Il contributo dell’esperienza filosofica indiana nella cristianìa di Raimon Panikkar

1. L’incontro con il pensiero filosofico e religioso dell’India

Il Concilio Vaticano II, soprattutto con documenti come Dignitatis humanae, Nostra aetate, Ad gentes (cfr. n. 11) e Gaudium et spes (cfr. nn. 11 e 57), ha posto le premesse di un cristianesimo aperto e dialogico con le più diverse culture religiose del contesto umano.

Tra di esse, come scriveva anche Giovanni Paolo II in Fides et Ratio 72, l’India ha un ruolo ed una funzione del tutto particolare.1 In questo subcontinente, infatti, la chiesa si trova di fronte a un compito di grandezza storica analogo a quello che il primo cristianesimo ha affrontato quando ha incontrato la cultura greca. Come scriveva Henri Le Saux, amico ed un certo senso modello ispirativo di Raimon Panikkar: «Oggi noi siamo in procinto di iniziare la terza grande epoca della storia della Chiesa. Al di là della Chiesa giudaico-cristiana, il cammino dei tempi si orienta verso una Chiesa propriamente cattolica ed universale, liberata da tutte le soggezioni ad un particolarismo qualunque dei tempi e dei luoghi».2 Questo sacerdote benedettino, che prese il nome monastico indiano swami Abhishiktananda, si deve considerare, in virtù del quarto di secolo vissuto come missionario in India condividendo la vita dei rinuncianti indù, tra i principali protagonisti di un progetto di traghettamento interculturale teso a rendere la chiesa più universale. Le Saux, in sintonia con il sacerdote lionese Jules Monchanin — anch’esso amico e ispiratore di Panikkar — si sono posti un duplice e complementare obiettivo: la nascita di un cristianesimo autenticamente indiano; e la rilettura complessiva del cristianesimo attraverso le categorie teologico-spirituali dell’induismo.

Panikkar ha conosciuto Le Saux — ma anche gli altri due protagonisti fondatori dell’ashram cristiano di Shantivanam Monchanin e Bede Griffiths — in occasione del suo primo viaggio in India, nell’autunno del 1954. Da subito ne ha tratto ispirazione, condiviso la missione e raccolto l’eredità teologica. Anche se poi ha avuto il merito di articolare e sviluppare in modo ulteriore le loro intuizioni, quella dei tre fondatori rimane una radice centrale del suo pensiero. Di quel cammino teologico tra cristianesimo ed induismo iniziato nell’ashram, Panikkar può essere considerato un quarto fondatore.

L’incontro con la cultura religiosa e filosofica dell’India, a prescindere dal debito — ancora tutto da studiare — da lui contratto con i missionari menzionati, ha assunto nell’autore ispano-indiano varie valenze. In una prima fase, infatti, ha semplicemente comportato la riscoperta delle proprie radici familiari, in una fase esistenziale e spirituale certamente non facile, dopo la morte del padre e in una fase di ripensamento della sua appartenenza all’Opus Dei.3 Successivamente, però, l’approfondimento della cultura metafisica e religiosa indiana è diventata per lui uno stimolo decisivo. Attraverso di essa ha ripensato il proprio modo di comprendere ed appartenere alla chiesa. Nello specifico, egli si è persuase che la civiltà cristiana, ed in particolare la sua necessità di diventare interculturale, non potesse prescindere dal contributo delle culture religiose indiane. Tenendo conto del percorso fatto, è dunque possibile affermare che nel teologo e sacerdote Panikkar ci siano non uno ma due cristianesimi: quello prima dell’India; e quello che ha iniziato a strutturare a partire dalla metà degli anni Cinquanta.

La particolarità del suo accostamento all’induismo, però, è stata duplice: da un lato, infatti, non si è mai posto come missionario; dall’altro è stato non tanto un teologo delle religioni quanto un filosofo comparativo delle religioni. Non va trascurato, del resto, che Panikkar, se non altro in virtù del dottorato in filosofia del 1946, si deve considerare un filosofo, membro, oltretutto, del prestigioso Istituto Internazionale di Filosofia di Parigi. C’era da aspettarsi, quindi, che, in virtù della formazione e della sensibilità personale, il suo confronto con la cultura indiana, sebbene finalizzato al confronto “imparativo” col cristianesimo, non avrebbe prescisso dalla filosofia.4 Così è stato, e praticamente fin da subito ha ripensato la tradizione cristiana in rapporto ai dharsana indù (visioni sistematiche della realtà).

Va precisato, a questo riguardo, che nel sub continente indiano la religione non è scissa o scindibile dalla filosofia. È bene segnalare, inoltre, come lui stesso ha puntualizzato, che parlare di filosofia occidentale è una oggettiva tautologia, in quanto questa forma di pensiero rappresenta una prerogativa unica e specifica della sua storia culturale.5 Aggiungeva, nondimeno, che l’India classica ha conosciuto qualcosa di simile al pensiero occidentale, pur senza dandole, però, particolare attenzione, in quanto la filosofia indica «è essa stessa religione».6

La dimensione speculativa dell’induismo che egli ha voluto maggiormente rimarcare, è la categoria di esperienza. A suo avviso, infatti, quest’ultimo concetto, che evoca l’empeiria classica, era da intendere come una conoscenza sapienziale fondamentale al fine di comprendere la specificità della filosofia indiana.7 Nell’ambito di questo suo confronto tra pensiero occidentale e pensiero religioso indico, ha così messo in evidenza molteplici punti distintivi. Il primo di essi è stata la sottolineatura di come la filosofia indica abbia la peculiarità di essere sempre e comunque orientata verso il moksa (liberazione spirituale), pur puntualizzando che «il carattere salvifico della filosofia non era sconosciuto in Occidente».8 Sono emblematici, a questo riguardo, i suoi vari richiami alla dicotomia post-rinascimentale tra filosofia e teologia e alla divisione limitante in cui è caduta la speculazione filosofica occidentale.9 A sottolineatura della diversa natura del pensiero filosofico indiano rispetto a quello occidentale, Panikkar metteva in evidenza in quale misura esso sia sempre stato sedotto dal fascino henologico dell’Uno. Anche se ciò è parimenti presente in Platone e Plotino, in India, infatti, ha avuto come conseguenza un acosmismo di fondo che tende a svalutare il realismo (o l’idealismo) del molteplice. Da ciò, a suo avviso, il disinteresse della cultura indiana verso la classificazione del molteplice, la quale non attribuisce ad esso quella realtà o sostanzialità che gli riconosce invece l’Occidente.10 È necessario ricordare, a questo proposito, quanto egli sia stata un pensatore critico della sensibilità filosofica occidentale, soprattutto di quella equivalenza tra essere e razionalità — riscontrabile nel Parmenide platonico —, che fa da sfondo all’intera parabola filosofica del mondo occidentale. A suo dire, infatti, lo spirito è superiore al logos, ragion per cui si poteva relativizzare anche il principio di contraddizione. Proprio in ragione di questa persuasione, Panikkar sosteneva che la riflessione occidentale era contrassegnata dal pensiero rappresentativo, mentre quella indiana da quello presentativo.11 Fatte salve le differenze di fondo che contrassegnano le due nature filosofiche, egli ha comunque prodotto ampie descrizioni di quelli che definiva filosofemi indici, associandoli ai tre grandi mârga, o via di liberazione, dello yoga classico: karma, bhakti e jñana12.

A prescindere dai risultati raggiunti, è esattamente questo serrato confronto con il pensiero indiano che ha fatto di Panikkar, oltreché un esperto di comparazione religiosa, uno dei maggiori filosofi del dialogo e dell’interculturalità del Novecento. I suoi vari neologismi, come quello di “dialogo dialogico” (che lui contrapponeva a “dialogo dialettico”); la distinzione tra “fede” e “credenza”; quella tra “relatività” e “relativismo”, o il concetto di “ermeneutica diatopica”, hanno dato, insieme ad altri termini ancora, un grande sviluppo alla filosofia interculturale.

In sintesi, quindi, l’incontro con l’India e con la sua esperienza filosofico-religiosa hanno stimolato Panikkar a ricomprendere i misteri cristiani secondo una differente ed ulteriore chiave di lettura, rendendo così la tradizione cristiana interculturale e maggiormente disposta al dialogo interreligioso. La sua persuasione di fondo, infatti, era che il cristianesimo dovesse assorbire, ovviamente fin dove possibile, l’esperienza filosofico-religiosa indiana. Da questo punto di vista, il programma panikkariano rispecchiava specularmente quello degli amici Le Saux e Monchanin, secondo i quali l’incontro col mondo indù poteva servire a meglio comprendere il mistero di Cristo. Come loro, anche Panikkar riteneva che nel Vangelo fosse celata una ricchezza molto più ampia di quella di cui il cristianesimo è consapevole, e l’incontro con l’India, a suo avviso, avrebbe portato alla luce tali verità nascoste. Sotto questo aspetto, l’apertura di Panikkar e degli altri fondatori di Shantivanam verso le culture religiose originatesi nel subcontinente indiano — e quindi il rispetto per ciò che lo spirito ha operato in quella civiltà —, ha rappresentato uno strumento per conoscere quel “non-detto” o quel “differentemente detto” che è implicitamente contenuto nell’insegnamento di Gesù, ma che non è stato ancora pienamente esplicitato.

Tenendo conto di questa precomprensione di fondo, va dunque puntualizzato che l’interesse panikkariano verso le tradizioni non-cristiane (scarso è stato il suo interesse verso l’islam) non era tanto finalizzato alla missione, quanto ad una contaminazione interculturale interamente tesa, come diceva Monchanin, alla teologia dello scambio. Il suo atteggiamento aperto, in ultima istanza, era funzionale ad una maggiore penetrazione degli stessi misteri cristiani, perché indispensabile al fine di interpretare in modo completo e totale i misteri della rivelazione cristiana.13 In quest’ottica, la critica panikkariana alla cristologia tradizione come “tribale” e “ad usum nostrorum” è da raccogliere.14 D’altro canto, è oggi piuttosto diffusa la convinzione, come scrive lo stesso Panikkar, che il “chi sono? ” rivolto da Gesù ai suoi discepoli ebrei andrebbe rivolto anche ai credenti in altre culture religiose, sebbene rimanga da valutare meglio se, e in quali termini, sia possibile una cristologia “taoista”, “buddhista”, “indù” o persino “islamica”. Non c’è dubbio, tuttavia, che, a prescindere dagli sviluppi che si potranno raggiungere, la teologia cristologica ha il compito di lavorare per integrare la comprensione di Cristo, che è ancora oggi articolata sulle sole categorie ebraiche e greche, con quelle di altri linguaggi culturali.

Considerata la direzione del suo lavoro, è dunque possibile affermare che la specifica missione teologica di Panikkar sia stata quella di portare Cristo nell’induismo, ma anche, e forse in misura ancora più rilevante, le categorie filosofico-teologiche indiane all’interno del cristianesimo. Da vari punti di vista, infatti, si può affermare che il suo obiettivo sia stato quello di trasformare la sensibilità religiosa cristiana rendendola più vicina a quella indiana ed un po’ meno greco-semitica. In questa sua ricerca, Panikkar ha probabilmente preso ispirazione — come per il cristianesimo anonimo —, da Rahner, secondo il quale gli enunciati teologici sono coerenti a sé stessi solo in un processo di autosuperamento radicale. Non va trascurato, inoltre, che la sua riflessione teologica si è orientata, in ultima istanza, verso la mistica e l’apofatismo, ed anche a motivo di ciò la sua speculazione può essere associata a quella del gesuita tedesco, criticato, ad esempio, per la sua tendenza a ridurre tutto a mistero (reductio in unum mysterium), mettendo così in discussione duemila anni di affermazioni dogmatiche.

È possibile affermare, in sostanza, che l’incontro con l’India, nell’ottica in cui Panikkar l’ha vissuto, è funzionale alla ricomprensione e all’autosuperamento delle categorie teologiche emerse e strutturatesi nel solo alveo occidentale. Da tale processo, a suo avviso, sarebbe conseguito un cristianesimo più profondo e più interculturale, giacché la principale convinzione panikkariana, per riassumerla con una metafora geografica cara all’autore, fosse che il cristianesimo dovesse bagnarsi nelle acque del Gange.

2. La Scuola teologica di Shantivanam: un quarto fondatore

Fu poco dopo il suo arrivò in India, che Panikkar fece amicizia con il prete lionese J. Monchanin, con il benedettino francese H. Le Saux e con il monaco inglese B. Griffiths. I tre nomi menzionati sono legati dell’ashram cristiano di Shantivanam, che venne fondato, nel 1950, dai due francesi Le Saux e Monchanin, salvo poi essere rilevato dal monaco inglese Griffiths, che lo ha successivamente associato alla famiglia benedettina camaldolese. Tra le molte amicizie intessute da Panikkar nel corso della sua vita, riteniamo che l’incontro con i tre fondatori abbia rivestito un rilievo del tutto particolare. Da vari punti di vista, anzi, esso ha segnato un momento di svolta nella sua esistenza, anche da un punto di vista concettuale, perché dietro ciascuno di loro c’era un ricco bagaglio teologico e filosofico.

I tre missionari richiamati, nella diversa peculiarità delle loro teologie ma anche nella complementarietà del loro intento interculturale, hanno dato vita ad una vera scuola teologica che ha avuto come obiettivo quello di armonizzare il cristianesimo con l’induismo. L’influenza che ciascuno di loro ha avuto sulla genesi della riflessione panikkariana necessiterebbe di un approfondimento a parte. In questo paragrafo ci limiteremo ad argomentare che egli è non soltanto da collocare all’interno di questa scuola teologica, ma ne rappresenta anche, da vari punti di vista, un quarto fondatore.

Naturalmente nel contesto indiano era già presente una testimonianza missionaria cristiano-cattolica, che in alcuni casi aveva anche prodotto una lodevole teologia contestuale improntata all’inculturazione — è possibile ricordare i gesuiti della Calcutta School of Indology G. Dandoy e P. Johanns — tuttavia i loro sforzi avevano quel taglio tomistico che, in piena stagione antimodernista, era non solo tipico, ma anche normativo. La principale novità con cui venne a contatto Panikkar incontrando gli autori di Shantivanam, fu la scoperta che era possibile un incontro con l’induismo alternativo al tomismo e maggiormente aperto allo “scambio”.

Il capostipite di questa linea teologica era stato Jules Monchanin, che aveva portato con sé in India le innovazioni teologiche della Nouvelle Theologie, soprattutto il metodo dell’immanenza blondeliano, ma anche una filosofia della persona (idealismo personalista) alimentata da autori come Lachièze-Rey, Marcel o Madinier, che era alternativa al sostanzialismo tomista ed ha poi influenzato il movimento personalista che si è compattato attorno ad «Esprit». La sua riflessione teologica era inoltre attenta alla mistica (senza distinguere tra mistica naturale e soprannaturale), specialmente Giovanni della croce e i renano-fiamminghi, e i padri greci, soprattutto Gregorio di Nissa. Tra le fonti del pensiero monchaniniano, comunque, c’erano, oltre al pancristismo di Blondel che lui aveva legato ad una più articolata dottrina del Corpo Mistico, l’amico H. De Lubac e un autore il cui pensiero aveva avuto il privilegio di conoscere in anteprima: P. Teilhard de Chardin, che rileggeva, però, attraverso Bergson e Le Roy. Per sottolineare il peso di Monchanin nella chiesa indiana dell’epoca conciliare, si potrebbe ricordare che risalgono al filosofo lionese le prime istanze di interculturalità che sono poi state condivise dal gesuita austriaco J. Neuner — perito conciliare — o dal gesuita belga R. De Smet, con i quali entrò in contatto negli anni Cinquanta. Monchanin, inoltre, ha avuto un’influenza determinante anche sul compagno Le Saux — sebbene non privo di un genio teologico personale — e su Griffiths. Il pensiero di quest’ultimo, a sua volta, ha avuto il merito di svolgere una mediazione tra le esperienze mistiche fatte da Le Saux, fin troppo calato in una mimetica immersione nel mondo vedantico e l’inclusivismo fin troppo dogmatico del compagno lionese.

In un’ideale ricostruzione della genesi del suo pensiero, occorre dunque riconoscere che Panikkar ha un debito oggettivo con tali autori. Molte delle loro fonti sono le sue fonti. Gli faremmo torto, tuttavia, se non riconoscessimo che egli, a sua volta, li ha ispirati ed influenzati, soprattutto Le Saux e Griffiths. È questo il motivo per il quale riteniamo che il sacerdote catalano possa e debba essere associato a questa scuola teologica. Del resto, a ben vedere, riferimenti, sensibilità, obiettivi teologici e missione ecclesiale sono le medesime degli altri tre. A loro, del resto, fu legato non soltanto dalle affinità intellettuali, ma anche da una profonda amicizia. Può persino essere affermato che Panikkar — che non ha mai voluto abbracciare una vita cenobitica — ha scelto di servire la loro stessa missione monastica con l’insegnamento. Egli ha traslato nei suoi libri e nelle aule universitarie, ciò che loro avevano sperimentato e vissuto esistenzialmente. Va anche riconosciuto, comunque, che se loro furono dei missionari che hanno dedicato la loro intera vita all’India, anche lui ha significativamente deciso di passare alcuni mesi dell’anno a Varanasi.

Quelle brevemente richiamate, sono dunque le ragioni che consentono di collocare Panikkar dentro la scuola teologica di Shantivanam, perché egli vi si è inserito condividendone forme e contenuti. Non è dato sapere, ad esempio, quale sarebbe stato il volto del suo pensiero teologico se egli non avesse avuto la ventura di incontrarli. Al tempo stesso, però, sarebbe opportuno fare una sorta di discernimento non soltanto su quello che egli ha “preso” da loro, ma anche su quello che lui ha “dato” agli autori di Shantivanam. Oltre ad essere un “figlio” di questa scuola, infatti, egli ne è anche un padre, anche perché ha continuato a lavorare sui loro temi fino al 2010, argomentando e sviluppando in maniera ulteriore quegli sforzi dialogici e comparativi che Monchanin aveva iniziato in Francia già a metà degli anni Trenta.

Quello che abbiamo definito “debito” teologico, comunque, si può riassumere nel fatto che Panikkar ha trovato nei tre monaci di Shantivanam una testimonianza esistenziale di quella missione (emblematico a questo riguardo è il legame con Le Saux di cui divenne il custode dei diari) che egli, invece, portava avanti soprattutto con le pubblicazioni, i corsi e le conferenze accademiche. Da loro, però, ha assunto anche alcune intuizioni strategiche, con i quali avevano iniziato a dialogare con l’induismo. È possibile dimostrare, ad esempio, che molti neologismi panikkariani si fondino, in verità, su delle intuizioni che si possono originariamente attribuire a loro. Sebbene non lo si possa approfondire, infatti, oltre alle fonti utilizzate per confrontare cristianesimo ed induismo, che sono praticamente le stesse, concetti come la distinzione tra fede e credenza, l’adualismo, il cosmoteandrismo, il rimando alla mistica apofatica, la cristofania, sono già presenti nei loro scritti. Va da sé che rivalorizzare gli scritti degli autori di Shantivanam non ridimensiona in nulla il genio teologico panikkariano, perché, in fondo, è solo con lui che alcune delle loro germinali intuizioni sono arrivate a maturazione. Al pensiero teologico di cui erano stati capaci, ha aggiunto le risorse attingibili da un professore universitario accademicamente ben inserito come lui. Al contrario di lui, infatti, i monaci di Shantivanam avevano a disposizione una biblioteca piuttosto limitata.

Negli scritti di Monchanin, che è morto nel 1957 e lo ha frequentato per poco tempo, non si avverte l’influenza di Panikkar, ma in Le Saux e Griffiths, che si sono confrontati di persona con lui ed hanno letto le sue pubblicazioni, sono rinvenibili ampie tracce dei saggi panikkariani e del suo lessico. È anzi auspicabile che ricerche ulteriori lo mettano in risalto. Se egli ha apportato un approfondimento filosofico e terminologico ulteriore, ha raccolto soprattutto un’eredità, ed in particolare un compito, anzi un’intenzione programmatica: quella di personalizzare l’induismo vedantico. La filosofica di Panikkar, del resto, essendo una filosofia del dialogo, è anche una filosofia della relazione. La “relatività radicale”, ad esempio, si può considerare la categoria principe della sua riflessione filosofica. Nel suddetto rimando al personalismo, il legame con Monchanin — ma anche con Le Saux — è evidente. Soprattutto il sacerdote lionese, consapevole che la categoria di persona è assente nell’induismo vedantico, aveva assunto l’idealismo personalista come categoria chiave della sua missione filosofica. Si può affermare, in sostanza, che la riflessione panikkariana ha percorso la medesima linea missionaria di Monchanin facendone una simile inculturazione personalistica. Affermava, ad esempio, che «La personalità, o lo stato di persona, è puro advaita. Una vera persona non è né una né due».15 Tra le sue maggiori originalità, da questo punto di vista, va segnalato il modo in cui Panikkar modifica, ed in parte stravolge, il significato classico di advaita, perché sostituisce tale categoria — che va tradotta con non-dualità — in a-dualità, trasformando così un principio monistico in un principio relazionale. Un tentativo lessicale del tutto simile, però, lo aveva già fatto Monchanin, che traduceva il suo concetto di persona incentrato sul co-esse nel neologismo sanscrito sam-sat e persino sam-advaita.

Su questa scia monchaniniana, ma non senza aggiungervi articolazioni ulteriori, Panikkar ha trasformato il monismo idealistico del vedanta indiano in una totalità relazionale. La sua nota dottrina del cosmoteandrismo ha esattamente questa premessa personalistica, sebbene debba molto a Teilhard de Chardin e alla rielaborazione fattane da Monchanin attraverso Bergson.

Nello specifico, Panikkar riteneva di aver individuato un’ulteriore argomentazione dialogica invertendo i termini del problema e mettendo l’accento non sull’“Io di Dio” rispetto a quello dell’uomo, ma sul suo essere un “tu” della Persona divina. Sosteneva, appunto, che l’Assoluto, Brahman o Dio non è il tu, ma l’Io e noi siamo il suo tu».16 In estrema sintesi, quindi, quello panikkariano può essere definito “personalismo vedantico”, in quanto trasforma il non-dualismo in a-dualismo e, di conseguenza, sostituisce il monismo con una relazionalità radicale.

Volendo fare un bilancio di sintesi su questa filosofia personalista in chiave indiana, la prima domanda che è legittimo chiedersi è se la ricostruzione panikkariana dell’antropologia indù sia corretta. Quello di Panikkar, infatti, è un personalismo “vedantico” o “cristiano-indù” che ben difficilmente potrebbe essere accettato da un seguace del Vedanta nondualista tradizionale. Va anche aggiunto che, in fondo, il suo concetto di adualismo non spiega né chi è Dio, né chi è l’uomo (la sua ipseità), perché, senza chiarirla, si limita ad affermare che tra queste due polarità c’è una relazione ontologica altra rispetto al monismo e alla dualità. Volendo puntualizzare, su questa questione specifica è andata più a fondo l’ontologia trinitaria di Monchanin.

Ad ogni modo, sebbene sia un filosofo occidentale avrebbe forse da ridire sul suo personalismo, ed un filosofo indiano avrebbe da ridire sulla sua comprensione del Vedanta, Panikkar, in virtù dei suoi creativi neologismi, ha inventato un proprio personale darshana. La sua, cioè, si può considerare una delle tante sottoscuole che, all’interno del mondo vedantico, cercano di portare un po’ di chiarezza al misterioso rapporto ontologico che intercorre tra Dio e l’uomo. Va da sé che la filosofia ufficiale indiana non l’abbia ancora, per così dire, riconosciuta o vidimata.

3. Un cristianesimo vedantizzato

Un aspetto assolutamente fondamentale della vicenda umana e teologica panikkariana, a cui pochi danno importanza, e men che meno i suoi critici più accessi, è che egli, nonostante l’immersione nelle religioni nate sulla pianura del Gange, non ha perso la fede cattolica. Da vari punti di vista, anzi, è possibile sostenere che l’incontro con la civiltà indiana ha reso il suo credo cristiano più ricco ed intenso, perché gli ha rivelato nuove possibili dimensioni del Vangelo. Sicuramente gli ha fatto comprendere l’importanza dell’interculturalità e la necessità che alla parola di Gesù si attribuiscano interpretazioni altre e significati nuovi.

Proprio a motivo di questa fecondazione indiana, però, nel fare una disamina della fede panikkariana è inevitabile imbattersi non in uno ma in due cristianesimi. Nello scorrere la sua produzione teologica, d’altro canto, è assai facile distinguere gli articoli precedenti l’incontro con la civiltà indiana (e gli autori di Shantivanam) e quelli ad esso successivi. Più nel dettaglio, è possibile cogliere come la sua ricerca di studioso cristiano fosse animata da due preoccupazioni assai diverse: dapprima il rapporto tra fede e scienza o talune questioni dogmatiche, e, dopo il viaggio in India, quasi esclusivamente le questioni inerenti l’interculturalità e il dialogo interreligioso, anche se negli ultimi anni si è molto soffermato anche sull’ecologia e la nonviolenza.

Ad ogni modo, sebbene tra questi due cristianesimi non ci sia una totale discontinuità, la sua sopraggiunta volontà di intersecare la rivelazione biblica con una sensibilità religiosa e spirituale totalmente differente, ha fatto coincidere la sua ricerca accademica con un’epocale sfida teologica. Egli, cioè, ha cercato di ripensare — se non modificare — la struttura greca e semitica della tradizione cristiana. È emblematica, a questo riguardo, la domanda che egli stesso poneva a Paolo VI: “Per essere cristiani, bisogna essere intellettualmente greci e spiritualmente semiti? ”.17 Anche se questa impresa ha oggi un’esplicita legittimazione magisteriale in un documento come Fides et Ratio 72, Panikkar ha abbracciato la missione di rendere “indiano” il cristianesimo già alla fine degli anni Cinquanta.

Egli, in sostanza, ha cercato di rendere più interculturale il cristianesimo cercando di renderlo più indiano, e, più ancora, ha cercato di fondare le condizioni di tale possibilità. La sua distinzione tra Gesù della storia e Cristo della fede — ancorché problematica come dimostra la vicenda Dupuis che ne è uno sviluppo — va esattamente in questa direzione. La presa di congedo panikkariana dalle categorie semitiche e greche, però, anzi la sua stessa intenzione di riconsiderarle in modo critico, rappresenta un primo elemento di problematicità e ambiguità. Essa, da un punto di vista teologico, si appoggia su delle premesse discutibili, la prima delle quali è la già citata distinzione tra un Gesù storico relativo alle sue radici ebraiche, ed un Cristo della fede mistico ed interiore. Una tale operazione, infatti, risente delle critiche che sono state rivolte allo stesso Rahner: ovverosia di proporre un cristianesimo atematico e acategorico che, nel perdere la sua storia, perde la sua identità e sostanzialità. Panikkar, nondimeno, ha insistito su questa distinzione, spiegando che «L’identità del Cristo non è la sua identificazione».18 Sebbene con questa sua differenziazione — complementare a quella tra fede e credenza e a quella tra relatività e relativismo —, egli non intendesse svalorizzare la dottrina cristiana tradizionale, ha comunque finito con il ridimensionare l’incarnazione storica del Cristo e il linguaggio simbolico in cui Gesù stesso si è riconosciuto. Il cristianesimo di Panikkar, in virtù di questa operazione, acquista sì universalità, ma anche una connotazione un po’ gnostica che, priva dei suoi riferimenti storici, si avvicina ad essere una sorta di mito vago e poco definito. Quella di Panikkar rischia così di essere una sorta di demitizzazione bultmanniana piuttosto problematica, perché, relativizzando la storia ed enfatizzando la mistica, si relativizzano, in verità, dei contenuti costitutivi del cristianesimo. Il teologo indo-catalano, al contrario, difendendo le proprie asserzioni paventava il rischio opposto di una “storiolatria” rilanciando la sua convinzione che “Cristo supera infinitamente Gesù”.19 Un aggettivo di suo conio, presente però anche negli scritti di Le Saux, è, a questo riguardo, quello di “supername”. L’aver attribuito a Gesù un nome che è al di sopra degli altri nomi, fa da premessa a quella che è forse l’affermazione più teologicamente impegnativa di Panikkar, la convinzione che «il mistero che i cristiani chiamano Cristo si manifesta in altre religioni».20 Se Panikkar si fosse limitato a giustificarlo attraverso Giustino o anche Gaudium et Spes 57, si sarebbe mosso in un orizzonte conciliare, l’impressione, però, è che lo spagnolo apra ad una pluralità sincretistica che egli stesso, alla fine del suo percorso umano e concettuale, ha confessato di non saper ricomporre. È il caso, appunto, del Ritmo dell’essere, dove ha dovuto ammettere che le domande ultime — ed ovviamente la pluralità contraddittoria delle religioni è una domanda ultima — non hanno una risposta ultima.21 La filosofia comparata delle religioni di Panikkar, da questo punto di vista, culmina nel più antico apofatismo, e l’asserzione che lo Spirito è superiore al logos, ne rappresenta una conferma, anziché una soluzione.

La cristologia panikkariana, in virtù di questa indipendenza dalla storia e persino dal logos, appare oggettivamente apofatica, se non gnostica. Parlare di “cristofania” o “esperienza cristofanica”, infatti, rimandava alla generazione del Verbo eckhartiana, esperienza che nasce dal distacco più totale, se non da una vera e propria vacuità. Panikkar, nei suoi scritti, presentava questi scenari mistici attraverso la distinzione tra Cristo della “fede” e Cristo della “credenza”, ma la domanda se sia effettivamente possibile un Cristo della mera fede sganciato dalle coordinate storiche della Rivelazione, rimane più che legittima.

Il pensatore spagnolo, ad ogni modo, è giunto ad avanzare questa ipotesi di soluzione in relazione allo sforzo già compiuto dagli altri autori di Shantivanam. Anche lui, come loro e più di loro, ha cercato di rendere “vedantico” il cristianesimo. Tuttavia, se è questo il cuore della ricerca panikkariana, occorre aggiungere che ha abbracciato una sfida che è quanto di più difficile si possa immaginare a livello teologico e filosofico. Questo darshana, infatti, è notoriamente incurante della storia ed è contrassegnato dall’idealismo a livello cosmologico, dall’impersonalismo solipsista e pelagiano a livello antropologico e dal monismo panteista su quello teologico. Armonizzare una tale visione del mondo, dell’uomo e di Dio con il teismo trinitario cristiano, era e rimane un’impresa forse impossibile. Non è un caso, come si accennava, che per far fronte a questa sfida — che è filosofica prima ancora che teologica — Panikkar sia dovuto ricorrere ad una lettura dell’Advaita Vedanta molto personale e probabilmente discutibile.22 Nello specifico, infatti, la sua rielaborazione della non-dualità in a-dualità rappresenta una forzatura che ha trasformato una categoria “criptokantica”, per conservare il suo linguaggio, in un principio dialogico di cui si è servito per interpretare l’intero reale ed il mistero cristiano.23 Rinvenire all’interno del mondo vedantico la categoria di relazione, però, non è così semplice, sebbene ci abbiano provato anche altri autori.24

Panikkar, una volta posto di fronte alle contraddizioni ultime che separano il cristianesimo dalle religioni orientali, non ha potuto fare altro che rifarsi alla prospettiva — sempre vedantica —, dell’avirodhavada (non-conflitto). Questa dottrina indù, infatti, sostiene l’esistenza di un piano superiore conciliativo superiore alle contraddizioni dualistiche del piano temporale, asserendo che lì esse trovino una sintesi armonica. È questa, unita a quello dello Spirito come superiore al logos, la strategia attraverso la quale egli ha cercato di aggirare il problema del principio di non-contraddizione.

In sintesi, la sua speculazione filosofica ha sostituito le opposizioni religiose con la relazione (a-dualismo), ma nel mettere in atto tale operazione, come già abbiamo detto, Panikkar si rivela essere uno dei tanti teologi apofatici della tradizione cristiana. Cusano, ad esempio, pur senza conoscere la terminologia indiana, aveva trovato una simile (e troppo generica) sintesi tra le differenze religiose parlando di Dio come “conciliazione degli opposti”.

Il filosofo catalano, ad ogni modo, proprio appoggiandosi a queste premesse apofatiche e meta-razionali, ha difeso la possibilità di una sintesi armonica tra le religioni. Egli non vedeva come un problema la loro diversità plurale e contraddittorietà, perché prestava fede alla convinzione di fondo che il mondo fosse dominato da un principio relazionale che esclude sia l’unità che la molteplicità.25 Spiegava, ad esempio, che «La relazione tra i contrari non è dialettica ma dialogica: né monismo né dualismo».26

Sebbene anteporre la categoria del “dialogo” su quella “dialettica” sia un’attitudine condivisibile, in concreto, però, non risolve i problemi delle distanze dogmatiche. Esse, come il suo stesso pensiero alla fine dimostra, possono essere risolte solo con l’ortoprassi e con l’apofatismo, che sono, per definizione, una non-soluzione. Pur avendo speso una vita intera confrontandosi con il pluralismo religioso, non si può non prendere atto quindi, che, quantomeno su un piano razionale, le proposte suggerite da Panikkar lasciano le questioni aperte ed irrisolte. Il suo itinerario di pensiero, in fondo, culmina con un’impasse.

4. Interpretazioni sul cristianesimo panikkariano

Nel cercare, ad ogni modo, di dare una valutazione complessiva al cristianesimo panikkariano, e di definirlo, è opportuno riprendere ed approfondire alcuni suoi aspetti peculiari: quale sia la sua “novità”; quale tema faccia da “collante” alle molteplici questioni da lui prese in esame; e quali siano, per così dire, “anima”, “direzione” e “nucleo” di una tale fede cristiana declinata al vedanta.

4.1. Una novità relativa

Per quanto riguarda la presunta “novità” del pensiero panikkariano, è necessario far presente che sebbene abbia sottolineato in più occasioni di non aver avuto maestri, ciò non corrisponde all’oggettività dei fatti. Come abbiamo cercato di dimostrare, infatti, la sua riflessione deve molto a vari altri teologi e filosofi, quantomeno ai tre fondatori di Shantivanam. Alla luce dei loro scritti e del bagaglio filosofico-teologico di cui erano espressione, il suo modo di comprendere il cristianesimo ha sì degli aspetti originali, ma una novità essenzialmente relativa.

Si facevano notare, ad esempio, i parallelismi tra il suo cosmoteandrismo e il pancristismo riportato in auge nel Novecento da Blondel; tra il suo a-dualismo e il tentativo di personalizzazione del vedanta già presente nel co-esse (sam-advaita) di Monchanin; tra la sua cristofania e la generazione del Verbo dei mistici renani o la cristogenesi di Teilhard de Chardin; tra il suo concetto di “nuova innocenza” e la lettura del peccato originale di Merton e Lanza del Vasto.; tra l’interculturalità e la distinzione tra fede e credenza e la relativizzazione dei contenuti accidentali della tradizione cristiana presente nella testimonianza missionaria di tutti gli autori di Shantivanam.

4.2. La volontà dialogica: l’elemento collante

L’elemento che fa da “collante”, e dà quindi continuità ed unità ad una visione di cristianesimo che, come la sua, affronta tematiche assai differenti fra loro, è sicuramente la volontà di promuovere il dialogo interreligioso e tessere un cristianesimo fondamentalmente dialogico. Quella di Panikkar, infatti, è sostanzialmente definibile una filosofia del dialogo, o, come è stata aggettivata, una philosophia pacis. Nella misura in cui ha cercato di promuovere ad ogni livello il dialogo e l’interculturalità, ed avendo messo la categoria di relazione al centro della propria riflessione, quella panikkariana risulta effettivamente essere una filosofia ordinata alla pace. Come risultante dello sforzo da lui profuso, il cristianesimo del sacerdote spagnolo non può definirsi universale, giacché egli sarebbe in disaccordo con tale aggettivo, che giudicava viziato di multiculturalismo, lo si può però definire interculturale e pluralistico.

4.3. L’esperienza mistica di Le Saux: anima del cristianesimo panikkariano

Non c’è alcun dubbio che le esperienze mistiche tra cristianesimo ed induismo vissute da Le Saux, abbiano rappresentato per Panikkar uno stimolo che lo ha accompagnato per tutta la vita. La sua ricerca teologica e filosofica, può anzitutto ricondursi alla volontà di teologizzare il trasversale ed interreligioso vissuto mistico dell’amico benedettino. Va ribadito, a questo proposito, che dal 1973, anno della morte del bretone, Panikkar divenne il custode degli scritti. Essi hanno rappresentato per lui una fonte di ispirazione e riflessione costante, come dimostra il fatto che si è sentito responsabilizzato a diffondere la sua figura anche fondando una società a lui dedicata: l’Abhishiktananda society.

Il teologo spagnolo ha promosso la testimonianza cristiano-indù di Le Saux in ogni occasione, non soltanto perché lo aveva coinvolto direttamente, ma anche perché rischiava di essere fraintesa ed equivocata. Da vari punti di vista, anzi, si può affermare che ha cercato di spiegare ciò che gli scritti di Le Saux avevano lasciato irrisolto e non spiegato concettualmente. Con dei risultati parziali, o non completamente soddisfacenti, il pensatore di Tavertet ha tentato di sciogliere i nodi della sua eterogenea esperienza mistica, e ha parimenti cercato di dare compiutezza ad un vissuto interreligioso e ad una riflessione teologica che, in verità, insieme agli stimoli, ha lasciato ai posteri più domande che risposte.

4.4. L’India: la direzione geografica e teologica del cristianesimo panikkariano

Quantomeno dal 1954, la riflessione teologica di Panikkar si è rivolta all’India facendo di quella cultura religiosa il polo della sua ricerca filosofica e teologica. Sebbene il suo lavoro accademico pluridecennale abbia finito con l’occuparsi di tante tematiche diverse: il dialogo, la critica alla scienza, l’interculturalità, l’ecosofia o la pace, la preoccupazione costante della sua riflessione è rimasta l’inglobamento delle plurimillenarie culture religiose dell’Asia. Come si accennava, egli è da considerarsi non tanto un missionario che ha cercato di portare Cristo in India, quanto, piuttosto, un teologo che ha perseguito l’obiettivo di portate la sensibilità religiosa orientale nel cristianesimo occidentale. È vero, tuttavia, che questo suo sforzo ha avuto anche delle ricadute e valenze missionarie, perché il Cristo della fede da lui promosso è un Cristo universale nel quale, a suo avviso, avrebbero dovuto riconoscersi i credenti di tutte le fedi.

Per Panikkar, un po’ come per Rahner, l’ambito della chiesa doveva essere il mondo intero, ma, all’interno di esso, il contributo dell’India era da lui ritenuto paradigmatico per rendere la verità cristiana plurale ed interculturale. La riflessione teologico-dialogica, a suo avviso, avrebbe dovuto fare ogni sforzo per guadagnare alla chiesa quanto il Verbo aveva seminato nella sua sensibilità religiosa.

4.5. Il Cristo della fede: nucleo irrinunciabile della fede pannikariana

Nel lessico del filosofo spagnolo è presente una distinzione tra cristianìa (la fede personale), cristianità (cioè la civiltà), e cristianesimo inteso come religione istituzionale. Tutte e tre queste dimensioni, egli le ha effettivamente ripensate alla luce della cultura e della sensibilità indiana, ma senza mai tracimare nell’induismo. Il cristocentrismo, infatti, è sempre stato il nucleo centrale della sua fede. Tale credo, però, risulta ordinato ad un Cristo della fede universale, interiore e trascendente che appare, come si diceva, troppo sganciato dalla storicità concreta di Gesù.

4.6. Un cristianesimo vedantico

Panikkar, essenzialmente, ha cercato di rileggere la figura di Cristo attraverso la sensibilità vedantica. Tale operazione intenzionale, consente di aggettivare il suo cristianesimo come “vedantico”. È appunto in virtù di questa sua rilettura complessiva, che la comprensione panikkariana del mistero cristico ha potuto assumere una connotazione universale e trasversale. Al tempo stesso, però, e come sua conseguenza diretta, esso risulta anche a-storico e trascendente. Nell’usare il filtro della sensibilità tipica del vedanta, la riflessione dello spagnolo finisce col relativizzare non soltanto la storia, ma persino il “nome” di Gesù. La logica del Vedanta, infatti, implica che il vero nome di Gesù non sia quello storico, bensì quello mistico di Cristo, che, proprio perché mistico, è indipendente e sganciato da ogni determinazione possibile. In questa comprensione vedantica di Cristo, si riassume quindi tutta la forza e tutta la debolezza del cristianesimo panikkariano. Egli riesce sì a rendere universale il mistero cristiano, pagando però il pegno di relativizzare la razionalità occidentale e svalutare il riferimento alla storia come una “storiolatria”.27

4.7. Un teologo apofatico

Nel suo andare oltre la storia, ma soprattutto in virtù della sua proiezione verso la mistica, Panikkar si rivela essere, essenzialmente, un teologo negativo. D’altro canto, sia la mistica neoplatonica che quella vedantica, a cui egli costantemente fa riferimento, rappresentano delle forme estreme di apofatismo. Di tale apofatismo è emblematica la sua convinzione che lo spirito sia superiore al logos, affermazione che equivale a sostenere la non totale razionalizzazione del reale.28 La soluzione panikkariana, infatti, è quasi obbligata a teorizzare che persino il principio di contraddizione, in quanto “logico”, è inferiore allo “spirituale”.

Varie altre sue affermazioni, comunque, legittimano la collocazione di Panikkar all’interno della teologia negativa o apofatica. Tra di esse, ad esempio, la persuasione che i “cristiani conoscono Cristo in e attraverso Gesù” o la convinzione che “la cristofania sia un superamento della cristologia”. Le suddette asserzioni, infatti, rivelano in quale misura il suo cristocentrismo coincida, in verità, con la relativizzazione della storia e del razionalismo teologico. Per meglio dire, la riflessione panikkariana ha sì il coraggio di prendere in esame le questioni ultime, ma finisce con l’accostarsi ad esse dal versante della mistica, e ciò comporta la duplice conseguenza che tali verità, siccome assolute e ulteriori rispetto al dualismo del linguaggio razionale, le si possano com-prendere, ma non rappresentare concettualmente. Questo era l’impasse in cui si era ritrovato Le Saux nel cercare di spiegare l’advaita, e questo è il medesimo punto di stallo a cui finisce con l’arrivare la speculazione panikkariana, sebbene in gran parte fosse scaturita proprio dalla volontà di rendere maggiormente comprensibile l’esperienza mistica cristiano-indù dell’amico.

Una tale ascendenza apofatica, parimenti presente anche nello stesso Le Saux e in Monchanin, che spesso facevano riferimento a Gregorio di Nissa, la si può rinvenire anche in altre categorie teologiche panikkariane, come l’aggettivo “supername” di cui dicevamo in precedenza, che altro non è che una rivisitazione del prefisso “hyper” già usato dallo Pseudo Dionigi.29 La definizione di Cristo come “supername” risulta del tutto coincidente con quel Cristo (mistico-gnostico) della fede, o, per parafrasare il titolo del suo libro più noto — suggeritogli da Bede Griffiths ma comunque di estrazione rahneriana — con quel Cristo “sconosciuto” presente in tutte le religioni perché presente nella trascendentalità dell’uomo. In virtù di tale aggettivazione, infatti, discende che Cristo si può nominare con nomi differenti perché è al di sopra di tutti nomi, e perché è Cristo il nome “reale” dietro il nome che le altre religioni danno alle loro divinità. È necessario ripetere, però, che questa apparente soluzione solleva un’infinità di problemi teologici, perché, seguendo tale linea, il Cristo più che un “supername” diventa un “no-name” in cui si perdono le sue radici semitiche e con esse l’essenza del cristianesimo (la croce).

L’irrazionalismo di questa “non-cristologia” panikkariana finisce quindi col rendere impossibile ogni discorso teologico. Non soltanto, infatti, relativizza la provenienza culturale del Gesù di Nazaret, ma culmina apofaticamente nell’affermazione che «Cristo sorpassa ogni comprensione».30 L’ambiguità teologica della cristologia panikkariana, per usare altri due termini cari all’autore, è che, alla luce delle chiavi di lettura da lui messe in campo, l’“identificazione” del Cristo risulta essere troppo storica e la sua “identità” troppo trascendente. Un punto di equilibrio, però, deve ancora essere trovato.

Va da sé, ad ogni modo, che il pensiero religioso di Panikkar sia non soltanto cristocentrico, ma parli anche dell’“esperienza cristofanica” come “pienezza dell’uomo”. Anche da questo punto di vista, quindi, rimane sulla scia della teologia dell’immagine dei Padri greci, soprattutto Gregorio di Nissa, e di quel pancristismo, già presente in Massimo il Confessore, che venne riscoperto nel Novecento da Blondel e Teilhard de Chardin. Monchanin ne è stato il teorizzatore filosofico più acuto, con la sua lettura personalistica del Corpo Mistico.

Ancora più illuminante e rappresentativo delle convinzioni ultime panikkariane, è poi la convinzione, in parte già evocate nelle pagine precedenti, che «la manifestazione di Cristo non è limitata a una sola epifania».31 Una tale persuasione ha ovviamente delle implicazioni non piccole che andrebbero valutate meglio, proprio perché egli, come si diceva, non la spiega con il linguaggio utilizzato da certi padri, dallo stesso Concilio Vaticano II (ad esempio GS 57), o in termini morali, bensì in modo realistico, sollevando in tal modo l’ovvia riserva del perché una medesima epifania alimenti dottrine opposte.

È necessario dedurre, in sostanza, che la cristofania non si può considerare, come invece lui proponeva, un superamento della cristologia.32 Cristofania e cristologia risultano infatti essere due realtà diverse: la prima ha una base mistica, la seconda una base storica. Più che a collimare, esse tendono ad escludersi, anche su un piano spirituale. Ciò può essere affermato perché la cristofania nasce da quel distacco, da quel superamento del segno e da quella fede nell’immediatezza che è agli antipodi di Cristo mediatore e della chiesa come attualizzazione-ritualizzazione di detta mediazione.

Un ulteriore aspetto problematico lo si può individuare nel fatto che la sua precomprensione della “cristo-logia” risulta essere una sorta di concessione al concettualismo, all’idealismo e all’universalismo rappresentativo del pensiero occidentale. All’opposto, nella sua visione la cristofania è invece un concetto presentativo e mistico, cioè meta-razionale. È questo il motivo per il quale tendeva a presentare la cristofania come una presentazione di Cristo al di là delle determinazioni storico-concettuali. La cristofania, nella presentazione da lui fattane, risulta essere “universale” senza essere “multiculturale” perché è qualcosa di diverso da un evento storico o un concetto razionale. Essa è piuttosto un fatto mistico, uno stato di coscienza, un punto omega dell’interiorità, come la descriveva Le Saux.

Nel presentare Cristo (la cristofania) come il vertice della mistica (di ogni mistica), Panikkar dimostra sicuramente una fede centripeta e non centrifuga (Teilhard de Chardin parlava di energia radiale ed energia tangenziale). Egli, cioè, si dimostra cristiano e persino teologo delle religioni inclusivista, rimangono tuttavia da valutare meglio i contenuti dottrinari della sua fede.

4.8. Una teologia delle religioni inclusivista

Ad ogni modo, uno dei risvolti finanche paradossali della sua comprensione (vedantica) del Cristo — o meglio di questa sua sconnessione tra l’identificazione storica di Gesù e l’identità universalista del Cristo della fede (cristofania) — è che Panikkar, attraverso tale stratagemma, si dimostra essere un teologo delle religioni inclusivista. Il suo pensiero religioso si rivela non soltanto cristocentrico, ma anche del tutto linea con la prospettiva rahneriana del “cristianesimo anonimo”, del quale è una delle più plastiche espressioni. Sebbene il pensiero teologico di Panikkar venga spesso associato al teocentrismo pluralista, va detto che la sua teologia delle religioni è da ricondurre all’inclusivismo tanto quanto quella di Rahner.33

È a motivo di questo suo preliminare cristocentrismo — sebbene problematico — che la sua riflessione teologica non è stata raggiunta da nessun richiamo ministeriale. Ciò nondimeno, occorre ribadire che essa è poco biblica e poco storica. Essa richiama non solo tutte le problematiche già presenti nella teoria rahneriana del cristianesimo anonimo, ma anche quelle implicate nel fare un accostamento col vedanta e col suo strutturale apofatismo acosmico.

4.9. Una contraddizione paradigmatica

Se Panikkar può essere ritenuto un teologo delle religioni inclusivista, però, inevitabilmente questa sua attribuzione finisce col gettare un’ombra di contraddittorietà al suo lavoro, o quantomeno alla direzione che egli gli voleva dare. Il teologo spagnolo, infatti, ha sempre difeso il pluralismo (comunionale) come diverso dalla pluralità (divisiva) e come una verità che non è riducibile ad un unum.34 Alla luce della cristofania e del necessario ricorso all’apofatismo, però, dobbiamo riconoscere che in Panikkar non solo sussiste la pluralità (la differenza contraddittoria dei dogmi religiosi), ma viene implicitamente presentato Cristo come un “unum”. Se questo è vero, si verifica quindi una contraddizione plateale con la sua dottrina del pluralismo come regno delle diversità non irriducibili. Al contrario di una Simone Weil, Panikkar non ha mai parlato di un’identità tra le mistiche, ma solo di “equivalenze omeomorfiche”. Tuttavia, sebbene abbia più volte affermato che non esistono “universali culturali”, è lecito chiedersi se la cristofania non rappresenti, invece, proprio un “universale culturale”, non rappresenti, cioè, un “unum” che smentisce la sua filosofia del pluralismo (principio nel quale si identificava ed identificava le sue convinzioni più proprie). Negare l’universalismo e continuare a prestare fede nel cristocentrismo, appaiono due posizioni tra loro non sintetizzabili.

Quello panikkariano può dunque essere definito un cristianesimo vedantizzato, sebbene tale aggettivazione lungi dal chiarire la sua visione religiosa, la complica ulteriormente. Egli, infatti, nel cercare di costruire un cristianesimo autenticamente “indiano” e specificatamente vedantico, ha dato avvio ad un processo — già iniziato dai predecessori a Shantivanam — che è rimasto sostanzialmente incompiuto. Se l’obiettivo era una sintesi (teologica), Panikkar ha concettualmente fallito quanto loro. Un cristianesimo vedantico, infatti, è una contraddizione in termini. Il vedanta è apofatico, impersonale e relativista tanto quanto il cristianesimo è dogmatico, personalistico e storico. Cercare un’armonizzazione con l’India, e nello specifico con questa scuola filosofica, era dunque un percorso che non poteva, che non può a breve, e forse non potrà mai arrivare a dei risultati soddisfacenti.

Al pari degli autori di Shantivanam, Panikkar è stato un teologo profetico, nel senso che ha disegnato un cristianesimo che non c’è ancora. Egli, infatti, ha immaginato un cristianesimo di sintesi con l’induismo che non è dato sapere se mai si realizzerà, quando e in quale forma. Per usare un titolo del gesuita Clooney, Panikkar, sul solco del modello spirituale Le Saux, ha svolto una teologia “after Vedanta”.35 Un cristianesimo “after vedanta”, però, in quanto racconto di un’esperienza mistica “after vedanta”, è un’assurdità logica, perché si pretende di dare rappresentazione ad un vissuto non rappresentabile, di esprimere col linguaggio ciò che è al di là della verbalizzazione, di dare veste relativa a ciò che è assoluto. Per usare il linguaggio di Plotino, che conosceva bene questi scenari, significa voler testimoniare l’Uno attraverso l’essere, e ciò significa un po’ tradirlo. L’Uno non si spiega con il due.

Una volta arrivata a questo livello, la riflessione teologico-filosofica panikkariana ha raggiunto, dobbiamo dire, un punto di stallo. Infatti, finché si è limitata all’enfatizzazione del dialogo, alla valorizzazione dell’interculturalità o alla celebrazione del pluralismo, la sua riflessione è da considerarsi tra le più illuminanti e feconde del nostro tempo, quando però è giunta al livello delle questioni ultime, si è rivelata essere, come dicevamo, una delle tante visioni apofatiche che sono ricorrentemente emerse all’interno della chiesa. Persino l’analogia non può adeguatamente esprimere la forza di questa trascendenza. Dare un “nome” al “supername” e trasformare il performativo in rappresentativo, concepire il nonduale col duale, trovare una sintesi tra l’identità e la differenza, superare la pluralità senza cedere al monismo idealistico, sono tutte tematiche che anche la sua teologia lascia irrisolte.

Cercare di costruire un’identità cristiana capace di includere una differenza così radicale come quella indù o buddhista, è un’impresa impossibile sul piano del logos. Si può sostenere, come ha fatto lui, che è possibile su quello dello Spirito, ma ciò segna la fine di ogni razionalità teologica.

5. Conclusione

Alla luce delle chiavi di lettura proposte, è dunque possibile e legittimo definire il cristianesimo di Panikkar al tempo stesso “vedantico”, “apofatico”, “inclusivista”, “contraddittorio” e “incompiuto”. Considerando la sua volontà di coniugare la fede cristiana con l’induismo, e prendendo atto delle gravi differenze che dividono queste due religioni, potremmo anche aggiungere l’aggettivo “impossibile”.

Sarebbe però troppo amaro ed ingiusto dare al suo lavoro un giudizio così includente. Tre elementi positivi vanno infatti rimarcati. Il primo è che egli, nonostante la sua immersione nelle religioni indiane, non ha perso la sua fede cristiana. La seconda è che non può non essere ricordato come uno dei teologi più coraggiosi del Novecento, avendo avuto l’ardimento di confrontarsi con l’inestricabile pluralità delle religioni, con gli abissi del vedanta non-dualistico e con l’immediatezza della vacuità buddhista. Se non ha raggiunto la meta di una sintesi, ha comunque compiuto un cammino e lasciato un’eredità che i teologi del nostro tempo sono chiamati a raccogliere. Occorre continuare il suo lavoro muovendo dalle sue domande, più ancora che dalle sue risposte.

Il terzo elemento positivo è che egli ha tracciato un cammino per il futuro del cristianesimo. Esso, infatti, è chiamato e destinato a quell’interculturalità di cui egli è stato lucido teorizzatore. Difendere ad un tempo il pluralismo ed il Cristo, come si diceva, non pare una posizione sostenibile. La metafora dei fiumi da lui proposta, però, indica una direzione alla chiesa del nostro tempo. Con il suo amore per l’India e per il Gange, egli è stato tra i grandi artefici di un cristianesimo “quarto”, dopo quello semitico (del Giordano), quello greco (del Nilo) e quello latino (del Tevere).

Monchanin scrisse una volta che ai padri sono serviti quattro secoli per metabolizzare il pensiero greco e che, per l’India, ne sarebbero serviti altrettanti. In quest’ottica, il lavoro panikkariano va letto come quello di un pensatore che ha portato avanti un’operazione (l’indianizzazione) che si presenta lunga e difficile tanto quanto lo è stata l’ellenizzazione del cristianesimo. È un dato di fatto, però, che con lui questo processo teologico ha fatto grandi progressi.

Se lette in quest’ottica storica, le parole che ha scritto in appendice al Ritmo dell’essere non appaiono troppo amare. Sostenere che le questioni ultime non possono avere risposta, non è veramente una resa alla sconfitta, quanto un invito al cammino, un affidarsi alla speranza.


  1. Si rinvia al capitolo dell’enciclica per prendere atto dell’importanza che Giovanni Paolo II attribuisce alla cultura indiana nella chiesa contemporanea. Cf. http://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_14091998_fides-et-ratio.html ↩︎

  2. H. Le Saux, Intériorité e révélation, Présence, Sisteron 1982, 186. ↩︎

  3. Per un approfondimento si consideri M. Bielawski, Panikkar. Un uomo e il suo pensiero, Fazi Editore, Roma 2013, 83-86. ↩︎

  4. Panikkar ha svolto un’esposizione specifica delle scuole di pensiero indiane solo nel 1997, dopo che altri suoi libri avevano già preso in esame vari altri aspetti dell’induismo (cf. R. Panikkar, L’esperienza filosofica dell’India, Cittadella Editrice, Assisi 2000). ↩︎

  5. Cf. Ib., 120. ↩︎

  6. Ib., 31. ↩︎

  7. Cf. Ib., 16. ↩︎

  8. Ib., 26. ↩︎

  9. Cf. Ib., 23. ↩︎

  10. Cf. Ib., 60-61. ↩︎

  11. Panikkar illustrava la differenza tra rappresentazione e presentazione, spiegando che «il modo dominante del pensare occidentale è quello rappresentativo. Il pensare ci ri-presenta le cose, in certo qual modo ci ri-fa la realtà nella nostra mente. [..] La forma dominante, o forse migliore, tipica del pensare indico è la presentazione. Il pensare ci presenta, ci mette, per così dire, la realtà in grembo, ci presenta le cose stesse, non più collocandole davanti la nostra mente» (ib., 64) ↩︎

  12. Cf. Ib., 137. ↩︎

  13. Cf. Id., Cristofania, EDB, Bologna 1994, 30. ↩︎

  14. Cf. Ib., 31. ↩︎

  15. Id., I Veda, Bur, Milano 2001, 1025. ↩︎

  16. Ib., 1029. ↩︎

  17. R. Panikkar, Le projet monastique de Monchanin, in AA.VV., Jules Monchanin (1895-1957). Regards croisés d’Occident ed d’Orient, Credic, Lyon 1997, 230. ↩︎

  18. R. Panikkar, Cristofania, cit., 22-24. ↩︎

  19. Cf., ib., 30. ↩︎

  20. Ivi 30. ↩︎

  21. R. Panikkar, Il ritmo dell’essere, Jaca Book, Milano 2012, 521. ↩︎

  22. Spiegando questo immanenza attraverso la non-dualità, Panikkar precisava appunto che «il messaggio centrale delle Upaniïad, interpretato nella sua pienezza (sensus plenior), non è il monismo, né il dualismo e nemmeno il teismo che è evidenziato in alcune di esse, ma l’advaita, vale a dire il carattere non-duale del Reale, l’impossibilità di aggiungere Dio al Mondo o viceversa, l’impossibilità di collocare in dvandva, in coppia, Dio e il Mondo Per le Upaniïad l’“Assoluto” non è solo trascendete, ma trascendente e immanente allo stesso tempo, tutto in uno » (Id., Visione trinitaria e cosmoteandrica: Dio-uomo-cosmo, Jaca Book, Milano 2010, 90). ↩︎

  23. Scriveva il teologo indo-catalano: «L’advaita, che ci aiuta a esprimere adeguatamente la “relazione” Dio-Mondo, fornisce di nuovo il suo aiuto prezioso per delucidare il problema intratrinitario. Se il Padre e il Figlio non sono due, tanto meno sono uno: lo Spirito li unisce e li distingue nel medesimo tempo. Egli è il vincolo di unità; il noi in mezzo, o meglio, nell’intimo» (ib., 110). A sintesi della sua prospettiva filosofica, potremmo citare il seguente passo: «La visione cosmoteandrica non gravita intorno a un singolo punto, né Dio, né l’Uomo, né il Mondo, e in questo senso non ha centro. I tre coesistono; essi sono in interrelazione e possono essere gerarchicamente integrati o coordinati, ma non possono essere isolati, poiché questo li annienterebbe» (ib., 261). ↩︎

  24. Cf. P. Trianni, Relatio e Tadatmya. La comparazione tra Shankara e Tommaso nella filosofia di Sara Grant, in Rivista di Ascetica e Mistica 3 (2009) 735-753 ↩︎

  25. Tra i vari passi si ricorda, in Pluralismo e interculturalità, il capitoletto dedicato da Panikkar all’A-dualismo, con la spiegazione di massima che «La realtà non è né una né molteplice» (R. Panikkar, Pluralismo e interculturalità, Jaca Book, Milano 2009, 28). ↩︎

  26. Id., L’esperienza filosofica dell’India, cit., 12. ↩︎

  27. Cf. Id., Cristofania, cit., 42. ↩︎

  28. Cf. Ib., 33. ↩︎

  29. Cf. Ib., 26. ↩︎

  30. Ivi. ↩︎

  31. Ib., 38. ↩︎

  32. Cf. Ib., 30. ↩︎

  33. Cf. Ib. 30-31. ↩︎

  34. Per una essenziale rivisitazione del lessico di Panikkar si rinvia al blog di Maciej Bielawski: http://www.maciejbielawski.com/panikkar-sutra.html↩︎

  35. Cf. F. Clooney, Theology after Vedanta, Suny Press, Albany 1993. ↩︎