1. Contro il Mito del Dato: empirismi a confronto
Volendo molto generalizzare il programma teorico dell’empirismo classico, si potrebbe formulare una tesi che suona così: qualunque sia la dimensione concettuale implicata dall’esperienza percettiva è possibile affermare che la capacità di avere dati sensibili, siano essi cromatici, spaziali o di altra natura, è indipendente da ogni processo di acquisizione e di addestramento. Addentriamoci ora nel dettaglio delle critiche mosse da Sellars e poi dal suo discepolo McDowell a questo impianto teorico. L’impegno teorico che si assume il filosofo empirista è piuttosto importante: infatti affermare che la capacità di esperire dati sensoriali non è acquisita vuol dire negare in linea di principio il diritto di fornire un’analisi di “x esperisce un contenuto sensoriale” in termini che presuppongono capacità acquisite. Ciò starebbe a significare che il senso che questa affermazione esprimerebbe dovrebbe essere compreso e vissuto anche da chi non possiede un linguaggio, proprio come accade agli animali, ai bambini molto piccoli e, in generale, ai bruti. Ma tanto più si riconosce l’immediatezza del sentire, tanto più si apre la frattura fra sensazioni e concetti. Il filosofo empirista si trova quindi di fronte ad un dilemma: o riconosce che non è possibile giustificare “x sa in modo inferenziale che s è rosso” sulla base di “x avverte un contenuto sensoriale rosso” oppure sostiene che la capacità di subordinare il particolare all’universale è innata e non implica nulla di più di quanto non sia richiesto dalla nostra capacità di avvertire sensazioni. Il filosofo empirista si vedrebbe così costretto a dire che la sussunzione dei particolari (la forma logica del giudizio) non implica qualcosa come la dimensione dell’apprendimento e del linguaggio. Se la critica presentata da Quine nei Due dogmi dell’empirismo alla distinzione tra verità analitiche e sintetiche contribuì a demolire la versione razionalistica del fondazionalismo, Empirismo e filosofia della mente di Sellars contribuì ad annullarne la versione empiristica contestando la differenza tra “ciò che è dato alla mente” e ciò che “da essa è aggiunto”. «Caratterizzare qualcosa come un episodio o uno stato di conoscenza non equivale a fornirne una descrizione empirica ma, piuttosto, a collocarlo nello spazio logico delle ragioni, nello spazio in cui si giustifica e si è in grado di giustificare quel che si dice» (Sellars 1956: 54). La violenza con cui Sellars attaccò il Mito del Dato ebbe un ruolo fondamentale a far sì che la filosofia analitica si allontanasse dalle istanze fondazionalistiche degli empiristi logici. Cosa intende Sellars quando parla di Mito del Dato? Egli attraverso questa formula conduce una critica all’idea che esistano entità delle quali abbiamo consapevolezza in modo immediato. Il filosofo statunitense non si rivolge con questo alla sensibilità che mostriamo per certe caratteristiche percettive degli oggetti. La critica è diretta invece contro l’ipotesi che esistano delle credenze esplicite, tipicamente espresse in giudizi osservativi, che non presuppongono altre credenze che hanno un valore fondativo per l’intero sapere. Di conseguenza, l’argomentazione trattata nel saggio è così orientata contro l’uso del concetto di “dato” in teoria della conoscenza. Sellars ritiene che questa abbia essenzialmente una forma linguistica: è riferita a fatti, la struttura formale dei quali è espressa nel linguaggio. Un enunciato conosciuto deve essere la premessa, o la conclusione di un ragionamento di tipo inferenziale. Cos’è che avvicina McDowell a Sellars? La risposta è probabilmente legata non tanto ai contenuti, quanto al metodo filosofico e alla terminologia. McDowell segue Sellars nel concepire una dualità fra spazio logico delle ragioni e spazio logico della natura; ma mentre in Sellars inserire qualcosa nello spazio logico della natura significa farlo regredire al mero dato con il rischio di cadere nella fallacia naturalistica, in McDowell la fallacia naturalistica è evitabile purché si consideri la differenza fra i due spazi solo dal punto di vista logico. Lo spazio logico della natura che McDowell chiama “crudo naturalismo” non accetta che si possano considerare naturali i rapporti fra gli elementi costituenti lo spazio logico delle ragioni. McDowell guarda al problema da un’altra prospettiva rispetto a Sellars: laddove questi mira a colpire il luogo d’appartenenza del “dato” come non esprimibile in nessun senso una possibilità di conoscenza epistemica, McDowell gli riconosce una parziale concettualizzazione. La sua posizione resta fedele al fatto che lo spazio logico delle ragioni sia sui generis rispetto al crudo naturalismo, ma suppone che l’esperienza sia certamente qualcosa di naturale, così come il pensiero empirico che ne è parte sia concettualizzazione in atto. In breve per McDowell, il pensiero empirico è altro rispetto allo spazio logico della natura (con Sellars), ma solo dal punto di vista logico (contro Sellars); il pensiero empirico è però connaturato allo spazio della natura e delle ragioni in un contesto normativo (oltre Sellars). Scrive McDowell: “Possiamo riconoscere che l’idea di esperienza è l’idea di qualcosa di naturale pur senza rimuovere l’idea di esperienza dallo spazio logico delle ragioni” (McDowell 1994: XX). Quella assunta dal filosofo inglese è una posizione diversa da quella di Sellars: assentire all’idea di una separazione fra gli spazi logici non equivale a una scissione fra il naturale e il normativo. Il rischio di fallacia naturalistica e di ricorrere al Mito del Dato per giustificare conoscenze empiriche è dovuto alla fatale sovrapposizione di due generi di intelligibilità che devono, secondo McDowell, rimanere distinti: una cosa è l’intelligibilità scientifica che sprofonda le sue radici nella rivoluzione scientifica dell’età moderna (quello che sostanzialmente McDowell denomina “spazio della natura”, altra è l’intelligibilità che una credenza acquisisce quando venga inserita nello spazio logico delle ragioni. Solo in questo modo si evita il baratro del Mito del Dato e la fallacia naturalistica. L’errore di Sellars è quello di identificare lo spazio logico della natura con lo spazio in cui porre le intelligibilità scientifiche; queste hanno una diversa specificità da quelle poste nello spazio logico delle ragioni, ma non devono essere sovrapposte alla natura, laddove la si intenda kantianamente come regno della legge. Ricevere le impressioni provenienti dalla natura non mina le basi dell’empirismo come sostiene Sellars, perché sostenere il contrario significa non considerare adeguatamente la natura dell’uomo anzi, come la definisce McDowell, la sua seconda natura (concetto di primaria importanza nella filosofia di McDowell, direttamente permeato dall’etica aristotelica che però in questo articolo, per motivi di pertinenza, tralasceremo). McDowell intende andare oltre la posizione sellarsiana grazie all’immissione di capacità concettuali che oltrepassano lo spazio logico delle ragioni, che ricordiamo rimane sui generis rispetto a quello della natura, all’interno delle interazioni naturali. Ciò si rende possibile grazie alla natura umana che è da una parte in grado di ottenere continui sviluppi (la seconda natura, appunto) dovuti alla costante influenza del mondo su di essa, dall’altra ha già in sé quelle capacità concettuali che le consentono tali sviluppi in una feconda interazione che costituisce la conoscenza empirica.
2. La soluzione di McDowell
«In base ai principi di Sellars, allora, considerare qualcosa come un’impressione significa collocarlo in uno spazio logico diverso da quello in cui si tratta della conoscenza, o, per non perdere di vista il caso generale, in cui si tratta della direzionalità verso il mondo, sia esso conoscenza o no. Per questi principi, lo spazio logico cui appartiene il discorso sulle impressioni non è quello in cui le cose sono connesse da relazioni quali l’essere giustificato o corretto in base a qualcos’altro. Perciò, se concepiamo l’esperienza come una serie di impressioni, in base a questi principi essa non può fungere da tribunale, verso cui il pensiero empirico sarebbe responsabile. Supporlo vorrebbe dire appunto cadere nella fallacia naturalistica contro cui Sellars ci mette in guardia» (McDowell 1994: XVI). Di qui derivano i motivi che spingono McDowell a evidenziare le ragioni dell’empirismo, sia pure di un empirismo minimale: «Le ragioni […] per l’abbandono dell’empirismo consistono, schematicamente, nella tesi che non possiamo assumere una rilevanza epistemologica dell’esperienza senza cadere nel Mito del Dato, nel quale si suppone che l’esperienza, concepita in modo da non poter valere come tribunale, si ponga nondimeno come giudice nei confronti del pensiero empirico. Certamente, questo argomento ha la forma adatta per mostrare che dobbiamo rinunciare all’empirismo, […] [ma] non fa nulla per rendere ragione della plausibilità della concezione empirista, secondo la quale possiamo dare un senso alla direzionalità verso il mondo del pensiero empirico solo se lo concepiamo come responsabile della sua correttezza nei confronti del mondo empirico. […] Possiamo comprendere la responsabilità nei confronti del mondo empirico solo in quanto mediata dalla responsabilità nei confronti del tribunale dell’esperienza» (McDowell 1994: XVII). Come si evince da questo passaggio è che ci troviamo di fronte ad un dualismo intollerabile: da una parte vi è lo spazio logico delle ragioni che pretende di abbracciare in se stesso la sfera del pensiero e della conoscenza in generale, dall’altra vi è lo spazio degli accadimenti causalmente determinati; il pensiero, tuttavia per poter essere tale, deve avere una direzione verso il mondo e può averla solo se è possibile indicare nell’esperienza stessa il tribunale che ne attesta la validità. Ma se invece l’esperienza consta di fatti, allora non sarà in grado di esercitare il ruolo che le viene assegnato, ed è proprio questo l’ostacolo nel quale ci siamo imbattuti e che sembra precipitarci in balia di forze contrapposte: «Una è la forza di attrazione dell’empirismo minimale, che suggerisce che l’idea stessa di direzionalità verso il mondo empirico del pensiero è comprensibile solo nei termini dell’azione autoimpressiva del mondo sui soggetti percipienti. L’altra è un atteggiamento mentale che fa sembrare impossibile che l’esperienza possa essere un tribunale. L’idea del tribunale, assieme all’idea di ciò su cui il tribunale emette i suoi verdetti, appartiene a quello che Sellars chiama lo “spazio logico delle ragioni”: uno spazio logico la cui struttura consiste nel fatto che alcuni dei suoi occupanti sono, ad esempio, giustificati o corretti in base ad altri. Ma l’idea di esperienza, almeno se essa è concepita in termini di impressioni, appartiene evidentemente allo spazio logico delle connessioni naturali. È facile che ciò dia l’impressione che, se tentiamo di concepire l’esperienza come un tribunale, non possiamo non cadere nella fallacia naturalistica che Sellars presenta come un trabocchetto per aspiranti epistemologi. Supponiamo di essere consci in maniera inespressa del fatto che il nostro pensiero è soggetto ad entrambe queste forze; questo rende comprensibile che si trovi filosoficamente problematica l’idea che il pensiero riguardi il mondo empirico» (McDowell 1994: XVII). Nei lavori di McDowell le questioni legate al concetto di “empirismo minimale” devono essere considerate molto attentamente, perché esprimono dei ricorrenti modelli di problemi filosofici. Uno degli scopi che McDowell si prefigge di raggiungere in Mente e Mondo e in Having the World in view che di Mente e Mondo è la naturale prosecuzione è mostrare che, una volta delineati nuovi termini normativi atti alla riconduzione degli stati mentali a quelli naturali, domande filosofiche del tipo “Come è possibile che? ” possono essere risolte senza fare ricorso ad alchimie filosofiche. Ciò perché le relazioni fra l’attività della mente cognitiva e la realtà esterna possono essere affrontate e capite secondo una capacità a queste interne e l’empirismo minimale serve ad evitare errori filosofici frutto di un’interpretazione scorretta dell’esperienza. Questo nuovo tipo di empirismo non si raggiunge senza sforzo: esso richiede che tutti i principi fondativi siano attivi, solo così non saranno necessarie ulteriori chimere metafisiche. La domanda «Come è possibile che? » solitamente sorge quando qualcosa che si considera come assolutamente fondato e senza alcuna contraddizione al suo interno, si scopre invece insufficiente come termine utile a spiegare problematiche ad esso connesse: ci si trova di fronte ad un ostacolo che separa l’area dell’esperienza del reale da quella mente che in modo del tutto plausibile potrebbe invece esserle connessa. Che realtà è quella evidenziata da questo genere di empirismo? Due sono gli aspetti filosoficamente rilevanti: il primo che può essere considerato come una sorta di definizione stessa di realismo normativo e cioè che la realtà è connessa alla nozione di oggettività, indipendenza e totalità. Il secondo è che questa concezione di realtà è internamente determinata dalle condizioni e dalle strutture del pensiero razionale. Tutte questo consente l’integrazione delle capacità concettuali nell’esperienza e permette al nostro sguardo sul mondo di non concepire l’esperienza e la presa di coscienza di essa come due momenti distinti ma di assimilare la spontaneità ossia l’attività intellettuale alla ricettività o, ancora meglio, all’intuizione. McDowell, in un certo senso, non vuole rispondere alla problematica del “crudo naturalismo”, il suo scopo è quello di rendere indipendente il pensiero da certe preoccupazioni filosofiche. Il fine comune cui tendere è quello di non sentirsi obbligati a cercare di dare risposte alle domande che esprimono tali preoccupazioni, ma semplicemente di vedere le cose da un punto di vista diverso, eliminando il problema. Con McDowell noi proviamo a giungere ad una concezione possibile in cui la tensione si riveli solo fittizia. Questa modalità di procedere ha per scopo quello di descrivere accuratamente la struttura materiale dei soggetti percipienti, al punto da rendere evidente e comprensibile come esseri composti di semplice materia abbiano il possesso di capacità concettuali che li rendano forti di questa consapevolezza. Ma questo non è il fine della ricerca di McDowell: il suo empirismo minimale non vuole dividere e la sua perplessità di fronte a certe domane deriva non dalla voglia di rispondere a tutti i costi, ma dalla coscienza che, una volta esplicitata l’inutilità di sterili dicotomie fra stati mentali e realtà esterna l’oggetto della domanda non è più importante. L’empirismo minimale si fonda soprattutto, come abbiamo visto, su indipendenza e totalità: questi sono concetti indispensabili a creare una strada percorribile affinché si possa avere uno sguardo razionale sul mondo che vada oltre il qui ed ora e che consenta al pensiero e di conseguenza all’azione di soddisfare le richieste legate alla conoscibilità della realtà. In altri termini, dobbiamo considerare la realtà non come qualcosa di semplicemente a noi esterno, ma come un “nostro” aspetto che sia “normativamente” determinato ed esplicitamente costituito dal pensiero, in cui la conoscenza e l’azione (si noti come McDowell tende ad insistere su quest’aspetto non puramente teoretico, ma pratico) collaborino alla creazione di un mondo inteso come sistema di totalità di fatti concettualmente articolati e non ad una “collezione” di casi particolari, meramente accomunabili all’idea di esperienza. L’idea fondamentale è che la sostanza empirica «viene trasmessa dal livello di base ai concetti empirici più lontani dall’esperienza immediata, e che tale trasmissione avviene lungo canali costituiti dai legami inferenziali che tengono insieme un sistema di concetti» (McDowell 1994: 7). Da questo passaggio si rivela vieppiù l’aspirazione all’unità e totalità che muove il pensiero di McDowell. Proviamo ora ad entrare nello specifico dell’idea mcdowelliana che possano esistere episodi mentali intrinsecamente normativi. Cosa significa dire che un episodio mentale è intrinsecamente normativo? Nell’ambito della discussione come quella che si sta conducendo, si potrebbe dire qualcosa di questo tipo: un episodio mentale è intrinsecamente normativo se e solo se può determinare, una volta inserito nel contesto adatto, il canone dell’utilizzo di una parola oggettivamente e indipendentemente dall’opinione di chicchessia. Data una definizione di questo tipo si deve ammettere che c’è un certo modo di concepire l’intendere che può rendere estremamente plausibile l’idea che questo episodio mentale sia un episodio mentale intrinsecamente normativo. Secondo questa concezione, l’intendere è una rappresentazione di un oggetto generale. Questa concezione, però, presenta innanzitutto il probabile inconveniente di non corrispondere alla realtà dei fatti: molto semplicemente potrebbe non esistere qualcosa come una rappresentazione di un oggetto generale. Iniziamo col notare che quello che dovrebbe fare della rappresentazione di un oggetto generale un episodio mentale intrinsecamente normativo è la relazione estremamente stretta (la relazione interna) che la lega all’oggetto che rappresenta. Se l’oggetto generale è un qualcosa di intrinsecamente normativo allora la sua rappresentazione è un qualcosa di intrinsecamente normativo in quanto sua rappresentazione: non ci sono dubbi. Questo ci permette di ridurre il nostro problema ad un altro: per dimostrare che la rappresentazione di un oggetto generale non è un episodio mentale normativo (e, a fortiori, che l’intendere quindi non è un episodio mentale intrinsecamente normativo) sarà infatti sufficiente dimostrare che un oggetto generale non è di per sé un qualcosa di intrinsecamente normativo. A questo punto, la domanda che ci dobbiamo porre è: che cosa significa dire, di un certo oggetto, che è un qualcosa di normativo (in generale)? Che cosa significa dire per esempio dell’oggetto generale rosso, che è un qualcosa di normativo? Nell’ambito di questa discussione significa questo: l’oggetto generale rosso può determinare, solo se inserito nel contesto adatto, il canone dell’utilizzo della parola “rosso”. E in più cosa vuol dire che il rosso determina il canone dell’utilizzo di “rosso”? Né più né meno questo: noi lo utilizziamo per regolare il nostro utilizzo della parola. Immaginiamo, per esempio, che il rosso sia un oggetto generale nel senso “intensionale” della parola (che in questo contesto è senz’altro quello più proprio): il rosso non è una semplice collezione di particolari; il rosso è un “universale”. L’idea è che si debba applicare la parola “rosso” solo agli oggetti che esemplificano l’universale rosso. Quello che si cerca di capire è come per McDowell sia possibile un empirismo minimale che crei un sistema totale fra mente e mondo, nel caso in cui sia difficile dimostrare la normatività all’interno del solo episodio mentale. Cerchiamo di analizzare se l’utilizzo di un universale (che in termini di atti di conoscenza possiamo rapportare alla spontaneità dell’intelletto, almeno secondo il punto di vista di McDowell), possa o meno giustificare l’utilizzo di una parola (che in termini di atti di conoscenza possiamo rapportare all’inclusione dell’universale e alla sua attualizzazione nella realtà). Per esempio: si applichi la parola “rosso” ad un certo oggetto per giustificare quest’applicazione «prendo» l’universale rosso e mostro che l’oggetto esemplifica l’universale. Ora non c’è dubbio che questa sarebbe una giustificazione (non c’è dubbio che potremmo chiamare questo procedimento “giustificazione”). Ma sarebbe una giustificazione inconfutabile? E così tornando al nucleo dell’argomentazione sarebbe assolutamente certo un empirismo che colleghi degli universali (i concetti) a dei particolari (le capacità ricettive) in cui questi siano la giustificazione e l’attualizzazione di quelli? McDowell cerca una giustificazione per una certa prassi, cioè quella che determina la coesione fra stati mentali e realtà esterna. Orbene, ammettiamo il caso che qualcuno asserisse che la parola “rosso” non vada applicata agli oggetti che esemplificano l’universale rosso, ma che invece vada applicata agli oggetti che non esemplificano l’universale rosso. Sembra certo che un simile utilizzo dell’universale potrebbe sembrare senz’altro (cioè, noi lo troveremmo strano, ma forse un abitante di un altro pianeta lo troverebbe naturale). Dicendo questo, cosa si vuole affermare? Innanzitutto che nulla sembra legare l’universale rosso al nostro utilizzo piuttosto che ad un altro utilizzo, ma soprattutto che ciò che vogliamo non è una semplice giustificazione relativa all’uso comune (al procedere cognitivo comune) ma una giustificazione oggettiva, universamente valida, razionalmente inconfutabile, una giustificazione la cui validità non dipenda dalla ratifica, dall’opinione o dall’accordo, ossia una giustificazione la cui validità sia intrinsecamente certa. McDowell riesce a questo scopo? Riesce a dare un fondamento nuovo di una nuova prassi conoscitiva? Soprattutto il suo empirismo minimale è veramente diverso e migliore rispetto agli altri empirismi? È così oggettivamente valido asserire che nelle esperienze sensibili già siano presenti i concetti? Il nostro utilizzo dei concetti intesi da McDowell come strumento di conoscenza, secondo questi interrogativi, non sembra costituire un sicuro fondamento a meno che non si considerino i concetti come un apparato a priori del nostro intelletto che prescinda da ogni esperienza possibile di chiunque e che quindi corrisponda alle esigenze sopra esposte di oggettività ed universalità. Ma questa non sembrerebbe la strada percorsa fino in fondo dal filosofo inglese. Un pensiero, o meglio un concetto, assume un significato nella misura in cui una regola ne governa l’utilizzo, ma determinare i criteri di correttezza dell’utilizzo o di un concetto è già determinarne il significato; di conseguenza è plausibile affermare che qualcosa può determinare i criteri di correttezza dell’utilizzo di un concetto solo sullo sfondo della prassi del seguire una regola. Queste affermazioni potrebbero non far crollare le ipotesi mcdowelliane in merito all’empirismo minimale, anzi in un certo modo potrebbero costituirne il vero punto di forza: se per empirismo minimale non intendessimo solo quell’ipotesi di consolidamento annullante qualsiasi dualismo, ma anche (e soprattutto) una funzione regolativa di tipo modale, daremmo alla nostra istanza conoscitiva la possibilità di essere contemporaneamente regola e significato, laddove con quest’ultimo termine indicheremmo l’utilizzo nella prassi esperienziale, facendo salva, però, la distinzione (in fondo, secondo McDowell, la matrice di tutto è Kant), fra strumenti della conoscenza e campi d’applicazione di essi.
Una concezione del mondo post-kantiana: intuizioni e concetti
L’obiettivo è ormai pienamente dichiarato: trovare una soluzione per riuscire a stringere in un unico nodo la dimensione dei concetti e la dimensione dell’esperienza, il terreno delle proposizioni e il tribunale che ci consente di giudicarle. Le percezioni sono oggetti ancipiti e di questa natura duplice delle sensazioni si era accorto Kant che così scriveva nella pagine iniziali della sua Critica della ragion pura: «In qualunque modo e con qualunque mezzo una conoscenza possa riferirsi ad oggetti, certo il modo in cui vi si riferisce immediatamente ed a cui ogni pensiero tende, come suo mezzo, è l’intuizione. Ma questa si riscontra soltanto quando l’oggetto sia dato; il che è, a sua volta, possibile, per noi uomini almeno, solo se l’oggetto agisce, in qualche modo, sul nostro animo. La capacità di ricevere (recettività) rappresentazioni, mediante il modo in cui siamo affetti dagli oggetti, si chiama sensibilità. Quindi gli oggetti ci sono dati per mezzo della sensibilità ed essa soltanto ci fornisce intuizioni; ma è attraverso l’intelletto che essi sono pensati, e da esso provengono i concetti» (K. r. V. A19/B33). McDowell prova a descrivere questo dualismo dicendo che esso è totalmente contenuto nel celebre detto kantiano «I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche» (K. r. V. A51/B75). Sembrerebbe che questa affermazione sintetizzi semplicemente il dualismo di cui si sta parlando. Ma McDowell suggerisce che invece è di grandissimo aiuto seguire Kant nel considerare la conoscenza empirica come il risultato della cooperazione fra la facoltà della ricettività e della spontaneità (responsabili rispettivamente delle intuizioni e dei concetti). Kant ci può aiutare soltanto «se riusciamo a tenere fisso in mente questo pensiero: il contributo che la ricettività dà a questa cooperazione non è separabile nemmeno a livello puramente concettuale» (McDowell 1994: 9). Fondare un tipo di conoscenza in cui la ricettività e la spontaneità non giocano un ruolo separato dà luogo ad un’esperienza che è già concettualizzata. «Non possiamo ritenere con Hume che la struttura razionale sia emigrata dal mondo […] dobbiamo invece supporre che il mondo abbia una struttura intelligibile che sia compresa nello spazio del logos (lo spazio delle ragioni o concetti) » (McDowell 1998a: 178). Il motivo che porta il filosofo inglese a questa conclusione è che se le conoscenze empiriche sono strutturate concettualmente, e contemporaneamente sono specchio del mondo, anche il mondo stesso deve impiantare la propria struttura su queste conoscenze. In altre parole, il mondo stesso non può essere concepito come qualcosa che sia completamente al di fuori delle spazio delle ragioni, ma deve possedere quel tipo di struttura che noi in quanto soggetti razionali “avvertiamo” come struttura intelligibile. “I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche”. McDowell cita più volte questo passo famoso perché evidentemente ritiene che si possa leggere in esso una formulazione del problema che più gli sta a cuore. I pensieri senza contenuto sono vuoti perché non possono avere quella direzionalità verso il mondo che deve caratterizzarli e le intuizioni senza concetti sono cieche perché non sono in grado di giustificare le proposizioni che su di esse vertono. Si deve quindi cercare di capire come sia possibile che l’intuizione alberghi in quelle forme concettuali che sole possono darle la funzione che le si chiede. Per venire a capo del rapporto che deve legare i pensieri alle intuizioni, McDowell ci invita a dare ascolto ad una diversa formulazione del problema che si gioca su una differente contrapposizione che ha anch’essa una matrice kantiana: alla spontaneità dell’intelletto e delle funzioni categoriali deve affiancarsi la recettività che è propria dell’esperienza sensibile. Non si tratta di una semplice riformulazione terminologica, almeno per McDowell: attività e passività non sono soltanto termini che ci riconducono alla coppia intelletto-sensibilità, ma alludono anche ad un diverso modo di operare di una funzione che tuttavia può rimanere la stessa. Alla distinzione fra forma e contenuto che sembra tracciare un divario insanabile si oppone così la constatazione che vi è una stessa funzione che si esercita ora in modo attivo e ora in modo passivo sul terreno del pensiero e dell’esperienza possibile. Per capire come ciò avvenga, ci si deve innanzitutto chiedere perché Kant ritiene di dover porre l’intelletto come sfera categoriale sotto l’egida della spontaneità e, quindi, della libertà. Non si tratta di una domanda cui sia facile rispondere di primo acchito, perché vi è un senso in cui il pensiero non sembra affatto libero e per rendersene conto è sufficiente richiamare alla memoria la sua dimensione normativa e il suo essere subordinato alla regola della correttezza. Non siamo autorizzati a pensare in un modo qualunque ed anzi il pensiero è caratterizzato dal suo rimandare necessariamente ad una giustificazione che lo fondi e che, quindi, lo vincoli a dover essere proprio così, come la norma detta. Le cose stanno appunto così e tuttavia è proprio nel suo essere soggetto a norme che il pensiero rivela la sua autonomia: le uniche leggi cui il pensiero è vincolato sono infatti le leggi che lo determinano come pensiero. Parlare di spontaneità vuol dire dunque rammentare che il pensiero è norma a se stesso e che ciò che lo giustifica non ci conduce al di là di ciò che gli appartiene; nello spazio logico delle ragioni i vincoli devono avere natura razionale e questo equivale a sostenere che la regola che viene imposta è una regola che non costringe affatto la natura intima del pensiero, ma la esprime nella sua forma: «Una risposta schematica ma suggestiva è che la tipografia della sfera concettuale sia costituita da relazioni razionali. Lo spazio dei concetti è perlomeno parte di ciò che Wilfrid Sellars chiama “lo spazio delle ragioni”. Quando Kant descrive l’intelletto come facoltà della spontaneità, questo riflette la sua concezione della relazione tra ragione e libertà: la necessitazione razionale non solo è compatibile con la libertà, ma è costitutiva di essa. In uno slogan, lo spazio delle ragioni è il regno della libertà» (McDowell 1994: 5). Posto quest’ordine di considerazioni, si fanno avanti una serie di dubbi che potrebbero essere formulati in questo modo: ci si può realmente mantenere sul terreno della spontaneità se vogliamo che il nostro pensiero non sia soltanto libero, ma anche vincolato al mondo? Il fatto stesso che il pensiero sia autonomo e sia quindi norma a se stesso, non è una dimostrazione del fatto che il pensiero è, in se stesso, soltanto un insieme di mosse che rispondono alle regole del gioco che gli è proprio, ma non ad altro? Se i concetti vogliono avere un valore conoscitivo, devono poter essere applicati all’esperienza e ciò sembra necessariamente implicare che vi sia qualcosa di esterno alla dimensione concettuale che giustifichi la loro applicazione: «Più evidenziamo la connessione tra ragione e libertà, più rischiamo di perdere la comprensione di come l’applicazione di concetti possa dare origine a giudizi giustificati sul mondo. Ciò che vorremmo concepire come applicazione di concetti minaccia di degenerare nelle mosse di un gioco che si esaurisce in se stesso. E questo ci priva dell’idea stessa che si tratti di un’applicazione di concetti. Adeguare le credenze empiriche alle loro ragioni non è un gioco che si esaurisce in se stesso. Il dualismo di schema concettuale e “contenuto empirico”, di schema e Dato, è una risposta a questa preoccupazione. Il pregio di questo dualismo è che ci permette di riconoscere un vincolo esterno alla nostra libertà di applicare i concetti empirici» (McDowell 1994: 6). Risultano essere queste le ragioni che ci spingono a pensare che i concetti rimandino ad un dato ultimo che li giustifichi nella loro applicazione. Il pensiero concettuale non deve scadere in un gioco che si esaurisca in se stesso ed è per questo che sembra necessario chiedere che lo spazio delle giustificazioni possa andare al di là della sfera dei concetti e che sia possibile dunque indicare qualcosa che sta al di qua di ogni formulazione categoriale e porlo come ragione che ci guida e ci sostiene nell’applicare un determinato concetto all’esperienza. Al di là del gioco di relazioni razionali che legano concetto a concetto ci imbattiamo così in un nesso di fondazione che sembra sfuggire da un lato al linguaggio delle giustificazioni che da proposizioni ci conducono a proposizioni e che, dall’altro, ci costringe a fare un passo che dalla sfera concettuale conduce al dato nella sua mera presenza prelinguistica. Il nesso di fondazione ci conduce così al dato nella sua immediatezza, costringendoci a sostenere che lo spazio logico delle ragioni, entro il quale soltanto può dispiegarsi un nesso di fondazione, è più ampio dello spazio logico del pensiero concettuale. Secondo McDowell l’ultimo passaggio lungo la catena delle giustificazioni non può per definizione riconnetterci ad un concetto e non può dunque essere attuato se non così, cioè indicando il contenuto, che nella sua mera datità, dovrebbe poter giustificare il nostro pensarlo in un determinato modo. Dati tutti questi elementi, McDowell giunge ad una prima conclusione: il tentativo di estendere lo spazio delle giustificazioni al di là della sfera concettuale non può essere condotto realmente in porto e questo perché non è possibile colmare il divario che ci conduce dal concetto al dato e viceversa. I dati sensibili così intesi sono fatti che accadono, ma non hanno ancora una dignità epistemica: il loro esserci non è ancora sufficiente per indicare come debbano essere pensati e intesi, e questo proprio perché non hanno di per sé un contenuto concettuale. Ne segue che non basta esibirli per rendere conto delle ragioni che abbiamo nel pensare così la nostra esperienza: il fatto esperito non è ancora una voce che dica qualcosa sul terreno della nostra esperienza e non può quindi entrare a far parte di quel più ampio contraddittorio che caratterizza nella sua natura il gioco delle giustificazioni razionali. Di qui la conclusione cui giunge McDowell: è necessaria una rete di relazioni razionali che possono però sussistere solo tra concetti. Il filosofo inglese giunge anche ad una seconda conclusione: nell’estendere lo spazio delle ragioni al di là della sfera dei concetti sino ad abbracciare gli impatti esterni al regno del pensiero ovvero fino a racchiudere i dati della sensibilità nella sua immediatezza è implicita una radicale negazione di ogni responsabilità intellettuale nei confronti di ciò di cui abbiamo esperienza. Una volta accettato che ci siano dati e che la sensazione semplicemente si imponga a noi che la avvertiamo, allora non sarà possibile ritenersi in alcun modo responsabili di ciò che esperiamo e non potremmo far altro che riconoscere che così è, senza per questo sentirci legittimati a crederlo. Ciò che esperiamo ci sarebbe semplicemente dato, come un fatto che si impone e che non si integra con il sistema rivedibile delle nostre conoscenze. McDowell sostiene che non è possibile districare il mondo che ci appare da come lo interpretiamo concettualmente. Proviamo a semplificare: il pensiero è la scena entro cui si muovono le nostre percezioni ed è per questo che non è possibile anche solo pensare di immaginare le nostre percezioni libere dall’interpretazione concettuale entro la quale soltanto possono recitare un ruolo nella nostra esperienza. I concetti non ci appaiono allora come operazioni che esercitiamo sulle cose, ma come la forma entro la quale il sensibile si manifesta. Di un’esperienza sensibile che non si trovi già sul terreno dell’elaborazione concettuale non deve essere lecito parlare e questo significa, innanzitutto, che dobbiamo allontanarci dalla tesi secondo la quale lo spazio delle ragioni potrebbe essere più esteso dello spazio logico dei concetti e possa quindi abbracciare qualcosa che sta al di là della dimensione concettuale, ossia le sensazioni come dati originari. Una possibilità è quella di attribuire alla ragione nell’esperienza una duplice funzione. La ragione è in grado di cercare di sottomettere il dato alla sua norma, come accade quando valutiamo le ragioni e i modelli teorici cui ricondurre una realtà data; pensare, però, non può significare solo questo, ma deve anche voler dire creare il limite entro il quale il mondo sensibile si manifesta. Al pensiero inteso come concetto deve potersi affiancare il pensiero come forma entro la quale può darsi l’apparire sensibile delle cose e del mondo. Ancora una volta, per McDowell, la via da seguire sembra disporsi sotto l’egida di Kant, perché Kant nella Critica della ragion pura ci spinge a tracciare una distinzione tra due differenti modi di operare del concetto in seno all’esperienza. Il primo modo ci dispone nell’alveo della logica formale: in questo caso il pensiero opera concettualmente quando, nel giudizio, riconduce una rappresentazione concettuale sotto un’altra che abbia maggiore universalità. Vi è dunque un soggetto del giudizio e vi è una rappresentazione di carattere più generale sotto la quale pensiamo. Non esiste soltanto questo uso logico dell’intelletto, e di fatto nella prospettiva della Critica della ragion pura l’attività logica del giudizio non è chiamata in causa solo per asserire qualcosa sull’esperienza (non appartiene dunque soltanto al terreno linguistico delle enunciazioni), ma anche per permettere all’esperienza stessa di asserire qualcosa, cioè di avere, in altre parole, un contenuto oggettivo. In questo caso, dunque, il concetto non opera sussumendo un particolare sotto un universale e non si manifesta nel suo porre un individuo già formato sotto l’egida di un concetto: tutt’altro. In questo caso l’operare del concetto non sussume, ma dà forma all’esperienza stessa e ci consente di intenderla come un tutto dotato di senso. Pensare non significa allora soltanto prendere atto di un ordine, ma suggerire una forma di ordinamento e dare quindi all’esperienza un senso obiettivo. Kant ci autorizza a ritenere che una stessa funzione possa esplicarsi in forme profondamente differenti: «Quella medesima funzione che conferisce unità alle diverse rappresentazioni in un giudizio, dà anche unità alla semplice sintesi delle diverse rappresentazioni in una intuizione; questa unità è detta, con espressione generale, concetto puro dell’intelletto. Il medesimo intelletto, dunque, e proprio per mezzo delle medesime operazioni con cui, mediante l’unità analitica, ha posto in essere nei concetti la forma logica di un giudizio, introduce anche, mediante l’unità sintetica del molteplice nell’intuizione in generale, un contenuto trascendentale nelle sue rappresentazioni» (K. r. V. A79/B105).
3. Il concettuale senza confini
Anche McDowell per certi aspetti ci esorta a pensare questa stessa distinzione e a non considerare le operazioni concettuali solo nella forma dell’ordinamento. L’esperienza non consta di dati che debbano essere pensati, ma è sempre già disposta nella trama ordinatrice dei nostri concetti: «Le capacità concettuali in questione sono già chiamate in causa nella ricettività. Non sono dunque esercitate sopra un materiale extraconcettuale che la sensibilità consegni loro» (McDowell 1994: 9). McDowell estremizza la posizione kantiana sino al punto di sostenere che non è possibile, nemmeno da un punto di vista strettamente logico, distinguere il contributo della ricettività da quello dell’esperienza. In altri termini, l’intuizione deve essere sempre colta alla luce della dimensione concettuale che la anima e questo secondo una prospettiva che in realtà non può essere affatto imputata a Kant. «Ciò che Kant chiama “intuizione”, immissione esperienziale, dobbiamo concepirlo non come la pura acquisizione di un Dato extraconcettuale, ma come un genere di evento o di stato che possiede già un contenuto concettuale» (McDowell 1994: 10). Questa posizione richiede una riflessione. Non appena infatti ci disponiamo nello spazio logico delle ragioni, ossia non appena ci poniamo sul terreno dell’esperienza come prassi conoscitivamente atteggiata e rivolta al mondo, di un dato extraconcettuale che si imponga alla soggettività non è semplicemente lecito parlare. Dobbiamo con McDowell cautamente riconoscere che il passo che dovrebbe guidarci dal concetto a qualcosa x che possiamo solo indicare semplicemente non esiste. Tuttavia questo non significa che non vi sia una presa sull’esperienza e che la ricettività non sia presente come vincolo e come attrito della libera manifestazione della spontaneità. Tutt’altro: vuol dire invece che il terreno dell’esperienza è sempre e necessariamente concettuale e proprio per questo fungere da perno su cui fissare la molteplicità dei concetti che si fanno avanti nell’esercizio libero della riflessione: «Secondo la posizione che sto sostenendo, i contenuti più vicini all’impatto della realtà esterna sulla sensibilità non hanno già, in quanto concettuali, una (sia pur piccola) distanza da quell’impatto. Essi non sono i risultati di un primo passo all’indietro dello spazio delle ragioni, un passo che sarebbe percorso a ritroso dall’ultimo passo nella ricerca delle giustificazioni, così come quest’attività è concepita nel dualismo di schema e Dato. Questo presunto primo passo sarebbe il movimento che conduce da un’impressione, concepita come mera ricezione di un elemento di Datità, a un giudizio, al giudizio che è giustificato da quell’impressione. Ma non è così: i contenuti concettuali più basilari sono (in questa accezione) già posseduti dalle impressioni stesse, dalle influenze del mondo sulla nostra sensibilità» (McDowell 1994: 10). McDowell ci invita a riflettere sul carattere concettuale dell’esperienza; farlo significherà da una lato cogliere come il pensiero possa permeare di sé la dimensione dell’esperienza, acquisendo così una sua presa sul mondo, ma vuol dire anche, dall’altro lato, mostrare in che senso l’utilizzo dei concetti possa trovare nell’esperienza stessa una sua giustificazione. Se ci poniamo in questa prospettiva, i concetti non si rapportano più ad un materiale altro, che semplicemente si dà, ma si confrontano con un’esperienza strutturata che si pone come il sostegno di un’asserzione possibile. E ciò è quanto dire che l’esperienza si pone già, per la sua stessa natura concettuale, come una voce che può pronunciare il suo verdetto nello spazio logico delle ragioni: «Questo fa spazio a una nozione diversa di datità, che non può essere accusata di confondere giustificazione e discolpa. Non abbiamo più bisogno di tentare di dimostrare che lo spazio delle ragioni è più esteso di quello dei concetti. Ma ci porta in un luogo in cui è all’opera la sensibilità, la ricettività, e quindi non abbiamo più motivo di preoccuparci per la libertà che è implicita nell’idea che le nostre capacità concettuali appartengano a una facoltà della spontaneità. Non dobbiamo temere che la nostra raffigurazione del mondo ometta quel vincolo esterno che è necessario, se l’impiego delle nostre capacità concettuali deve essere riconoscibile come qualcosa che ha a che fare con il mondo» (McDowell 1994: 10). Detto ciò, però, proviamo a porci una domanda: se le cose stanno così, se ogni esperienza percettiva è già subordinata alla norma del concetto, non rischiamo semplicemente di cancellare la differenza tra spontaneità e ricettività? Dov’è possibile trovare la differenza fra l’esperienza sensibile nella sua apparente passività e la libertà che caratterizza la spontaneità del pensiero? Questa è una domanda che non dovrebbe rimanere senza una risposta, perché la sensatezza delle considerazioni proposte da McDowell poggia comunque sul fatto che spontaneità e ricettività non siano la stessa cosa e operino anzi in modi differenti. La sensibilità ci lega al dato, la dimensione concettuale lo illumina: il nodo che li stringe deve essere indissolubile, ma non può cancellare la specificità delle loro funzioni. Facciamo un passo indietro, allora, e riesaminiamo il percorso del pensiero di McDowell (e di Kant). In primo luogo entrambi distinguono la spontaneità dalla ricettività. La spontaneità è innanzitutto caratterizzata dalla libertà: nella dimensione del pensiero ci muoviamo all’interno di un insieme di costrizioni che sono tuttavia le regole stesse del pensiero, la trama delle sue interne giustificazioni. Alla libertà del concetto e al suo essere norma a se stesso deve tuttavia fare da controcanto la dimensione passiva dell’esperienza, il suo porsi come un attrito di cui nel conoscere si deve tener conto. Ma questo vuol dire che è impossibile comprendere la funzione della sensibilità se non si è in grado di cogliere contemporaneamente come essa possa comunque attribuire al pensiero una resistenza e un limite, in un qualche senso del termine, esterno alla mera autonomia delle regole della giustificazione razionale. Che le cose possano stare così sembrerebbe relativamente ovvio: la sensibilità deve avere una sua natura specifica e deve averla se vuole dare un contributo particolare al pensiero, ovvero se deve fissarlo al mondo. Ma se la sensibilità fosse semplicemente una nuova forma di spontaneità (se in altri termini fosse soltanto caratterizzata dal suo essere comunque già attraversata dalla razionalità e dalle operazioni logiche e concettuali) allora ci ritroveremmo ancora di fronte ad una pericolosa oscillazione filosofica in cui tale sensibilità sarebbe difficilmente inquadrabile. L’attrito di cui abbiamo bisogno per prendere definitivamente commiato dall’idea che il pensiero giri a vuoto, seguendo semplicemente le sue regole, deve essere creato dalla dimensione sensibile dell’esperienza. Sì, ma in che modo? La via indicataci da McDowell per venire a capo di questa difficoltà è innanzitutto di natura descrittiva. Egli scrive: «Ho detto che, quando godiamo di un’esperienza, le capacità concettuali sono già utilizzate nella ricettività, non esercitate su materiali della ricettività che si suppongono antecedenti. E con ciò non voglio dire che vengano esercitate su qualcos’altro. Suona del tutto stonato, in questo caso, parlare di esercizio delle capacità concettuali, farebbe pensare ad un’attività, laddove l’esperienza è passiva. Nell’esperienza ci si ritrova gravati di un contenuto. Le proprie capacità concettuali sono già state messe in gioco, nel rendersi disponibile del contenuto, prima che si abbia una qualunque scelta, in materia. Il contenuto non è qualcosa che si costruisce di propria iniziativa, come quando si decide che cosa dire a proposito di qualcosa. In effetti è proprio perché l’esperienza è passiva, un caso di ricettività in atto, che la concezione dell’esperienza che sto suggerendo può soddisfare il desiderio di un limite alla libertà, di quel limite che è all’origine del Mito del Dato» (McDowell 1994: 11). Il contenuto di un’esperienza sensibile non è qualcosa che si decide come si decide il contenuto di un discorso: quando rivolgiamo lo sguardo e vediamo che le cose stanno così e così, mettiamo (forse) all’opera un insieme di operazioni concettuali, ma certo non decidiamo quali. Non abbiamo la possibilità di scegliere: siamo gravati da contenuti che bloccano per certi aspetti la nostra spontaneità o, meglio, in qualche modo la direzionano. A questo punto, anche se affermiamo che l’esperienza si dà nel suo essere determinata concettualmente, non possiamo poi per questo decidere che cosa pensare e nemmeno come pensarlo. Non siamo liberi di esperire quello che vogliamo e il nostro esperire nella sua determinatezza concettuale non si traduce in un libero esercizio delle nostre capacità intellettuali. L’esperienza è passiva e quando un qualsiasi contenuto si dà percettivamente le nostre capacità concettuali sono già state messe in gioco e a noi non resta da fare altro che prenderne atto. È come dire che il lavoro è già stato fatto prima che si abbia una qualunque scelta in materia. È forse solo il caso allora di riconoscere che non è affatto opportuno parlare in senso proprio di un esercizio delle operazioni concettuali sul terreno della ricettività e questo perché nell’esprimersi così si suggerisce un pensiero che deve essere invece accuratamente messo da parte: il pensiero di un’attività che sarebbe nelle nostre mani, di un libero decidere le forme in cui si scandisce una prassi di sussunzione concettuale che si applicherebbe su un materiale di cui in qualche modo già disponiamo. E invece le cose non stanno così: non abbiamo un materiale già dato su cui esercitare il nostro pensiero nelle forme e nei modi che riteniamo opportuno, ma semplicemente esperiamo così e così e non possiamo fare altrimenti. La passività dell’esperienza ci appare così come l’indice di quell’attrito di cui eravamo in cerca. Il modo in cui pensiamo le cose nel nostro esperirle, non è qualcosa di cui disponiamo; questo da un lato restituisce un senso pieno alla parola “ricettività”, dall’altra rende conto del nostro essere ancorati a qualcosa, cioè ad un mondo che si manifesta in un’esperienza che si è concettualmente strutturata, ma di cui non possiamo decidere nulla, poiché non è nelle nostre possibilità scegliere di vedere questo o quello. McDowell ci esorta a disporci sul terreno descrittivo e ad osservare che anche se siamo in linea di principio passivi nel nostro percepire così e così il mondo, ciononostante le nostre percezioni si inseriscono come voci che pretendono di essere ascoltate nello spazio logico delle ragioni. E ciò è quanto dire che possiamo comprendere il carattere concettuale delle operazioni tacite che informano la nostra esperienza sensibile proprio per il fatto che esse si dispongono sullo stesso terreno delle attività che caratterizzano il pensiero nella sua spontaneità. Secondo il filosofo inglese, cogliamo il carattere concettuale dell’esperienza solo perché possiamo disporla sullo sfondo del suo interagire con il pensiero come libero esercizio delle nostre capacità intellettuali. Secondo McDowell, quindi, possiamo ben comprendere la natura concettuale dell’esperienza perché riusciamo a vedere bene il suo rapportarsi allo spazio logico delle ragioni nella forma non di un fatto da constatare, ma di una voce che pretende di dire e di asserire. L’esperienza non «accade», ma rende manifesto e asserisce qualcosa e ciò si scorge nel fatto che è possibile prendere posizione sulla nostra esperienza percettiva, accettandola, o, come può accadere, negandole l’assenso. I fatti accadono o non accadono, ma non sono veri o falsi e non possono per questo essere o non essere condivisibili. Insomma, si può sospendere il giudizio solo su un contenuto di giudizio: «Come requisito minimale, deve essere possibile decidere se giudicare o no che le cose siano come la propria esperienza le rappresenta essere» (McDowell 1994: 12). Alcune perplessità sorgono dall’analisi di questo passaggio: sembra che McDowell voglia dire che la condizione affinché la nostra facoltà di supporre che le capacità in gioco nell’esperienza siano concettuali, dipende dal loro riflettersi sul terreno della spontaneità, dal fatto cioè che le nostre percezioni entrino in gioco con le prese di posizione concettualmente determinate che appartengono a pieno titolo alla sfera del pensiero. Ma se ciò non dovesse accadere, esse non sarebbero affatto riconoscibili come capacità concettuali. McDowell sembra non voglia prendere in considerazione questa eventualità, anzi egli intende farci constatare che il carattere concettuale dell’esperienza si rivela non soltanto nel fatto che ciò che viene esperito si pone come una voce che dice la sua nello spazio logico delle ragioni, ma anche perché il suo calcare questa scena implica necessariamente un qualche minimale processo di integrazione con i concetti che fanno capo alla spontaneità e che appartengono a pieno titolo al processo aperto del conoscere. Se l’esperienza si pone come una voce che voglia farsi ascoltare dal tribunale delle nostre credenze, dovrà a sua volta accettare di mettersi in discussione e di equipararsi al sistema più ampio dei nostri concetti.
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