Secondo un modo abituale di pensare il fenomeno religioso, la religione è una questione di sentimenti e non di ragione; quest’ultima ha poi il diritto di interpretare i sentimenti seguendo i suoi schemi fissati da prospettive che spesso però non sono criticate. I sentimenti religiosi sono divenuti così facile preda di ermeneutiche selvagge. Non si può accettare che la religione sia da sé razionale, e nemmeno che sia ragionevole. Deve essere decostruita o smontata con i mezzi delle ermeneutiche riduttive che i tempi contemporanei hanno adottato, spesso con successo in molti campi. Questa opposizione tra la religione e la ragione influisce ovviamente sulla comprensione del titolo dell’enciclica Fides et Ratio1 di Giovanni Paolo II, che propone però non una opposizione ma una distinzione tra due modi di conoscenza.
Lo sforzo dei teologi non sarebbe, infatti, quello di mostrare la «razionalità» o almeno la «ragionevolezza» della fede – nel caso preciso dell’enciclica: della fede cattolica? All’inizio del cristianesimo comunque, non appariva chiara la disposizione contemporanea della problematica. S’insisteva su un’opposizione tra la fede e la mentalità del mondo, non tra la fede e la ragione. San Paolo non insisteva nella prima lettera ai Corinti sulla differenza, o sulla tensione, tra due saggezze che sono nemiche l’una dell’altra, quella del mondo e quella della croce? La pretesa di un’armonizzazione tra le due contendenti, la fede e la ragione, era però apparsa troppo rapidamente, come si osserva nella lettera dello stesso Paolo ai Romani?2 Non sembra, perché la critica di Paolo porta su un erroneo uso o su un uso insoddisfacente della ragione.
Una religione non è prima di tutto un sistema di dogmi, ma un atteggiamento fondamentale, e quindi un certo modo di vivere nel mondo, di comprenderlo. Ora ogni discussione razionale è ugualmente sottesa da un atteggiamento, da un modo di vivere il mondo, dal sentimento di essere in un certo modo nel mondo. Un sentirsi vivere nel mondo viene prima della ragione. Ecco perché le discussioni sulla religione tra intellettuali sono abitualmente poco pacifiche: nascono non dalla ragione ma dal cuore di ognuno, più profondamente che da qualsiasi osservanza logica. La prima sezione del mio articolo si soffermerà quindi sull’idea di religione popolare e sulla sua comprensione proposta dai Papi recenti; saremo così orientati verso un’interpretazione della religione che i moderni, spontaneamente razionalisti, travisano. L’avvicinamento del fenomeno religioso chiede quindi da parte nostra un certo spostamento intellettuale, che ci permetta di percepire meglio di cosa si tratti. Le due sezioni successive, la seconda nella quale verranno presentate le tesi di Gianni Vattimo e la terza nella quale verranno presentate quelle di Martin Heidegger, evidenzieranno le condizioni ermeneutiche dell’avvicinamento dei fenomeni, prima della religione e poi della ragione. La quarta sezione dell’articolo considererà la proposta fenomenologica di Jean-Luc Marion e le sue interrogazioni riguardo alla religione partendo dagli orientamenti della fenomenologia contemporanea.
1. La religione popolare
La pietà popolare è oggi disprezzata, almeno dagli ambienti formati alle discipline intellettuali ereditate dalla modernità. La situazione non era la stessa all’origine del cristianesimo. I primi cristiani vivevano in un mondo che era «pieno di dei». Quando san Paolo parla dei doni dello spirito, per esempio nella sua lettera ai Galati,3 non sta forse proponendo una serie di sentimenti che appartengono alla psychè universale, anche se sono sistemati o portati dagli stoici a una certa coscienza intellettuale, anzi filosofica? Le lettere di san Paolo, che sono i primi testi scritti da un cristiano, sono piene di allusioni a sentimenti umani, universalmente vissuti, riflettuti anche dallo stoicismo, in cui potremmo anche riconoscere alcune caratteristiche di una religione popolare.
Nell’Esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi4 pubblicata nel 1975, un anno dopo un sinodo dei vescovi dedicato all’evangelizzazione, Paolo VI ha scritto sulla religione popolare un paragrafo intero, il numero 48. Secondo questo testo, l’espressione popolare della religione è stata sempre viva nella Chiesa, e lo è ancora oggi, anche se è considerata dalla cultura attuale con sospetto o, anzi, con disprezzo. Non mancano però gli studi, e soprattutto le pratiche, che ne manifestano la vitalità e i valori nella Chiesa, senza però nascondere i problemi che trae dietro di sé. I rischi della religione popolare, infatti, sono conosciuti. Secondo Paolo VI, essa può deformare la fede, mescolarsi con pratiche superstiziose, confondersi con manifestazioni culturali che non servano la religione autentica, favorire la creazione di sette. Tuttavia, essa esprime una vera sete di Dio, che solo i poveri e le persone semplici, senza difesa, possono conoscere. È poi capace di portare i credenti all’eroismo, essendo questo un segno dell’autenticità dei loro modi religiosi. Da un punto di vista teologico, la religione popolare accompagna un senso molto profondo della paternità di Dio, della sua provvidenza, della sua presenza amorosa e costante presso ogni persona. Essa suscita alcuni atteggiamenti essenziali, per esempio la pazienza, l’attenzione ad altri, la devozione. Paolo VI proponeva quindi di distinguere la «religione popolare» dalla «religiosità popolare», perché questa ultima può subire molte curvature fino a pervertire la coscienza. D’altronde, di questa religiosità si occupano le scienze umane. Il Papa terminava il suo paragrafo n. 48 chiedendo ai pastori del popolo di Dio di considerare con grande attenzione i valori della religione popolare, di discernere gli atteggiamenti retti che essa suscita, perché non siano oscurati dal timore e dai rischi della deviazione.
Papa Francesco, venuto dai luoghi più lontani del mondo, lontani dalla prepotenza e dalla razionalità dell’Occidente, conosce bene i pregi ed i pericoli della religione popolare, che il documento detto «di Aparecida», traendo nel 2007 le conclusioni di una «conferenza» dei vescovi d’America latina, lodava perché conserva i tesori della ricca esperienza spirituale di quel continente. I numeri 122-125 della prima enciclica di Francesco, Evangelii Gaudium,5 pubblicata come fosse un programma operativo, ne riprendono poi il contenuto. L’annunzio del Vangelo non è l’appannaggio della gerarchia ecclesiastica, ma appartiene a tutto il popolo di Dio, ed è destino prima di tutto a questo stesso popolo che così si auto-evangelizza.6 La religione popolare è poi una realtà in continuo sviluppo, di cui lo Spirito Santo è il protagonista, afferma il Papa. Manifesta, infatti, una «spiritualità incarnata nella cultura dei semplici».7 La fede dei semplici è un «credere in Dio», un affidarsi a lui (una fede basata sulla fiducia) più che un «credere Dio» (ossia una fede intellettuale). Il documento di Aparecida, di cui il Cardinale Bergoglio è stato il redattore principale prima di essere eletto Papa, dichiarava che la fede popolare costituisce «un modo legittimo di vivere la fede, un modo di sentirsi parte della Chiesa e di essere missionario».8 L’enciclica Evangelii Gaudium evidenza poi l’importanza dei pellegrinaggi,9 un esempio tra altri del valore della religione popolare. È perciò importante guardare questa pietà popolare «con lo sguardo del buon pastore che non cerca di giudicare ma di amare».10 Solo amando, infatti, si può discernere e scoprire la vita teologale dei poveri in cui non c’è solamente una ricerca naturale di divinità ma anche e soprattutto la «manifestazione di una vita teologale animata dall’azione dello Spirito Santo riversato nei nostri cuori».11
Commentando la prima enciclica di Francesco, Jorge Seibold,12 un filosofo e teologo argentino attento alle pratiche religiose popolari e ai loro aspetti mistici, evidenzia una tradizione che oppone la religione popolare, fatta di gesti e di varie manifestazioni ogni tanto molto rumorose, e la mistica che sarebbe tutta d’interiorità, silenzio dell’anima, vita dello spirito. L’autore osserva però che la mistica popolare raggiunge il cuore delle persone, soprattutto dei poveri meno armati di cultura sofisticata, e fa sì che il senso interiore della mistica prenda corpo in loro e divenga accessibile visibilmente. Papa Francesco sostiene, infatti, che ci sono quattro principi fondamentali (quasi metafisici) utili per capire la realtà del mondo. Tutti mirano a «ogni realtà sociale»,13 in particolare questo: «Il tutto è superiore alle parti».14 Ora la mistica popolare, rileva Seibold commentando Francesco, integra la preghiera, la fraternità, la giustizia, la lotta, la festa, ecc. Contrariamente a ciò che si dice abitualmente, la mistica popolare non invita a compiere solamente dei gesti senza impegni sociali, senza considerare i doveri della giustizia.15 La mistica popolare non integra solamente un’interiorità rinchiusa nel gustare narcisistico di sé; assume un’interiorità attiva e impegnata nella società con lo Spirito d’amore.
2. Ermeneutica della religione, oggi
La riflessione di Gianni Vattimo sulla religione non tiene conto della religione popolare.16 Non s’interessa neanche delle relazioni conflittuali tra la religione e la ragione perché, a suo parere, la religione e la ragione sono, l’una e l’altra, pratiche da interpretare. Le prospettive ermeneutiche contemporanee hanno un’innegabile universalità. Rimane quindi nelle orme della tradizione filosofica più autentica che considera tutti i fenomeni, compreso le pratiche religiose e razionali, dall’alto delle potenze dell’intelletto che, oggi, si effettuano in modo ermeneutico. Non c’è, infatti, attuazione delle potenze intellettuali senza linguaggio, e quindi sistemi di segni. Vattimo trae poi le regole dell’interpretazione prima di tutto dalle problematiche heideggeriane, di cui è stato uno dei migliori conoscitori. La sua ricerca non si accontenta delle spirali infinite e indecise delle ermeneutiche scientifiche. L’ontologia, anche se problematica, non sparisce totalmente dalla sua riflessione. I problemi posti dalla religione come dalla ragione sono, infatti, quelli dell’idea di un fondamento che non possiamo immaginare chiave di volta di un sistema chiuso e a disposizione della sola logica formale, ma che non sia neanche un vuoto di senso.
Partiamo dall’etimologia del termine «religione», che significa inizialmente «stabilire dei legami» tra i molti aspetti di una società, tra i suoi membri, tra gli uomini e le donne che la compongono, tra i suoi tempi antichi e il presente, tra il trascendente e l’immanente. La funzione che definisce la religione sembrerebbe essere quindi quella di una mediazione tra differenti punti di vista che s’incrociano per costituire una società, orizzontalmente per così dire, tra i suoi elementi «empirici», e verticalmente tra questi elementi e le strutture sopra-personali o trascendenti che aprono tutte le relazioni orizzontali oltre la sola dualità. L’etimologia del termine «logos» dimostra alcuni tratti simili. Il logos, o la «ragione» con la sua essenza «logica», assume, infatti, la medesima funzione di mediazione nei due orientamenti, orizzontale e verticale. La logica rende possibile gli incontri tra persone che si capiscono, ma allo stesso tempo s’impone a loro perché si possano intendere. Una proposizione senza logica sarà incomprensibile. L’etimologia del termine «ragione» dà quindi una forte luce, simile a quella del termine «religione». La parola logos rimanda poi a «leggere», «legge», «legare» ecc. Significa un lavoro di unificazione, o almeno di mediazione, di ponte tra elementi distanti. Le etimologie dei termini «religione» e «ragione» segnalano quindi una reale vicinanza del loro significato. La questione è perciò di sapere se, in realtà, la religione e la ragione siano o no intercambiabili, soprattutto se si considera la dimensione verticale che appartiene ad ambedue e che significa il «fondamento» di ogni relazionalità. Il metodo filosofico per affrontare tale problema, o la questione del significato del fondamento, sarà l’ermeneutica, l’interpretazione.
Fermiamoci adesso all’ermeneutica della religione. Secondo l’articolo di Vattimo «La traccia della traccia», un testo del 1992,17 la religione è un’esperienza del pensiero. Secondo un’etimologia antica del termine «religione»,18 essa consisterebbe nel «rileggere», cioè nel «leggere di nuovo» i modi d’azione del passato così come le norme di questi modi. La religione sarebbe perciò profondamente «nostalgica».19 Il suo compito sarebbe di riattivare una traccia addormentata, o di riaprire una ferita, anche di rivelare ciò che si pensava sorpassato o che si voleva definitivamente rinchiudere nel passato. Il ritorno odierno delle religioni potrebbe, infatti, avere questo significato di «ethos» o di costumi antichi. Perché questo ritorno? Perché l’uomo ha oggi paura per la sua specie, ed ha anche paura di sé e per sé. La proliferazione delle bombe atomiche, i rischi ecologici, le manipolazioni genetiche, la perdita del senso dell’esistere umanamente, la noia del vivere, tutto ciò provoca il rigetto della modernità, e di una globalizzazione senza viso e senza responsabili. L’individuo si ripiega su se stesso, sulla sua identità locale, etnica, tribale, sulla sua immagine narcisistica. La religione offre una potente forza d’identità che s’immagina fondata trascendentemente, che può anche essere violentissima per difendersi. Siccome la ragione moderna è stata all’origine delle modifiche depersonalizzanti della vita contemporanea, ritorniamo alla religione. Le scienze vincono l’empirico ma ci opprimono.
Sarebbe quindi venuto il tempo di tornare all’essenziale, cioè a un fondamento stabile, come c’era prima della scoperta moderna della storicità? Poiché il nostro secolo è quello dell’inautenticità, dobbiamo essere antimoderni per essere autentici? Non ci sarebbe però, in questo sogno, un’inautenticità ingenua e quindi ancora peggiore della prima? Martin Heidegger aveva toccato il problema, con un’intelligenza e una profondità che possiamo riconoscere oggi impressionante. La sua proposta non era dogmatica. Non si è sclerotizzata. Uno dei suoi primi testi sulla questione che ci preoccupa adesso è del 1938, «L’epoca dell’immagine del mondo».20 Heidegger vi mostra quanto la scienza moderna manifesti la volontà di potenza dell’uomo che si sa capace di trasformare la realtà in vista di realizzare i propri sogni e progetti. Un altro testo, «L’essenza della tecnica»,21 segnala però nel 1951 un’evoluzione dell’autore, in un certo modo una radicalizzazione perché non serve l’opposizione alla tecno-scienza contemporanea. Non si può tornare a prima della Modernità, verso un vecchio principio che si dichiarerebbe «fondamentale». La scienza moderna, che è una tecno-scienza, lascia tuttavia apparire un modo d’essere che potrebbe non essere radicalmente inautentico da un punto di vista metafisico.22 Un ritorno alla religione antica come rifiuto della tecno-scienza sarà quindi senza senso storico e doppiamente inautentico, la manifestazione di una concezione radicalmente inautentica dell’uomo, un rifiuto della sua fatticità, della propria morte. Ecco perché, secondo Heidegger, abbiamo bisogno di un «altro inizio»,23 che non ripeta solamente il primo inizio antico di un logos onnipotente che degenera in tecno-scienza.
Non possiamo pensare che il ritorno della religione antica sia oggi il segnale di una necessità iscritta nella storia. La storia non torna mai indietro. Se il ritorno della religione è un regresso al passato, la religione sarebbe solamente la manifestazione inautentica dell’inautenticità dei tempi contemporanei, o la manifestazione di un destino inautentico dell’essere umanamente. In questo caso, gli schemi interpretativi della religione proposti dai filosofi dell’Aufklärung non valgono più, e neanche i sarcasmi degli enciclopedisti francesi. La loro fiducia nella ragione rende incapace di cogliere il senso del ritorno della religione che non può più essere interpretato come se fosse solamente il segno di una fuga da un mondo che impaurisce perché non ha più alcuna rappresentazione di un fondamento reperibile. Un’interpretazione valida del ritorno della religione, secondo Vattimo, non può che essere oggi il riconoscimento del senso vissuto da una «creaturalità» nella «fatticità».24 Il senso della dipendenza, tipico di ogni religione, anzi criterio discriminante per cui si possa dire che un atteggiamento sia religioso o no, appartiene all’essenza di una «fattualità originaria»25 dell’uomo. La finitezza è il dominio della prova o della verifica di una tale verità.26 Accettare la finitezza del quotidiano è però difficile.
3. Ermeneutica della ragione, oggi
La questione che pone oggi la filosofia alla religione non si fonda più su un’opposizione alla ragione. Le ermeneutiche, che sono di molti stili, s’interessano all’una e all’altra. Sono abitualmente ermeneutiche riduttive che intendono spiegare l’essenza della ragione come della religione a partire da atteggiamenti ambigui, per non dire negativi. La religione e la ragione sono in questo senso oggetto di «critiche», un termine il cui significato integra molte analisi strutturate scientificamente. Le critiche ermeneutiche cercano però, come in Kant, le cause o le ragioni soggettivamente strutturali di ogni fenomeno, ma in prospettive empiriche. All’epoca dell’Aufklärung, l’idea era che la religione poteva essere interpretata empiricamente, ma anche con gli strumenti della ragione. Questi hanno, infatti, la capacità di oggettivare il vissuto soggettivo e quindi di relativizzare i risultati delle interpretazioni empiriche. Queste interpretazioni sottolineavano come la religione provenisse dagli interessi della soggettività, per esempio dalla sua volontà di sopravvivenza. La critica della religione all’epoca dell’Aufklärung insisteva invece sulla derivazione della religione da strutture immanenti alla ragione.
La ragione, però, subisce oggi la stessa critica: sarebbe anch’essa al servizio dei propri interessi. Gli interessi della ragione, poi, non sono più i valori, le idee, ma la possibilità di maneggiare l’empirico. I lavori della ragione valgono solo se sono utili, e vendibili. La religione poteva essere considerata prima fondata su processi psicologici scientificamente osservabili; oggi, la consideriamo conseguenza di processi neurologici. E la stessa interpretazione vale per la ragione. Nell’antichità, si distinguevano la dianoia e il nous, termini che in latino si traducono con ratio e intellectus. Il termine dianoia significa la nostra capacità di discutere e di argomentare discorsivamente. Il nous è invece la facoltà d’intuire di colpo la finalità delle nostre attività intellettive. La dianoia è analitica; il nous è sintetico. Le ermeneutiche contemporanee si allontanano da questo schema, togliendo al nous la sua capacità di cogliere qualsiasi sintesi data a priori, rendendolo senza funzione, inutile. Gli argomenti elaborati dalla dianoia pretendono di raggiungere gli stessi obiettivi mirati dal nous sotto la forma di algoritmi. Argomentare sarebbe costruire un algoritmo, o applicarlo. Il nous, che corrisponderebbe per i filosofi antichi alla nostra facoltà d’intuizione dei principi, è ridotto dalle ermeneutiche moderne a espressione di una «volontà di potenza» che si esercita direttamente nei processi della dianoia per imporre i suoi orizzonti di pura immanenza esistenziale. Per esempio (e soprattutto), la volontà di possedere o il commercio sono divenuti lo stimolo che spinge a organizzare il mondo, a creare delle rappresentazioni di ciò che sarebbero i suoi elementi, e a decidere poi ciò che si potrebbe fare con questi elementi, senza preoccuparsi del vero e del falso.
La ragione moderna pensa la religione interpretandola come un sistema di cause nascoste o metaforizzate che non si lasciano vedere. L’interpretazione della religione avrebbe quindi come compito quello di portare alla luce le operazioni che producono realmente la religione stessa. La chiave di lettura dell’ermeneutica religiosa è abitualmente ritenuta, fino a questo punto della nostra riflessione, quella di smascherare il principio generale che la genera, cioè la volontà di potenza. Ora si può interpretare l’azione della ragione con le stesse determinazioni. La storia della scienza legittima una tale impresa: la ragione scientifica, idealmente capace di dare una interpretazione generale del mondo, non è divenuta una ragione tecnologica, e la scienza una tecno-scienza che si impossessa del mondo empirico per maneggiarlo e non più solamente per interpretarlo?
Se poi una medesima interpretazione riduttiva può essere applicata alla religione e alla ragione, l’argomento degli scienziati contro la religione cade. Non siamo più, perciò, alla presenza di un’opposizione tra la religione e la ragione, ma piuttosto di un’unica volontà di potenza che anima discretamente tanto la religione quanto la ragione, che sono due forme differenti di un’unica fonte, della medesima volontà di potenza, cercando ciascuna quindi d’impossessarsi poi dell’altra. La tecno-scienza, infatti, non è meno dogmatica della religione. Il problema della relazione conflittuale tra la religione e la ragione diviene allora più chiaro. È quello del potere che la ragione si attribuisce per smontare le pretese della religione, per evidenziarvi una volontà di potenza, la quale, però, non è della sola religione ma anche della ragione stessa. La ragione sarebbe quindi animata da una gelosia nei confronti della religione popolare e del suo successo presso chi non ha la capacità di osservare tutte le norme complicate della tecno-scienza, e reciprocamente la religione sarebbe gelosa del successo della tecno-scienza.
L’atteggiamento dogmatico è correttamente interpretato come volontà di potenza che s’impose nei due domini della religione e della tecno-scienza. Non dovremmo però chiedere se questa interpretazione della scienza che interpreta la religione come espressione di una volontà di potenza che, in fondo, è identica alla sua, non sia anche da interpretare, a un terzo livello quindi, simile volontà di potenza. Al dogmatismo della religione (primo livello) seguirebbe il dogmatismo della scienza (secondo livello), al quale seguirebbe il dogmatismo ermeneutico (terzo livello) che svuota di senso ogni richiesta di fondamento e ogni pratica, scientifica o religiosa. L’ermeneutica è spesso accusata di relativismo, perché esclude che si possa arrivare a qualche conclusione certissima. Dobbiamo però osservare che questo non legittima qualsiasi affermazione e il suo contraddittorio. Per scartare la validità di un’accusa assurda di relativismo, per non cadere neanche in un dogmatismo nichilista, la metodologia fenomenologica non potrebbe venire in aiuto dell’ermeneutica? Vediamo rapidamente come, con Heidegger.
Heidegger sostiene l’essenzialità di una differenza «ontologica» che esprimiamo distinguendo tra il verbo «essere» e il sostantivo «ente». Gli enti sono oggetti offerti alle nostre conoscenze che li determinano, non importa in che modo: sensibili nel caso di una cosa sensibile, razionali nel caso di una categoria o di una rappresentazione immaginativa, intellettuali nel caso di un principio primo. «Essere», invece, sarebbe l’unico «principio» riconosciuto dalla tradizione filosofica aristotelica. Questo principio non appare direttamente, in carne e ossa come direbbe Husserl, e quindi non possiamo parlarne se non mediatamente, interpretando le nostre molte esperienze e i loro differenti dinamismi. «Essere» è quindi un principio, che è allo stesso momento problematico. L’uomo è l’unico «ente» capace di porre la domanda sul suo «essere». Questa domanda non può, infatti, ricevere alcuna risposta senza l’impegno dell’uomo che la pone, senza che le sue esperienze non siano interpretate in una direzione qualsiasi. Il principio è problematico – ciò non significa che non ci sia –, e quindi l’uomo che pone la domanda del principio si rivela anch’egli problematico.
L’uomo problematico non ha alcuna evidenza, né positiva né negativa, sul suo «essere» più radicale, orizzonte e insieme origine del suo domandare filosofico. Sarà poi per questa ragione che nasce l’esistenzialismo, come lo indica l’inizio del celeberrimo libro di Gabriel Marcel, L’uomo problematico: «Il problema per il quale vorrei prospettare alcuni elementi risolutivi è un problema di secondo grado, è il problema di un problema, che formulerò così: a quali condizioni l’uomo, nella sua pienezza, è potuto diventare un quesito per l’uomo?»27 L’uomo è però certamente sensato in se stesso. Se non fosse così, se non avesse un senso intrinseco, non ci inquieteremmo di trovarlo. Tuttavia, non s’incontra mai con una piena evidenza. Lo percepiamo solamente in differenti modi, tutti provvisori, secondo le sue innumerevoli possibilità di esporsi, di rendersi visibile. L’uomo sa solamente che la questione del senso è la più importante che si possa porre.
Il senso è, infatti, desiderabile; c’è nell’uomo una vita che lo spinge avanti perché faccia delle azioni che non sono assurde ai propri occhi. Non è l’uomo che decide di dare senso al suo essere vivente. Benché il senso sia oscurato, l’uomo si trova sensato, prima di ogni scelta. Subisce in questo modo un dono dato a priori, un’origine che egli può determinare poi secondo le sue condizioni ma senza mai impossessarsi di essa, se non fittiziamente. La funzione della ragione è allora di chiarire il vissuto, di criticarlo, di cercare criteri per fondare la sua critica, anche se non sarà mai soddisfacente. Spingendo un po’ avanti questa considerazione sull’uomo, potremo dire che questo si riconosce «donato» a se stesso. È un ente minore che un «essere» maggiore sostiene fuori dal nulla e attrae più in alto. Heidegger esprime questa esperienza spirituale dicendo che l’«essere» si dona negli «enti», avviene o si mostra in essi, nell’uomo in particolare quando questo interroga in direzione del senso, dell’«essere». «L’Esserci non è soltanto un ente che compare fra altri enti. Possiede anzi il privilegio ontico che a questo ente, nel suo essere, importa di questo stesso essere».28 Nell’interrogare dell’uomo o del «Da-sein» in direzione del senso, il senso avviene, si fa «evento».
Ovviamente, l’uomo può fare il sordo e non riconoscere il dono che si offre in lui. Un linguaggio religioso sarà forse utilizzato per nominare questa sordità dicendo che esprime una scelta peccaminosa; il filosofo potrà invece seguire altri modelli interpretativi, riconoscervi con Heidegger un «destino» dell’essere stesso, una curvatura del dono originario d’essere che, precisamente, si nasconde nel proprio dono, e lascia quindi lo spazio vuoto per alcune «spiegazioni» fondate su scelte a priori indeterminate di senso ma conforme agli interessi della ragione, o semplicemente dell’uomo. La modernità e la tecno-scienza sono delle speci di «avatar» dell’«essere» che in ogni modo si dona nella storia.
4. La religione secondo Marion
Nel suo articolo del 1992, Vattimo scrive che la riflessione «insiste sul “religioso” […] come irruzione di un “Altro” e discontinuità nel corso orizzontale della storia. Salvo che […] questo carattere di discontinuità e di irruzione è troppo spesso inteso […] come pura negazione “apocalittica” della storicità, come nuovo inizio assoluto».29 Questa discontinuità non contraddice la tesi fenomenologica dell’ontologia heideggeriana.
Jean-Luc Marion, che insegnava alla Sorbona di Parigi in una cattedra di storia della filosofia, riconosce Heidegger come storico della filosofia. Il suo libro Riduzione e donazione30 ne è una testimonianza dal punto di vista che qui ci interessa. Il suo impegno nella Chiesa cattolica non è un segreto, ma non ostacola i suoi compiti professionali. Il suo mestiere da professore e scrittore in filosofia rimane coerente con le norme in vigore. È un ottimo lettore di Heidegger, come Vattimo. La sua opera lo promuove poi quale uno dei fenomenologi più importanti oggi in Francia. Questo non significa che la sua fede non possa ispirare gli orientamenti della sua ricerca. È e rimane perciò un pensatore sospettato perché sarebbe troppo legato alla fede cattolica per essere un fenomenologo rigorosamente rispettoso dei limiti della sua tradizione filosofica. Tali sospetti potrebbero tuttavia venire da commentatori similmente sospettabili a ragione delle proprie decisioni riguardo al senso dell’essere. Possiamo quindi non lasciarci impressionare da essi.
Presenterò l’itinerario filosofico, o per meglio dire fenomenologico di Marion, in cinque tappe successive. Questo itinerario è importante per capire la sua interpretazione della religione in generale, del cristianesimo in particolare. La prima tappa è del 1989: Riduzione e donazione. È un libro su Husserl e Heidegger e la loro categoria di «riduzione» che Marion connette con quella di «donazione», conformemente ad una «scuola» interpretativa che va avanti in questa direzione.31 Nel primo volume delle sue Idee del 1913, Husserl dichiara, nel § 24, che il principio dei principi era l’intuizione delle cose che si donano secondo il loro modo di donarsi e in questi limiti.32 I limiti possono essere quelli per esempio delle nostre facoltà: il vedere non il toccare; il toccare non è il calcolare, ecc. L’intuizione è quindi determinata dalla soggettività (che, infatti, intuisce), e dai limiti della soggettività, insieme ai limiti delle realtà oggettive. A questo principio dell’intuizione, Husserl ne aggiunge altri due, «ogni conoscenza è intenzionale» e va «dritto alla cosa stessa», cioè alla cosa come appare ed è intuita. Dopo l’analisi della proposta di Husserl e alla luce degli sviluppi imposti poi da Heidegger alla fenomenologia, Marion pone un quarto principio: «tanto più riduzione, quanto più donazione». L’articolazione husserliana dell’intenzionalità e dell’intuizione, con l’evidenza, deve quindi essere ripensate.
Il termine «riduzione» può essere inteso in differenti modi. Per una prima comprensione, potrebbe essere una riduzione di molte esperienze a qualche «essenza» che appare in ognuna di esse, cioè a un concetto comune che sarebbe una semplice «apparenza» considerata dalla coscienza. Nelle sue conferenze di Gottinga, nel 1907, Husserl proponeva l’esempio del colore «rosso», la cui essenza non dipende del tipo di materia che si dipinge di rosso e di cui, perciò, si può fare l’astrazione.33 La comprensione della riduzione così apparentata alla teoria classica dell’astrazione conduce verso una teoria dell’intuizione «donatrice», che si può pensare indipendentemente da qualsiasi contenuto che vi si rappresenta. Questa nuova riduzione considera il conoscere dal punto di vista dell’attività soggettiva, cioè da ciò che avviene dal lato del conoscente, e non più solamente dal lato della «cosa» conosciuta, dell’essenza oggettiva. Questa riduzione conduce quindi al riconoscimento dell’atto di conoscere come «evento» in seno a un’evidenza.
La problematica di Husserl ha, nel corso degli anni, subìto una certa svolta. Abbiamo visto che, nel 1913, il fondatore della fenomenologia insisteva sulla specificità dell’intuizione quale principio dei principi. Il tema dell’intenzionalità prende spazio però già nel 1913, ma ne prenderà sempre di più nel passare degli anni in tal modo che l’intuizione scivolerà in secondo piano. Gli interpreti hanno discusso a lungo su questa svolta, supponendo l’intuizione un atto «oggettivo» di donazione, e l’intenzionalità invece come atto della coscienza «soggettiva». La riflessione husserliana sulla coscienza «costituente» andava ovviamente nella direzione di un approfondimento dell’intenzionalità a scapito dell’intuizione. Nel suo libro del 1989, Marion tenta quindi di evidenziare l’essenzialità dell’intuizione, ma purificata da ogni contenuto ontico. Infatti, ben prima del 1913, nella Ricerche logiche del 1900, Husserl trovava un’armonizzazione dell’intuizione e dell’evidenza che dinamizza l’intenzione. Da ciò viene il titolo del libro che mira una nuova articolazione dell’«intuizione» e della «donazione».
La seconda tappa di Marion si nota in un testo del 1991,34 in cui appare per la prima volta il sintagma «fenomeno saturo». Un fenomeno saturo è un fenomeno che ha in sé tutte le sue caratteristiche. Possiamo considerare ognuna di queste caratteristiche, ma per conoscere bene il fenomeno dobbiamo riferire ogni caratteristica all’insieme di cui fa parte. Solo così potremo considerare correttamente il fenomeno saturo. Il fenomeno saturo appare sempre in un modo parziale, ma vi esercita necessariamente la sua potenza di sintesi in tal modo che nell’elemento particolare percepito possiamo riconoscere la realtà sintetica del fenomeno che si dona. L’apparire determinato del fenomeno non è senza l’esercizio della sua potenza di sintesi. È necessario dire poi che la sintesi costitutiva del fenomeno saturo non proviene dall’addizione delle sue caratteristiche. È a priori, come «uno» è dato a priori, senza operazioni che lo precederebbero e da cui sorgerebbe. Ecco perché l’atto di donazione del fenomeno saturo si chiama «evento». L’evento essendo strutturato a priori, atto di un fenomeno saturo che contiene moltissimi aspetti, non sarà caratteristico prima di tutto di Dio, assolutamente a priori? Di Dio però, non abbiamo alcuna intuizione.
La terza tappa è del 1996: Dato che. L’articolo del 1992 torna in questo libro35 con poche modifiche ma alcuni prolungamenti importanti. Vi si distinguono adesso quattro tipi di fenomeno saturo: l’evento, l’idolo, la carne, l’icona. I fenomeni saturi si definiscono così: «Non possono mai costituirsi come oggetti in un orizzonte e attraverso un io».36 Le caratteristiche di un fenomeno saturo sono, infatti, quattro; è (1) irripetibile perché (2) eccede tutte le sue cause; è (3) individuale perché unico, e (4) pensato possibile; la sua realizzazione costituisce l’evento propriamente detto. Del fenomeno saturo, abbiamo l’intuizione di molti aspetti determinati ma non dell’unità data a priori. Di questa stessa invece, abbiamo un’evidenza intellettuale, la quale è comprensibile ma senza escludere i conflitti tra i molti modi d’interpretazione ragionevolmente possibili. Anzi, un tale conflitto rende testimonianza alla trascendenza intellettuale del fenomeno saturo unito in sé. Un fenomeno storico, per esempio la battaglia di Waterloo, è tipico di un «evento» perché non si potrà mai scoprire tutte le cause del suo apparire. Vale lo stesso per ciò che Marion chiama l’idolo, la carne e l’icona.
Dio sembra essere quindi un fenomeno saturo come gli altri, per non dire il campione di un ogni fenomeno saturo. Da ciò la critica di Emmanuel Janicaud, già nel 1991, in La svolta teologica della fenomenologia francese.37 Ogni donazione ha un’origine che è potente con le tre caratteristiche della irripetibilità, eccedenza e possibilità. È anche individuale, ciò che spinge la riflessione verso l’ontoteologia. Alla critica di Janicaud, Marion risponde in Dato che, § 7, dicendo che la critica vale alla luce dell’articolazione classica della causa e dell’effetto, che sarebbe lo schema che struttura infatti l’ontoteologia, uno schema però che Marion smonta, per esempio nel § 17 di Dato che.
La quarta tappa è del 1999, nell’ultima sezione di un articolo intitolato «L’Evento e il fenomeno avveniente» (in De surcroît)38. Questa sezione è intitolata «La Resistenza al rivelato». Si parte dall’ultima parte di Dato che, intitolata «L’Adonato». Un dono è riconosciuto quale dono se qualcuno lo riceve e si riconosce costituito da esso, si riconosce quindi se stesso «adonato». Il destinatario del dono è così trasformato. Dono e adonato si rivelano reciprocamente, anche se il dono abbia l’iniziativa. L’adonato rivela il dono a condizione però che ne sia «toccato». Marion parla a questo riguardo di «resistenza», un termine da capire però nel suo significato elettrico;39 una resistenza elettrica si riscalda, infatti, quando la corrente la attraversa. Più essa lascia passare la corrente, più si riscalda e fa vedere così l’energia della corrente elettrica. In questo modo, si dirà che, più insiste il dono, più resiste l’adonato. L’origine del riscaldamento non si vede; si manifesta nella trasformazione dell’adonato. Maurice Merleau-Ponty diceva qualcosa del genere, a proposito della pittura di Cézanne: «il pittore rende visibile il fenomeno che nessuno aveva visto prima, perché riesce sempre per la prima volta a resistere all’apparente dono perché esso si mostra realmente; il dono diviene allora visibile a tutti».40 Il rivelato è quindi discreto, come ogni fenomeno saturo. Eccede le sue manifestazioni, ma è percepito perché precisamente eccessivo. Togliamo quindi la possibilità di dire l’origine oggettivandola. Come dire però il dono che si rivela? Sarà nel modo d’essere dell’adonato, e in nessun altro modo. Si dona quindi proporzionandosi.
L’articolo del 2005 «La banalità della saturazione»41 presenta una quinta tappa. Tutto è fenomeno, anzi non c’è alcun fenomeno che non sia saturo. Il fenomeno saturo diviene perciò un paradigma universale. Nel 1913, Husserl diceva che l’intuizione riempie l’intenzione che è, infatti, orientata dinamicamente verso di essa. Abbiamo già notato quanto quest’articolazione dell’intuizione e dell’intenzione sia discutibile. Marion riprende il dossier nel 2005. Per lui, evidenza e intuizione vanno di pari passi, benché l’evidenza abbia un tratto specifico ignorato dall’intuizione. L’orizzonte dell’evidenza eccede l’intuizione. L’eccedente non può essere, infatti, a portata di qualche intuizione; può invece essere evidente. È affermabile però solo secondo le condizioni dell’eccedenza dell’eccedente. La tesi sembra classica: assume la tradizione del desiderio di conoscere Dio, cioè la tradizione della filosofia che porta alla soglia della teologia. La teologia verrebbe in una tappa successiva. Per il filosofo, ci sarebbe solo l’evidenza dell’inafferrabilità dell’eccessivo desiderato. Il filosofo avrebbe, per conseguenza, solo l’evidenza della sensatezza dell’inafferrabile. Il rivelato può allora presentarsi sotto le norme del «come» e degli stessi «limiti» dell’«eccessivo», conformemente alle indicazioni date da Husserl che Marion assume. L’adonato rimane però quale «resistenza». L’icona si presenta quale resistenza di ciò che eccede ogni modalità. Il fenomeno della rivelazione costituisce quindi un modo radicalizzato di saturazione. Se questo modo è pensabile, se l’evidente è pensabile senza intuizione, allora è pensabile la rivelazione. Quanto all’effettività della rivelazione, si vedrà in teologia.
5. Conclusione
Il lavoro di Marion, anche se conosce degli approfondimenti successivi, sembra comunque rimanere nella distinzione presentata nei suoi primi libri, L’Idolo e la distanza, e Dio senza essere.42 Il primo capitolo di quest’ultimo libro, intitolato «L’idolo e l’icona», è del 1979 e tematizza una opposizione già funzionante nel libro precedente. Al punto di partenza, si riconosce un’opposizione, che in realtà era già presente nelle sue grandi linee in Platone.43 L’idolo dipende dallo sguardo del suo fedele; il fedele dell’icona, invece, si lascia guardare da essa. Scrive Marion: «Lo eidolon presuppone lo splendore greco del visibile, la cui policromia dà adito alla polisemia del divino; l’eikon, invece, […] si concentra […] sull’unico».44 Questa distinzione si dispiega in questo modo: l’idolo, per definizione, si vede e non può non essere visto; «si erge solo là dove non si può fare a meno di vederlo»; «lo sguardo fa l’idolo e non l’idolo lo sguardo: il che significa che l’idolo colma con la propria visibilità l’intenzione dello sguardo, che vuole appunto soltanto questo, vedere. Lo sguardo precede l’idolo, per il semplice fatto che la mira precede e suscita ciò a cui mira».45 La categoria fenomenologica dell’intenzione è qui assunta quale categoria di una filosofia poco radicale. L’icona, invece, «non è l’esito di una visione a ciò che la provoca. L’icona non si vede ma appare o, più primitivamente, pare, ha l’aspetto di…»; «mentre l’idolo dipende dallo sguardo che lo mira, l’icona convoca la visione lasciando che il visibile […] si saturi a poco a poco di invisibile».46
Le categorie dell’idolo e dell’icona sono tra le più antiche di Marion. La categoria di «resistenza» dell’«adonato» è invece recente. Presenta però una metafora molto espressiva, particolarmente per la riflessione sulla religione. La «resistenza» elettrica si riscalda tanto più è potente la corrente che la attraversa. Notiamo però che se si riscalda, è propriamente perché «resiste» al passaggio della corrente. Questa metafora significa quindi che la religione iconografica si oppone all’idea della religione idolatrica perché quest’ultima si pone maestra del religioso, quando invece la prima subisce la potenza dell’origine e viene messa in moto da essa. L’autenticità di un atteggiamento religioso appare quindi nella misura in cui vi si provoca un movimento di conversione, e quindi l’accettazione di un certo depotenziamento nei confronti del divino iconico. La religione autentica implica uno spostamento della persona religiosa, una chiamata a uscire da sé, senza accontentarsi di relativizzare le proprie pratiche a seconda di ciò che le pare – ciò che sarebbe infatti un atteggiamento propriamente idolatrico.
Notiamo infine che questa esigenza di spostamento di sé appartiene anche alla vita intellettuale, alla ricerca scientifica. In ciò, la religione e la scienza non si oppongono ma si accompagnano. Non c’è un sapere scientifico che possa escludere la ricerca, e nemmeno rinunciare a essa; una certa fiducia o una certa fede è indispensabile per il progresso della scienza. Ritroviamo così un punto sottolineato prima: tra la ragione scientifica e la fede religiosa, non c’è alcuna opposizione dal punto di vista della vita spirituale. La loro distinzione è di un altro tipo. Di tale problema, però, non possiamo soffermarci a parlarne in questo articolo già troppo lungo.
-
G. Paolo II, Fides et Ratio, del 1998. ↩︎
-
San Paolo, Lettera ai Romani, cap. 1, v. 20. ↩︎
-
Vedi s. Paolo, Lettera ai Gallati, cap. 5, v. 22. Vedi anche dello stesso autore, Prima Lettera ai Corinzi, cap. 13, vv. 4-7. ↩︎
-
Paolo VI, Evanglii Nuntiandi, del 8 dicembre 1975. ↩︎
-
Francesco, Evangelii Gaudium, del 24 novembre del 2013. La somiglianza del titolo di Francesco con quello di Paolo VI non dovrebbe essere giudicato casuale. ↩︎
-
L’idea è forte. Francesco, in una nota del n. 122 di Evangelii Gaudium, rimanda al Documento di Puebla della Terza Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi (1979) e al Documento di Aparecida, della Quinta Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi (2007). ↩︎
-
Celam, Documento di Aparecida, n. 263. ↩︎
-
Ivi, n. 264. ↩︎
-
Francesco, Evangelii Gaudium, n. 124. ↩︎
-
Ivi, n. 125. ↩︎
-
Ibidem – cf. Rm 5,5. ↩︎
-
J. Seibold, La “mistica popolare”, in Francesco, Evangelii Gaudium. Testi integrale e commento de «La Civiltà Cattolica», Ancora, Milano 2014, pp. 197-208. ↩︎
-
Francesco, Evangelii Gaudium, n. 221. ↩︎
-
Ivi, n. 237. ↩︎
-
Vedi Evangelii Gaudium, n. 70. ↩︎
-
In un dialogo costruito con Pierangelo Sequeri e Giovanni Ruggeri (G. Vattimo – P. Sequeri – G. Ruggeri, Interrogazione sul cristianesimo, Castelvecchi, Roma 2013, p. 19), Vattimo parla del suo rapporto col cristianesimo «che […] ho ritrovato accettando piuttosto la fede delle vecchiette che la fede dei teologi». È però difficile sapere quale registro retorico utilizzi qui l’autore. Alcune pagine dopo, Vattimo scrive che «il nome di Dio mi sembra positivamente vago» (ivi, p. 22). Forse, non lo era per le «vecchiette», anche se, ovviamente, queste avranno molte difficoltà nel precisarlo. Tuttavia, ci sono delle dichiarazioni di Vattimo che le «vecchiette» avrebbero potuto capire senza difficoltà, perché nascono dalla vita, per esempio questa: «ho una fede vitale […] nel senso del sapermi e sentirmi inserito in una storia che mi porta, sorretto da una sorta di provvidenza» (ivi, p. 40). Paolo VI avrebbe potuto riconoscere la bontà iniziale di una tale professione di fede. ↩︎
-
In J. Derrida – G. Vattimo, La religione, Laterza, Roma 1995, pp. 75-89. ↩︎
-
Viene da Cicerone, come notava già Tommaso d’Aquino, Somma di teologia, IIa-IIae, q. 81, a. 1, resp. ↩︎
-
G. Vattimo, La traccia della traccia, cit., p. 79: «ricerca nostalgica di un fondamento ultimo e inconcusso». ↩︎
-
In M. Heidegger, Sentieri interrotti, trad. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1989, pp. 71-101. ↩︎
-
In M. Heidegger, Saggi e discorsi, trad. G. Vattimo, Mursia, Milano 1991, pp. 5-27. ↩︎
-
G. Vattimo, La traccia della traccia, cit., p. 79: «Guardare alla tecnica sapendo che l’essenza della tecnica non è qualcosa di tecnico […] e cioè vederla come l’estremo punto di arrivo della metafisica e dell’oblio dell’essere nel pensiero del fondamento, significa appunto disporsi a oltrepassare la metafisica attraverso un ascolto non reattivo del destino tecnico dell’essere stesso». ↩︎
-
Vedi M. Heidegger, Contributi alla filosofia (Dall’evento), trad. F. Volpi, Adelphi, Milano 2007. ↩︎
-
G. Vattimo, La tracia della tracia, cit., p. 81: «creaturalità come concreta e determinatissima storicità; ma anche […] storicità come provenienza da una origine che […] ha anche tutti i tratti della eventualità e della libertà». ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Vattimo è stato uno degli autori più in vista che hanno popolarizzato il sintagma «pensiero debole». Vedi G. Vattimo – P.A. Rovatti, Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983. ↩︎
-
G. Marcel, L’umo problematico, trad. L. Verdi-Vighetti, Borla, Roma 19922, p. 9 (originale 1955). ↩︎
-
M. Heidegger, Essere e tempo, § 4, trad. A. Marini, Oscar Mondadori, Milano 1976, p. 28. ↩︎
-
G. Vattimo, La tracia della tracia, cit., p. 82. ↩︎
-
J.-L. Marion, Riduzione e donazione. Ricerche su Husserl, Heidegger e la fenomenologia, trad. S. Cazzanelli, Marcianum, Venezia 2010 (prima edizione dell’originale del 1989). ↩︎
-
Cf. P. Gilbert, L’acte d’être: un don» dans Science et Esprit, 41, 1989, pp. 265-286. ↩︎
-
E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura, t. 1, trad. V. Costa, Einaudi, Torino 2002, pp. 52-53: «ogni intuizione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, […] tutto ciò che si dà originalmente nell’“intuizione” (per così dire in carne e ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà». ↩︎
-
E. Husserl, L’idea della fenomenologia, trad. C. Sini, Laterza, Bari 2010, p. 93. ↩︎
-
J.-L. Marion, Le Phénomène saturé, in J.-Fr. Courtine, ed., Phénoménologie et théologie, Criterion, Paris 1992, pp. 79-128. ↩︎
-
J.-L. Marion, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, trad. R. Caldarone, SEI, Torino 2001, 220-273. ↩︎
-
J.-L. Marion, Dato che, cit., p. 280. ↩︎
-
D. Janicaud, Le Tournant théologique de la phénoménologie française, L’Éclat, Combas 1991. Janicaud attacca in questo scritto il volume di J.-Fr. Courtine, ed., Phénoménologie et théologie, prima che questo fosse distribuito al pubblico. ↩︎
-
J.-L. Marion, L’événement ou le phénomène advenant, in De Surcroît. Études sur les phénomènes saturés, Presses Universitaires de France, Paris 2001, pp. 35-63. ↩︎
-
J.-L. Marion, L’événement ou le phénomène advenant, cit., p. 61. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
J.-L. Marion, La banalità della saturazione, in Il visibile e il rivelato, trad. C. Canullo, Jaca Book, Milano 2007, pp. 131-168 (originale: 2005). ↩︎
-
J.-L. Marion, L’Idolo e la distanza, trad. A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1979 (originale del 1977) e Dio senza essere, trad. A. Dell’Asta e C. Canullo, Jaca Book, Milano 2008 (originale: 1982; il titolo del francese Dieu sans l’être può essere inteso in due modo: «Dio senza essere», come viene generalmente tradotto, ma anche «Dio senza essere Dio»). ↩︎
-
Cf. Platone, Sofista, 235c-236c. ↩︎
-
J.-L. Marion, Dio senza essere, p. 21. ↩︎
-
Ivi., pp. 23 e 24. ↩︎
-
Ivi., p. 32. ↩︎