Walter Benjamin: allegoria, stato di eccezione, messianesimo

1. Premessa

Nell’articolazione del pensiero di Walter Benjamin, si può rintracciare un legame particolare nei confronti della figura allegorica che, come è noto, costituisce la base dell’indagine elaborata all’interno del testo Il dramma barocco tedesco. Ciò che si vuole dimostrare, attraverso lo studio, è che questo stretto legame non si esaurisce unicamente all’interno de Il dramma barocco tedesco o nelle riflessioni su Baudelaire; al contrario, esso costituisce la base del pensiero teorico e teologico-politico del filosofo tedesco. Lungo l’impianto teorico benjaminiano, l’elemento allegorico si presenta come fondamento capace di scavare all’interno della nudità significativa, operando attraverso la dialettica esclusione/inclusione di significato e significante. Ciò che si vuole dimostrare è come l’allegoria costituisca lo stato di eccezione testuale nella prospettiva messianica benjaminiana, dal momento in cui, nella sua realizzazione, entrano in gioco le stesse dinamiche implicate all’interno dal concetto di sovranità schmittiana, radicalizzato dal filosofo tedesco. È necessario introdurre il discorso ponendo come tesi il fatto che al concetto di sovranità corrisponda un concetto limite relativo ad una sfera esterna. Pertanto, si può dedurre che alla concezione di stato di eccezione si vada ad affiancare una dottrina dello Stato: lo stato di eccezione è inteso parallelamente a quella che è una definizione giuridica della sovranità:

Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione. Questa definizione può essere appropriata al concetto di sovranità, solo in quanto questo si assuma come concetto limite. Infatti, concetto limite non significa un concetto confuso, come nella terminologia spuria della letteratura popolare, bensì un concetto relativo alla sfera più estrema.1

Lo schema della sovranità, come illustrato da Carl Schmitt e ri-letto da Benjamin,2 può essere mantenuto oppure no, dal momento in cui il caso dell’eccezione non è descritto all’interno dell’ordinamento giuridico, ma può intervenire come indicatore di un caso di emergenza esterna. Essendo un caso non descritto all’interno dell’ordinamento giuridico, la teoria del diritto può da una parte negarne l’esistenza, dall’altra affermarla nel tentativo di regolamentarla. Il modello dello stato di eccezione, allora, mette in crisi la certezza del diritto, lasciando come unica certezza la decisione (in questo caso giudiziaria e politica). Di qui si apre la questione riguardo chi può decidere dello stato di eccezione, che all’interno della teorizzazione schmittiana assume il ruolo del sovrano. Se per Schmitt lo stato d’eccezione si attua nei momenti di massima crisi, per Benjamin deve essere continuamente operato al fine di smascherare le sue forme giuridiche per mantenere i rapporti di dominio precisamente dal punto di vista della tradizione degli oppressi. A tal proposito, la posizione di Schmitt viene definita come “decisionismo”, mentre quella di Benjamin come “iperdecisionismo”, mettendo in evidenza come quest’ultimo avesse ben compreso che la decisione non consisteva tanto nell’elemento che stava fuori dalla norma, pur costituendone la base logica, bensì come fosse sempre stata l’unica elementare norma di comportamento delle classi dominanti che hanno fatto la storia.

2. Giorgio Agamben: il linguaggio sovrano

Prima di giungere all’approfondimento dell’allegoria benjaminiana, si terranno in considerazione le ricerche svolte da Giorgio Agamben nel testo Stato di eccezione a partire dal termine latino di iustitium, il quale indica una sospensione del diritto mettendo fuori gioco tutte le prescrizioni giuridiche vigenti.

Lo stato di eccezione non è una dittatura […] ma uno spazio vuoto di diritto. […] Lo stato di necessità non è uno “stato del diritto”, ma uno spazio senza diritto. […] È a questa indefinibilità e a questo non-luogo che risponde l’idea di una forza-di-legge. È come se la sospensione della legge liberasse una forza o un elemento mistico, una sorta di mana giuridico.3

Fin qui ben si comprende in che modo la sospensione della legge liberi una forza o un elemento più propriamente mistico, dal momento in cui il diritto tenta di includere in sé la propria assenza e di appropriarsi dello stato di eccezione. Nel saggio Il Messia e il sovrano. Il problema della legge in W. Benjamin, Agamben evidenzia come, dopo aver stabilito una relazione fra il concetto di tempo messianico e una forma di categoria giuridica appartenente alla sfera del diritto pubblico, Benjamin stabilisce che il tempo messianico possiede «la forma dello stato di eccezioni e di un giudizio sommario».4 Benjamin, all’interno del testo Il dramma barocco tedesco, ribalta, radicalizzando, la concezione sovrana dello stato di eccezione, per cui il sovrano ha il compito di evitarlo e non di realizzarlo. Se per Schmitt la decisione è il nesso che unisce sovranità e stato di eccezione, per Benjamin il potere sovrano si scinde nel suo esercizio, dimostrando l’impossibilità di decidere. Per tale ragione «il paradigma dello stato di eccezione non è più, come nella Teologia politica, il miracolo, ma la catastrofe».5 Il barocco non possiede una fine del tempo, un telos: esso è vuoto, non conosce una redenzione e rimane immanente al secolo. La funzione sovrana, per Benjamin, non si configura come la soglia che garantisce l’articolazione tra il dentro e il fuori ed il contesto giuridico in virtù di una legge che vige nella sua sospensione: essa appare piuttosto come una zona di assoluta indeterminazione fra anomia e diritto, in cui la sfera delle creature e dell’ordine giuridico vengono coinvolti all’interno della stessa catastrofe. Questa premessa aiuta ad inquadrare meglio il binomio stato di eccezione/allegoria, determinato da una funzione sovrana che attua un processo operante attraverso il principio inclusione/esclusione.

Nell’interpretazione agambeniana di Benjamin, si può osservare come la struttura del linguaggio venga articolata sulla base di una esclusione inclusiva, per cui il passaggio dalla langue alla parole (ovvero al termine con consistenza meramente lessicale) consiste nel passaggio dalla norma giuridica alla sua applicazione; il linguaggio presuppone il non-linguistico, nonché la voce, così come la legge presuppone il non-giuridico, mantenendosi in un potenziale rapporto nello stato di eccezione. Ciò che qui importa non è tanto delineare in che modo si sviluppi la teoria del linguaggio in Agamben, quanto invece osservare il caso specifico dell’allegoria all’interno dell’articolazione linguistica che, così come il linguaggio tiene l’uomo nel suo “bando”, lo include (nel linguaggio) escludendolo (nella sfera dell’ineffabile e dunque presupponendo un non-linguistico). Agamben rileva come questo concetto originale della legge si basi su un altro concetto, ovvero quello di “bando”,6 componente fondamentale della legge che include escludendo, motivo per il quale l’eccezione è «più interessante del caso normale. Il caso normale non prova nulla, mentre l’eccezione prova tutto. Non solo essa prova la regola, ma la regola vive solo dell’eccezione».7 Il filosofo italiano, allora, mette in luce come quest’ultima frase fosse stata utilizzata da Benjamin in forma falsificata:

Invece di «la regola vive solo nell’eccezione», egli scrive «lo stato d’eccezione in cui viviamo è la regola». É il senso di questa consapevole alterazione che si tratta di comprendere. Definendo il regno messianico in termini della teoria schmittiana della sovranità, Benjamin sembra istituire un parallelo tra la venuta del Messia e il concetto-limite del potere statuale.8

Durante i giorni del Messia, che costituiscono «lo stato di eccezione in cui viviamo», emerge il fondamento nascosto della Legge, e la Legge stessa entra in uno stato di perpetua sospensione. Agamben, rinvenendo questa forte analogia tra la sfera politica e quella teologica, non fa altro che evidenziare in che modo l’evento messianico vada a significare una crisi della trasformazione radicale dell’intero ordine della Legge: il Messia si confronta con il problema della legge, trovandosi a ridosso di una resa dei conti decisiva. L’attualità del concetto sviluppato da Benjamin sta nella riduzione della Legge al suo nulla, come vigenza senza significato; di conseguenza, la Legge diventa inafferrabile e, per questo, impossibile da dimettere. Nell’articolare meglio il concetto, Agamben fa riferimento al testo kafkiano Davanti alla legge, al fine di fornire una interpretazione allegorica della parabola circa il compito messianico.

È nota la storia del guardiano che sta davanti alla porta della Legge e del contadino che chiede di entrarvi e aspetta senza riuscirvi per tutta la sua vita solo per sentirsi dire alla fine che la porta era destinata soltanto a lui. La tesi che intendo proporre è che questa parabola è un’allegoria dello stato della legge nel tempo messianico, cioè nel tempo della vigenza senza significato. La porta aperta in cui non si può entrare è una cifra di questa condizione della Legge.9

L’allegoria potrebbe essere considerata come un particolare fenomeno del linguaggio sovrano, dal momento in cui il significato del significante viene messo al “bando” attraverso una inclusione del linguaggio, che automaticamente lo esclude da esso, considerandolo all’interno della sfera allegorica che, differentemente da quella simbolica, meglio si affianca all’ineffabile: il suo significato è celato e non percepibile a primo impatto. Il linguaggio, allora, si presenta come sovrano che ha il compito di decidere sull’eccezionalità del significato da attribuire al significante allegorico, parallelamente alla sospensione dell’ordinamento significativo, rispondendo ad una forza-di-legge che si manifesta nel suo essere sospesa nel discorso linguistico. Come evidenziato nella precedente citazione di Agamben, la catastrofe costituisce il fulcro principale che unisce lo stato di emergenza alla forma allegorica; quest’ultima, infatti, si attiva all’interno del linguaggio nel momento in cui vuole mettere in luce la mera nudità delle macerie che costruiscono la storia. Più nello specifico, essa viene chiamata in causa come testimonianza della caducità della vita, poiché «tanto è il significato quanto è l’abbandono alla morte, perché è proprio la morte a scavare più profondamente la linea di demarcazione tra physis e significato».10 Se lo stato di eccezione benjaminiano marca una linea di assoluta indeterminazione tra anomia e diritto, allo stesso modo l’allegoria marca una spessa linea di indeterminazione tra significato e significante.

Per Benjamin, il concetto di stato di eccezione si configura all’interno del tempo messianico, in quanto considerato effettivo stato di eccezione in cui la vecchia legge è stata abolita e la nuova non è ancora sopraggiunta, introducendo così la possibilità di un altro tempo. Pertanto, se il tempo messianico è considerato come tempo rivolto al passato e non al futuro, l’arresto messianico dell’accadere può configurarsi come una sospensione del continuum storico, riscattando il passato: «il teschio dell’allegoria barocca è un semiprodotto della storia della salvezza, il cui processo è interrotto da Satana per quel tanto che gli è concesso».11 Si potrebbe allora considerare l’allegoria come stato di eccezione effettivo, all’interno del quale potrebbe compiersi la redenzione? Se si tengono in considerazioni gli studi benjaminiani sull’allegoria baudelairiana, si evince come per Benjamin l’allegorista operasse estraendo «ora qui e ora là un pezzo dal fondo disordinato che il suo sapere gli mette a disposizione»,12 redimendo da «un mondo che sprofonda nella rigidità cadaverica»13 la figura rappresentata e contemporaneamente sottraendola al continuum della storia nell’atto di un arresto messianico, che sospende il fluire significativo del discorso artistico.

Di conseguenza, nella concezione allegorica il mondo profano viene al tempo stesso innalzato di rango e svalutato. Questa dialettica religiosa sostanziale ha, come suo correlato formale, la dialettica di convenzione ed espressione. Perché l’allegoria è le due cose insieme, e queste sono per natura contradditorie. Ma se la dottrina barocca concepiva la storia in generale come un accadere creato, l’allegoria in particolare, pur essendo convenzionale come ogni scrittura, è anche creata come lo è la Scrittura sacra. L’allegoria del XVII secolo non è convenzione dell’espressione ma espressione della convenzione. Espressione, anche, dell’autorità: segretamente per la dignità della sua opinione, pubblicamente per il suo ambito di validità.14

L’allegoria come elemento religioso, che indaga nelle piaghe più profonde del profano salvandone il passato, ha il compito di scavare all’interno delle macerie, scaturendo dal “mistero” della parola allegorizzata la relazione col divino. La dimensione teologica è introdotta da Benjamin “allegoricamente”, poiché il compito dello storico, così come quello del movimento rivoluzionario, è simile a quello del Messia: salvare il passato irredento. Attraverso la teorizzazione benjaminiana dello stato di eccezione effettivo, interpretato come Regno messianico, è possibile rilevare in che modo per Benjamin all’interno del concetto di allegoria si possano riconoscere queste due componenti che convergono entro una szondiana speranza del passato, redenta nella sospensione del tempo messianico.

L’evoluzione formale del dramma barocco può essere vista senz’altro come lo sviluppo di necessità contemplative presenti nella situazione teologica dell’epoca. […] Mentre il Medioevo esibisce la precarietà degli eventi mondani e la transitorietà della creatura come stazione lungo la via di salvezza, il dramma barocco tedesco si seppellisce per intero nella disperata desolazione della realtà terrena. Se esso conosce una via di salvezza, questa sarà nel cuore stesso dell’angoscia più che nel compimento di un piano provvidenziale.15

Il barocco è considerato l’epoca del tramonto di qualsiasi tipo di telos e del venire meno dei mezzi: non vi è più una visione escatologica. Se allora per Schmitt la sovranità è il nesso generato dalla coesione di sovranità e stato di eccezione, per Benjamin, come si è potuto notare, il sovrano è impossibilitato nella decisione. A questo punto Benjamin scioglie il potere sovrano dalla sua attuazione, creando tra i due elementi un vuoto, un abisso: il sovrano diviene una zona di assoluta indeterminatezza che non può più garantire l’articolazione tra il dentro (il contesto giuridico) e il fuori (l’anomia). Allo stesso modo, l’allegoria nella concezione del linguaggio sovrano crea una zona di indeterminatezza che non garantisce più unità tra la norma del significato e l’anomia come assenza di regole che lo vincolano all’interno del contesto. Il venir meno della regola del significato allegorico può allora essere considerato in parallelo alla liberazione dell’anomia dalla dipendenza del diritto. Di qui la conclusione per cui l’evento non è la legge, così come non lo è l’evento del significato allegorico.

Le parole, per quanto isolate, risultano fatali. Si è anzi tentati di dire: proprio il fatto che quelle parole, così isolate, continuino a significare qualcosa, conferisce al loro significato residuo un che di minaccioso. La lingua viene spezzata in modo tale da assumere nei suoi frammenti un’espressione diversa e più intensa.16

Se si guarda alla dicitura del linguista Ferdinand de Saussure per cui il linguaggio è considerato come la prima forma di istituzione, esso pone in presenza la parola a partire da una pre-supposizione, per cui è la parola stessa ad evocare una determinata cosa, motivo per il quale il linguaggio è pre-supponente: la parola, come dimostrano gli studi di Agamben, è un fantasma, poiché essa sta solo nel linguaggio come presupposto. Questo breve accenno può meglio aiutare a comprendere perché l’allegoria si colloca in una posizione di eccezione all’interno del linguaggio sovrano.

Il rovesciarsi della pura sonorità del linguaggio creaturale nell’ironia gravida di significato che risuona dalla bocca dell’intrigante la dice lunga sul rapporto fra questo ruolo e il linguaggio. L’intrigante è il signore dei significati: questi interrompono il flusso innocuo di un linguaggio naturale onomatopeico per generare il lutto, di cui l’intrigante è colpevole insieme ad essi.17

Il linguaggio del dramma barocco, nel suo operare per allegorie, tenta da una parte di far valere i suoi diritti nella pienezza della sonorità creaturale ma, dall’altra, il verso alessandrino lega entro una logicità forzata i versi in fuga.

3. Allegoria e messianesimo

Il principio inclusione/esclusione è lo stesso osservato all’interno della struttura dello stato di eccezione che, nel movimento allegorico, sospendendo il flusso del linguaggio, crea quel luogo di mezzo in cui si genera il lutto che sospende il continuum linguistico. Si può notare come la sospensione allegorica renda il flusso linguistico operante in maniera speculare alla sospensione attuata dal tempo messianico nella forma dello stato di eccezione. Allora, l’allegoria potrebbe essere considerata come una scheggia di tempo messianico all’interno del fluire del tempo in cui il linguaggio trova articolazione. È in questa sospensione che si attua la redenzione per cui il significante viene liberato dal significato pre-supposto attraverso un gesto distruttivo, permettendo di attuare una interruzione del mondo mitico che risiede alla base di ogni forma secolare di diritto e di giustizia. Solo dopo tale gesto, il lutto assume una valenza di speranza, secondo il paradosso teologico per cui non si può dare resurrezione senza prima avere uno sprofondamento: solo il lamento potrà tramutarsi in un linguaggio di redenzione. La stessa catastrofe è per Benjamin allegoria della salvazione: solo nell’oscurità può esservi speranza.

Solo il fraintendimento classicistico del dramma, di cui il Barocco si rese responsabile fraintendendo sé stesso, poteva trasformare le “regole” della tragedia classica in quelle regole amorfe, obbligate ed emblematiche con cui crebbe la nuova forma.18

La questione del mutamento della regola appare nella tesi VIII Sul concetto di storia, per cui «la tradizione degli oppressi ci insegna che lo stato di emergenza in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto».19 Ancora una volta si costruisce una linea di demarcazione tra allegoria e stato di eccezione: l’allegoria, nel creare una zona liminare, ha lo scopo di giungere alla creazione della vera significatività, che ha come compito quello di portare ad emersione una verità che è quella storica e che non può basarsi più su una univocità di superficie. Essa, creandosi nella sua pluridirezionalità, reca paradossalmente uno sguardo fisso nei confronti dello stato frammentario delle cose, per cui l’attimo mistico diventa l’ora attuale: attraverso tale procedimento, il simbolico viene stravolto in allegorico e dal processo della storia della salvezza viene isolato l’eterno (rappresentato dal simbolo) lasciando sulla scena un’immagine vivente esposta a qualsiasi tipo di intervento.

L’allegoria porta con sé nella sua forma evoluta, quella barocca, un’intera corte: intorno all’immagine centrale, che nelle vere allegorie non manca mai come “pendant” alle perifrasi concettuali, si raggruppa la folla degli emblemi. Essi sembrano disposti ad arbitrio: La “corte” confusa – che è il titolo di un dramma – potrebbe essere lo schema dell’allegoria. La legge di questa corte si chiama “dispersione” e “collezione”.20

Alla luce di questo passaggio inserito ne Il dramma barocco tedesco, si potrebbe allora creare una corrispondenza simbolo/stato di eccezione schmittiano e allegoria/stato di eccezione benjaminiano? Si propone a questo punto un excursus etimologico sulla parola tedesca Gewalt,21 che in tedesco non vuol significare solo violenza, ma anche autorità e potere, concetti che Benjamin approfondisce nel testo Per la critica della violenza. Se nel testo sulla violenza Benjamin parlava di reine Gewalt (pura gewalt) aprendo una possibilità al di là del diritto, non ridotta a mero mezzo di esso, nel saggio Sulla lingua fa riferimento ad una pura lingua, la quale ripristina il legame tra il nome e la lingua, garantendo a tutte le lingue di conservare, anche se nascosto, il significato originario tra le differenti lingue: questo compito viene portato a compimento dal traduttore. Il nesso linguaggio e Gewalt diviene più chiaro nel momento in cui entrambi indicano una dimensione originaria che, nel presente discorso, può essere individuata all’interno del linguaggio allegorico. La violenza pura può arrestare il corso delle successioni giuridiche violente (incluse da Benjamin all’interno del concetto di violenza mitica) per cui ogni relazione strumentale del creazionismo giuridico ed ogni necessità mitica vengono dissolte da essa.

Se la violenza mitica pone il diritto, la divina lo annienta, se quella pone limiti e confini, questa distrugge senza limiti, se la violenza mitica incolpa e castiga, quella divina purga ed espia, se quella incombe, questa è fulminea, se quella è sanguinosa, questa è letale senza sangue.22

Questo passaggio rivela una forte importanza lungo due filoni tematici: il primo indubbiamente ricondotto alle modalità rilevate all’interno dello stato di eccezione; il secondo, invece, si riconduce al tema della colpa al quale Benjamin più volte fa accenno ne Il dramma barocco tedesco. Si voglia analizzare il primo nesso in questione che considera la violenza pura come forza distruttrice, operante entro una zona liminare per cui vale il principio distruzione/redenzione, ravvisabile nel processo allegorico fino ad ora definito. La violenza pura cade fuori dal diritto ed è lecito chiamarla distruttiva, ma lo è solo relativamente in rapporto ai beni, al diritto, alla vita, ma mai a quella del vivente: essa non è pertanto un criterio di giudizio, bensì una norma dell’azione che si ricollega inevitabilmente alla sfera teologica «poiché alla domanda “posso uccidere?” segue la risposta immutabile del comandamento “Tu non ucciderai”».23

Poiché l’allegoria come forma costitutiva del dramma barocco può essere risolta criticamente solo a partire da un dominio superiore, quello appunto teologico. […] Che tale risoluzione, come sempre quella del profano in ambito sacrale, debba compiersi sul terreno della storia, anzi di una teologia della storia, e solo dinamicamente e non staticamente nel senso di un’economia della salvezza già garantita.24

La violenza pura, parallelamente all’allegoria, non è un mezzo per uno scopo, anzi, ogni nesso di strumentalità è deposto da ambedue le parti; agli uomini è quasi impossibile riconoscere la violenza pura poiché essa, così come l’allegoria, destruttura l’ugualità mitico-normativa, in quanto instaura un assetto nuovo e differente rispetto a quello normalizzato. In tale ridefinizione si può rintracciare quella struttura dello stato di eccezione che si instaura all’interno del processo messo in atto dalla violenza pura, così come attraverso quello messo in movimento dall’allegoria, costituendo nuove modalità di considerazione differenti da quelle normativamente prescritte.

Essa, infatti, non è un monumento epigonale alla vittoria, bensì la parola destinata a bandire un residuo ancora intatto dall’antica vita. […] L’intuizione della caducità delle cose e la preoccupazione di salvarle trasportandole nell’eterno è infatti uno dei movimenti più forti della concezione allegorica.25

La parola allegorica è intesa qui da Benjamin come funzione destinata a bandire un residuo di significato antico. A tal proposito si tenga in considerazione il concetto agambeniano di “bando sovrano”, inteso come una forma della relazione inclusiva ed esclusiva, che consiste nella pura forma del riferirsi a qualcosa e si identifica con la forma limite della relazione. Se il linguaggio presuppone sempre sé stesso nella figura di un irrelato, non è possibile uscire da tale relazione con ciò che appartiene di fatto alla forma stessa della relazione. La struttura del bando sovrano è quella di una legge che vige senza significare, includendo le società e le culture in una relazione di abbandono; l’allegorico, in forma analoga, esplicita questo procedimento non significando ma alludendo ad altro nell’intuizione della caducità delle cose con la preoccupazione di salvarle trasportandole nell’eterno, attivando la propria funzione messianica; in questo senso, «il messianismo non è, cioè, nel monoteismo, semplicemente una categoria fra le altre dell’esperienza religiosa, ma costituisce il suo concetto-limite, il punto in cui essa supera e mette in questione se stessa in quanto legge».26 Dal punto di vista politico-giuridico, il messianismo è una teoria dello stato di eccezione e a proclamarlo è il Messia, che ne sovverte il potere così come l’allegorista sovverte il potere sancito dal linguaggio sovrano. Il secondo punto preso in analisi è quello inerente al tema della colpa che, in questo contesto, si vuole indagare in relazione all’allegorico.

L’elemento decisivo per l’elaborazione di questa forma di pensiero fu il fatto che gli idoli e i loro corpi non sembravano incarnare soltanto la caducità, ma anche la colpa. A causa della colpa, ciò che è allegoricamente significante non può più ritrovare in sé la propria pienezza. La colpa non abita solo in colui che allegoricamente contempla, e che tradisce il mondo per la sua volontà di sapere, ma abita anche l’oggetto della sua contemplazione.27

Questa concezione qui espressa da Benjamin si fonda sulla dottrina della caduta creaturale che trascina con sé anche la natura, costituendone il fulcro principale dell’allegoresi occidentale. Per Benjamin, l’allegoria trae origine dal confronto tra la physis (che il cristianesimo vuole segnata dalla colpa) e la natura deorum che è più pura. Si potrebbe affermare, alla luce di quanto detto, di come l’allegoria sia nuda vita intesa come grado minimo della vita, che richiamerebbe a sé lo spettro di qualcos’altro, portatrice della colpa e fondamento o parte più intima. Nel testo Per la critica della violenza, Benjamin parla della nuda vita come colpevole ed in quanto tale essa “espia” la sua colpa non da una effettiva colpa, ma dal diritto. L’allegoria stessa è abitata dal nesso colpa/significato che trova unità nel peccato originale, poiché essa sorge nella sua astrazione davanti all’albero della conoscenza. Le allegorie, in quanto astrazioni, stanno nel peccato originale, fuori dalla Lingua dei nomi, in quanto il nome è per la lingua l’unico terreno in cui si radicano gli elementi concreti, a differenza degli elementi astratti che si radicano nella parola giudicante.

E mentre nei tribunali terreni la soggettività oscillante si ancora con le pene alla realtà, ciò di cui si fa giustizia nel tribunale celeste è l’apparenza del male. Qui la soggettività rea confessa trionfa su ogni ingannevole oggettività del diritto […]. Nella visione allegorica è dunque la prospettiva soggettiva ad essere riassorbita senza residui nell’economia del tutto.28

L’espiazione della colpa allegorica trova luogo nel regno celeste che rivela la fallacia di qualsiasi tipo di falsa oggettività: ciò che realmente si percepisce è una situazione che giace a pezzi come frammento, come rovina: proprio questa è, a detta di Benjamin, la materia più nobile della creazione barocca. Le rovine lasciate dal mondo antico diventano elementi con i quali poter comporre una nuova totalità. In conclusione, se con la realizzazione dello stato di eccezione Schmitt tenta di salvare il mondo aggrappandosi alla costituzione delle leggi giuridiche, dall’altra Benjamin attua una mortificazione redentiva, perseguendo una nuova creazione volta a ripercorrere il cammino irredento della storia. Il discorso schmittiano andrebbe a collocarsi in una prospettiva prettamente tendente all’elemento simbolico, dal momento in cui lo stato d’eccezione è da considerarsi come una interruzione decisionista di “significato” della storia, unilaterale ed immediata; il discorso benjaminiano, invece, si orienterebbe nella discontinuità pluridecisionista di significati capaci di far saltare il continuum discorsivo del tempo e lacerare qualsiasi teoria sovrana in un incessante confronto con la storia, collocandosi in tale modo all’interno della lacerazione prodotta dall’espediente allegorico.


  1. C. Schmitt, Le categorie del politico, a cura di Gianfranco Miglio e di Pierangelo Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 33. ↩︎

  2. Sul rapporto Benjamin-Schmitt si veda Jacob Taubes, In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, a cura di Elettra Stimilli, Quodlibet, Macerata 1996. ↩︎

  3. G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati-Boringhieri, Torino 2003, pp. 66-67. ↩︎

  4. G. Agamben, La potenza del pensiero, Il Messia e il sovrano. Il problema della legge in W. Benjamin, Neri Pozza, Vicenza 2005, p. 252. ↩︎

  5. Ivi, p. 73. ↩︎

  6. La struttura del bando sovrano intesa come quella di una legge che vige ma non significa: «Dovunque sulla terra gli uomini vivono oggi nel bando di una legge e di una tradizione che si mantengono unicamente come “punto zero” del loro contenuto, includendoli in una pura relazione di abbandono». G. Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 59. ↩︎

  7. C. Schmitt, Teologia politica, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1988, p. 41. ↩︎

  8. G. Agamben, Il Messia e il sovrano. Il problema della legge in W. Benjamin, in G. Agamben La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Vicenza 2005, p. 255. Saggio tratto da una conferenza tenuta nel luglio 1992 ed originariamente pubblicato in Anima e paura. Studi in onore di M. Ranchetti, Quodlibet, Macerata 1998. ↩︎

  9. Ivi, p. 268. ↩︎

  10. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 53. ↩︎

  11. W. Benjamin, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, a cura di Giorgio Agamben, Barbara Chitussi e Clemens-Carl Härle, Neri Pozza, Vicenza 2012, P. 424. ↩︎

  12. Ivi, pp. 424-425. ↩︎

  13. Ivi, p. 480. ↩︎

  14. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 149. ↩︎

  15. Ivi, p. 55. ↩︎

  16. Ivi, pp. 182-183. ↩︎

  17. Ivi, p. 184. ↩︎

  18. Ivi, p. 183. ↩︎

  19. W. Benjamin, Sul concetto di storia, in Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1962, p. 79. ↩︎

  20. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 162. ↩︎

  21. Riguardo l’analisi della parola Gewalt si rimanda a Furio Jesi, Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su Reiner Maria Rilke, Quodlibet, Macerata 2002. Per Jesi il sostantivo poteva essere tradotto in italiano «allineando l’una dopo l’altra le parole “violenza”, “autorità”, “potere”, come se le pronunciassimo d’un fiato» (p. 29). ↩︎

  22. W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, p. 26. ↩︎

  23. Ivi, p. 27. ↩︎

  24. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 191. ↩︎

  25. Ivi, p. 198. ↩︎

  26. G. Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 65. ↩︎

  27. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 199. ↩︎

  28. Ivi, p. 209. ↩︎