La Decostruzione del Cristianesimo come Apertura verso il Totalmente Altro

In questo breve articolo cercherò di prolungare il discorso che Jean-Luc Nancy svolge ne La dischiusura. Decostruzione del Cristianesimo parte I. Il sotto-titolo di questo libro è molto accattivante, ma resteranno delusi i lettori che si augureranno di trovarvi un aspro attacco alla Chiesa e alla sue istituzioni sul modello della filosofia illuminista. Nancy sfrutta il termine, utilizzato da Heidegger (Destruktion) per la decostruzione della metafisica affiancandolo al Cristianesimo, pur sapendo che nel movimento della decostruzione non si esce dall’oggetto che si ha intenzione di decostruire. Nonostante questo resta la possibilità di giungere al punto di assemblaggio di questa corrente sotterranea che attraversa il nostro pensiero, esponendosi così all’Aperto, alla dis-chiusura, arrivando al fondo abissale di questa corrente. A mio avviso, solo dopo aver tentato, potremo capire quanto resterà di cristiano dopo la decostruzione del Cristianesimo. Nancy considera il Cristianesimo una onto-teologia, ponendosi nell’alveo tracciato da Nietzsche quando afferma:

È necessario dire chi sentiamo come nostra antitesi — i teologi e tutti coloro che hanno nelle vene sangue teologico — l’intera nostra filosofia.1

Sarebbe sciocco, e anche miope, chiunque tentasse di negare che il Cristianesimo attraversa da parte a parte il nostro pensiero. Secondo la tesi di Nancy il Cristianesimo si accompagna indissolubilmente al destino dell’Occidente, dal momento che al suo interno possiamo ritrovare quella tipica forma dell’autoriassorbimento e dell’autosuperamento che contraddistingue il nostro pensiero. Nancy infatti sostiene che il Cristianesimo non è una religione, ma è la decostruzione della religione a partire dalla religione stessa; in quest’ottica il Cristianesimo si pone come la religione dell’uscita dalla religione come affermava Marcel Gauchet. Questo perché, secondo Nancy, nel Cristianesimo, a differenza di altre religioni, vi è la possibilità di chiedere dall’esterno: «Che cosa significa?».2 Nella tradizione ebraica, non vi era la possibilità di chiedere Che cosa significa?; Dio parlava per enigmi e per profezie dalla bocca dei profeti e il popolo non faceva altro che seguire questa parola. Il Cristianesimo dunque si fonda su questa domanda, cioè sulla possibilità di fare domande; si fonda dunque su un atteggiamento che tipicamente si confà al filosofo e allo scienziato, ma non all’uomo di fede. Se la strada tracciata dal Cristianesimo è quella del domandare e del domandarsi, questa stessa strada non può che condurre ad una de-cristianizzazione dell’Occidente che viene messa in moto attraverso la decostruzione del Cristianesimo. Nonostante questa tensione, o propensione del pensiero cristiano alla decostruzione, siamo ancora legati alle nervature del Cristianesimo dunque, secondo Nancy, vale ancora la pena domandarci come siamo ancora cristiani, il che ci porta al fondo essenziale, al punto di assemblaggio e di ancoraggio di questa religione. L’occidentalità, che contraddistingue anche il cristianesimo, è caratterizzata dalla messa a nudo di una nervatura particolate del senso: quella del senso come senso concluso, che si porta al limite del senso o della possibilità del senso. Decostruire il Cristianesimo equivale a decostruire l’Occidente, a portarlo là dove l’Occidente deve staccarsi da sé, da ciò che è stato fino a questo punto (onto-teologia), per ritrovarsi e tornare ad essere sé stesso. Non si tratta dunque di destituire una tradizione per restaurarne un’altra, ma di affrontare ciò che viene da più lontano, questo fondo abissale, questo punto di assemblaggio che tiene uniti l’Occidente e il Cristianesimo in un double bind. Nancy stesso afferma che

se accettiamo di identificare l’Occidente con il Cristianesimo, accettiamo anche la conseguenza che non ne usciremo, se non mediante una risorsa in grado di sostituire completamente la risorsa cristiana, senza esserne né la continuazione indebolita né il ripristino dialettico.3

Dunque per uscire dall’identificazione tra Cristianesimo e Occidente dobbiamo essere in grado di mettere in campo una risorsa che possa sostituire il Cristianesimo, senza essere né una riproposizione alleggerita, né un superamento dialettico. Spesso si considera la nostra epoca come un’epoca di declino delle pratiche religiose e in particolar modo del Cristianesimo. Il declino del Cristianesimo è legato indissolubilmente alla fine delle ideologie il che fa del suo declino il declino del senso in generale, la fine di un senso promesso o la fine del senso come scopo.4 Risulta dunque evidente come questo declino sia legato, a mio avviso, alla chiusura del senso, all’illusione che il senso in quanto tale possa essere delimitato, rivelato e promesso.

Nancy, in questo articolo, ri-porta l’attenzione della filosofia al legame che la storia del pensiero intrattiene con il Cristianesimo, ponendosi così in contrasto con la filosofia di Heidegger. Quello di Nancy non è un vero e proprio misconoscimento del pensiero di Heidegger, ma un tentativo di ampliamento di questo stesso pensiero, di modo che venga riconosciuta anche l’importanza del pensiero cristiano all’interno della filosofia. Nancy può azzardare questa ipotesi poiché la cultura greca e quella giudeo-cristiana hanno un punto di incontro che può essere colto all’inizio del Vangelo di Giovanni:

In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.

dove per Verbo Giovanni utilizza il termine greco Logos. Il testo di Giovanni riprende dunque deliberatamente alcuni principi tipicamente greci come quello di logos e di arché prolungandoli al di là del mondo in Dio, infinitizzandoli o de-mondanizzandoli. È dunque a partire dal Vangelo di Giovanni in poi, cioè dalla rielaborazione della filosofia greca da parte dei primi cristiani, che il nostro pensiero ha mantenuto una corrente sotterranea che Nancy ci ha aiutato ad individuare. Non dobbiamo dimenticare però che il mondo dei Greci era un mondo in cui gli dei si stavano ritirando, tanto che resta comunque aperta l’annosa questione se i Greci credessero o meno ai loro dei. Tenendo conto di questa ipotesi, se l’Occidente nasce con la civiltà greca, la sua nascita è contraddistinta da una civiltà nella quale gli dei si stanno ritirando dal mondo, se il Cristianesimo trova il suo punto di incontro con la filosofia greca nel Vangelo di Giovanni e se si pone come una «religione» che lascia la possibilità di chiedere dall’esterno Che cosa significa?, allora questa religione, fin dai suoi albori, non assume il carattere tipico di altre religioni nate all’interno del Mediterraneo, ma si caratterizza come una religione dell’uscita dalla religione.

L’interrogazione di Nancy, come egli stesso afferma: «è guidata dall’idea che l’essenza del Cristianesimo sia apertura, apertura di sé e sé come apertura.»^[5] Questa idea è rafforzata dal fatto che l’identità cristiana è fin dai suoi albori apertura intesa come autosuperamento, infatti il Cristianesimo ha sostituito alla legge ebraica dell’Antico Testamento una nuova Legge, quella dei Vangeli, il logos greco con il Verbo di Dio, la civitas romana con la civitas Dei. Esso dunque ha saputo appropriarsi di concetti estranei alla propria tradizione, rielaborandoli e riadattandoli alle proprie esigenze. Il Cristianesimo eredità non solo l’autoriassorbimento tipico dell’occidentalità, ma anche il suo rapporto con il senso, infatti Nancy afferma che

Il Cristianesimo, […] è la pura tensione verso il senso, il senso del senso, acuto fino all’estremo, che splende della sua ultima luce e si spegne in quest’ultima incandescenza.5

Il Cristianesimo si pone all’interno di una dimensione che vede contemporaneamente sia il senso come «apertura del senso» sia il «senso come apertura». Secondo Nancy il punto estremo di questa tensione lo si raggiunge quando l’assoluto della presenza si confonde con l’infinito del passaggio: in questo punto estremo il senso si esaurisce si chiude su se stesso, diventa senso completo senza alcuna possibilità di apertura, diventa senso riferito assolutamente e unicamente a se stesso, senso del senso e non più senso come apertura. Il Cristianesimo chiude dunque quell’apertura infinita che caratterizza il senso, spegnendosi così in una ultima incandescenza, nella «morte di Dio». Il senso, ormai chiuso su sé stesso, non è altro che la rivelazione, ma l’idea della rivelazione cristiana in fondo, è che niente è rivelato, il senso non rivela niente, tranne che la sua infinità. La croce del Cristianesimo, come afferma Nancy, sta proprio nel pensare l’infinità del senso, ma anche il senso come apertura assoluta del senso al senso. In questo caso dobbiamo però intendere un senso vuoto da ogni contenuto da ogni figura e da ogni determinazione, qualcosa che continua costantemente a fuggire, la cui verità consiste nell’avvenire nel quale ha la sua mobile-sede. Ma è proprio su questo punto che il Cristianesimo si costruisce e contemporaneamente si disgrega. Giunto a questo punto, Nancy si chiede:

Come è possibile tracciare un’apertura delimitata, come tracciare una figura, quindi, che non sia però una maniera per catturare figurativamente il senso (che non sia Dio)?6

Si tratta di pensare il limite, ma non il limite come oltrepassabile, ma il limite come ciò che non può essere oltrepassato, che fugge costantemente, che costantemente si allontana, come ciò che è sempre al di là, ma non un al di là ultraterreno, un al di là come costante a-venire nel quale la morte ci viene incontro. Questo, a mio avviso, non è più il Cristianesimo, è solo l’esercizio del pensiero che tenta di pensare al di là, oltre, e di più di ciò che gli è possibile pensare. In questo esercizio il pensiero non può che errare nel duplice senso della parola, sia come andare intorno senza meta, come viandanti nel deserto, sia come errore, poiché in prossimità del limite regna l’ambiguità, il neutro. Ma questo esercizio di pensiero è quello cui ci aveva abituati Maurice Blanchot. Lo stesso Nancy aveva prospettato, nell’introduzione a La dischiusura, una conclusione di questo tipo, alla quale intendo riallacciarmi per rilanciare il suo discorso: «Non si tratta di resuscitare la religione, neppure quella che Kant voleva contenere nei limiti della semplice ragione. Ma si tratta di aprire la semplice ragione all’illimitatezza che ne costituisce la verità. Non si tratta di mitigare una deficienza della ragione, ma di liberarla senza riserve.»7

Quindi in questa decostruzione non si tratta di resuscitare il Cristianesimo bensì di mettere in campo una risorsa che non sia né la continuazione indebolita, né il ripristino dialettico del pensiero cristiano. Non si tratta più dunque, come in Kant, di una religione all’interno dei limiti della semplice ragione, non si tratta più nemmeno di religione, ma di ragione, di pensiero. Con questa decostruzione si intende liberare il pensiero, si intende dis-chiudere, aprire il pensiero all’illimitatezza del senso in quanto tale, rilanciando il pensiero in prossimità del limite kantiano, vicino al quale la ragione non può che errare, come un viandante nel deserto. Parlando di questo al di là, scevro da ogni connotazione di trascendenza in senso cristiano, Maurice Blanchot affermerà:

esso costituirebbe, all’interno del pensiero stesso, una specie di riserva, un pensiero che non si lascia pensare attraverso i modi della comprensione assimilatrice.8

Secondo la concezione di Maurice Blanchot la comprensione non è in grado di accogliere il neutro, essa lo vuole afferrare per farne esperienza ma, così facendo, non può che perderlo irrimediabilmente. L’esperienza del neutro resta impossibile, dal momento che per entrare nel luogo in cui risiede, dovremmo compiere il passo al di là,9 oltrepassare il limite della notte che ci getterebbe in un luogo in cui non è possibile nessuna azione, luogo della pura passività, in cui non potremmo fare alcuna esperienza, intesa come esperienza diurna. L’avvicinamento al neutro, è un’esperienza notturna, ma del neutro in quanto ignoto non si può avere alcuna esperienza poiché, esattamente come la morte, è ciò che vi è di più estraneo all’uomo, il Totalmente Altro, anche se resta ciò che più ci riguarda da vicino. Levinas afferma, alla fine dell’intervista con André Dalmas:

«A questo mondo Blanchot ricorda che la sua totalità non è totale […] . Questo Neutro non è qualcuno né un qualcosa. Non è che un terzo escluso che, propriamente parlando non è neppure. Tuttavia vi è in esso più trascendenza di quanta alcun secondo mondo ne abbia mai dischiusa.»10

Dunque il Neutro sarebbe quel topos originario del pensiero a cui il pensiero non può che attingere per rinnovarsi costantemente, ma al quale non potrà mai giungere per risiedervi e nemmeno afferrare, per rinchiuderlo in un concetto. Levinas lo definisce come un terzo escluso che propriamente parlando non è neppure, ponendolo dunque al di là dell’essere. Alcuni potrebbero intendere il Neutro come il Niente di cui parla Heidegger in Che cosa è metafisica? In realtà il Neutro si pone al di là della questione trattata in Che cos’è metafisica?, qui si parla del Niente come negazione dell’essere, come non-é, mentre il Neutro sta al di sopra della contraddizione tra essere e non-essere. Il Neutro è al contempo l’indecidibilità tra essere e non essere, ambiguità assoluta e sostanziale che non permette una decisione definitiva tra i due, ma che li pone entrambi sullo stesso piano, senza valutazioni e senza aufhebung. In fondo è quello a cui pensa Nancy quando afferma che «a partire dall’ousia, si può andare fino alla fine dell’articolazione filosofica dei concetti ontologici, e trovarvi ovunque all’opera l’apertura stessa».11 Dunque partendo dal concetto greco di ousia, poi rielaborato dal cristianesimo, si può giungere alla fine dell’articolazione dei concetti ontologici, là dove l’essere cessa il suo regno per lasciar posto all’ingombranza, all’insituabilità e all’inoperosità del neutro. L’Apertura dell’ousia è, a mio avviso, anche se Nancy non lo dice, apertura verso il Totalmente Altro, verso quella riserva di pensiero che il pensiero del neutro, un pensiero necessariamente caratterizzato dall’erranza, tenta costantemente di additare o di indicare.

Blanchot ha dedicato poche righe al nome di Dio, ma quando vi si è concentrato lo ha fatto con grande rispetto. Nietzsche con la sua celeberrima morte di Dio, come trasvalutazione di tutti i valori, aveva dato l’avvio alla decostruzione di questa figura, Blanchot porta avanti quest’opera:

Dio è morto. Ciò significa che la sovranità passa alla morte.12

Dunque in Dio Blanchot non vede i valori che Nietzsche intendeva trasvalutare, vede semplicemente una figura, una raffigurazione dell’ignoto che disturba il nostro rapporto con esso. Dopo la morte di Dio è la morte a prendere il posto di questa figura, ma la morte non ha figura, è costantemente nell’avvenire e, in rapporto all’uomo, come afferma Blanchot, è al tempo stesso ciò che unisce, ciò che più di ogni altra cosa abbiamo in comune con l’altro, ma anche ciò che non possiamo nel modo più assoluto condividere con l’altro. Come ricorda Levinas, la morte per Blanchot, «non è il patetico delle ultime possibilità umane, possibilità dell’impossibilità, ma ripetizione incessante di ciò che non può essere afferrato, di fronte al quale l’io perde la sua ipseità. Impossibilità della possibilità.»13 La morte dunque, a differenza di quel che penava Heidegger, non è nemmeno l’ultima possibilità, essa è l’assoluta esteriorità, separata dall’uomo da una distanza infinita e incolmabile, impossibilità di qualunque possibilità. Inoltre, come osserva Levinas, la morte non è la fine, è il non finire di finire.14 Dunque la morte non come la mia morte, come morte terrena che segna la fine del mio soggiorno nel mondo, ma la morte come morire, come il non finire di finire, in questo movimento che rimanda al cerchio, all’erranza, all’errore dell’essere, al deserto in cui non è possibile alcun soggiorno. Blanchot ci ricorda anche che: «la morte è solo una metafora per aiutarci a rappresentare in modo grossolano l’idea di limite, mentre il limite esclude ogni rappresentazione.»15 Se la morte sarebbe una rappresentazione grossolana dell’idea del limite, allora il morire non è altro che l’irrappresentabilità stessa di questo limite. Questo passaggio dalla figura di Dio all’irraffigurabilità del morire, segna anche la fine, tanto dell’homoiosis theo giudeo-cristiana, nella quale Adamo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, quanto della critica feuerbachiana a questa homoiosis theo, secondo cui è stato Dio a essere fatto a immagine e somiglianza dell’uomo. Il morire, in quanto irrappresentabile, non concede all’uomo, dunque alla teologia e nemmeno all’umanesimo, la possibilità di identificarsi in esso. Il morire è il Totalmente Altro, ciò che più di ogni altra cosa trascende l’uomo, pur essendo ciò che più lo riguarda da vicino. Blanchot tende a sottolineare che

La morte di Dio non è forse niente di più che l’aiuto recato invano dal linguaggio storico per lasciar cadere una parola fuori del linguaggio, senza che un’altra vi si annunci: lapsus assoluto.16

Dunque la morte di Dio non si riferisce soltanto alla morte di questa raffigurazione dell’ignoto, ma anche all’aiuto che il linguaggio cerca invano di darci per far cadere fuori dal nostro linguaggio questa parola. Dio non è più una persona, una delle tre persone della Trinità, ma un nome. Blanchot si augura per questo nome un lapsus assoluto, una dimenticanza infinita, un oblio della memoria che lasci così cadere fuori dal linguaggio questo «nome ambiguo» che in definitiva non appartiene al nostro linguaggio. Non una distruzione di questo nome dunque, ma la sua dis-chiusura, cioè l’apertura all’Aperto in quanto tale, che questo nome, con il tentativo di rappresentare l’irrappresentabile, ha oscurato per tutto questo tempo. Come afferma Nancy, interpretando il pensiero di Blanchot: «Se il nome di Dio viene al posto di un assentarsi del senso, […] è perché questo nome non concerne un’esistenza, ma appunto la denominazione — che non sarebbe né la designazione né la significazione — di questo assentarsi.»17 Il nome di Dio non rimanda ad un’esistenza, è un nome vuoto, un nome che tenta di nominare il vuoto, il vuoto in quanto assentarsi del senso. Il dono più prezioso che la filosofia può porgere all’uomo, non consiste in una dimostrazione dell’esistenza o dell’inesistenza di Dio, ma nello svanire, o come vorrebbe Blanchot, nella dimenticanza o nell’oblio di questo nome. Con questa caduta fuori dal linguaggio, si viene a ricreare quell’apertura originaria sulla quale si era fondato l’Occidente, e il Cristianesimo con esso, fin dai suoi albori. Il nome orami sfigurato e obliato di Dio lascia posto all’Aperto, ed è solo a questo punto, là dove il nome di Dio cade fuori dal linguaggio, che il pensiero inizia a pensare.18

Senza Dio, senza questa figura che rappresenta l’impensato, Blanchot apre il pensiero ad uno spazio indefinito e indefinibile, lo spazio del fuori. In questo spazio non vi è alcun rapporto con la rappresentazione, poiché il neutro è al di là della rappresentazione, dal momento che ogni rappresentazione19 sarebbe una limitazione alla sua illimitatezza; proprio per questo Blanchot lo definisce in molteplici modi, in un infinto intrattenimento con questa nominazione:

Neutro, parola apparentemente chiusa ma solcata da fessure, qualificativo senza qualità, innalzato a rango di sostantivo privo di sussistenza e di sostanza, termine in cui l’interminabile si radunerebbe, senza situarvisi.20

Blanchot cerca di caratterizzare questa parola affermando che in essa è contenuto l’interminabile, o meglio, il rimando ad esso; ma l’interminabile non si situa in questa parola, che ormai è divenuta un sostantivo, il quale però non ha la possibilità di riferirsi ad alcuna sostanza. Sostanza, intesa come quel fondo su cui poggia l’essenza stessa di ciò a cui ci si riferisce, ma questa essenza è per sé stessa fuggevole e quindi non può essere trattenuta, allo stesso modo in cui non può situarsi, prendendo dimora in un nome. Il neutro è ciò che fonda21 il pensiero e che Nancy, a mio avviso, intendeva indicare con queste parole: «c’è forse qualcosa da mettere in luce e da far agire come tale, qualcosa che il Cristianesimo non ha ancora liberato.»22

Obliando il nome di Dio, con il quale si aveva l’illusione di poter rappresentare l’irrappresentabile, Blanchot si pone dunque anche in netto contrasto con ciò che questa parola porta con sé nel suo etimo: in latino Deum lega la sua etimologia al giorno, alla luce, mentre in greco Theos, rimanda alla facoltà del vedere e della visione, dunque ancora in un contesto prettamente diurno, dominato dalla luce. Il pensiero di Blanchot, ma qualunque pensiero che intenda liberarsi dal giogo della comprensione assimilatrice, che tende a ridurre l’Altro e in questo caso il Totalmente Altro, al Medesimo; ebbene un tale pensiero, non può che opporsi alla ben nota trilogia: verità, luce, vista. Togliendo al nome di Dio l’illusione di poter rappresentare l’ignoto, Blanchot non fa altro che affermare l’irrappresentabilità del neutro, di ciò che per sé stesso non sta in nessun rapporto con la luce,23 riabilitando dunque il rapporto tra parola o meglio voce, ascolto e neutro. A questo proposito Levinas affermerà: «Il Neutro di Blanchot è estraneo al mondo. […] Più lontano di qualunque Dio. Tutto il contrario del Sein di Heidegger, il quale è la luminosità stessa del mondo.»24 Il neutro è dunque estraneo al mondo e dunque al rapporto che intercorre tra essere e luce, mostrazione e comprensione. Questo non vuol dire che il non-luogo dove alcune parole ci indicano sommessamente l’insituabilità del il neutro debba essere una specie di al di là, un altro-mondo rispetto al nostro; tutto al contrario, una distanza infinita ci separa dal neutro, distanza che ci tiene a distanza e che nel contempo ci attrae, trascendenza assoluta, non-luogo per eccellenza nel quale non possiamo prendere dimora, allo stesso modo in cui non possiamo avere riposo. Trascendenza assoluta, insituabile, irraffigurabile, il Totalmente Altro, ciò che non può nel modo più assoluto essere ridotto allo Stesso, ciò che dunque sfugge a qualunque forma di comprensione, così come noi la conosciamo, ma che si lascia accarezza dalla parola chiara, dalla parola poetica che lo indica senza avere la presunzione di poterlo afferrare. A proposito di questa trascendenza Blanchot affermerà che

le Chiese vivono nel perpetuo timore che sotto il pensiero della Trascendenza si sia introdotta una affermazione estranea, un’eresia decisiva che renda ateo anche chi è convinto di credere in Dio.25

Questa timore da parte delle Chiese è giustificato anche da Levinas quando, parlando del neutro, afferma che «vi è in esso più trascendenza di quanta alcun secondo mondo ne abbia mai dischiusa».26 Il pensiero del neutro non è un pensiero a-teo, poiché secondo Blanchot, anche parlando dell’assenza di Dio si parla pur sempre di Dio, quindi anche l’ateismo, processo tipicamente umanista, è un mito teologico. Blanchot cerca di chiedersi cosa accadrebbe al discorso attorno a Dio se si riuscisse a infrangere il dominio esercitato dal teologico, anche sotto la forma umanizzata dell’ateismo. Questo processo di uscita tanto dal teologico quanto dall’umanesimo viene identificato con la scrittura, processo tipicamente notturno. Chiaramente Blanchot ha in mente un particolare tipo di scrittura, quella poetica, che intrattiene un rapporto privilegiato con l’ignoto in quanto ignoto, dal momento che questa scrittura non tenta di afferrare ma indica, accenna e rimanda al neutro. Levinas interpretando Blanchot affermerà che la scrittura «non porta alla verità dell’essere. Si potrebbe dire che essa conduce all’errore dell’essere — all’essere come luogo dell’erranza, all’inabitabile.»27 Lo scrittore può cogliersi unicamente nella sua marcia, poiché in questo deserto, dove si estendono le lande desolate del non-vero, il deserto dell’errore dell’essere, non è possibile abitare. Come afferma Blanchot, lo scrittore deve

trasformare ciò che è un camminare senza meta nella certezza della meta senza cammino.28

Questa meta senza cammino resta all’orizzonte del nostro pensiero, il pensiero dell’erranza, fondo inesauribile ed irraggiungibile al pensiero, ma verso il quale non possiamo che tendere o dal quale, piuttosto, siamo tenuti a distanza.


  1. Friedrich Nietzsche, L’Anticristo, Adelphi, Milano 1992, pp. 9-10. ↩︎

  2. The Self-Deconstruction of Christianity: an open discussion with Jean-Luc Nancy, Agosto 2000, http://www.egs.edu/faculty/nancy/nancy-self-deconstruction-of-christianity-2000.html↩︎

  3. Jean-Luc Nancy, La dischiusura, Cronopio, Napoli 2007, p. 200. ↩︎

  4. Ivi., p. 198. ↩︎

  5. Ivi, p. 205. ↩︎

  6. Ivi, p. 217. ↩︎

  7. Ivi, p. 7. ↩︎

  8. Maurice Blanchot, L’infinito intrattenimento, Einaudi, Torino 1969, p. 59. ↩︎

  9. Il passo al di là è anche il titolo di uno dei libri pubblicati da Blanchot, in francese, come giustamente aveva fatto notare Derrida, pas significa nel contempo passo e non, dando dunque al titolo il significato di stallo, di quel passo che non è un passo, di quel passo che non posso compiere a meno che non decida di perdermi completamente nella notte, nell’al di là, nel neutro. ↩︎

  10. Emmanuel Levinas, Su Blanchot, Palomar, Bari 1994, p. 80. ↩︎

  11. Jean-Luc Nancy, La dischiusura, cit., p. 211. ↩︎

  12. Maurice Blanchot, L’infinito intrattenimento, cit., p. 334. ↩︎

  13. Emmanuel Levinas, Su Blanchot, cit., p. 50. ↩︎

  14. Ivi, p. 51. ↩︎

  15. Maurice Blanchot, Il passo al di là, cit., p. 44. ↩︎

  16. Ivi, p. 50. ↩︎

  17. Jean-Luc Nancy, La dischiusura, cit., p. 125. ↩︎

  18. Heidegger in Che cosa significa pensare? afferma: «Il più considerevole nella nostra epoca preoccupante è che noi ancora non pensiamo». Il fatto che noi ancora non pensiamo sta a significare che non siamo ancora giunti davanti a ciò che deve essere considerato, ciò che per se stesso è meritevole di considerazione. Heidegger però assolve l’uomo da questa colpa: non è infatti la negligenza o la scarsa attenzione dell’uomo a questo problema a renderlo così lontano dall’uomo. Purtroppo «Il più considerevole da lungo tempo si sottrae all’uomo. Siamo in marcia verso ciò che ci attrae in quanto si sottrae». (Che cosa significa pensare?, Sugarco, Varese 1996, pp. 37-46.) Bisogna comunque ricordare che il più considerevole per Heidegger resta comunque l’Essere mentre il Neutro di Blanchot si pone al di là dell’Essere, nella fuggevolezza che lo contraddistingue e che non lo lascia pensare. A mio avviso, nonostante questa impossibilità del pensiero a pensare in modo compiuto l’impensato, è proprio dal pensiero del neutro che il pensiero inizia veramente a pensare. ↩︎

  19. La rappresentazione è ciò che accade nella nostra mente quando in precedenza siamo entrati in contatto con un oggetto. La rappresentazione è sempre rappresentazione di un oggetto reale, si riferisce alla realtà e rimanda ad essa. Con la rappresentazione non riusciamo a guardare oltre noi stessi, o meglio, abbiamo l’impressione, rappresentandoci gli oggetti del mondo, di guardare fuori di noi, ma stiamo ancora «a fronte» a noi stessi. Rappresentiamo cioè internamente, nella nostra mente, ciò che in realtà è esterno a noi, cioè gli oggetti e i soggetti del mondo. Proprio per questo la rappresentazione non si confà al neutro, poiché il neutro è ciò che sta al di là, lo spazio del fuori, il limite oltre il quale l’impensato ha la sua mobile sede. ↩︎

  20. Maurice Blanchot, L’infinito intrattenimento, cit., p. 407. ↩︎

  21. Nel duplice significato di fondamento ma anche di fondo, di ciò che Heidegger definisce Ab-Grund, fondo abissale, un fondo nel quale il Cristianesimo ha avuto paura di guardare e troppo presto ha distolto lo sguardo, spaventato da tale profondità. Distogliendo lo sguardo ha preferito chiudere questa apertura del senso, dischiusa dall’ousia greca nella reinterpretazione cristiana, riducendo il senso in senso compiuto. ↩︎

  22. Jean-Luc Nancy, La dischiusura, cit., p. 208. ↩︎

  23. Pensare o parlare al neutro, significa porsi in un orizzonte altro rispetto a quello della luce-visione, dunque in termini diversi dalla possibilità e in un altro orizzonte rispetto a quello della filosofia occidentale. «Vedere è forse dimenticare di parlare e parlare è attingere, in fondo alla parola, l’oblio che è l’inesauribile.» Secondo Blanchot esiste una parola: la parola chiara, la parola che si sente, che risuona, nella quale le cose, pur non mostrandosi, non si nascondono. Questa parola è parola che attinge al fondo dell’oblio, fondo dal quale nasce la memoria, che è per sé stesso inesauribile, inafferrabile. Parlare non è vedere, dunque la vista non può che riferirsi al mondo, al giorno in cui noi lavoriamo e soggiorniamo, ma la parola, in questo caso quella poetica, è cieca per natura, essa, infatti, si riferisce ad una dimensione che esula dal rapporto con la luce. La luce, secondo Blanchot, ci inganna due volte: sia a proposito di sé, sia facendo apparire come immediato ciò che immediato non è. Essa ci propone l’immediazione come modello di conoscenza. Nell’atto della visione, attraverso la distanza che intercorre tra l’occhio e la cosa vista, ci sbarazziamo della cosa stessa e la cogliamo senza pensare a questa distanza. Per quanto riguarda la parola, invece, il discorso cambia completamente, dal momento che intercorre una distanza incommensurabile tra il neutro e l’uomo. Come se non bastasse non sono io che riduco questa distanza, ma è la distanza che mi trascina e mi coglie in un movimento puramente passivo, il quale non avvicina ma tiene a distanza. ↩︎

  24. Emmanuel Levinas, Su Blanchot, cit., p. 78. ↩︎

  25. Maurice Blanchot, L’infinito intrattenimento, cit., p. 341. ↩︎

  26. Emmanuel Levinas, Su Blanchot, cit., p. 80. ↩︎

  27. Ivi, p. 53. ↩︎

  28. Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, cit., p. 60. ↩︎