1. Gesù e il vangelo della paternità di Dio
Come noto, il kérygma originario di Gesù è quello del Regno di Dio (cf. Mc 1,14-15). Annunciandone l’avvento, egli annuncia la venuta in mezzo agli uomini del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, di Mosé e dei profeti. È il Dio, insieme, dell’onnipotenza e della misericordia, il Dio che opera la salvezza e la liberazione dell’umanità. Per questo, l’avvento del Regno di Dio è un avvenimento di gioia, perché compie la promessa da cui è nato e di cui è vissuto lungo i secoli Israele: è, appunto, «vangelo», buona notizia.
Ma dobbiamo subito porci una domanda: quale rapporto c’è tra Gesù annunciatore dell’avvento del Regno e Dio stesso? Il che c’invita ad andare al cuore dell’annuncio di Gesù e della sua prassi, e a scoprire che il loro centro e il loro motore propulsore è precisamente il suo rapporto con Dio, conosciuto e rivelato come Padre.1 Il Dio che viene è, prima di tutto, il Padre di Gesù di Nazareth. Questo ci viene attestato, come in un luogo privilegiato, dalla preghiera di Gesù. Matteo e Luca ce ne riportano una, densa di significato e rivelatrice:
In quello stesso istante, Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, oh Padre, perché così a te è piaciuto. Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Lc 10,21-22; cf. Mt 11,25-27).
Questo testo, passato al vaglio di un’attenta analisi esegetica, appare risalire certamente, nella sua sostanza, al Gesù pre-pasquale, anche se alcuni esegeti hanno sostenuto che si tratterebbe di un «meteorite giovanneo» caduto nella tradizione sinottica. In realtà, si tratta di un testo molto importante (il Lagrange lo definisce la «perla più preziosa» del vangelo di Matteo), perché ci mostra che il cuore dell’esperienza di Gesù è il suo rapporto col Padre, l’intimità di una comunicazione piena e permanente con lui: una realtà che fa da filo conduttore di tutta la contemplazione dell’evento di Gesù Cristo contenuta nel quarto Vangelo. Se ci si chiedesse qual è il motivo per cui Gesù ha iniziato a predicare e qual è la forza interiore del suo messaggio e del suo ministero messianico, bisognerebbe perciò rispondere, senza tentennamenti, che è il suo rapporto col Padre. Anzi, questa preghiera ci dice non solo che Gesù muove — in tutto ciò che fa e dice — da questo rapporto di comunione intima con Dio, di cui ha coscienza d’essere l’Inviato, ma anche che egli vede il suo ministero come la trasmissione e la partecipazione agli altri di questo rapporto.
Senz’entrare nei dettagli circa l’uso che Gesù fa del termine Padre nelle differenti tradizioni evangeliche, è fondamentale sottolineare, almeno, l’importanza della forma aramaica Abbà, che — come noto — ricorre testualmente nel Vangelo di Marco (14,36) e in Paolo (Rom 8,15; Gal 4,6). Abbà significa Padre in un senso di profonda familiarità che non toglie il rispetto a Dio, quasi riducendolo alla propria portata: dice, invece, gratitudine assoluta verso di lui, totale e fiducioso abbandono al suo volere, e, insieme, libertà e responsabilità di un rapporto nutrito d’intima comunione. È vero che vi sono alcuni casi attestati dalla tradizione rabbinica dove questo termine viene usato in riferimento a Dio, ma in modo saltuario, mentre in Gesù diventa centrale e viene caricato della novità della sua singolare esperienza.2
Altri luoghi privilegiati della rivelazione del rapporto di Gesù col Padre sono il battesimo e la trasfigurazione, due avvenimenti in cui Gesù mostra una coscienza esplicita del suo rapporto con Dio/Abbà e ce ne manifesta il contenuto. All’avvenimento del battesimo la tradizione evangelica annette un’importanza particolarissima (cf. Mc 1,9-11 e parr.). Infatti, questo gesto, con cui Gesù inaugura il suo ministero, è la prima testimonianza della sua «scelta messianica» e, di conseguenza, dell’autocoscienza della missione affidatagli da Dio. Da un lato, Gesù sceglie decisamente la via del «Servo di YHWH» tracciata dal Deutero-Isaia: quella della solidarietà, spinta sino al sacrificio di sé, con tutti e — si direbbe oggi — con un’opzione preferenziale per gli ultimi. Dall’altra, i Vangeli inquadrano l’avvenimento del battesimo nel contesto di una teofania: i cieli aperti, Dio che si compiace del suo «eletto», la consacrazione dello Spirito.
Un episodio che si pone idealmente a mezza strada tra la scena battesimale e la condanna a morte e la crocifissione di Gesù è la trasfigurazione (cf., ad es., Lc 9,28-36). Su di esso, certamente, è già proiettata la luce della pasqua, ma è tuttavia fondato ritenere che la narrazione sinottica trascriva una reale esperienza di Gesù. Si tratta probabilmente di una preghiera notturna (come in Lc 6,12 e 22,39ss). Gesù è in stato di preghiera, è come trasferito nell’Abbà. È in quest’atto che «cambia d’aspetto», ed è trasfigurato di «gloria» (kabód in ebraico, dóxa in greco). Ed è questa «gloria» che i tre apostoli possono contemplare sul volto di Cristo, insieme a Mosè ed Elia, la legge e i profeti; proprio Mosè, che desiderò contemplare la «gloria» di Dio, ma ottenne di scorgerla solo di spalle (Es 33,18.23); ed Elia che fu rapito in un carro di fuoco verso l’Altissimo. Per gli apostoli è l’esperienza della bellezza (kalón estin): hanno trovato la dimora del loro esistere nello spazio del rapporto tra il Padre e il Figlio.
Ma mentre Gesù parla con Mosè ed Elia del «suo esodo», che deve compiersi in Gerusalemme, Pietro e gli apostoli vogliono catturare la presenza della gloria, facendo tre tende. Non possono ancora sapere che la tenda ormai è una sola, «più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo» (Eb 9,11): il corpo stesso di Cristo offerto sulla croce al Padre (cf. Eb 10,5). Questo il significato della nube che li avvolge. Anch’essa è segno della «gloria» di Dio — come nell’Antico Testamento, nell’esodo e nella dedicazione del tempio: «La rivelazione di Dio si svela velandosi e si vela svelandosi, come la sua potenza si fa efficace svuotandosi e il suo amore si salva perdendosi».3 Così, mentre una voce dalla nube, come nel battesimo, proclama la figliolanza di Gesù — «Questi è il Figlio mio, l’Eletto. Ascoltatelo!» (v. 35) —, Gesù resta solo. La preghiera, spazio della trasfigurazione come reciproca inabitazione del Padre nel Figlio e del Figlio nel Padre, cambia timbro, si orienta verso la preghiera del Getsemani e il grido di solitudine della croce. Ma la sua natura profonda è la stessa.
In questi, ed altri luoghi privilegiati dell’esperienza di Gesù, che non è qui possibile prendere distintamente in esame, vengono in evidenza alcune fondamentali caratteristiche del rapporto tra lui e il Padre: si tratta di un rapporto d’intimità e confidenza illimitata, anzi di mutua e misteriosa in-esistenza reciproca; di un rapporto singolare, unico ed escatologicamente definitivo; eppure, attraverso l’esistenza del Cristo e il suo ministero messianico, di un rapporto che vuol essere a tutti partecipato, senza distinzioni.
Dio, infatti, non è solo il Padre di Gesù, in modo unico e singolare, ma si rivela anche, in lui, come il Padre che accoglie tutti, a cominciare dagli ultimi e dai lontani. L’annuncio della paternità di Dio è fatto da Gesù ai poveri (beatitudini) e ai peccatori (Lc 15: le parabole della misericordia); nella sua prassi, Gesù si fa prossimo degli ultimi (la parabola del buon samaritano, ad esempio, descrive l’atteggiamento fondamentale dell’esistenza di Gesù) e siede a mensa coi peccatori (si ricordi l’incontro con la peccatrice, Lc 7,36-50, e quello con Zaccheo, Lc 19,1-10).
Due sottolineature mi sembra essenziale proporre in proposito. Innanzitutto, quale senso ha il privilegiare gli ultimi da parte di Dio Padre? La risposta non è difficile. La paternità di Dio è certamente universale, ma tale si manifesta proprio perché privilegia gli ultimi. Basti pensare a una madre che ha tanti figli: li ama tutti allo stesso modo; ma se ce n’è uno che — per qualunque motivo — ha bisogno, lo amerà certamente di più. Si capisce così l’atteggiamento di Dio: «Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,7). Una seconda caratteristica: la paternità di Dio è sovrabbondante e gratuita, va cioè al di là dei meriti, presunti o reali, della creatura. Come dice Lutero, l’amore di Dio non si rivolge verso un oggetto degno d’essere amato, ma piuttosto crea la bellezza dell’oggetto che ama.4
Dio, dunque, fa sentire con ineguagliabile forza e novità, attraverso il messaggio e l’azione di Gesù, che l’uomo non è solo, ma è nelle mani di un Padre. Basti ricordare alcuni passi dei capp. 6, 7 e 10 del Vangelo di Matteo, che si presentano come una vera magna charta della paternità di Dio.
Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? …
E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio che veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? … Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno (6,25-26.28-29.32).
Se voi che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliene domandano (7,11).
Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia. Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati; non abbiate dunque timore: voi valete più di molti passeri! (10,29-31).
La paternità di Dio che Gesù rivela è dunque universale ed è al tempo stesso personalizzante: nel senso che tocca ogni singola persona umana nella sua concreta condizione. Ma — nonostante questo, o meglio proprio per questo — non bisogna pensare che colui che Gesù rivela e testimonia sia un Dio paternalistico. Dio è un Padre che invita alla responsabilità, promuove la libertà e suscita la capacità di rischiare per il bene. Questa, ad esempio, è l’immagine che scaturisce dalla parabola dei talenti (cf. Mt 25,14-30). L’atteggiamento dell’uomo verso Dio, non può più essere, da una parte, la paura che paralizza; né, dall’altra, di fronte alla sua bontà e misericordia, il disimpegno o il pietismo. Certamente, Dio è Padre che perdona e reintegra il «figliol prodigo» nella sua originaria situazione di comunione con Sé; ma solo quando si è riconosciuto il proprio sbaglio e la propria miseria, Dio offre a ciascuno la grazia d’essere accolto di nuovo, e pienamente, come figlio: si tratta d’una grazia che — come scrive D. Bonhoeffer —, pur essendo come tale gratuita, non è mai «a buon mercato».
L’intera esistenza di Gesù testimonia, dunque, la qualità peculiare della paternità di Dio. Ma è nell’episodio del Getsemani (cf. Mt 26,36-46 e parr.) come preludio della passione e morte, che essa diventa luogo rivelativo culminante — nella paradossalità dell’evento che sta per accadere — della paternità non paternalistica dell’Abbà. Gesù sperimenta la solitudine, l’angoscia, la durezza di dover adeguare la propria volontà alla volontà del Padre. Questa decisiva caratteristica dell’Abbà ci spinge a puntare lo sguardo all’evento della croce. Ed è qui che si colloca il primo approfondimento che vorrei proporre: che ne è dell’annuncio e dell’esperienza di Dio come Abbà di fronte al grido di Giobbe, di fronte cioè al dolore del mondo? e di fronte alla morte di croce di Gesù, suo Figlio?
2. La paternità di Dio, il grido di Giobbe e l’abbandono del Cristo
Giobbe prese a parlare dicendo: Ho sentito molti discorsi come codesti; consolatori molesti siete tutti voi. Avranno fine le parole vane? (Gb 16,1-3a)
Questo dire di Giobbe, rivolto agli amici che con petulante compassione vogliono consolarlo del suo soffrire giustificando l’agire di Dio nei suoi confronti, ispira il titolo che Andrea Poma ha scelto per la sua recente lettura di uno dei libri più sviscerati della Sacra Scrittura.5 Da attento studioso, qual è, di Immanuel Kant col suo discriminante scritto Sull’insuccesso di ogni saggio filosofico di teodicea,6 e con la consapevolezza critica che da ciò gli deriva intorno all’eterno eppure sempre nuovo interrogativo sulla sofferenza, Poma ripropone la domanda di Giobbe: «Avranno fine le parole vane?». Quelle filosofiche, certo, ma anche quelle religiose o presunte tali che a tutti i costi vogliono spiattellare dall’esterno, introducendo sulla scena un improbabile deus ex machina, una risposta preconfezionata a chi, dal di dentro dell’inferno del dolore, grida: «perché?».
Eppure c’è una parola che, per il suono che ha e per il soggetto che la pronuncia, pretende risuonare non vana di fronte al dolore del mondo e di ciascuno che in esso vive. È, appunto, la parola «Padre», «Abbà». Per penetrarne l’autentico e definitivo significato occorre però metterla in rapporto con un’altra parola di Gesù, che ad essa può sembrare addirittura contraddittoria: la parola della croce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?» (Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?). Non è un caso che entrambe ci siano testimoniate in aramaico dal vangelo di Marco. La prima, al Getsémani. La seconda, al culmine della prova della croce.
In questo spazio drammatico sono portate alla loro massima intensità espressiva due esperienze universalmente umane: da un lato, quella dell’intuizione e del riconoscimento di un Dio ch’è atteso e che si rivela appunto — al di là d’ogni attesa — come Padre; dall’altro, quella d’una sofferenza così intensa, così totalizzante e così apparentemente priva di senso che non può non gettare l’ombra dell’interrogativo più lacerante sulla prima. Per la fede cristiana, tale intensità trova luce nell’identità paradossale, proprio così rivelata, che mostra in Gesù Cristo il Figlio di Dio fatto carne. L’evangelista Marco, con sapiente inclusione, pone a sigillo di questa duplice parola la confessione del centurione che sta di fronte al Crocifisso e che lo vede spirare a quel modo: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!» (15,39). Così, e solo così, s’accende e s’alimenta la fede nel «vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio» — enunciata sin dal primo versetto dell’opera marciana.
Per illuminare l’impatto di quest’esperienza drammatica della paternità di Dio fatta dal Crocifisso nel contesto culturale e spirituale del nostro tempo segnato dal secolarismo e dalla tentazione nichilista, è necessario richiamarsi, sia pure succintamente, alla parabola della modernità circa la questione del rapporto tra Dio e il male del mondo. Da un lato, abbiamo assistito alla critica e alla crisi di un modello di «teodicea» — filosofica ed anche teologica — che ha trovato la sua massima affermazione «nel punto di confluenza tra la tradizione del linguaggio religioso, assertivo dell’onnipotenza, della bontà e della giustizia del Dio creatore del mondo, e quella del linguaggio del logos e della sua cogenza sistematica, portatrice di un’istanza forte e radicale all’integrale intelligibilità dell’ordine del mondo».7 Dall’altro, abbiamo assistito anche alla catastrofe delle «antropodicee» ideologiche e prassistiche che, fallita la giustificazione puramente razionale di Dio, ne hanno addossato l’onere ai progetti intrastorici dell’uomo. Si tratta di una catastrofe che ha profondamente segnato la nostra epoca e che alla fine, spesso, ha indotto «a cancellare insieme al problema di Dio anche quello del male, a mettere a tacere insieme alla questione del fondamento e del senso, ogni tormento per il male nel mondo».8 Tale eventualità, nell’orizzonte del nichilismo contemporaneo, «sembra talvolta assumere i connotati, il vigore e l’ovvietà del senso comune».9
Di fronte a questa duplice crisi, che sembra rigettare l’umanità in una disillusa e angosciante orfanezza, la fede e la teologia cristiana si sentono rinviate con forza alla sorgente della loro originalità. Esse non possono non condividere l’affermazione di Paul Ricœur, secondo cui la questione del male e della sofferenza dev’essere oggi accolta non «come un invito a pensare meno», ma come «una provocazione a pensare di più, addirittura a pensare altrimenti».10 Come già accennato, l’orizzonte entro cui si colloca l’interrogativo che nasce dalla sofferenza e che di qui si rivolge a Dio, è infatti, teologicamente, quello della relazione tra il Figlio fatto carne e Dio/Abbà. Tale è l’orizzonte, ad esempio, entro cui si muove la penetrante meditazione teologica sul «senso cristiano della sofferenza umana», che Giovanni Paolo II ci ha proposto nella lettera apostolica Salvifici doloris (1984).
È impossibile esaminare qui i molteplici aspetti concernenti il nostro tema che sono rinvenibili nel kérygma e nel ministero messianico di Gesù di Nazareth. Basti dire che il suo annuncio della paternità di Dio/Abbà per sé si presenta e si realizza come promessa di liberazione integrale dalle varie forme di sofferenza che affettano l’esistenza umana. E ciò a partire dalla liberazione del cuore della persona dal peccato come relazione distorta con Dio, che si rovescia in relazione distorta col prossimo, a livello personale e sociale. Anche se Gesù è consapevole che non tutte le sofferenze di cui l’umanità è preda sono frutto del peccato del singolo e di quel «peccato del mondo» che su di essa grava (quello che la tradizione cristiana chiamerà «peccato originale»). Si ricordi, per un esempio, l’episodio del cieco nato (Gv 9,1ss), dove Gesù afferma con autorità che «né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio»; e il riferimento di Gesù a quei galilei il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici e a quei diciotto sui quali rovinò la torre di Siloe e li uccise (Lc 13,1-15).
La sofferenza, dunque, è realtà che trascende la responsabilità personale del singolo e, in solido, quella dell’umanità, anche se in parte (forse in buona parte) è anche ad essa ascrivibile. Anzi essa, proprio in quanto interpella la persona umana in ciò che più intimamente la tocca, è al tempo stesso collegata alla manifestazione dell’opera escatologica di Dio Padre, a favore dell’umanità e della creazione intera, che si attua in Gesù Cristo. In questo senso preciso, è l’evento pasquale di Gesù Cristo a offrire, da parte di Dio/Abbà, la parola senza parole, o — meglio — al di là delle parole, sulla sofferenza del figlio dell’uomo che è il Figlio di Dio. Per chi soffre non v’è parola piovuta dall’alto o calata dall’esterno che possa valere. Nel Figlio fatto carne è Dio stesso che intesse con lui un dialogo muto d’amore, spinto sino all’identificazione.
«La risposta — scrive Giovanni Paolo II — emerge dalla stessa materia, di cui è costituita la domanda» (Salvifici doloris, 18). Il «perché?» dell’umana sofferenza trova eco nel «perché» del Crocifisso, anzi in questo grido viene raccolto, ricapitolato, trasformato in atto di fede e di amore: amore del Padre, che «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16); e amore del Figlio fatto carne che dà se stesso per noi e vive la prova, umanamente inesprimibile, della croce e dell’abbandono, riabbandonandosi nella fede all’Abbà. Dio/Abbà, in Cristo, fa suo il dolore del mondo. Il «chi vede me, vede il Padre» (cf. Gv 14,9) detto da Gesù all’apostolo Filippo vale anche sulla croce, vale anche per il grido dell’abbandono. È Dio/Abbà, in definitiva, che fa suo il perché dell’umanità che risuona nel grido del Crocifisso.
Resta il mistero del silenzio del Padre nel momento della croce e dell’abbandono del Figlio. Ma in quale modo egli, il Padre, avrebbe potuto far suo realmente, nel Figlio, il dolore del mondo, se non lasciando che il Figlio bevesse sino in fondo il calice della passione? Proprio così mostrando e realizzando, anche come uomo, un amore grande come quello del Padre? Inoltre, è proprio giungendo a questo colmo di sofferenza che si consuma nel suo morire, che il Figlio, consegnandosi al Padre, è riconsegnato dal Padre, nella forza dello Spirito, alla vita nuova e piena della resurrezione. Come s’esprime — con efficace paradosso — la mistica cristiana, l’amore del Padre, che accoglie nelle sue braccia il Figlio crocifisso e lo risuscita nella forza dello Spirito, è ciò che «addolora il dolore», ciò che lo sgretola dal suo interno, e così lo trasforma anch’esso in amore nell’energia vivificante dello Spirito.
Su tutto ciò — ripeto — la teologia contemporanea ha percorso importanti sentieri di riflessione. Anche se restano ancora aperte molte questioni. Accenno soltanto a due tra di esse. Una prima questione reduplica dall’interno, per così dire, il «perché» della sofferenza. È quella della sofferenza che, umanamente, non sembra possibile assumere creativamente. La sofferenza inerme dei bambini, quella — quanto inconsapevole? — dei disabili psichici, quella di chi vi è coinvolto in forma repentina e senza quasi la possibilità di prenderne anche solo coscienza … È questa una forma e una qualità di sofferenza che inquieta soprattutto l’animo moderno — da Dostoevskij a Pareyson11 —, resosi così sensibile alla dignità e irripetibilità della singola esistenza umana. In tutti questi casi, la risposta al soffrire che viene dall’amore di Dio/Abbà per ogni singolo suo figlio, e che ci è dischiusa al culmine dal Crocifisso, sembra naufragare contro l’innocente inconsapevolezza, così come contro l’impotenza a com-patire attivamente. Tutto ciò ribadisce ancora una volta la qualità di mistero che intrinsecamente inerisce all’esperienza umana della sofferenza. Essa ci trascende, e ci trascende anche la risposta che ad essa viene da Dio/Abbà, data una volta per sempre e in modo sempre nuovo in Cristo Crocifisso e Risorto. Alla fine, è solo nella Luce inaccessibile (cf. 1Tm 6,16) dell’amore di Dio che sa trarre l’essere anche dal non-essere (cf. Rom 4,17) e che «supera ogni conoscenza» (cf. Ef 3,19), che trova pace anche ciò che ai nostri occhi continua a restare oscuro e irrisolubile.
Una seconda, formidabile questione: la risposta al dolore del mondo non è forse il dolore di Dio stesso? Si tratta del tentativo di prendere sul serio l’affermazione dogmatica secondo cui in Cristo Gesù «unus de Trinitate passus est».12 In realtà, il soggetto d’attribuzione della sofferenza e dell’abbandono patiti in croce non è semplicemente — per usare il linguaggio della grande tradizione, che è unanime in proposito — la natura umana di Cristo, ma la persona del Figlio di Dio fatto carne. Il che viene a significare — come hanno sottolineato autorevoli teologi, come H.U. von Balthasar, rivisitando l’insegnamento dei Padri e dei mistici — che nell’essere personale di Dio stesso v’è la possibilità d’assumere creativamente, nel segno dell’amore, ciò che la persona umana sperimenta come sofferenza.
Ma che cosa significa quest’evento — l’incarnazione spinta sino alla passione e morte — per il Padre? Non foss’altro che per la relazione d’intima inabitazione reciproca (pericoresi) che lega dinamicamente, nell’unità delle relazioni reciproche, le tre divine Persone, che sono uno secondo l’unità della natura? Personalmente non mi convincono, mi lasciano anzi perplesso quelle proposte che, facendo leva sul pathos della compagnia di Dio con l’umanità, parlano senza pudore e senza distinzioni del dolore di Dio, attribuendolo anche al Padre, sia pure in modo poetico e allusivo. Mi paiono più responsabilmente praticabili quei sentieri che, mantenendosi nell’ottica d’un creativo ripensamento dell’ontologia di Dio Trinità elaborata dalla tradizione teologica, non temono d’assumere come «impegno primario della teologia» — cito la Fides et ratio (n. 93) — «l’intelligenza della kenosi di Dio» (n. 93). Come ha fatto, ad esempio, Jacques Maritain, negli ultimi anni della sua vita, riproponendo l’insegnamento di S. Tommaso sulla misericordia e ispirandosi alle profonde intuizioni spirituali della moglie Raïssa. Maritain scandaglia, con timore e tremore, «l’inevitabile e temibile enigma … del dolore che è contemporaneamente un segno della nostra miseria (e dunque non attribuibile a Dio) e una nobiltà in noi incomparabilmente feconda e preziosa (di cui in conseguenza sembra impossibile non cercare in Dio qualche misterioso esemplare)».13 E giunge a parlare d’una «misteriosa perfezione che è in Dio l’esemplare innominato della sofferenza in noi»: esso «fa parte integrante della beatitudine divina» ed è «pace perfetta ma esultante all’infinito al di sopra dell’umanamente comprensibile, e brucia nelle sue fiamme l’apparentemente inconciliabile per noi».14 Tali acquisizioni restano un punto di non ritorno per un pensiero cristiano non negligente. E un invito a proseguire il cammino. Scrive Giovanni Paolo II:
La concezione di Dio, come essere necessariamente perfettissimo, esclude certamente da Dio ogni dolore, derivante da carenze o ferite. … . Ma il libro sacro ci parla di un Padre, che prova compassione per l’uomo, quasi condividendo il suo dolore. In definitiva, questo imperscrutabile e indicibile «dolore» di Padre genererà soprattutto la mirabile economia dell’amore redentivo in Gesù Cristo, affinché per mezzo del mistero della pietà, nella storia dell’uomo, l’amore possa rivelarsi più forte del peccato. Perché prevalga il «dono» (Dominum et vivificantem, 39).
3. «Un solo Dio e Padre di tutti» e l’incontro tra le religioni monoteiste
Un secondo, più rapido approfondimento che vorrei proporre concerne l’impegno per il dialogo tra le religioni monoteiste, che scaturisce per i cristiani — cito la lettera agli Efesini — dalla fede in «un solo Dio e Padre di tutti» (4,6). Di fatto, Ebraismo, Cristianesimo e Islam, le tre religioni monoteiste che si richiamano alla comune radice della testimonianza di Abramo, hanno svolto un ruolo decisivo — in particolare — nella configurazione spirituale, culturale e socio-politica dell’Europa e del bacino del Mediterraneo, alternando sintonie profonde a forme più o meno aspre di conflittualità. Ed oggi si trovano di fronte a un inedito e decisivo compito: dialogare, sulla base della loro specifica esperienza religiosa e della loro ricca e pluriforme tradizione culturale, per offrire un contributo originale e incisivo all’individuazione di categorie di pensiero e modelli di relazione che garantiscano una convivenza tra le persone, i popoli e le comunità di fede e rendano praticabile la gestione delle differenti identità e la promozione, fra esse, di un arricchente scambio di doni. Come ciò può avvenire, se ci collochiamo nella prospettiva della rivelazione cristologica del Dio Unico e Uno che è Padre di tutti?
Occorre innanzi tutto ricordare che la radice e il filo conduttore comune dell’esperienza di Dio nelle tre grandi religioni monoteiste è la rivelazione di Dio, che si rivolge all’umanità comunicandole la sua volontà. Nel rivelarsi, Dio si manifesta come Unico e Uno, e insieme dispiega il suo disegno di misericordia e di salvezza: quello di ricondurre all’unità della pace le sue creature che sono disperse. Alla rivelazione di Dio, e al monoteismo che essa dischiude, sono dunque strettamente collegati l’universalismo e la responsabilità etica dell’accoglienza e della cura dell’altro: perché la rivelazione divina consiste nella convocazione di tutti gli uomini ad adorare, nella libertà dell’adesione alla verità, l’unico vero Dio e a vivere nella pace relazioni di fraternità universale. Ma nel corso dei secoli, le tradizioni monoteiste hanno tendenzialmente intepretato l’unicità di Dio e l’universalità della salvezza in forma esclusivista: nel senso che ognuna di esse s’è autocompresa e autoconfigurata come la detentrice della Parola della rivelazione (e del suo compimento) escludendo le altre. Di qui l’impossibilità di comprendere l’altro/il diverso nella sua alterità/diversità e, allo stesso tempo, nella comunanza e nella compagnia dell’unica origine e dell’unica meta della storia: che è appunto il Dio Unico e Uno che ci ha creato e si rivela per accoglierci con sé, nella vita eterna.
I tempi — sotto l’azione dello Spirito di Dio che agisce nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli e delle culture — stanno oggi maturando e propiziando una svolta di carattere epocale. Come cristiani, e cattolici, non possiamo non pensare a ciò che ha rappresentato e rappresenta, per l’autocoscienza della Chiesa cattolica, il Concilio Vaticano II. D’altra parte, la planetarizzazione della famiglia umana — da un punto di vista sociale, economico, politico, culturale e spirituale — è un evento inarrestabile: anche se porta con sé — se mal compresa e gestita — il pericolo della distruzione delle diverse identità. In questa situazione, i «segni dei tempi» e lo Spirito di Dio spingono le religioni monoteiste — dal loro interno, e nella valorizzazione delle loro specifiche identità — a ri-comprendere l’unicità/unità di Dio non più come il fondamento dell’esclusivismo, ma — secondo la vera e originaria intenzione di Dio stesso — come garanzia di un pluralismo relazionale che chiama le creature umane all’unità della pace nella libertà delle differenti identità sotto lo sguardo d’amore dell’unico Dio.
L’evento di Gesù Cristo, e la comprensione di Dio come Padre che egli dischiude, hanno in quest’ottica importanti conseguenze, per il pensiero e per la prassi dei cristiani. La rivelazione dell’Unitrinità di Dio dischiude infatti la comprensione di Dio come Atto tripersonale d’Amore, per cui in Lui — come scrive A. Brunner — c’è «eterna stupefatta ammirazione e affermazione dell’alterità reciproca nell’unità dell’essere».15 In Dio, spiega von Balthasar, «il divino autopossesso (del proprio essere) s’esprime nel perfetto dono e nella reciproca dedizione di sé, dove è coinclusa anche la propria esistenza, quella che nella creatura non è a disposizione della creatura».16 Nella vita di comunione di Dio ogni persona «tramonta» a sé, affinché l’Altro sorga in sé stesso,17 così che «le divine Persone sono a vicenda (nell’identità della loro essenza) il Tutt’Altro».18
Ha tutto ciò dei riflessi sull’antropologia? Conosciamo bene il coraggioso testo di Gaudium et spes, 24:
Il Signore Gesù quando prega il Padre, perché «tutti siano una cosa sola, come io e te siamo una cosa sola» (Gv 17,21-22), mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’unione delle persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nella carità. Questa similitudine manifesta che l’uomo, il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso, non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé.
La trinitarietà — possiamo chiederci alla luce di queste affermazioni — è un semplice modello delle relazioni umane e della comprensione dell’alterità? o è qualcosa di più, come suggerisce l’ontologia della grazia quale reale partecipazione, in Cristo, al rapporto di figliolanza col Padre nello Spirito? La qualità della relazione interpersonale vissuta in Cristo, in realtà, non riesce ad avere un’analogia reale che sia al di sotto di quella che il Figlio vive col Padre nello Spirito, e reciprocamente.
Se Dio, dunque, è per la rivelazione cristiana, in sé medesimo, dialogo d’amore (Padre, Figlio, Spirito Santo), allora la persona umana, creata a immagine e somiglianza di lui (cf. Gen 1,26), è per vocazione chiamata a realizzare se stessa nel dialogo: con il suo Creatore e Padre e coi propri fratelli e le proprie sorelle. Se, poi, Dio ha parlato lungo il corso dei secoli molte volte e in molte forme alle sue creature (cf. Eb 1,1ss), il dialogo diventa assolutamente necessario per ascoltare e accogliere questa sua Parola multiforme, disseminata in tutte le autentiche esperienze e tradizioni religiose. Inoltre, se la rivelazione che Dio fa di se stesso in Gesù Cristo avviene in un’atmosfera d’amicizia attraverso il dialogo della salvezza (cf. Gv 15,15 e Dei Verbum, 2), allora anche l’atteggiamento dei discepoli di Gesù Cristo nei confronti dei fedeli delle altre religioni e dei rappresentanti di altre convinzioni dovrà essere improntato a sincero spirito di dialogo. L’evangelizzazione stessa, cui la Chiesa è tenuta in obbedienza al mandato di Cristo («andate e predicate a tutte le genti…», Mt 28,19), secondo le parole di Paolo VI non è nient’altro che un «interiore impulso d’amore» che tende a farsi anche «esteriore dono d’amore» e quindi, a ragione, «può essere definita col nome di dialogo» (cf. Ecclesiam suam, III).
D’altra parte, i cristiani sanno d’avere in Gesù stesso l’insuperabile modello di come si può e si deve vivere il dialogo. Rivelandosi in lui, infatti, Dio Padre non parla all’uomo dall’alto e dall’esterno della condizione umana, ma si cala dentro di essa e si pone nella posizione di poter dialogare con la sua creatura «faccia a faccia», sguardo nello sguardo. Per far ciò, evidentemente, Dio, in qualche modo, deve rinunciare in Gesù Cristo alla sua ricchezza per farsi povero della povertà umana (cf. 2Cor 8,9). Senza che ciò significhi un reale impoverimento, perché Egli agisce così per amore, obbedendo liberamente al suo più proprio e più intimo essere.
San Paolo, nella lettera che indirizza alla comunità di Filippi, invita perciò i cristiani ad avere nei confronti dell’altro gli stessi sentimenti e comportamenti di Gesù Cristo:
il quale — spiega — pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso (ekénosen heautón) assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce (Fil 2,6-8).
Il Verbo di Dio che si «spoglia» nell’incarnazione e nella morte di croce dice in quale senso «Dio è Amore» (cf. 1Gv 4,8.16), e sino a quale punto deve spingersi quel mettersi «nella pelle dell’altro» (F. Wahling) che un vero dialogo esige. San Paolo lo capirà così bene che impronterà tutta la sua evangelizzazione a questo «metodo»: «pur essendo libero da tutti mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto Giudeo con i Giudei … debole con i deboli … mi sono fatto tutto a tutti per salvare ad ogni costo qualcuno» (1Cor 9,19ss). Non bisogna infatti dimenticare — come scrive Giovanni Paolo II nella Tertio millennio adveniente — che «la religione dell’Incarnazione è la religione della redenzione del mondo attraverso il sacrificio di Cristo, in cui è contenuta la vittoria sul male, sul peccato e sulla stessa morte» (n. 7). Trascurare o sottovalutare l’annuncio di gioia che scaturisce dall’incontro con il Cristo Risorto, da cui continuamente nasce e cresce la vita della Chiesa, significherebbe privare l’umanità della risposta definitiva d’amore di Dio Padre all’universale grido di Giobbe: agli interrogativi che umanamente non possono trovare risposta, e alle situazioni che restano senza umana soluzione. Nella morte del Cristo che grida il suo «perché?» (cf. Mc 15,34; Mt 27,46) dal legno della croce, «c’è l’incontro di tutti gli esseri umani: l’uomo è con la sua morte, e Dio si unisce a lui in essa. … Il roveto ardente della croce è così il luogo nascosto dell’incontro»19 di Dio con tutti gli uomini e con ogni uomo, quell’incontro da cui scaturisce l’exultet di gioia dell’umanità salvata dal Padre nel Cristo Risorto.
Se è vero, dunque, che Dio s’è rivelato Padre e vuole salvare ogni uomo attraverso la via del dialogo, allora diventa eticamente necessario (come comandamento di Dio) che io mi relazioni all’altro in quanto egli è oggetto dello sguardo di misericordia dell’Unico Dio e Padre di tutti. E ciò non vale solo per il cristianesimo. Infatti, proprio perché si ritengono depositarie della rivelazione del Dio Unico e Uno, le religioni monoteiste sono chiamate a vivere in modo esemplare innanzi tutto tra loro, e insieme verso tutti, una relazione che corrisponda e traduca in retto comportamento etico la rivelazione della misericordia e della volontà universale di salvezza/unità di Dio.20
4. Conclusione
Tutto ciò non è che una semplice utopia? Per rispondere, vorrei terminare con una considerazione di carattere generale e con un’esperienza.
Il filosofo Karl Jaspers ha parlato di un’epoca assiale, per quanto riguarda le civiltà e le religioni antiche, in cui — in tempi più o meno contemporanei — compaiono sulla scena del mondo Isaia e Platone, Zoroastro, Buddha e Lao Tzu. Si sono costituite allora grandi identità religiose che, più o meno evolute nel corso dei secoli, perdurano sino ad oggi. Quando ci sembra d’assistere a qualcosa di nuovo. Un duplice movimento sembra infatti caratterizzare oggi le grandi tradizioni religiose che s’originano da una Parola rivelata dell’unico Dio e Padre di tutti, a livello almeno di alcune loro significative avanguardie profetiche: un movimento all’indietro, per ritrovare l’originalità della Parola di rivelazione che sta alla propria origine; e un movimento in avanti, nell’apertura a un «nuovo» avvento di Dio — atteso secondo la specificità di ciascuna religione — che s’intuisce non può non coinvolgere, nel dialogo dell’amicizia e della comune ricerca della verità, anche le altre religioni. Che non si stia preannunciando una nuova epoca assiale, segnata dalla tensione all’unità e alla pace come dono di Dio Padre per tutti i suoi figli?
Ed ecco l’esperienza. Nel febbraio del 1998, in visita a Teheran e Qom in Iran, per un ciclo di lezioni in alcune Università islamiche, ho incontrato un venerato maestro spirituale della tradizione sufi, Hag Esmael, di 93 anni. Gli ho chiesto che cosa pensasse del dialogo tra le religioni monoteiste e dell’orizzonte d’unità verso cui sono incamminate, secondo il volere di Dio. Ha riflettuto un po’ e poi ha risposto:
L’unità se credi che arriva, arriva; se pensi invece che è molto lontana e che è difficile da raggiungere non arriva. La devi vedere l’unità, ci devi credere nell’unità, e allora certamente essa verrà, come dono di Dio.
-
Nella profluvie di studi, teologici e biblici, su questo tema, mi limito a rinviare alla penetrante, recente indagine di R. Penna, «La paternità di Dio nel Nuovo Testamento», in Rassegna di Teologia, XL (1999), pp. 7-40. Nella mia esposizione, poggiando sui dati offerti dall’esegesi che do per presupposti, mi limito a una rilettura teologica sintetica della testimonianza neotestamentaria, con particolare attenzione alla sua rilevanza esistenziale. ↩︎
-
Confronta, su tutto questo, i saggi contenuti in Lateranum 65 (1999) n. 2: Fenomenologia e ontologia dell’evento Gesù Cristo. ↩︎
-
Una comunità legge il vangelo di Luca, I vol., EDB, Bologna 1986, p. 347, p. 87. ↩︎
-
«Amor hominis fit a suo diligibile», «amor Dei non invenit sed creat suum diligibile»; «ideo enim peccatores sunt pulchri, quia diliguntur, non ideo diliguntur, quia sunt pulchri … . Et iste est amor crucis ex cruce natus, qui illuc sese transfert, non ubi invenit bonum quo fruatur, sed ubi bonum conferat malo et egeno» (Heidelberg Disputation [1518], WA, 1, p. 365, r. 1-5). ↩︎
-
A. Poma, Avranno fine le parole vane? Una lettura del Libro di Giobbe, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998. ↩︎
-
I. Kant, «Sull’insuccesso di ogni saggio filosofico di teodicea», in Scritti di filosofia della religione, a cura di G. Ricorda, Milano 1989. ↩︎
-
G. Razzino — G. Zarone, «Forma e figure del male. “Dopo” la Teodicea», in Filosofia e Teologia, 9 (1995), n. 2, pp. 223-229, qui p. 223. ↩︎
-
Ivi, p. 225. ↩︎
-
Ivi. ↩︎
-
Cf. P. Ricœur, Le mal. Un défi à la philosophie et à la théologie, Labor et Fides, Genève 1986; tr. it., Morcelliana, Brescia 1993. ↩︎
-
Di L. Pareyson si confronti la raccolta postuma di suoi scritti attinenti questo tema, in cui esplicitamente egli si richiama a Dostoevskij: Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1995; sull’ampia discussione suscitata dalle tesi ivi esposte cf., per un’introduzione, F. Tomatis, Ontologia del male. L’ermeneutica di Pareyson, Città Nuova, Roma 1995 (con una mia presentazione). ↩︎
-
Per una lucida esposizione della questione cf. N. Ciola, Teologia trinitaria. Storia — Metodo — Prospettive, EDB, Bologna 1996: «La “passione d’amore” del Dio trinitario: i temi della sofferenza e immutabilità/mutabilità di Dio» (pp. 186-197). ↩︎
-
J. Maritain, «Riflessioni sul sapere teologico», in Approches sans entraves. Scritti di filosofia cristiana, tr. it., Città Nuova, Roma 1978, p. 76; confronta, su questo illuminante saggio, il mio «Croce e ontologia. A proposito di uno scritto di J. Maritain», in Nuova Umanità, III (1981), n. 15, pp. 53-72. ↩︎
-
Ivi, p. 81. ↩︎
-
A. Brunner, Dreifaltigkeit. Personale Zugänge zum Geheimnis, Johannes, Einsiedeln 1976, p. 42. ↩︎
-
H.U. von Balthasar, Teo-drammatica, vol. V, Jaca Book, Milano 1986, p. 70. ↩︎
-
Ivi, p. 73. ↩︎
-
Ivi, p.72, n. 14. ↩︎
-
CTI, «Il cristianesimo e le religioni», 113, in La Civiltà Cattolica, 1997, I, pp. 146-183. ↩︎
-
Cf. il mio diario di viaggio Il tappeto del Sufi, Città Nuova, Roma 1998. ↩︎