) tra cui l’ente-soggetto-che-mondifica, distinto ed unico, ma pur sempre in questo mondo di enti situato.
Allora, quando la mente giunge al filosofico, prima ancora di porsi la domanda sull’era dell’ente, dovrebbe, sempre consapevole che il suo è un filosofico dire de Deo, interrogarsi sull’era dell’intero. Il pro-blema della diade fenomeno-noumeno è a questa domanda conseguente, e, pertanto, tale domanda risulta essere, pur nella sua profonda portata filosofica, meno radicale. Il pro-blema dell’intero, nel suo proporsi alla mente umana solo nel suo sviluppo pienamente maturo, e, in molti casi, mai, non inficia la sua priorità sul piano della radicalità filosofica. Si tratta, certo, di non confondere innanzitutto i trascendimenti posti in atto dal diairetico procedere del vivente-pensare-dire degli umani, con l’additamento dell’indicibile trascendenza. Ma poi, di attingere anche la necessità di pos-porre anche queste molteplici, indicibili trascendenze, l’era di ogni ente, all’era dell’ancor più indicibile Trascendenza. Ed è così questa, che si pro-pone come Primum, come Unum, da cui de-ducere dis-correndo tutto il resto.
L’itinerario che nella vita la mente spinge a per-correre nel suo dis-correre ,è, per così dire, un moto contrario(ancora un’immagine tolta dalla musica…) rispetto a quello che la vita percorre dal suo emergere dall’era proprio di ciascuno. E ciò ci porta a ribadire il nostro perpetuo andare sempre dentro al Labirinto, in questa vita. Ci porta anche ad orientarci verso nuove mete, nel Labirinto.
5. V giro
5.1. Il centro del Labirinto, Noli foras ire ( S.Agostino)
Si impone a questo punto un nuovo modo di viaggiare, un nuovo orientamento. La ricerca dell’uscita dal Labirinto, deve essere sostituita dal cammino verso il centro. Verso il centro, anch’esso, come il fuori, inattingibile, ma indefinitamente avvicinabile. Noli foras ire, in interiore homine habitat veritas. Veritas: coincidenza di realtà e conoscenza. Non si esce dal Labirinto, e cioè né dall’unicum-sempre-situato che siamo in questa vita, né dal mondo(i mondi) mondificato in cui viviamo.
L’inattingibile punto di perfetta coincidenza di realtà e conoscenza è dentro: è il centro del Labirinto. Centro solo avvicinabile, asintoticamente approssimabile, e mai luogo di possibile possesso, di raggiunta consistenza. Ed è ovvio che sia così: il Labirinto è apeiron, e l’infinito non ha un centro. Si può solo andare-verso-il –centro,vivendo questa vita. Il viaggio verso il centro del Labirinto è la scelta di vita del filosofo autentico, ed il suo andare è il filosofare-perenne. E’ il destino della filosofia, oltre che del singolo filosofo, e dell’istoriarsi dei suoi segni sui muri e sul lastrico del Labirinto, la sua storiografia.
Le vie che così continuamente si vanno edificando formano figure labirintiche sempre nuove. Al loro interno si possono però distinguere vicoli ciechi, strade senza sbocco ulteriore, e cerchi e spirali sempre aperte all’andare, promessa del dischiudersi di sempre nuovi orizzonti. Molte, le prime, e, soprattutto di questi tempi, imboccate da chi, negando l’evidenza dell’errore di percorso, parla di fine della storia, di fine della filosofia. Esistono, fortunatamente, anche le altre, che, scelte da coloro che, tornando senza posa a rinnovare i sempre nuovi antichi percorsi, continuano a svolgere le loro spire in-terminabili, sospese fra l’apeiron del Labirinto e il periechon che lo avvolge: aspetti complementari ed inscindibili della Trascendenza che permea di Sé il dentro e il fuori, e che, pur sfuggendo alla presa, sempre ed ogni dove fa cenno.
E, tutti gli innumerevoli anelli che l’uomo traccia nelle innumerevoli vie del Labirinto delle innumerevoli vite, se non imboccano vicoli ciechi, anche se non trovano sbocco e centro, tuttavia tutti, in diversi modi, per differenti itinerari, levigando per così dire le pareti dei corridoi che incessantemente percorrendo consumano, lasciano alla fine trasparire una qualche luce al di là di esse, segno appunto di una comune Trascendenza, di una«Luce alla cui luce vediamo la luce»(cfr. salmo 36 (35), e il commento di Agostino). E così anche Cacciari, pur nel suo ruotare in senso inverso rispetto a quello qui tentato, e partendo dunque dalla domanda sulla cosa («esiste un nome che dica, o almeno indichi, la cosa sub specie aeternitatis? (p. 340)») giunge poi a trascendere il problema del suo indicibile kath’auto, per immergerlo nella luce dell’Agathon, ed a porre così la domanda sulla conoscenza e predicabilità in generale dei phainomena, e «cioè interrogarci sul perché della loro stessa luce (p. 342, e frase conclusiva dell’opera) ».
Ed è, questa luce, non solo la luce di ogni cosa, ma, appunto, è luce che spinge alla per noi ulteriore, ma in sé prima domanda, sulla Luce alla cui luce vediamo la luce. In questa Luce-Agathon si incontrano, forse, questi labirintici percorsi.Non come in un punto di arrivo consistente, ovviamente, ma per ancora andare. E, se finché c’è vita l’andare non può mai trovare con-clusione, piace invece concludere questo scritto, proprio perché il viaggio (di questa vita) non può che continuare, con un pensiero di mons. Crepaldi, che bene illustra il nostro più profondo di-lemma, che non è solo antitesi linguistica, ma di vitale orientamento: nel nostro inevitabile vivere andando ed andare vivendo, possiamo(dobbiamo) scegliere fra essere vagabondi o essere pellegrini.