Introduzione
Quando nel 1965 apparve The Secular City del teologo statunitense Harvey Cox, il concetto di secolarizzazione da lui proposto per descrivere il processo di scristianizzazione della cultura occidentale sembrava in grado di leggere in modo definitivo il destino della religione. Gli anni ’60 del secolo scorso, con la spinta rivoluzionaria che li ha caratterizzati, sembravano mettere in discussione in modo definitivo il sistema di valori proposto dal cristianesimo. Secolarizzazione, per alcuni decenni, ha voluto dire fine della religione, o meglio, fine di quella religione che per secoli si è imposta all’occidente come unica fonte di elaborazione dei significati esistenziali della vita, al punto da influenzare ogni settore della società, dall’arte all’economia passando, chiaramente, per la politica. La profezia nichilista di Nietzsche, che alla fine dell’800 annunciava la morte di Dio, sembrava definitivamente avverata.
Gli studi sociologici, teologici e anche filosofici che, sin dall’apparire dell’opera di Harvey Cox, si svilupparono, divenendo significativi in quest’ultimo decennio, mostrano tutto il limite del concetto di secolarizzazione per abbracciare il fenomeno religioso. A dire il vero, la religione, non solo cristiana, non è mai scomparsa. Come vedremo nei paragrafi successivi, proprio la lettura secolarizzata della società occidentale ha permesso al cristianesimo di analizzare il proprio cammino e riproporsi in forme diverse. Non a caso, proprio negli anni ’60 del secolo scorso, il cattolicesimo ha vissuto una delle stagioni più innovative e riformiste della sua storia, vale a dire il Concilio Vaticano II (1965-1968). In ogni modo, è bene annotare che le analisi di Cox e dei sostenitori della secolarizzazione offrivano una lettura della società occidentale che coglieva alcuni aspetti significativi e, quindi, veridici. Senza dubbio, l’illuminismo da una parte, lo sviluppo tecnologico dall’altra, assieme ad alcune letture materialiste della storia com’è stato il marxismo, che grande influenza ha avuto sulla società occidentale, hanno provocato un ripensamento del ruolo della religione nella società, mettendone fortemente in discussione la sua necessità. Nei paragrafi successivi tenteremo di offrire, nella prima parte, alcune interpretazioni di ciò che viene definito dibattitto sulla post-secolarizzazione; nella seconda parte, tenteremo di approfondire alcuni sviluppi, certamente non esaustivi, di questo dibattito.
Il dibattito sulla post-secolarizzazione: da David Martin a Hans Joas passando per Charles Taylor1
Sono molti gli autori che negli ultimi trent’anni hanno preso la parola sia in campo filosofico, che sociologico e teologico sul tema della post-secolarizzazione. Abbiamo concentrato la nostra attenzione su tre autori, che ci sembrano i più originali come pensiero e critica al concetto di secolarizzazione.
David Martin e lo smascheramento delle ideologie
David Martin è un sociologo e pastore anglicano. È stato il primo a formulare una critica alla secolarizzazione in un saggio, Towards Eliminating the Concept of Secularisation (1965), e la prima teoria empirica comparata della secolarizzazione in Notes for a General Theory of Secularisation (1969). Questo primo lavoro è stato ampliato e pubblicato in forma di libro come A General Theory of Secularisation (1978), un testo storico nella storia degli studi di secolarizzazione. Ha continuato a contribuire al dibattito sulla secolarizzazione e sulla resilienza della religione al presente.
Nei suoi primi lavori sociologici, Martin specifica l’ambito della sua indagine, ritenendo che il concetto di secolarizzazione, oltre ad ostacolare il progresso della sociologia della religione, è ricolmo di ideologie, soprattutto l’esistenzialismo, il marxismo e il razionalismo. Significativo è il fatto che la posizione di Martin è contemporanea al successo delle analisi sociologiche sulla secolarizzazione. C’è una sorta di miopia nei sostenitori della secolarizzazione che, secondo Martin, non permette di cogliere le aporie del nesso tra modernizzazione e declino della vitalità religiosa. L’accusa del sociologo britannico ai teorici della secolarizzazione è quella di basare i loro studi esclusivamente sul piano teorico, mettendo in secondo piano la reale situazione della religione. Ebbene, è proprio il contatto con l’esperienza religiosa che svuota l’analisi proposta dai teorici della secolarizzazione. In primo luogo, non è possibile analizzare il variegato mondo religioso con un solo concetto, vale a dire la secolarizzazione. «Non esiste un processo unitario chiamato secolarizzazione, che nasca in relazione a un insieme di caratteristiche definite religiose».2 Questo processo non esiste perché le istituzioni religiose nascono e declinano per svariati motivi non riconducibili ad un unico denominatore comune. Per questo motivo, allo stesso modo, non è possibile parlare in modo unitario di cause della secolarizzazione. Secondo Martin, è facile intravedere le precomprensioni ideologiche della teoria della secolarizzazione, ideologie tutte interessate a decretare la fine della religione. Tra queste, Martin ne individua tre: razionalismo, marxismo ed esistenzialismo. La prima considera il declino della religione come inevitabile perché la concepisce come una teoria falsa. Il sociologo britannico confuta questa tesi sostenendo la necessità per il buon funzionamento della società, di strutture mitiche «che è più dell’assurdità alla quale è indissolubilmente unita, poiché è in grado di ricondurre tutti gli eventi della vita, i più importanti e i meno importanti, all’interno di una struttura di significato profondamente coerente».3
Il marxismo, a sua volta, spiega il declino della religione riconducendola alla sua funzione ideologica di sostegno del dominio di classe esistente. Secondo Martin solo una visione deterministica della storia può escludere che le condizioni della fioritura della religione non si ripropongano anche all’interno di una società a socialismo realizzato. Infine, l’adesione alla tesi della secolarizzazione da parte dell’esistenzialismo poggia sul rifiuto della dimensione sacramentale e comunitaria della religione. È dunque, necessario, conclude Martin,
che la situazione religiosa, nella sua estrema varietà, sia studiata separatamente dalla spinta a illustrare una posizione filosofica […]. La parola secolarizzazione è troppo intimamente legata alle distorsioni ideologiche per essere mantenuta. Il suo uso favorisce le generalizzazioni nebulose a discapito, per esempio, di studi rigorosi sull’influsso della mobilità geografica e sociale sulla pratica religiosa. La parola secolarizzazione dovrebbe essere cancellata dal dizionario sociologico.4
Sottofondo culturale della critica di Martin alla secolarizzazione è il rifiuto categorico alle visioni lineari della storia che, per definizione, lasciano nel cammino della ricerca storica molti aspetti considerati marginali o per niente considerati. La religione, di conseguenza, paga lo scotto di avere una visione trascendente dell’uomo, della società e della natura, che prospettive materialistiche della storia non prendono minimamente in considerazione. Martin percepisce come necessario lo smascheramento di questi tentativi semplicistici di riletture storiche a servizio dell’ideologia di turno. «Dovevo smascherare l’illegittimo trasferimento di un télos o una direzione immanente di matrice ideologica nell’ambito delle scienze sociali. Molta sociologia, in effetti, non è altro che storia iperorganizzata».5
Gli stili laicali di Charles Taylor
Charles Taylor è convinto che la visione cristiana dell’amore oblativo a Dio resta anche ai nostri giorni un bene per molte persone. L’idea di agape, che troviamo nei vangeli e nelle lettere di Paolo, è senza alcun dubbio l’unica fonte o risorsa morale che dà senso alle azioni filantropiche e altruiste di tante persone. Questa fiducia nella promessa teista contenuta nella proposta giudaico cristiana ha provocato molte critiche all’autore di A Secular Age.6 In virtù di questa fiducia, Taylor teorizza la tesi del declino inevitabile della modernità. La transizione secolare così auspicata dai teorici della secolarizzazione non è né ovvia, né compiuta, anche perché è evidente sul piano della cultura occidentale il logoramento del paradigma scientifico, incapace di offrire strumenti ermeneutici che vadano al di là dei meri dati scientifici. Una delle conseguenze più significative causate dalla lettura secolare del mondo consiste nell’incapacità di dare un senso compiuto al lessico che veniva utilizzato per indicare una vita i cui ideali non erano di natura biologica o matematica, ma metafisica. Il dato interessante che Taylor annota nella sua ricostruzione storica del processo di secolarizzazione è l’intreccio tra le due storie, quella religiosa e quella secolare.
Tutti gli attuali dibattiti sul secolarismo e la credenza sono influenzati da una duplice storicità, un riferimento al passato bi-stratificato. Da un lato, l’incredulità e l’umanesimo esclusivo si sono definiti in relazione a precedenti forme di credenza, sia il teismo ortodosso sia le concezioni incantate del mondo; e attualmente tale definizione è inseparabile dall’incredulità. Dall’altro lato, le forme posteriori di non credenza, come pure tutti i tentativi di ridefinire e recuperare la credenza, si definiscono in relazione a questo primo pioneristico umanesimo della libertà, della disciplina e dell’ordine.7
C’è, secondo Taylor, una tensione di fondo nella cristianità medievale tra esigenze di radicalità religiosa e spinte di generalizzazione delle credenze, che prepara il terreno al processo di secolarizzazione attivato nell’epoca moderna, per cui la nascita di una mentalità secolare è uno degli effetti della critica della religione popolare:
Da un’epoca nella quale la vita religiosa era più incarnata e dove la presenza del sacro poteva essere rappresentata nei riti, o vista, percepita, toccata, persino avvicinata (nel pellegrinaggio), a un’epoca in cui la vita religiosa è più un fatto mentale e dove il rapporto con Dio passa soprattutto attraverso la nostra adesione a interpretazioni contestate.8
Il mondo occidentale assiste, dunque, in epoca moderna, all’avvento di una cornice immanente che plasma la cultura. Taylor individua nelle guerre di religione del XVII secolo, scatenatesi in Europa dopo le tensioni causate con la riforma, uno dei motivi del calo d’intensità della credenza e della pratica religiosa e, quindi, dell’indifferenza crescente verso il sacro. Un elemento significativo di questo processo confluisce nel tema della laicità, non solo come atteggiamento individuale, ma anche politico. «Lo scopo della laicità dello Stato è precisamente quello di evitare di privilegiare o sfavorire non solo posizioni religiose, ma qualsiasi posizione fondamentale, siano esse religiose o meno».9 Ciò significa che il fine non consiste nel rendere la religione meno rilevante per la vita, ma impedire che lo Stato privilegi una confessione rispetto ad altre. L’obiettivo dell’epoca moderna, che vede in Europa la formazione degli Stati, è sganciarsi dall’identificazione con una religione, per rendere lo Stato imparziale, equidistante tra le varie entità religiose. In questo senso, l’epoca moderna è un periodo di rottura con il precedente, caratterizzato dall’identificazione tra religione e potere, tra impero e cristianesimo. Questo percorso implica un secondo livello di liberazione politica, vale a dire il modello di etica politica indipendente, che consiste, secondo Taylor, nella necessità di definire un’etica slegata da ogni credenza religiosa. In questo modo, viene richiesto ai cittadini di prescindere dalle loro convinzioni religiose ogni volta che sono chiamati a deliberare su questioni d’interesse generale. È chiaro che questo atteggiamento richiesto apre le porte per un vissuto religioso relegato nella sfera individuale o, come direbbe Taylor, «tra gli accessori opzionali che spesso disturbano il corso della vita mondana».10 Anche se questa soluzione ha l’apparenza di creare lo spazio pubblico favorevole alla formazione di un clima di pace, togliendo sul nascere il materiale per possibili tensioni, in realtà dai credenti viene vissuta come una vera e propria esclusione della religione. Taylor individua due modelli che si sono affermati nel mondo occidentale come esempi di stili di laicità. Da una parte c’è il modello americano, imperniato su una religione civile; dall’altro, quello francese, in cui è visibile una morale indipendente. A detta del filosofo canadese, l’obiettivo più realistico in un contesto culturale significativamente pluralistico, com’è quello raggiunto dalla società occidentale, sarebbe un consenso su una serie di principi politici comuni, anche se giustificati in maniera diversa. Taylor è convinto che, nonostante gli sforzi irenici, nella società secolare il disaccordo continuerà e «dovremo convivere con compromessi tra le varie visioni del mondo. Anziché con un espediente abnorme, scandaloso e sperabilmente temporaneo, questa condizione dovrà, cioè, essere vissuta come lo stato di cose normale per un lasso di tempo indefinito».11 È questa variante aperta di laicità che può aspirare ad essere riproposta in contesti culturali anche molto diversi.
Il semplicismo del teorema della secolarizzazione nell’analisi di Hans Joas
Il filosofo tedesco Hans Joas si è posto la domanda sul senso e il modo in cui la secolarizzazione è da considerarsi un’innovazione storica significativa. Secondo Joas, il primo ostacolo è la vaghezza del termine. All’origine il termine secolare significava il transito di una persona o di un bene da una giurisdizione ecclesiastica ad una mondana. Successivamente, il termine secolarizzazione diventa sinonimo da un lato del declino del trascendente a vantaggio del mondano e, dall’altro, della riconciliazione del trascendente con il mondano. In entrambi i casi, rimane vago il significato del declino. Secondo Joas, non c’è nulla nella realtà che ci possa garantire che la secolarizzazione sia un fenomeno storico ben demarcato.12 In ogni modo, è importante tenere in considerazione il fenomeno in questione, perché «superare la tesi della secolarizzazione non significa ignorare la secolarizzazione, bensì percepirla nella sua multiformità».13 Da un certo punto di vista, secolarizzazione potrebbe sembrare un fenomeno di liberazione, di emancipazione da una condizione di dipendenza. In ogni modo, per poter essere un’innovazione storica, la secolarizzazione deve includere anche la genesi di qualcosa di nuovo, nuovi valori. Secondo Joas, il modo più corretto per descrivere la novità apportata dalla secolarizzazione è: l’opzione secolare. Questa novità consiste nella diffusione di una pretesa di autoaffermazione umana senza precedenti nella storia. Per questo motivo, secondo il nostro autore, non esiste la secolarizzazione in quanto tale, ma «singoli episodi di secolarizzazione, la cui intensità e qualità dipendono da diversi fattori (economici, sociali, politici, ecc.), che agiscono come campi di tensione che s’interpongono sistematicamente tra le cause».14
Per comprendere l’esito della religione all’interno del processo di secolarizzazione, non è possibile prescindere dalle condizioni socio-politico-culturali locali, in cui le persone vivono concretamente. Più che indicare un concetto onnicomprensivo con portata teleologica – è questa la critica sostanziale di Joas ai sostenitori della secolarizzazione tout court – occorre verificare le “ondate” che ne specificano il dato contingente e locale. Queste ondate non rappresentano mai l’ultima parola, ma sono seguite da «un massiccio movimento in senso contrario, una rivitalizzazione della fede, una modernizzazione della dottrina e/o delle strutture organizzative, a volte anche un ritorno alla tradizione, che rendono in generale difficile percepirne il carattere innovativo».15
La secolarizzazione, dunque, più che essere un fenomeno universale per le ragioni sopra descritte, può essere circoscritta all’occidente europeo. Joas, ad un certo punto del discorso, per meglio comprendere la portata della secolarizzazione apre un confronto con quella che il filosofo tedesco Karl Jaspers ha chiamato la «svolta assiale», vale a dire l’età della scoperta della trascendenza. Con questa svolta giunge alla fine l’epoca in cui alcune figure significative come i profeti biblici, Socrate, Confucio e Budda reinterpretavano la relazione tra divino e terreno, tra i quali viene scavato un solco come tra finito e infinito. «Secondo la nuova prospettiva il punto discriminante è che in quest’epoca il divino si trasforma nel Reale, nel Vero, nel totalmente Altro, rispetto al quale ciò che è terreno non può che apparire deficitario, manchevole».16 È proprio questa amplificazione della tensione tra l’ideale e il reale che costituisce il materiale per l’inizio del processo di desacralizzazione di tutte le potenze mondane che si autoproclamano divine. Infatti, come sostiene Joas, «con le innovazioni dell’epoca assiale si è inserito un potenziale per la desacralizzazione del potere politico che non è mai più ammutolito né sparito del tutto».17 La tensione nel rapporto tra religione e politica ha il suo inizio proprio in questo periodo analizzato da Jaspers e che trova un esito significativo nella secolarizzazione. La storia delle civiltà umane dopo la rivoluzione assiale è caratterizzata dall’alternanza tra spinte alla desacralizzazione e alla risacralizzazione. Secondo Joas, dopo la nascita delle religioni universali, lo sviluppo della cultura dei diritti umani rappresenta la seconda grande ondata storica di una radicale desacralizzazione del potere ed essa s’intreccia con la genesi dell’opzione secolare. La secolarità moderna non mette fuori gioco le religioni, ma comporta comunque una ristrutturazione del campo di forze ideali entro cui si dispiega la creatività dell’agire umano. Conseguenza di questa trasformazione è la crescente consapevolezza che la fede e la religione non sono universali antropologici, ma opzioni significative offerte all’iniziativa individuale e collettiva. La religione, dunque, non può rappresentare il destino dell’umanità. A questo punto diventano di grande importanza le riflessioni di Hans Joas:
Quello che mi preoccupa non è il fatto che la secolarizzazione possa distruggere la morale in quanto tale, ma che un indebolimento del cristianesimo mini uno dei pilastri dell’universalismo morale e giuridico. Se, come sostiene la tesi di Karl Jaspers relativa all’epoca assiale, questo universalismo è venuto storicamente alla luce in connessione con l’idea di trascendenza, allora non è certo che esso sopravviverà in modo duraturo alla scomparsa del suo fondamento originario. Ma una preoccupazione è qualcosa di diverso da un grido di battaglia.18
Nella conclusione di La fede come opzione, Hans Joas suggerisce di guardare fuori dall’Europa per comprendere meglio quale sarà il futuro del cristianesimo. Occorre, cioè, porsi da un punto di vista globale e non eurocentrico, spostando, quindi, il focus dell’analisi dal mondo occidentale al resto del mondo per cogliere meglio in profondità il significato socio-culturale del fenomeno della secolarizzazione. In questa prospettiva, vengono in nostro aiuto quelli che sono stati definiti i postcolonial studies,19 che hanno apportato un notevole contributo allo smantellamento del teorema della secolarizzazione. Come ha sottolineato il teologo Paolo Costa, anche in questo caso «il post di post-coloniale non denota semplicemente il superamento di una configurazione culturale di cui viene proclamato il compimento della parabola storica».20 Il post, infatti, allo stesso tempo afferma e contesta la centralità di ciò che viene oltrepassato. Spesso il risultato di questi studi post-coloniali consiste nel marginalizzare l’Europa a scapito dell’innalzamento di altre proposte culturali. In ogni modo, è proprio dalla marginalizzazione del modello culturale eurocentrico che si sviluppa l’interesse per tutto ciò che questo modello ha scartato nella propria produzione culturale, tutto ciò che non è stato ritenuto degno di essere considerato storia significativa. Per certi aspetti, è la continuazione del lavoro iniziato dalla Nouvelle histoire, nella ricerca di una documentazione marginale per una ricostruzione della storia a partire dalle periferie, da ciò che il centro politico e autoreferenziale tralasciava.21 Elemento chiave nel processo di smantellamento del teorema della secolarizzazione è lo sforzo scrupoloso di ricontestualizzazione storica. Del resto, lo stesso Charles Taylor intitolava la sua opera più significativa sul tema in questione A Secular Age, vale a dire un’età secolare, nel senso che di età secolari ce ne possono essere diverse, oltre a quella sviluppatasi all’interno della cristianità europea. Se le secolarità sono per l’analisi post-coloniale molteplici, diventa fondamentale contestualizzarle per coglierne la portata e i differenti significati, oltre che gli esiti. In questa prospettiva, è importante comprendere come la secolarizzazione, prima di essere un processo culturale, sia soprattutto un progetto storico, per cui è facile comprendere come «il processo attraverso cui la cristianità latina è diventata secolare è lo stesso processo mediante cui essa è diventata coloniale».22 Attraverso l’incontro di popoli non cristiani, gli europei hanno trasformato la loro comprensione della religione, del valore dei riti e dei culti locali, del rapporto tra la storia religiosa dei popoli e il progresso umano. Questa trasformazione non è stata indolore, ma ha portato con sé un carico di violenza inaudita,23 anche perché il processo di secolarizzazione come progetto onnicomprensivo non accetta resistenze da quelle culture ritenute inferiori. Gli studi post-coloniali, muovendosi in una prospettiva internazionale sulla storia politico-religiosa degli ultimi due secoli, hanno analizzato in modo specifico il caso indiano e cinese giungendo ad alcune considerazioni significative. La prima è che la secolarizzazione è il cambiamento autoritario della grammatica di una forma di vita tradizionale «che consolida il potere di un particolare tipo di stato negando legittimità di certi modi di essere cittadino-soggetto, che sono ritenuti incompatibili con esso, poiché non condividono valori tradizionali fondamentali».24 Secondo l’antropologo saudita Talal Asad, sulla base di un’interpretazione essenzialistica del secolare viene negato a priori ai subalterni il diritto di esplorare varietà di secolarità che non prevedano la privatizzazione della religione e della moralità e, soprattutto, non facciano leva «sul dispositivo governamentale assicurato dallo Stato moderno e dal suo impulso ordinatore».25 La lezione storica generale che i pensatori postcoloniali ricavano dalla crisi del teorema della secolarizzazione è che esso non solo è erroneo, ma semplicistico, nei termini di un conflitto tra società moderne e società tradizionali.
Ritorno alla religione?
Dopo questa analisi che ha tentato di fare il punto su alcune questioni di fondo sul dibattitto intorno al tema della secolarizzazione, mostrandone i limiti e le aperture verso una prospettiva post-secolare in cui le religioni ritrovano il loro spazio, per la verità mai perso, è possibile domandarsi: che cosa può significare il ritorno della religione nella cultura occidentale? Domanda importante se si pensa che sin dal XIX secolo esce il grido della morte di Dio, della fine del pensiero metafisico su cui la teologia cristiana occidentale aveva costruito il pensiero su Dio. Il ritorno alla religione come dato sociologico significa, innanzi tutto, il fallimento del paradigma della secolarizzazione che, alla distanza, si è dimostrato incapace di leggere in uno sguardo ermeneutico unificante la grande varietà di fenomeni che vanno sotto il nome di religione. In secondo luogo, significa anche che la risposta scientifica e tecnologica, seppur importante per lo sviluppo dell’umanità, non è sufficiente perché non è in grado di offrire quelle risposte di senso che rimangono disponibili a percorsi che coinvolgono non solo la sfera razionale, ma anche quella emozionale, quella spirituale. Il ritorno preponderante della religione nelle sue varie forme significa anche il fallimento della proposta antropologica illuminista, che pensava la persona nella sua forma considerata superiore, vale a dire la ragione. Il bisogno di senso, di orientare la propria esistenza con obiettivi che vanno al di là dei meri dati materiali, non ha trovato nei paradigmi elaborati dalla modernità una valida soluzione al problema. La possibilità dell’auto-trascendenza e di compiere esperienze che vanno al di là dei puri dati scientifici dicono dell’insoddisfazione nei confronti di una proposta che non sa offrire altro che dati certi, razionali, che non lasciano spazio al dubbio. In realtà, le persone sperimentano nella vita il dubbio, che non trova risposte nella pura logica formale, o ne trova solo una parte in essa, perché ha bisogno di altro, che va al di là dei dati empirici, che trascende, appunto, la nuda realtà. A distanza di decenni, la visione scientifica del mondo, elaborata negli anni Venti dai filosofi legati al Circolo di Vienna e riprodotta in forme diverse dai sostenitori del neopositivismo logico, si è dimostrata incapace di offrire proposte per l’umanità che andassero al di là di meri calcoli speculativi. Considerando la religione come fornitrice di illusioni irreali sganciate dal vissuto umano e, soprattutto, fornente un materiale non misurabile dal punto di vista logico-matematico, la visione scientifica del mondo non ha tenuto conto che la religione fornisce delle visioni di mondo più complesse e complete, che essa tiene conto non solo degli elementi misurabili dell’orizzonte umano, ma anche di tutti quegli aspetti, come le emozioni, le sensazioni, l’elaborazione di valori morali, che sfuggono alla verifica scientifica. È per questo che diversi autori – da Hans Joas a Jürgen Habermas – parlano di società post-secolare,
che deve fare i conti con la persistenza delle comunità e delle tradizioni religiose. Post-secolare non è la società in se stessa, ma il cambiamento di mentalità che in essa è avvenuto. Ne consegue che, post-secolari possono diventarlo solo le società che siano già, da parte loro, intrinsecamente secolarizzate.26
Quest’ultima affermazione è estremamente importante perché riconosce un processo storico avvenuto soprattutto in occidente, in cui il parametro è la religione ebraico-cristiana. Come ha fatto notare Armido Rizzi, «la secolarizzazione è stata possibile in presenza di una peculiare struttura religiosa e teologica».27 Il bisogno della religione è sopravvissuto alla petulante cantilena moderna dell’autosufficienza razionale a spiegare il vissuto esistenziale ed è emerso in modo contundente e rumoroso dallo strato concettuale spalmato dalla modernità, proprio nel momento in cui i miti moderni sono implosi, manifestando che la realtà non è fatta solo di materia e che non può essere analizzata solamente con una strumentazione matematica e scientifica. Forse, allora,
la secolarizzazione come espressione della prospettiva ebraico-cristiana non sarebbe oggetto passivo di un processo socio-culturale piegato a dinamiche di emergenza della religione, bensì promotrici di un diverso processo religioso in grado di corrispondere non solo nell’intenzionalità più autentica dell’espressione religiosa e della fede, ma anche ad un modello antropologico responsabile della costruzione della casa comune.28
Quello che sta emergendo è la percezione che la religione non appartiene semplicemente all’ambito dell’irrazionale e dell’antitesi alla scienza, ma possiede una sua ragionevolezza, un suo specifico patrimonio simbolico capace di rispondere ad alcune attese dell’umanità. La religione, prima di essere qualcosa d’infantile e ingenuo, possiede una sua specifica epistemologia, dei propri parametri di analisi della realtà, di cui la critica secolarista, cercando di demolirne i significati, ha invece messo in risalto i pregi. In modo specifico, il sacro appare sempre di più come un dato che rivela aspetti significativi della struttura antropologica che non possono essere sbrigativamente tacciati come elementi provenienti dalle origini primordiali delle risposte umane, ma che, proprio per la sua permanenza nel tempo e nello spazio e per la sua resistenza ai tentativi nichilistici di annientarlo, rivela un contenuto in grado di darci ancora qualcosa sull’umano. Sacro è il rivestimento umano che è stato elaborato nei secoli per delimitare ciò che viene percepito come divino, come realtà che sta al di là della realtà conosciuta e che viene indicata come causa di situazioni, eventi personali o storici. Dal sacro, dunque, proviene tutto un materiale simbolico che comunica una razionalità non di tipo scientifico, ma in grado di offrire risposte alle situazioni percepite sia come inquietanti, che come assiologiche e valoriali. Il sacro si ripresenta con tutta la sua forza simbolica anche per sopperire al vuoto di proposte valoriali vissuto nella modernità e nelle riletture secolari. Come ha scritto Dotolo: «il sacro rappresenta un attrito che s’installa nelle nostre teorie e idee indicando che il reale resiste ad ogni semplificazione».29 Mentre la secolarizzazione ha fatto di tutto per denigrare la religione e le forme del sacro, riducendole nella sfera dell’irrazionale, «la post-secolarità ha reinventato il sacro sulla linea di un’incessante creatività capace di valorizzare una spiritualità più flessibile, ariosa, slegata da qualsiasi riferimento a principi e norme».30
La lettura che Dotolo fa sulla post-secolarità apre il varco a due tipi di riflessione. Il primo è in linea con l’esito catastrofico, ancora in atto, della modernità, e con la riflessione proposta dalla filosofia post-moderna. L’elaborazione razionale moderna che ha avuto nell’illuminismo l’apice più significativo e, per certi aspetti, rappresentativo, volendo interpretare la realtà l’ha deturpata. La produzione avvenuta nel periodo moderno di sistemi a tutti i livelli, con la pretesa di spiegare la realtà, di mostrarne il cammino, l’ha invece ingabbiata in modo tale da provocarne la ribellione. Ciò che da decenni sta avvenendo a diversi livelli come il clima, la finanza, l’economia, la politica, solo per citare alcuni ambiti, è il risultato di questo processo di omologazione della realtà, con la presunzione che potesse essere colta nella sua complessità da un sapere pre-comprensivo. La realtà può solo essere ascoltata e le proposte razionali che possono essere elaborate vanno eseguite come conseguenza di questo primo inalienabile movimento di ascolto. In questa prospettiva, la fenomenologia ha rappresentato per la cultura occidentale un tentativo riuscito di cambiare percorso, di non anticipare la realtà, ma di coglierla per come si manifesta, accompagnarla e, a partire da questo punto di prospettiva, elaborare alcuni percorsi.
Al processo di omologazione moderna, la religione non ha corrisposto ma, al contrario, si sta riproponendo in modo nuovo. È come se il processo di secolarizzazione le abbia fatto bene. Dopo essere passata per decenni sotto il fuoco incrociato dei sistemi materialisti ed esistenzialisti, ricevendo a più riprese il marchio di espressione di contenuti desueti, stanno emergendo forme sacrali spontanee, non vincolate da dogmi o dottrine, ma espressione dell’esperienza personale di auto-trascendenza. La critica moderna e la secolarizzazione hanno colpito duramente l’involucro esterno delle religioni, nelle loro formulazioni etiche; nel tentativo di rispondere alla sfida razionalista esse hanno rafforzato l’apparato concettuale e dottrinale che, in ogni modo, si è rivelato troppo pesante e inadeguato. Da un lato assistiamo al fiorire di percorsi religiosi sganciati dalla proposta delle grandi tradizioni religiose: percorsi individuali, o di piccoli gruppi, alla ricerca di un benessere personale più che comunitario. Dall’altro lato il processo di secolarizzazione non ha promosso un superamento della religione, ma una sua mutazione di senso. Ciò è visibile in modo particolare nel cristianesimo, come ha sostenuto Dacquino, perché «all’interno della differenziazione funzionale della società mostra lo specifico socio-culturale dell’esperienza religiosa».31 Senza dubbio, questa metamorfosi ha provocato un dibattito interno nel cristianesimo stesso, tra coloro che sostengo la bontà della relazione tra ambito sociale e più strettamente sacrale e coloro che ritengono questo connubio la negazione della missione della religione, che dovrebbe essere relegata solamente alla sfera sacrale e trascendente. L’aspetto più significativo di questo dibattito all’interno del cristianesimo è la messa in discussione dell’identità religiosa.
In fin dei conti il cristianesimo è una religione? Forse è questo uno dei contributi più significativi, anche se inaspettati, della secolarizzazione. Mettere in discussione la struttura religiosa del cristianesimo significa osservarlo da un nuovo punto di vista, non da quello sacrale, ma dal principio fondante su cui si è strutturato, vale a dire l’Incarnazione. Il Dio che entra nella storia rende inutile qualsiasi rivestimento sacrale, perché d’ora innanzi il divino è accessibile senza alcuna mediazione. È l’immediatezza del divino nella storia che provoca il processo di destrutturazione degli apparati sacrali della religione. Nonostante questo, il cristianesimo sin dall’inizio non rinuncia al sacro, ma anzi ne fa uso abbondantemente, assorbendo dal mondo pagano, in modo particolare dal Sacro Romano Impero, una quantità significativa di materiale che utilizza per il proprio rivestimento sacrale. Oltre a ciò, la produzione teologica del millennio medievale farà di tutto per coprire di significati razionali i rivestimenti sacrali del cristianesimo, trasformandolo in religione. Uno degli aspetti più significativi dell’epoca post-moderna consiste nell’attivare processi di decostruzione, che sono, allo stesso tempo, processi di smascheramento a tutti i livelli. Ebbene, il cristianesimo sta passando il vaglio di questo processo, recuperando da una parte l’essenza della propria proposta contenuta nell’Incarnazione e dall’altra avendo la possibilità di lasciarsi alle spalle secoli di oscurantismo intellettuale e di confusione sacrale. Un ritorno alle origini, dunque, è la grande opportunità dell’epoca post-moderna. In questo processo di smascheramento, un grande merito l’ha avuto, per le considerazioni fatte sopra, la secolarizzazione, che più o meno involontariamente ha aperto una nuova stagione per il cristianesimo. Sganciandosi, infatti, dal marchio religioso esso può avere la possibilità di manifestare il contenuto specifico della propria proposta sia sul piano personale che sociale. Non solo, ma come afferma Dotolo «la fine dell’equazione tra cristianesimo e religione è, o può essere, l’inizio di un diverso approccio al dire Dio, senza appiattimenti a buon mercato di un ideale regolativo che incide anche sulla qualità dell’esistenza».32
Senza Dio?
Un aspetto che sembra emergere nell’attuale contesto culturale post-secolare consiste nel fatto che non è più in questione l’identità della religione, ma la sua funzione, sia in riferimento all’individuo che alla sfera sociale. Questo aspetto sta provocando una nuova situazione che consiste nella libertà di appropriarsi della simbologia religiosa senza un percorso di appartenenza e di collegarla ad altre simbologie religiose, creando in questo modo una specie di terzo spazio nel quale si generano «condizioni discorsive di enunciazione che sottraggono al significato e ai simboli della cultura qualunque unità o fissità primordiale»,33 traducendoli e reinterpretandoli a piacimento. Il teologo Dotolo ha fatto notare che questo nuovo fenomeno, che potremmo definire di contaminazione culturale e religiosa, è indizio di «una cresciuta consapevolezza antropologica: la reinvenzione costante del concetto del Sé nella sua relazione con l’Assoluto, cui la tradizione del pensiero orientale sembra offrire orizzonti ermeneutici più congrui e convincenti».34 Questo cammino di contaminazione culturale, che le tradizioni religiose stanno vivendo nell’epoca post-secolare, non solo rimette in gioco lo specifico della stessa religione, non tanto nei suoi contenuti, la cui rigidità costituisce un ostacolo alle contaminazioni, quanto sulle sue potenzialità creative rispetto al mondo della vita, alla dimensione simbolica della realtà. Questo aspetto è probabilmente uno dei motivi della disaffezione attuale nei confronti del cristianesimo, perché segnata pesantemente da un apparato dottrinario venutosi a formare nei secoli, considerato obsoleto e incapace d’interpretare le questioni vitali del vissuto contemporaneo.
C’è chi ha fatto notare che, tra le grandi religioni, è il buddismo a recitare nell’attualità il ruolo di protagonista nello scenario della ricerca religiosa, per il fatto che in esso il legame tra soteriologia ed etica costituisce le coordinate di riferimento per un itinerario di riappropriazione da parte dell’uomo del proprio sé. C’è infatti, nel buddismo, la proposta di una possibilità di mutamento sperimentabile nel corso dell’esistenza, di un nirvana qui ed ora, che provoca un certo fascino nell’uomo occidentale, deluso dalle religioni dottrinali le cui promesse sembrano solamente destinate ad un al di là mai verificabile. In questa prospettiva, la religione dà prova della sua possibilità se i suoi contenuti sono esperibili nella concretezza del cammino di trasformazione. Anche il cristianesimo ha una simile offerta di trasformazione durante la vita, ma attraverso strumenti che mediano con il soprannaturale. Per questo, secondo Dotolo, «è proprio la particolare configurazione religiosa del buddismo il punto di partenza di una riflessione sul dinamismo dell’esperienza religiosa che sembra indipendente da una relazione con Dio».35
Il riferimento al buddismo mostra uno degli sviluppi più significativi che nel dibattito attuale sulla religione si sta verificando, vale a dire la possibilità di una proposta religiosa senza Dio, che si concentri essenzialmente sull’importanza del vivere bene, che chiama in causa la responsabilità di ogni persona. Simile proposta la troviamo anche nell’elaborazione di alcune religioni indigene che praticano il sumak kawsay, vale a dire, il Ben Vivere, che è una filosofia, con riflessioni molto concrete, che sostiene e dà senso alle diverse forme di organizzazione sociale di centinaia di popoli e culture in America Latina. Sotto i principi della reciprocità tra le persone, dell’amicizia fraterna, della convivenza con altri esseri della natura e del profondo rispetto per la terra, i popoli indigeni hanno costruito esperienze veramente sostenibili che possono guidare le nostre scelte future e garantire l’esistenza umana.36 In altre parole, mentre la prospettiva teista esige un Dio per la fondatezza dei valori referenziali dell’esistenza, per l’ateismo religioso vivere bene è motivo sufficiente dell’esistenza umana. Proprio per questo tipo di proposte, secondo Dotolo quello che viene definito ateismo religioso, vale a dire la religione che non fa riferimento a Dio, ad un essere trascendente, ma che si basa esclusivamente sul piano immanente, non è in conflitto con lo specifico della religione, anzi è capace di ridare senso a contenuti che il discorso teista ha reso confusi nel contesto culturale post-moderno. «Se la religione contribuisce alla biologia e biografia della condizione umana è perché introduce un valore trascendente, il cui peso non dipende da un’alterità rivelativa, ma dalla sua stessa capacità di incrementare la qualità della vita».37 Il problema di fondo tra posizione teista e ateista consiste nella fondazione dei valori assunti. Mentre, infatti, il teismo ha come punto di riferimento un’entità trascendente, alla quale delega le risposte del suo sistema di valori, il punto di riferimento della visione atea consiste nella positività degli stessi valori. La qualità dei valori della vita non dipende, nella posizione atea della religione, da forze esterne alla dimensione immanente della stessa vita, perché «ciascuno ha la responsabilità etica innata e inalienabile di cercare di vivere il meglio possibile data la propria situazione».38 L’esistenza umana, dunque, può essere organizzata sulla base di un’oggettività valoriale basata sul riconoscimento universale degli stessi valori, che può variare di epoca in epoca, ma che diventa significativo per l’epoca che li assume, senza il bisogno di proiettare lo schema valoriale in una realtà trascendente di opinabile verificabilità. C’è la possibilità di una vita degna e piena di significato, senza bisogno di far riferimento a Dio e, dunque, senza il bisogno di dottrine, dogmi, elucubrazioni teologiche. Ciò che è indispensabile, sostiene sempre Dworkin, non è l’opinione di Dio, ma il giudizio previo «che esiste una verità etica e morale oggettiva di cui si può ritenere che qualcuno sia esperto. Questo giudizio previo non dipende da alcun assunto teista: è disponibile tanto a un ateo quanto a un teista. A patto, cioè, che l’ateo sia un ateo religioso».39
Interessante, in questa prospettiva, la posizione del filosofo André Compte-Sponville. A suo parere ciò che è importante per la religione è il riferimento non tanto al divino, quanto a qualcosa che alimenti il senso di una convivenza attenta allo sviluppo culturale, al rispetto delle differenze e alla promozione della vita. Per questo, la questione Dio non è necessaria per la vita quotidiana, che si alimenta di ciò che è percepibile in modo immediato. «Uno dei motivi principali per cui non credo in Dio, è che non ne ho alcuna esperienza. È l’argomento più semplice. È uno dei più forti. Nessuno mi toglierà dalla testa che se Dio esistesse dovrebbe vedersi o sentirsi di più».40 Il credere in Dio è un’ipotesi che non spiega, proprio perché è inesplicabile, con la conseguenza di girare a vuoto qualora si tentasse di spiegare qualcosa con ciò che non è spiegabile. Per Compte-Sponville la scelta migliore consiste nell’accettare il mistero che permea il conoscere e spinge verso altre spiegazioni. In fin dei conti, la nostra esistenza è lo spazio del mistero. Per questo motivo, non è un Dio inconoscibile che può portare argomenti in favore della religione e, di conseguenza, è possibile intraprendere un cammino verso una spiritualità interprete del mistero, non necessariamente religiosa. La spiritualità è caratterizzata dall’apertura del finito sull’infinito e l’ateismo non nega l’assoluto, ma solo la sua trascendenza e la sua assimilazione a Dio. «Dio è troppo incomprensibile, da un punto di vista metafisico, per non essere messo in dubbio (come sapere se qualcosa, che non comprendiamo, è un Dio o una chimera?); la religione è troppo comprensibile, da un punto di vista antropologico, per non destare sospetti».41 A suo dire, il limite culturale, non solo occidentale, è stato quello di pensare che religione e spiritualità fossero sinonimi. La spiritualità libera dalle pretese assolute della morale e di un’eternità che svuota le esigenze del presente circa la ricerca della felicità può finalmente agevolare il percorso del ritrovamento della soggettività. Il vero nome della spiritualità è l’indipendenza, che diventa cammino mistico verso l’unità della persona.
Le posizioni presentate sino ad ora mostrano l’esigenza, in questo frangente della storia, di trovare un cammino capace di immettere significati nel vuoto che il materialismo consumista ha provocato non solo nel mondo occidentale. C’è un dato significativo che emerge nei percorsi di critica alla secolarizzazione. Nel tentativo di recuperare il discorso su Dio e la religione, si fanno strada percorsi che in passato poco venivano considerati, forse a causa dell’identificazione tra spiritualità e trascendenza, così come messo in evidenza poco sopra. C’è un bisogno di spiritualità che va al di là e al di fuori delle ricerche teologiche su Dio. Anzi, la delusione nei confronti delle grandi religioni, la cui proposta con il tempo si è fossilizzata all’elaborazione dottrinaria dei propri contenuti, perdendo di vista i bisogni spirituali degli uomini e delle donne, ha provocato la ricerca di nuovi cammini spirituali, non necessariamente di matrice teista, mostrando in questo modo una pluralità di percorsi possibili, «forme di mistica profana, che altri chiamano laica, presenti in fenomeni estranei all’ordine della realtà o mondo umano delimitato dalla categoria del sacro».42 Questa pluralità di cammini spirituali mostra anche la difficoltà attuale di identificarsi con una specifica matrice religiosa, proprio perché viene avvertita la necessità di smarcarsi da quelle proposte dottrinali la cui pesantezza è proporzionata all’incapacità d’interagire con il mondo.
In questa fase, in cui sempre maggiormente viene percepita l’esigenza di una religiosità sganciata dal solco delle religioni tradizionali, si apre il campo alla mistica. In continuità con la ricerca di una soggettività autonoma tipica della modernità, sganciata dai modelli di sapere sia della scienza che delle grandi religioni, la mistica diviene una risposta plausibile, proprio perché non riconducibile ad alcun assoluto. La mistica diviene possibilità di abitare il mondo senza l’esigenza di corollari metafisici che giustifichino il proprio cammino:
I mistici sono informatori contro-eroici degli uomini; non forniscono un aiuto per l’affermazione dell’Io nella realtà agonale. Essi tentano di sottrarre terreno all’ontologia dell’arena. E lo fanno mostrando che quel qualcosa nel quale soggiorniamo, in realtà, è uno spazio privo di marcature, in cui non può vigere alcuna differenza che faccia la differenza.43
La mistica, dunque, segnala un’apertura che non risponde ad alcuna necessità funzionale, ma che lascia intravedere la problematica del bisogno di significato e diviene capace di riscrivere il bisogno di credere in forme nuove. C’è nell’uomo un impulso di trascendenza che lo conduce ad auto-trascendersi. Il problema è che questo bisogno incontra l’ostacolo lasciato dal vuoto della proposta religiosa, non perché assente, ma perché incapace di dire qualcosa di significativo e di autentico nell’attuale contesto culturale. Ebbene, l’esperienza mistica si propone come capace di offrire cammini in cui sia possibile realizzare l’esperienza dell’auto-trascendenza. Segno di ciò che stiamo dicendo è la ricerca di solitudine e silenzio, tipica della storia contemporanea contrassegnata dai rumori sempre più pesanti della produzione tecnologica, che non lascia spazio alla persona per rientrare in sé stessa, ritrovarsi per ricentrarsi.
Conclusione
Il fenomeno religioso è davvero troppo vasto da poter essere racchiuso in un concetto. Su questo punto è difficile non schierarsi con i teorici della post-secolarizzazione, senza tuttavia sposarne tutte le conseguenze. È altrettanto vero, infatti, che è innegabile il processo di scristianizzazione del mondo occidentale, che apre sempre di più lo spazio all’evoluzione di una cultura materialista, segnata in modo pesante da un consumismo sempre più globalizzato. All’interno di questo cambiamento epocale, non solo il cristianesimo riesce a rimanere a galla, seppur in forme rinnovate di vissuto e di presenza nel tessuto sociale ma, come abbiamo visto, emergono nuovi percorsi spirituali, nuove proposte religiose. La novità di queste proposte consiste da una parte nello sganciarsi dalle formule dottrinali che presentano un pensiero assiomatico e definitivo, dall’altra nel presentare estrema libertà nel prendere e mettere insieme elementi provenienti da cammini religiosi diversi. Con lo sguardo di chi è venuto al mondo dopo, si può tranquillamente dire che l’esito nichilista della società occidentale annunciato da Nietzsche non si è avverato ma, al contrario, l’impatto dell’illuminismo e delle teorie materialiste della realtà, invece di estinguere la religione, le hanno permesso di rivedersi e di ripresentarsi sotto nuove spoglie.
A questo punto del discorso si tratta di capire la bontà esistenziale di queste nuove proposte e dei cammini mistici che stanno venendo sempre di più alla luce. L’abbandono delle religioni istituzionali, che presentano una proposta dottrinale, non sempre riesce ad aprire la strada a forme religiose che abbiano una ricaduta positiva nella società. Se nell’esperienza religiosa proposta dalle religioni tradizionali una caratteristica che emergeva era la continuità, oltre alla ritualità immutabile, non sembra essere così per i nuovi cammini religiosi emergenti. La grande varietà di proposte religiose nell’epoca della post-secolarizzazione, oltre a presentare una cospicua e variegata possibilità di cammini, allo stesso tempo non garantisce la permanenza nell’esperienza religiosa assunta. La difficoltà nell’epoca post-moderna di vivere in modo definitivo le scelte fatte è visibile anche nelle proposte religiose della società post-secolare.
Sommario
Il presente lavoro vuole essere un contributo all’attuale dibattito sulla post-secolarizzazione. A partire dalle tesi di David Martin, Charles Taylor e Hans Joas, nella prima parte del saggio vengono presentati alcuni contributi che, mentre mostrano i limiti dell’interpretazione secolare della religione, dall’altra tentano di aprire varchi per impostare il dibattito in modo nuovo. Secondo Martin c’è una sorta di miopia nei sostenitori della secolarizzazione che non permette di cogliere le aporie del nesso tra modernizzazione e declino della vitalità religiosa. Dall’altra parte, Taylor individua nelle guerre di religione del XVII secolo, scatenatesi in Europa dopo le tensioni causate con la riforma, uno dei motivi del calo d’intensità della credenza e della pratica religiosa e, quindi, dell’indifferenza crescente verso il sacro. Secondo Joas, dopo la nascita delle religioni universali, lo sviluppo della cultura dei diritti umani rappresenta la seconda grande ondata storica di una radicale desacralizzazione del potere ed essa s’intreccia con la genesi dell’opzione secolare. Nella seconda parte del presente studio abbiamo presentato alcune riflessioni che mostrano i nuovi cammini che la religione sta percorrendo nell’età post-secolare. Si passa, così, dall’idea del teologo Dotolo secondo il quale la post-secolarità ha reinventato il sacro sulla linea di un’incessante creatività capace di valorizzare una spiritualità più flessibile, ariosa, slegata da qualsiasi riferimento a principi e norme, al pensiero di Bechert che ha fatto notare come, tra le grandi religioni, sia il buddismo a recitare nell’attualità il ruolo di protagonista nello scenario della ricerca religiosa, per il fatto che in esso il legame tra soteriologia ed etica costituisce le coordinate di riferimento per un itinerario di riappropriazione da parte dell’uomo del proprio sé. Nell’ultima parte del lavoro si mostra come, in realtà, il dibattito sulla religione è aperto a nuovi scenari che, spesso, sono di difficile interpretazione.
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Per la presentazione dei tre autori da noi analizzati abbiamo fatto riferimento, oltre alle opere degli autori, al significativo e dettagliato lavoro del teologo P. Costa, La città post-secolare. Il nuovo dibattito sulla secolarizzazione, Queriniana, Brescia, 2019. ↩︎
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D. Martin, Tracts against the Times, Lutterworth, 1973, p. 193. ↩︎
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Ivi, p. 196. ↩︎
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Ivi, cit., p. 198. ↩︎
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D. Martin, The Education of David Martin: The Making of an Unlikely Sociologist, SPCK Publishing, London, 2013, p. 128. ↩︎
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C. Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano, 2009. ↩︎
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Ivi, p. 345. ↩︎
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Ivi, p. 696. ↩︎
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C. Taylor, La scommessa del laico, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 37. ↩︎
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C. Taylor, Incanto e disincanto. Secolarità e laicità in occidente, EDB, Bologna 2014, p. 28. ↩︎
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Ivi, p. 51. ↩︎
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Cfr. H. Joas, La fede come opzione, Queriniana, Brescia 2013, p. 26. ↩︎
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Ivi, p. 28. ↩︎
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P. Costa, La città post-secolare, p. 92. ↩︎
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H. Joas, Valori, società, religione, Rosemberg Sellier, Milano 2014, p. 92. ↩︎
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Ivi, p.132. ↩︎
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Ivi, p. 133. ↩︎
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H. Joas, La fede come opzione, pp. 81-82. ↩︎
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Cfr. P. Costa, La città post-secolare, cit., pp. 98-126. ↩︎
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Ivi, p. 101. ↩︎
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Cfr. G. Duby, La nuova storia, Mondadori, Milano 1989. ↩︎
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Cfr. P. Van Der Veer, «Smash Temples, Burn Books. The World Religious Cultures», Journal of Chinese Academy of Social Sciences, spring 2012, n. 73. ↩︎
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Cfr. T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’“altro”, Einaudi, Torino 2014. ↩︎
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T. Asad, Secular Translations: Nation-State, Modern Self, and Calculative Reason, Columbia UP, 2018, p. 79. ↩︎
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Ivi, p. 129. ↩︎
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J. Habermas, Verbalizzare il sacro. Sul lascito religioso della filosofia, Laterza, Roma-Bari 2015, p. 86. ↩︎
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A. Rizzi, La secolarizzazione debole. Violenza, religione, autorità, Il Mulino, Bologna 2016, p. 69. ↩︎
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C. Dotolo, Dio, sorpresa per la storia. Per una teologia post-secolare, Queriniana, Brescia 2020, p. 41. ↩︎
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Ivi, p. 47. ↩︎
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Ivi, p. 48. ↩︎
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G. Dacquino, Credere e amare, Mondadori, Milano 2000, p. 108. ↩︎
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C. Dotolo, Dio, sorpresa per la storia, cit. p. 49. ↩︎
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H.K. Bhabha, I luoghi della cultura, Meltemi, Roma 2001, p. 59. ↩︎
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C. Dotolo, Dio, sorpresa per la storia, cit., p. 100. ↩︎
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Ivi, p. 111. ↩︎
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Cfr. L.C. Schlemer Alcantara, «Bem Viver: uma perspectiva (des)colonial das comunidades indígenas», Rev. Rupturas, 2017(2), Costa Rica, Jul-Dic, p. 4. ↩︎
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C. Dotolo, Dio, sorpresa per la storia, cit., p. 118. ↩︎
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R. Dworkin, Religione senza Dio, Il Mulino, Bologna 2017, p. 33. ↩︎
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Ivi, p. 125. ↩︎
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A. Compte-Spomville, Lo spirito dell’ateismo. Introduzione ad una spiritualità senza Dio, Ponte alle Grazie, Milano 2007, p. 83. ↩︎
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A. Compte-Spomville, Lo spirito dell’ateismo, cit., p. 137. ↩︎
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J.M. Velasco, Il fenomeno mistico 2. Struttura del fenomeno e contemporaneità, Jaca Book, Milano 2003, p. 183. ↩︎
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P. Sloterdijk, Dopo Dio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008, p. 264. ↩︎