Il bene umano. Felicità e theoria in Aristotele.

Introduzione

Una celebre linea interpretativa, risalente ai primi commentatori di Aristotele e tuttora dominante, declina la causalità del Motore Immobile in termini di finalità: solo in quanto oggetto di desiderio esso può esplicare sul mondo sensibile una funzione causale conservando al tempo stesso la sua piena immobilità ed attualità. Secondo questa lettura, anche l’attività umana dovrebbe avere come suo termine di riferimento il modo d’essere del Motore Immobile, la cui imitazione assurgerebbe dunque a sommo bene della vita etica. Eppure, i testi dello Stagirita sono molto elusivi circa il modo in cui si articola effettivamente la relazione tra il mondo e il principio divino, e anche nelle opere etiche tale questione affiora in modo piuttosto velato, sicché spetta all’interprete il compito di provare a dipanare il problema attraverso l’analisi del pensiero etico di Aristotele, con particolare riguardo alla concezione del bene.

In polemica con la dottrina platonica del bene in sé, universale e causa di tutti gli altri beni, la riflessione aristotelica si indirizza alla ricerca di un bene umanamente realizzabile attraverso la praxis, e lo identifica nella felicità (eudaimonia), intesa non come uno stato d’animo, bensì come un’attività a tal punto manifestativa della natura umana da non essere mai desiderata e compiuta in vista di altro, ma sempre e soltanto per se stessa. Com’è noto, tale attività per Aristotele è la contemplazione (theoria), l’attività intellettuale fine a se stessa.

L’uomo teoretico è dunque colui che realizza in modo integrale il fine della natura umana, e perciò gode di una felicità purissima, riconducibile alla beatitudine divina: «l’attività degli dèi, che spicca per beatitudine, verrà a essere un’attività contemplativa, e quindi tra le attività umane quella che è più vicina a essa sarà la più felice».1 Ora, proprio tale accostamento dell’attività teoretica al modo d’essere di Dio, più volte formulato da Aristotele, ha generato il problema se nel suo pensiero il culmine della vita etica umana debba essere rintracciato in una sorta di assimilazione al divino, e quindi nel tentativo di imitare il più fedelmente possibile la forma d’esistenza del principio trascendente,2 o se invece il riferimento al divino abbia un significato sostanzialmente analogico, in quanto l’uomo, nella sua attività, tenderebbe piuttosto alla piena attuazione della propria natura, e in questo senso, nel compimento dell’entelecheia, consisterebbe la sua affinità al divino.

Dato che il discorso etico di Aristotele investe anche concetti di natura propriamente teoretica – ad es. essenza, fine, attività –, nella prima parte dell’articolo vengono brevemente esaminate alcune di queste nozioni chiave, cercando di metterne in luce la stretta correlazione e le ricadute decisive sull’impianto teorico complessivo dell’etica dello Stagirita, in cui la concezione del sommo bene si determina in funzione dell’attività propria e costitutiva dell’essere umano.

Nella seconda parte viene affrontata la questione sopra delineata circa il significato e le implicazioni della theoria nell’ambito della vita umana, e specialmente il problema di come debba essere inteso il rinvio al divino e al rendersi immortali (athanatizein) di cui l’attività teoretica sembra essere per Aristotele la condizione di possibilità. La posta in gioco è quindi la determinazione di ciò che costituisce il termine finale del desiderio umano, la cui attuazione coincide con la felicità e il compimento di una vita buona.

Essenza e finalità

Nella trattazione sulla sostanza sensibile svolta nel libro Z della Metafisica, Aristotele caratterizza l’essenza (to ti en einai) come il principio fisso e immutabile che rende la cosa ciò che è: «L’essenza di ciascuna cosa è ciò che quella cosa è per se stessa».3 Ogni cosa è questa determinata cosa perché possiede una determinata essenza, in virtù della quale è se stessa e si differenzia da tutte le altre.

Come tale, l’essenza è anteriore alle sue affezioni perché mentre queste possono essere negate della cosa senza implicare la negazione della cosa stessa, la negazione dell’essenza implica eo ipso il toglimento della cosa, e pertanto costituisce il principio che determina la necessità della sostanza stessa: «l’essenza, non solo per Aristotele è la sostanza, ma è la sostanza prima, la prote ousia. Perché? Perché essa è la causa che fa sì che una sostanza come il composto, come il synolon, sia ciò che è».4 Numerosi sono i passi della Metafisica nei quali Aristotele, pur concedendo che anche alle altre categorie possa essere riconosciuta una qualche forma di essenza, afferma che però solo della sostanza essa può essere detta strictu sensu, proprio perché la sostanza garantisce alla cosa quell’esser determinato in cui l’essenza propriamente consiste: «Solamente ciò che è un alcunché di determinato è essenza; invece quando qualcosa viene predicato di qualcos’altro, allora non si ha un alcunché di determinato, dal momento che la caratteristica di essere alcunché di determinato appartiene solamente alle sostanze».5

Se non vi fosse un fondamento sostanziale capace di assicurare l’esistenza separata e la definibilità della cosa, questa precipiterebbe nell’indeterminatezza del regressus ad infinitum, che equivale a un continuo differire la ragione della cosa e quindi alla sua non esistenza. Da questo punto di vista, la sostanza gioca il ruolo a un tempo di principio primo e di termine ultimo della cosa: è ciò che segna il limite al di là del quale la cosa non è; il limite che la cosa non può oltrepassare senza negare se stessa. Se potessimo procedere oltre la sostanza, come vogliono i negatori del principio di non contraddizione, allora ogni cosa sarebbe tutte le altre infinite cose, distruggendo la possibilità di un pensiero e di un discorso determinati.6

Non è un caso che Aristotele operi una saldatura indissolubile tra l’essenza e la definizione, intesa come il discorso che manifesta ciò che la cosa è per sé, enunciando l’unità totale delle determinazioni che ne costituiscono la natura necessaria. Entrambe, infatti, esplicano un esercizio determinante che consiste nel delimitare l’ambito entro il quale la cosa è ciò che è: la definizione, etimologicamente, è un circoscrivere l’ente in modo che esso si distingua da ciò che esso non è, e pertanto implica strutturalmente dei limiti che segnano il punto in cui l’ente finisce. Laddove vi è essenza e definizione vi è dunque anche fine, limite.

Nel libro Γ della Metafisica, nella dimostrazione elenchica del principio di non contraddizione, ricorre l’argomento secondo cui coloro che negano tale principio, affermando che una cosa può, simultaneamente e sotto il medesimo rispetto, possedere e non possedere una determinata proprietà, finiscono per rendere infinita ogni cosa, dal momento che la loro pretesa implicherebbe la distruzione dell’essenza determinata in ragione della quale possiamo articolare discorsi dotati di significato: «Essi devono, di necessità, affermare che tutto è accidente e che non esiste l’essenza dell’uomo o l’essenza dell’animale […] allora, necessariamente, si andrà all’infinito».7 In questo senso il principio di non contraddizione fonda e garantisce la struttura determinata del reale, intesa come possibilità del riferimento a significati distinti e stabili: «Il principio di non-contraddizione mantiene nella loro stabilità e incontraddittorietà solo significati determinati […] la determinatezza è la vera discriminante per giudicare qualcosa come reale, dunque vera».8

Ora, la forma è propriamente il principio che conferisce alla cosa dei limiti che determinano non solo la sua struttura semantica, in virtù della quale si distingue da tutte le altre cose, ma anche il fine in funzione del quale essa esiste e agisce. La relazione tra causa formale e causa finale è talmente stretta che la loro distinzione tende a sfumare: «Quale è la causa formale? L’essenza dell’uomo. E quale la causa finale? Il fine dell’uomo. Queste due ultime forse coincidono».9

Nell’enunciare ciò che è proprio di una certa natura rientra in modo necessario anche l’indicazione circa la sua destinazione finale. Pertanto, la ricerca conoscitiva deve indirizzarsi preminentemente alla causa finale, principio esplicativo del senso proprio della cosa, la quale si definisce proprio e anzitutto in relazione al termine finale verso cui è orientata: «La nostra ricerca del perché giunge al suo termine […] quando non si può dire che un determinato oggetto diviene, oppure è, per il fatto che un qualcos’altro divenga oppure sia. In realtà, a questo modo si coglie ormai il fine ed il limite ultimo».10 La definizione dell’essenza, quindi, implica strutturalmente il riferimento a ciò che costituisce il fine, vale a dire il bene dell’ente. Quali sono le ripercussioni di questa tesi sul discorso etico?

Un’etica dell’attività

È in campo etico, tanto in sede di riflessione teorica quanto di attuazione pratica, che il concetto di finalità dispiega tutta la sua pregnanza. Se l’acquisizione dell’ontologia è che l’ente si costituisce essenzialmente nella relazione al suo fine, è l’etica, scienza pratica, che fornisce i criteri di orientamento per determinare e raggiungere concretamente tale fine. Per questa ragione, l’etica dismette le pretese della metafisica di costruire un discorso generale sull’ente in quanto ente e, più modestamente, assume come suo baricentro di ricerca la dimensione umana, interrogandosi sulle condizioni di una vita che possa dirsi felice, pienamente giunta al suo proprio compimento.

L’etica di Aristotele è interamente costruita sull’assunzione secondo cui ogni natura determinata è definita da una specifica attività, l’esercizio della quale ne costituisce il sommo bene, ciò in vista di cui tutto il resto è compiuto. Con un’operazione per certi versi analoga a quella compiuta in ambito metafisico per distinguere la scienza dell’essere dalle scienze particolari, Aristotele si chiede quale sia l’atto proprio dell’uomo considerato non sotto questa o quella determinazione (professione, etnia, condizione sociale ecc..) ma semplicemente in quanto uomo.

Il presupposto di questo gesto filosofico, evidentemente, è l’esistenza di una natura umana anteriore a tutte le proprietà che intervengono a individuarla, la cui de-finizione è data proprio dal fine verso cui è orientata, che precede e ingloba in sé tutti i fini particolari del singolo individuo. Tale natura originaria è costituita da un nucleo di caratteri e determinazioni distintive che appartengono a ogni uomo, indipendentemente dalla sua specifica posizione sociale ed esistenziale, proprio perché si radicano nella sua essenza.

Ora, se c’è un operare proprio del calzolaio o del falegname, così come delle parti del corpo, allora dev’esserci anche un operare proprio dell’uomo in quanto tale, che consiste nella differenza che lo identifica in rapporto alle altre forme viventi:

è evidente che il semplice vivere è comune anche alle piante, e che quello che si cerca è qualcosa di specifico. Bisognerà dunque escludere anche la vita consistente nel nutrirsi e nel crescere; dopo di questa viene un certo tipo di vita fatta di sensazioni, ma è evidente che anch’essa è comune sia al cavallo che al bue e a tutti gli animali. Allora rimane solo un certo tipo di vita attiva, propria della parte razionale».11

Come la buona definizione esprime l’essenza della cosa mediante la differenza ultima – la caratteristica che, all’interno di un medesimo genere, solo la cosa possiede – così la riflessione etica circoscrive l’agire umano sulla base di un principio che nessun’altra specie animale è in grado di esibire. E dato che l’essenza dell’uomo si identifica con l’anima, è necessario individuare quella parte di essa che ne costituisce la prerogativa esclusiva: la ragione.

Da questo procedimento risulta dunque che la natura umana è definita dall’agire secondo ragione, e solo in questo tipo di agire l’uomo realizza pienamente la sua natura, raggiungendo il suo fine e, dunque, la felicità. Non solo, ma è anche uomo eccellente, in quanto si è elevato alla più alta forma del suo essere: «Sono identiche l’opera propria di una certa cosa e l’opera della versione eccellente di quella stessa cosa».12

L’attività razionale è quindi la dimensione in cui l’umano realizza pienamente se stesso, ciò che ne determina l’eccellenza. E tuttavia alcuni passi dell’opera aristotelica sembrano suggerire che proprio l’energeia kata logon, e più propriamente il suo vertice, ossia la theoria, non solo costituisca il compimento della vita umana, ma ne implichi addirittura il superamento inteso come accesso a una condizione superiore, sovraumana: «Se quindi l’intelletto è cosa divina rispetto all’essere umano, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana».13 In altri termini, nell’attività secondo ragione o intelletto la natura umana compie se stessa, in quanto esprime la propria differenza dalle altre specie, e contemporaneamente attualizza la parte di sé che Aristotele qualifica esplicitamente come «divina». Ma non si ingenera allora una contraddizione? È possibile sostenere che quanto più l’uomo realizza se stesso, tanto più si solleva al di sopra dell’umano? Se abbiamo visto che la forma è il principio che costituisce l’essenza dell’ente, come si può ammettere che l’attività con cui l’uomo realizza compiutamente la sua natura ne comporta anche il trascendimento?

Movimento e attività

Il binomio potenza-atto costituisce uno dei dispositivi concettuali più importanti e innovativi dell’opera aristotelica, assieme a quello di materia e forma. Le due coppie concettuali sono così strettamente connesse da essere distinguibili solo per astrazione, mentre in realtà tendono a sovrapporsi: come la materia rappresenta l’elemento di maggiore indeterminazione rispetto alla determinatezza della forma, così la potenza, di per sé insussistente, ha la sua ragion d’essere nell’atto. Il primato del determinato si traduce nella tendenza naturale della materia verso la forma, della potenza verso l’atto: «l’essere, in quanto determinato, compiuto, giunto alla pienezza è il principio dell’essere indeterminato, incompiuto, in marcia verso la maturità di qualche forma».14 La materia non è quindi passività inerte, perché caratterizzata da un’intrinseca tensione verso l’acquisizione della forma, configurandosi come spinta all’atto.

Ora, come emerge dalla Fisica, il movimento non è solo il ponte di passaggio tra la potenza e l’atto, poiché è esso stesso atto, ma un atto di natura particolare: è infatti sempre l’attuazione di una potenza, e in quanto tale non è separabile dalla componente potenziale, ciò per cui è sempre segnato da un certo grado di imperfezione. Non essendo riducibile né solo a potenza né solo all’atto, poiché è «l’atto di ciò che è in potenza, in quanto è in potenza»,15 il movimento risulta indeterminato per costituzione. Se ogni cosa è perfetta quando raggiunge il proprio fine, allora il movimento, essendo il processo attraverso cui la cosa tende verso il fine, ne manifesta la privazione, la condizione di incompiutezza che lo innesca.16

Ciò significa, dunque, che la kinesis è atto solo per analogia, in quanto costituisce l’accadere della cosa nella misura in cui questa è ancora in potenza, perché in tale processo essa è ancora aperta alla possibilità di assumere una forma altra da quella che attualmente possiede, mentre atto in senso forte è solo la forma pienamente dispiegata, non più suscettibile di diventare altro, ciò che costituisce la cosa in quanto compiutamente realizzata:

Il movimento sta certamente nell’atto di un essere che è in potenza, ma quando questo va in atto non va per quello che è, ma solo in quanto è mobile. […] Senz’altro il bronzo è la statua in potenza, però l’atto del bronzo in quanto tale non è movimento: infatti non è lo stesso essere quello del bronzo e quello di qualcosa che è in potenza in via di mutamento, perché se fossero semplicemente e per definizione la stessa cosa, allora l’atto del bronzo in quanto bronzo sarebbe movimento. Ma come si è appena affermato non sono la medesima cosa.17

In altri termini, ogni movimento per Aristotele rimanda strutturalmente ad altro, ad un termine che è sempre di là da venire rispetto al movimento ora in atto: la costruzione di una casa si attua fino al momento in cui la casa è compiuta, perché allora, avendo raggiunto il suo fine, non ha più motivo di permanere in atto: «nel concetto della δύναμις κατὰ κίνησιν, anzi proprio in questo concetto, è quindi presente un rapporto costitutivo con il τέλος; con ciò non si intende dire che sia presente una “tendenza allo scopo”; ci si riferisce invece all’intima assegnazione di qualcosa alla fine, alla conclusione, alla completezza».18 Tuttavia, non ogni attuazione è movimento imperfetto, perché vi sono dei processi che, pur essendo esplicazione di una potenza, hanno in sé, nel loro stesso accadere, il fine che ne costituisce il bene e la ragion d’essere. Tali sono ad esempio le attività (energeiai) riconducibili all’ambito della conoscenza, dal grado più basso della sensazione a quello più alto della speculazione: «Non è possibile che uno cammini e abbia camminato nel medesimo tempo […]. Invece, uno ha visto e vede nel medesimo tempo, e, anche, pensa ed ha pensato. Chiamiamo, pertanto, attività quest’ultimo tipo di processo e movimento l’altro».19

Contrariamente al movimento, l’attività non è orientata al raggiungimento di un fine esterno al proprio svolgimento, ma lo contiene e lo realizza nella misura in cui accade. Di qui la maggiore dignità ontologica dell’attività, in quanto processo che non rimanda ad altro da sé e dunque possiede una sua determinatezza intrinseca. In altri termini, mentre il movimento procede verso un fine esterno al suo effettivo svolgimento, e una volta raggiunto si esaurisce in quanto movimento, l’attività se ne distingue in ragione della sua completezza, del suo possedere immediatamente il fine che ne costituisce il senso ultimo. E proprio qui sta la differenza decisiva per cui Aristotele caratterizza come attività (energeia, ergon), e non come movimento, ciò per cui una cosa giunge a perfezione. Nell’esercizio dell’attività, e in particolare di quella in cui consiste la sua virtù, la sua opera specifica, l’ente realizza il suo fine e quindi porta a compimento la propria natura. E tale fine, coincidente con il bene, appartiene intrinsecamente alla natura dell’ente in atto, e non può essere qualcosa che è al di là di essa, poiché altrimenti l’attingimento di esso non si realizzerebbe nell’attività, ma per mezzo di un movimento.

Se l’esercizio della virtù, ossia di ciò in cui la cosa realizza la propria eccellenza, consistesse in un movimento, esso sarebbe subordinato a qualcosa che non appartiene all’atto virtuoso stesso, mentre la caratterizzazione dell’attività come fine a se stessa, permette di individuare in essa la dimensione in cui l’ente compie la sua perfezione. La distinzione tra attività e movimento, dunque, ci offre una decisiva indicazione circa il modo in cui intendere il più alto bene umano: non una tensione rivolta verso un oggetto trascendente, ma un bene immanente che si esplica nell’attività propria dell’uomo: «la felicità sarà attività di una vita perfetta secondo perfetta virtù».20

Quali criteri per valutare l’agire virtuoso

Aristotele ripete spesso che il discorso etico, essendo incentrato su un ambito multiforme e cangiante qual è il mondo delle azioni umane, deve accontentarsi di tracciare un quadro il più possibile completo e aderente ai fatti, senza la pretesa della rigorosa determinazione concettuale propria della dimensione teoretica. Come osserva Gadamer: «Il sapere morale, così come Aristotele lo descrive, non è un sapere oggettivo; colui che sa non sta di fronte ad uno stato di cose che si tratti di registrare obiettivamente, ma è immediatamente coinvolto e interessato in ciò che ha da conoscere».21

Tuttavia, ancorché sia priva di uno statuto autenticamente epistemico, la riflessione etica costituisce una forma di sapere capace di pervenire a conclusioni dotate di universalità, seppure del tipo statistico del «per lo più». In assenza di principi incontrovertibili da cui dedurre apoditticamente le regole di un agire corretto, si pone il problema di individuare dei criteri condivisibili sulla cui base determinare il valore etico delle nostre azioni. Secondo Aristotele, nel campo delle valutazioni morali la norma non è costituita da istanze assolute, ma dalle scelte e dalle azioni dell’uomo eccellente, ossia dall’individuo la cui coscienza etica si è a tal punto sviluppata da superare la dicotomia tra ciò che è per noi e ciò che è per natura, cosicché il suo modo di sentire sia in certo senso espressione di ciò che è per sé: «In tutti questi casi pare che sia vero ciò che appare evidente all’uomo eccellente».22 Il riferimento all’«uomo buono» è di fondamentale importanza nel definire la consistenza virtuosa dei nostri atti: per essere virtuosi non è sufficiente compiere azioni rivestite esteriormente del carattere del bene e del bello, ma è necessario che l’agente determini la sua scelta al modo del saggio (phronimos), il quale, proprio perché dotato della capacità di ben deliberare, assurge a modello paradigmatico dell’agire etico.23

Ora, l’indicazione del saggio quale fonte esemplare di scelte virtuose non è esente da problemi: infatti se la valutazione morale deve ispirarsi al modo di valutare del saggio, com’è possibile riconoscere qualcuno come saggio, essendo anche questa una valutazione morale? Non si innesca una petizione di principio?24 Aristotele non discute esplicitamente il problema, ma a questo proposito fa appello al sentire comune, che attribuisce la saggezza a coloro che mostrano una spiccata capacità di calcolare ciò che è buono tanto per se stessi quanto per l’uomo in generale, ad esempio politici come Pericle. E tale riconoscimento viene formulato sulla base della conformità del «saggio» ai valori e alle tendenze dominanti, per cui come osserva Berti: «questa prima forma di razionalità pratica non è critica nei confronti della realtà esistente, ma è inevitabilmente conservatrice […] perché assume come suoi parametri i giudizi degli uomini comunemente ritenuti “saggi”, nonché le tradizioni ed i costumi riconosciuti più validi da una determinata società politica».25

Al di là del carattere conservatore di una simile posizione, essa indica come per Aristotele il principio dell’agire virtuoso umano si attui interamente nell’ambito dell’umano, in relazione alle scelte compiute dagli individui considerati più capaci di deliberare bene. Colui che intende agire virtuosamente, quindi, deve tenere presente il più possibile la modalità di scelta propria del saggio, per il quale l’azione tende unicamente al conseguimento del fine che è il suo stesso accadere secondo il bello, senza perseguire vantaggi estrinseci. Solo in questo senso si può dire che l’azione è voluta per se stessa, disinteressata e dunque autosufficiente, in quanto non è subordinata ad altri fini che non siano la sua buona realizzazione (eupraxia).

È chiaro il parallelismo tra la superiorità dell’azione virtuosa e la preminenza della sostanza tra i molteplici significati dell’essere: come questa è prima in quanto non esiste né si dice in rapporto ad altro, ma è in se stessa determinata, così quella non è effettuata in vista di qualcosa che la trascende, ma è termine a se stessa: «il fine della produzione è diverso nella produzione stessa, mentre quello della prassi non lo è, dato che lo stesso agire con successo è fine».26 L’orrore per l’indeterminatezza e per la minaccia del regressus ad infinitum, che si innesca quando una cosa non si spiega da sé ma esige il ricorso ad altro, conduce Aristotele ad accordare un privilegio ontologico a qualsiasi realtà che si presenti come autofondata e autoesplicativa, tale cioè da arrestare, o da impedire sul nascere, la catena potenzialmente infinita di rimandi.

Anche la triplice distinzione delle scienze – teoretiche, pratiche, poietiche – obbedisce al medesimo criterio, assegnando alla teoresi una superiorità derivante dall’eccellenza del proprio oggetto, necessario perché avente il suo principio in se stesso, laddove prassi e produzione implicano una variabilità dei propri processi, in quanto la fonte del loro significato coincide con il soggetto agente o produttore. E tuttavia la differenza tra teoresi e prassi non deve oscurare il nesso che pure sussiste tra le due. La determinazione definitoria della natura umana in sede teoretica è inestricabilmente connessa all’individuazione, in sede di riflessione etica, del fine che la costituisce: «la natura di una cosa è il suo fine».27 Si tratta quindi di individuare l’attività nella quale l’essere umano sviluppa integralmente le capacità insite nella propria natura.

Teoria

La differenza specifica che costituisce la natura umana è la razionalità, la quale trova il suo massimo compimento nella teoresi contemplativa disinteressata, giacché la conoscenza «interessata» patisce il limite di mirare a uno scopo esterno a se stessa, configurandosi come dipendente da altro e, quindi, come inferiore rispetto alla contemplazione pura.28 La cifra caratteristica dell’attività contemplativa è che essa non è un agire governato dalla ragione, come quello che si esprime nelle cosiddette virtù etiche, in cui la ragione impone alle passioni la misura del giusto mezzo, ma è espressione della ragione in quanto tale, o meglio della sua parte più nobile e pura, cioè l’intelletto: «La felicità individuale dell’uomo, lo scopo finale di ogni suo sforzo non si compie nella perfezione morale […] ma solo nella piena esplicazione delle forze spirituali della sua natura».29

La preminenza della theorìa su tutte le altre forme di attività consiste nel fatto che essa è attività conoscitiva praticata unicamente per se stessa. Come tale, nell’esercizio della teoresi facciamo esperienza immediatamente di un piacere che è connesso strutturalmente al suo stesso svolgersi, e non risiede in un risultato o una ricompensa posti al di là di essa.

Tuttavia, per quanto la theorìa costituisca inequivocabilmente il coronamento della vita etica, Aristotele non dà di essa una caratterizzazione estremamente rigorosa, tale da determinarne con esatta precisione il contenuto. Su questo punto, i commentatori hanno sostenuto le interpretazioni più disparate, affermando ad esempio che lo Stagirita non avrebbe chiarito la natura della teoresi per non divulgare le proprie esperienze più profonde,30 oppure perché non ne possedeva un concetto perspicuo,31o anche perché, trattandosi dell’attività più comunemente esercitata nel Liceo, non era necessario darne una spiegazione approfondita ai suoi discepoli.32

Al di là delle diatribe interpretative, nell’opera aristotelica possiamo cogliere due significati prevalenti del termine theorìa: il primo, più ampio e più frequente, secondo cui essa consiste in qualsiasi attività conoscitiva condotta per il puro desiderio di conoscere, così come fa ad es. il matematico rispetto all’agrimensore; il secondo, più ristretto, identificabile come il coglimento noetico dei principi primi ed eterni, ossia come il momento apicale della theorìa intesa nel primo senso. In ogni caso, comunque sia concepita, è indubbio che per Aristotele la theorìa è attività perfetta e autosufficiente, che è sempre fine e mai mezzo, e quindi è ciò in cui l’uomo attua pienamente la propria natura e la propria felicità.

Al tempo stesso, però, Aristotele afferma che l’attività pensante è ciò in cui consiste la vita del dio, perché è l’unica forma di agire che, non implicando una dipendenza da altro, può essere degna dell’essere più eccellente. Anzi, nel dio la priorità del pensiero è spinta al punto tale da costituire un pensiero-di-pensiero (noesis noeseos), in cui la dicotomia di soggetto pensante e oggetto pensato si risolve nell’unità dell’atto di pensiero che si costituisce nel suo stesso cogliersi.33 A un primo sguardo, proprio la caratterizzazione del pensiero divino come noesis noeseos pare suggerire la differenza rispetto al pensiero umano: mentre questo, essendo espressione di una potenza, si attua nel riferimento a qualcosa che è altro da sé, articolandosi in una dinamica duale di soggetto-oggetto, quello è atto eterno e «autoreferenziale», che esclude qualsiasi possibile traccia di alterità o dipendenza.34

Tuttavia, Aristotele non limita la coincidenza di pensiero e pensato esclusivamente all’intelletto di Dio, poiché in realtà ogni attività teoretica che si occupa della forma implica l’identità dell’intelletto e del suo oggetto. Ciò vale sia per le scienze poietiche, in cui prevale la considerazione della forma immateriale, sia, e in modo precipuo, per le scienze teoretiche, dove l’oggetto è dato dalle definizioni e dalle essenze, che altro non sono se non l’espressione del coglimento della cosa da parte del pensiero: «Le scienze teoretiche si occupano della definizione, cioè del pensiero della cosa; in esse l’oggetto della riflessione è la stessa scienza».35 Quando il pensiero umano è teoresi in atto, esso non si riferisce a qualcosa di esterno a sé e la distinzione tra pensiero e pensato si dissolve nell’unità dell’intellezione in atto, cioè pensiero di pensiero.

Bisogna però osservare che il coglimento delle essenze e dei principi costituisce una parte minoritaria dell’attività intellettuale dell’uomo – ciò che abbiamo designato come il significato più profondo della theorìa –, la quale in realtà si svolge per lo più come ricerca e dibattito, e solo raramente attinge gli archaioi primi. Ciò si spiega in relazione alla natura potenziale del pensiero umano, che anche quando è in esercizio è pur sempre espressione di una potenza.

Così, mentre il dio è sempre e necessariamente pensiero in atto che coglie se stesso, tale da costituire il suo modo di vivere per l’eternità, per l’uomo è invece estremamente difficile elevarsi a tale perfezione dell’intelletto, ragion per cui ciò avviene di rado e per momenti molto fugaci. Infatti, l’atto dell’essere in potenza è sempre segnato dall’avvertimento di una resistenza, la quale rende faticosa la sua esplicazione, configurandola come uno sforzo che non può prolungarsi continuativamente ed eternamente, ma deve ritmarsi nella temporalità. Inoltre, ciò che è in potenza, proprio in quanto potenza, non si attua necessariamente, sicché il pensiero umano può anche non esplicarsi «teoreticamente» o comunque non pervenire alla noesis dei principi. In breve, mentre la felicità divina è atto in atto, quella umana è sempre atto di una potenza, di una capacità che reca in sé la possibilità di non esplicarsi e perciò non si dà necessariamente.

Ma nonostante queste differenze strutturali, Aristotele afferma esplicitamente che quando vive teoreticamente, e quindi organizza il suo agire in funzione del fine ultimo dell’attività teoretica per se stessa, l’uomo sembra avvicinarsi al modo d’essere del dio:

Ma un tale modo di vivere (quello teoretico) verrà a essere superiore a quello concesso all’uomo, dato che non vivrà in tal modo in quanto essere umano, ma in quanto si trova in lui qualcosa di divino: di quanto tale elemento divino si distingue dal composto, di tanto anche la sua attività differisce da quella secondo l’altra specie di virtù. Se quindi l’intelletto è cosa divina rispetto all’essere umano, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana. Non si deve, essendo uomini, limitarsi a pensare cose umane né essendo mortali pensare solo a cose mortali, come dicono i consigli tradizionali, ma rendersi immortali fin quanto è possibile e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi.36

A questo punto ci si può chiedere se l’attività contemplativa sia davvero il compimento della natura umana, esprimendo ciò che essa ha di più proprio e irriducibile ad altre specie, o se non sia piuttosto la dimensione nella quale l’uomo si rende simile al dio, quindi trascendendo in certa misura la condizione ontologica definita dalla sua essenza. Dobbiamo forse leggere questo passo nel senso di un’apertura alla possibilità che l’uomo partecipi alla vita e alla beatitudine divina? Siamo in presenza dell’individuazione del fine ultimo umano nell’assimilazione al divino? Oppure bisogna interpretare in altro senso l’accostamento della teoresi umana al modo d’essere divino? Queste domande ci conducono a interrogarci sulla questione di come si articoli per Aristotele il rapporto tra l’uomo e il divino, e su come vada inteso quel «rendersi immortali» di cui la theorìa sembra essere la condizione di possibilità.

Rendere divino l’uomo?

Con il paragone tra l’attività teoretica umana e il pensiero divino, pur nelle ineliminabili differenze che abbiamo richiamato, siamo giunti al problema dei rapporti tra l’uomo e la divinità, e in particolare alla questione se l’opera aristotelica, senza venir meno allo spirito logicamente rigoroso che la ispira e costituisce, indichi una possibile via di elevazione dell’uomo al divino – una sorta di itinerarium mentis in deum – o se invece tale problema venga formulato da Aristotele in termini analogici, e cioè che il titolo di divino sia utilizzato non tanto per individuare rigorosamente un singolo ente separato, quanto piuttosto per indicare genericamente una forma di realtà giunta alla piena realizzazione della sua natura, e che dunque possiede quei tratti di autosufficienza e perfezione considerati divini.

La possibilità di una somiglianza tra uomo e il dio sembra essere rafforzata da quanto Aristotele afferma nelle prime pagine di Metafisica, ossia che la filosofia prima oggetto della trattazione è scienza divina in un duplice senso: non solo in quanto indaga le cause e i principi primi, ossia le realtà più alte e divine del cosmo, ma anche in quanto è l’unico tipo di sapere che può essere attribuito al dio.

Tuttavia, il fatto di esercitare una scienza degna della divinità non significa che il teoreta sia in qualche modo immagine o addirittura partecipe della natura divina: significa piuttosto l’istituzione di una relazione analogica – intesa come analogia di proporzionalità – per cui quando l’uomo applica efficacemente le sue forze speculative intorno ai principi primi del reale, allora la sua attività si configura come fine a se stessa, perfettamente compiuta nel suo svolgimento e generatrice della felicità più piena, e perciò possiamo definirla divina, perché «per i Greci “dio” non è un nome proprio, cioè non indica un Dio unico […] ma è il nome di una specie, la specie appunto dei viventi immortali e beati».37

In altre parole, come il divino consiste nella totale autosufficienza di ciò che non persegue un fine diverso da sé, così l’uomo che si dedica alla theorìa compie l’attività in cui la sua natura giunge al proprio fine supremo, tale da non rimandare a qualcosa d’altro, sicché il suo modo d’essere esprime i caratteri appartenenti al concetto del divino.38 E la felicità è proprio la manifestazione del conseguimento del bene in un’attività che non è strumentale ad altro, ma esercitata unicamente per se stessa.

Ciò è suggerito dal confronto con le altre specie naturali, nelle quali «c’è qualcosa di naturale, buono, superiore a quello che essi sono in sé, che persegue il loro proprio bene (tou oikeiou agathou)»;39 con queste parole Aristotele non intende dire che il bene degli «esseri inferiori» è da individuarsi nell’imitazione del motore immobile divino, secondo l’interpretazione tradizionale che fa di esso il termine finale di ogni ente dell’universo..40 L’espressione «superiore a quello che essi sono in sé» non si riferisce infatti a una dimensione che trascende ciò che essi sono in quanto naturali, ma piuttosto alla specie considerata nella sua totalità, la quale si garantisce l’eternità attraverso la generazione e corruzione dei suoi esemplari e quindi è certamente superiore ai singoli individui mortali. E proprio perché eterne, quindi perfette e autosufficienti, le varie specie naturali possono essere dette divine: «la funzione più naturale degli esseri viventi […] è di produrre un altro individuo simile a sé: l’animale un animale e la pianta una pianta, e ciò per partecipare, nella misura del possibile, dell’eterno e del divino».41

Ogni ente naturale ha dunque in sé questa spinta a perseguire il proprio fine secondo la propria virtù, che consiste essenzialmente nella riproduzione, e la tendenza alla perpetuazione della propria specie costituisce una delle principali cause della loro differenziazione. Infatti, se è legittimo dire che ogni cosa tende al bene, è però da precisarsi che per Aristotele questo bene non dev’essere inteso univocamente come il platonico bene in sé, ma nel senso dell’analogia di proporzionalità consistente nell’identità di relazioni tra termini diversi, sicché come la pianta realizza il suo bene nelle funzioni vegetative, così l’animale irrazionale fa altrettanto nell’esercizio delle funzioni sensitive. Se tutte le cose fossero orientate allo stesso fine, data la strettissima relazione tra essenza e causa finale,42 la loro molteplicità sarebbe risolta nell’unità della natura mirante a questo supposto fine identico e universale.

Anche a proposito della natura umana la tesi secondo cui il suo bene ultimo e coronamento della vita etica consiste nell’imitazione del divino, è altamente problematica. Come abbiamo visto, infatti, la ricerca etica ha come suo motivo ispiratore l’idea sì di un bene sommo, in vista del quale tutto il resto è compiuto, ma tale bene dev’essere anche praticabile (praktòn agathòn), perché se non fosse conseguibile tramite l’agire, ma fosse soltanto oggetto di conoscenza, non sarebbe tematica rilevante per l’etica, ma interesserebbe piuttosto la scienza teoretica.

Ora, se il sommo bene umano si identificasse con l’imitazione del divino, data l’incommensurabile distanza che separa l’uomo dagli dèi,43 si tratterebbe di un bene mai pienamente realizzato, e quindi imperfetto, sicché ogni nostra attività, anche quella considerata più alta, sarebbe sempre per altro e mai per sé. Infatti, anche supponendo che l’individuo umano riesca a rispecchiare in sé qualche aspetto della natura del dio, tale assimilazione rimarrebbe sempre inadeguata rispetto al suo pieno compimento, e quindi un processo mai concluso, sempre in potenza, mentre Aristotele afferma espressamente che la felicità, supremo bene umano, è atto perfetto in se stesso: «se la si potesse sommare ad altro è chiaro che sarebbe ancor più preferibile quando fosse unita al più piccolo dei beni […] qualcosa di perfetto e autosufficiente ci appare quindi la felicità».44

Inoltre, è difficilmente sostenibile la tesi secondo cui il più alto bene della natura umana, ciò in cui essa si realizza perfettamente, consiste nel rendersi simile ad altro, cioè nel tendere al dio. Ciò contraddice proprio al carattere essenziale della felicità come attività autosufficiente e fine a se stessa, la quale per l’uomo è la theorìa. Ed è proprio nell’esercizio costante di quest’attività che raggiungiamo il tèlos cui tutte le nostre azioni sono subordinate e oltre al quale non possiamo procedere, ragion per cui la vita teoretica si configura come autosufficiente e simile a quella divina.

In altri termini, noi non ricerchiamo la divinità per realizzare il nostro bene, ma in quanto realizziamo il nostro bene, siamo in certo modo divini: «Ciò che a ciascuno è appropriato per natura è per lui la cosa più importante e piacevole, e quindi per l’uomo lo è la vita secondo l’intelletto, dato che questo è, principalmente, l’uomo. E questa vita sarà, per conseguenza, la più felice».45 Insomma, l’attività teoretica costituisce la felicità perfetta proprio perché non tende a qualcosa d’altro che non sia il suo proprio attuarsi, e perciò non può essere concepita come implicante il riferimento a un paradigma divino da imitare.

Ora, non c’è dubbio che Aristotele attribuisca la theorìa anche al dio, facendone l’unica attività che costituisce la sua vita,46 ma da ciò non consegue che la felicità umana consista nel fatto che l’attività teoretica sia un riflesso di quella divina. Quando leggiamo che «mentre per gli dèi tutta la vita è beata, per gli esseri umani lo è nella misura in cui appartiene a essi una qualche immagine di una simile attività»,47 l’accento dell’interpretazione va posto sull’attività dell’intelletto, non sul fatto che essa appartiene in modo eminente agli dèi, come se l’uomo fosse felice solo nella misura in cui il suo agire è conforme al modello divino. Se in questo passo Aristotele sembra indicare la theorìa umana come «immagine» (omoioma) di quella divina, ciò non è da intendersi nei termini della relazione copia-modello, ma, come abbiamo visto, nel senso che mentre l’attività noetica del Dio è eterna e ininterrotta, quella dell’uomo si dà in rarissimi istanti, a coronamento di una ricerca faticosa secondo la potenzialità intrinseca alla natura umana.

Possiamo anzi dire che lo Stagirita non concepisce la felicità teoretica umana sulla base di quella divina, ma anzi proprio il contrario: la caratterizzazione della natura divina come pensiero di pensiero discende infatti dall’individuazione della theorìa come l’attività umana più eccellente, in quanto fine a se stessa e quindi generatrice del piacere più puro, di quella beatitudine che sola può convenire agli dèi: «più ancora che quella capacità, è questo possesso ciò che di divino ha l’intelligenza; e l’attività contemplativa è ciò che c’è di più piacevole ed eccellente».48

Quanto al «rendersi immortali» nella vita secondo l’intelletto, il significato di questa espressione non allude alla possibilità di una partecipazione dell’uomo alla natura eterna di Dio, quasi come una sorta di amor dei intellectualis spinoziano, ma dev’essere piuttosto ricondotto alla theorìa intesa nell’accezione più ristretta, per la quale la noesis è un atto con il quale l’individuo umano attinge quei principi eterni in cui l’intelletto attivo consiste. Come osserva Berti, quando l’intelletto intende i principi delle cose, attinge a un patrimonio eterno di conoscenze, che è costitutivo di ciò che Aristotele designa come «intelletto attivo», il quale non coincide con l’intelletto potenziale del singolo individuo umano, ma è piuttosto l’insieme dei principi primi e incorruttibili, dal coglimento dei quali il nostro pensiero diventa atto in atto: «Quando giunge, attraverso induzioni, discussioni e ricerche, a scoprire i principi, che si trovano nell’intelletto attivo, il nostro intelletto ne viene, per così dire, illuminato, come da una luce, e li apprende, passando all’atto, cioè divenendo esso stesso intelletto in atto».49 Per quanto questi momenti siano rari e fugaci anche per coloro che si dedicano costantemente all’attività contemplativa, è in essi che possiamo in qualche modo percepire noi stessi, in quanto esseri dotati di intelletto, come immortali: «Identificando noi stessi per quanto possibile con esso (l’intelletto attivo) sfuggiamo per un qualche istante alla mortalità».50

Dunque, mentre gli esseri «inferiori» – incapaci di contemplare e quindi esclusi dal godimento della felicità – partecipano dell’eternità solo attraverso la riproduzione, ossia specificamente e mai individualmente, l’essere umano, grazie all’intelletto che coglie l’eternità del vero, le realtà più alte ed eccellenti, ha la possibilità di accedere anche a un’esperienza individuale dell’incorruttibile, dell’immortale, ciò in cui Aristotele riconosce il «divino».

Conclusioni

In queste poche pagine abbiamo affrontato il problema del rapporto tra la felicità umana e il divino in Aristotele. Contrariamente alla linea interpretativa di matrice platonico-cristiana, la quale, nel quadro generale di una subordinazione di tutti gli enti al Motore immobile secondo il nesso di finalità, tende a riporre il sommo bene della vita umana nell’attingimento del divino attraverso imitazione o partecipazione, abbiamo cercato di dimostrare come per lo Stagirita la piena attuazione della virtù umana non possa consistere nel riferimento, comunque inteso, a una natura trascendente cui rendersi simili. Ciò sarebbe infatti in stridente contrasto con la sua concezione della eudaimonìa come attività perfetta e fine a se stessa, in quanto realizzazione integrale delle potenzialità implicate nell’essenza razionale che costituisce la natura umana.

Se davvero il fine supremo della vita umana consistesse nell’assimilarsi al divino, sarebbe impossibile conseguire una felicità completa: infatti, la distanza incolmabile che separa l’umano dal divino renderebbe impossibile il compimento di questo fine, e quindi avremmo una felicità promessa e mai realizzata, sempre in potenza e mai in atto; inoltre, sarebbe contraddittorio affermare che l’attività in cui la natura umana giunge alla sua perfetta autorealizzazione, e quindi tale da non rimandare al di là di se stessa, trovi nel divino la sua misura e il suo fine ultimo: «si avrebbe un assurdo, se uno non scegliesse il suo proprio modo di vivere, ma quello di un altro».51

Al contrario, l’edificio etico dello Stagirita ha per fondamento l’idea di un sommo bene praticabile, che si realizza attraverso la prassi, ciò che il divino, in quanto ente necessario, evidentemente non può essere. È invece nella theorìa, nell’attività intellettuale pura e indisturbata, che l’uomo realizza il suo fine, giacché solo allora il suo agire non è e non può essere subordinato ad altro, ma è totalmente per sé, e come tale fonte di una felicità perfetta e autosufficiente. Inoltre, l’attività del noùs trova il suo culmine nel coglimento dei principi primi ed eterni dell’intelletto stesso, sicché in quei rari frangenti in cui ciò accade, l’uomo teoretico, come assorbito dal noùs, fa esperienza dell’immortalità. Ma beatitudine e immortalità per i Greci costituivano i tratti caratteristici del divino, per cui non può sorprendere come nel greco Aristotele, l’attività teoretica umana venga descritta, in modo chiaramente analogico e metaforico, in termini che richiamano il divino: «Se quindi l’intelletto è cosa divina rispetto all’essere umano, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana».52


  1. Aristotele, Etica Nicomachea (d’ora in avanti EN), a cura di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 1999, X 8, 1178 b 22-24, p. 437. ↩︎

  2. Cfr. J. Dudley, Dio e contemplazione in Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1999, a cura di G. Reale, p. 3: «Per lo Stagirita Dio costituisce punto di partenza, ispirazione e fondamento dell’etica. La vita perfetta dell’uomo viene dedotta dalla vita del Dio della Metafisica». ↩︎

  3. Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2011, Z 4, 1029 b 14, pp 295-297. ↩︎

  4. E. Berti, Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, EDUSC, Roma 2006, p. 93. ↩︎

  5. Metafisica, Z 4, 1030 a 4-6, p. 299. ↩︎

  6. Cfr. Metafisica, Γ 4, 1008 a 8-34, pp. 157-159. ↩︎

  7. Ivi, Γ 4, 1007 a 22-23 e b 1, p. 153. ↩︎

  8. C. Chiurco, Etica e Sacro, il bene e l’autentico oltre l’occidente, Mimesis, Milano-Udine 2012, p. 214. ↩︎

  9. Metafisica, H 4, 1044 a 34-35 e b 1, p. 383. ↩︎

  10. Aristotele, Secondi Analitici, in Aristotele, Organon, a cura di G. Colli, Laterza, Bari 1970, 1 vol., I 24, 85 b 26-30, p. 340. ↩︎

  11. EN, I 6, 1097 b 34-35 e 1098 a 1-5, p. 21. ↩︎

  12. Ivi, I 6, 1098 a 8-9, p. 21. ↩︎

  13. Ivi, X 7, 1177 b 29-31, p. 433. ↩︎

  14. Ivi, p. 258. ↩︎

  15. Aristotele, Fisica, a cura di R. Radice, Bompiani, Milano 2011, III 1, 201 b 4-5, p. 251. ↩︎

  16. Cfr. Metafisica, Θ 6, 1048 b 25-32, p. 413. ↩︎

  17. Fisica, III 1, 201 a 27-34, p. 251. ↩︎

  18. M. Heidegger, Aristotele Metafisica Θ 1-3, Sull’essenza e la realtà della forza, tr. di U. Ugazio, Mursia, Milano 2017, p. 74. ↩︎

  19. Metafisica, Θ 6, 1048 b 30-35, p. 413. ↩︎

  20. Aristotele, Etica Eudemia, a cura di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 2012, 1219 a 39, p. 367. ↩︎

  21. H.G. Gadamer, Verità e Metodo, a cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano 2014, p. 649. ↩︎

  22. EN, X 5, 1176 a 15-16, p. 423. ↩︎

  23. Cfr. EN, II 6, 1106 b 36 e 1107 a 1-7, p. 63. ↩︎

  24. J. Annas, La morale della felicità, pref. di G. Reale, trad. di M. Andolfo, Vita e pensiero, Milano 1998, p. 150: «Il criterio dell’azione retta si volge a ricevere un tipo di difesa che appare circolare: questa azione è quel che è giusto compiere, si è detto, perché è quella che attuerebbe il virtuoso e questi è la persona disposta a compiere proprio questo genere di atti». ↩︎

  25. E. Berti, Aristotele nel 900, Laterza, Roma-Bari, p. 229. ↩︎

  26. EN, VI 5, 1140 b 6-7, p. 231. ↩︎

  27. Aristotele, Politica, a cura di C. A. Viano e M. Zanatta, UTET, Torino 2015, 1252 b 32, p. 66. ↩︎

  28. Cfr. Metafisica, A 2, 982 a 16-19, p. 9. ↩︎

  29. W. Jaeger, Aristotele: prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale, La nuova Italia, Firenze 1968, p. 575. ↩︎

  30. Cfr. J. Léonard, Le bonheur chez Aristote (Académie royale de Belgique. Classe des lettres, Mémoires, t. 44, fasc. 1), Bruxelles 1948, p. 148. ↩︎

  31. Cfr. T. B. Eriksen, Bios Theoretikos, Notes on Aristotle’s Ethica Nicomachea X, 6-8, Oslo 1976, p. 89. ↩︎

  32. Dio e contemplazione in Aristotele, p. 106. ↩︎

  33. Cfr. Metafisica, Λ 9, 1074 b 22-35, p. 577. ↩︎

  34. Cfr. Ivi, Λ 9, 1074 b 36-40 e 1075 a 1-5, p. 577. ↩︎

  35. C. Natali, Cosmo e divinità: La struttura logica della teologia aristotelica, Japadre, L’Aquila 1974, p. 100. ↩︎

  36. EN, X 7, 1177 b 26-34, pp. 431-433. ↩︎

  37. E. Berti, Ancora sulla causalità del motore immobile, in “Méthexis”, vol. 20 vigesimo anniversario (2007), pp. 7-28, p. 22. ↩︎

  38. Cfr. Politica, 1323 b 21-26, p. 290. ↩︎

  39. EN, X 2, 1173 a 4-6, p. 407. ↩︎

  40. Cfr. E. Berti, La causalità del Motore immobile secondo Aristotele, “Gregorianum” 83, 4 (2002), pp. 637-654, in part. pp. 637-639. ↩︎

  41. Aristotele, L’anima, a cura di G. Movia, Bompiani, Milano 2001, 415 a 27-30, p. 133. ↩︎

  42. Fisica, 199 a 30-32, p. 227: «La natura ha due componenti, materia e forma, quest’ultima costituisce il fine (mentre le altre cose sono in vista di un fine), e pure una causa: la causa in vista di cui». ↩︎

  43. Cfr. EN, VIII 9, 1159 a 5, p. 331. ↩︎

  44. Ivi, I 5, 1097 b 17-21, p. 19 ↩︎

  45. Ivi, X 7, 1178 a 5-7, p. 433. ↩︎

  46. Cfr. Metafisica, Λ 7, pp. 561-567. ↩︎

  47. EN, X 8, 1178 b 25-27, p. 437. ↩︎

  48. Metafisica, Λ 7, 1072 b 22-24, p. 565. ↩︎

  49. E. Berti, L’intelletto attivo, una modesta proposta, «Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei», CDXI, 2014, Classe di Scienze morali, Memorie, serie IX, vol. XXXV, Roma 2015, pp. 59-71, p. 67. ↩︎

  50. J. Burnet, The Ethics of Aristotle, Londra 1900, p. 463. ↩︎

  51. EN, X 7, 1178 a 3-4, p. 433. ↩︎

  52. Ivi, X 7, 1177 b 29-31, p. 433. ↩︎