1. Introduzione
La metafisica ha da sempre contrassegnato il paradigma della filosofia, dato che in essa è convogliata la vocazione del pensiero all’ulteriore, così come lo stesso carattere ascetico che sottende una sorta di pathos del logos.
Per questo motivo riteniamo che sia opportuno riconsiderare la sua radice semantica, specie con riguardo al suffisso meta, che, illumina non tanto l’oggetto del pensiero ma la condizione per la quale è possibile il suo primo muoversi verso la verità, così che l’oggetto stesso appare, in ultima analisi con una pregnanza ancor maggiore, senza, tuttavia, ricadere nelle maglie imprigionanti della determinazione, esso è implicato nella passione della verità che urge la conoscenza. È l’ulteriore la vera mensura di questo movimento, e forse più che l’oggetto del pensiero, la verità in esso implicata è lo stesso incontro con l’evento di senso che viene quasi balbettato nella meraviglia.
Del resto pensare è non essere a casa propria e sperare in questa ulteriorità che può essere solo simboleggiata per esserne stati feriti, tanto che essa ha, nel suo accenno, un duplice carattere che traguarda l’al di qua sul mistero del non disponibile.
Riteniamo che un paradigma molto pregnante sia in tal senso Platone che nei suoi Dialoghi mirabilmente tratteggia l’itinerario teoretico per cui la conoscenza è connotata secondo il desiderio della bellezza e secondo la passione, concretamente esperita come una sorta di sentimento dell’essere afferrati. Forse per questo motivo la metafisica platonica è nutrita dal mythos ed il suo logos, ben lungi dallo screditamento del mito, contribuisce a sancire la possibilità di un pensiero come ascesi ed in ultima analisi, come redenzione. Così la metafisica è una grande metafora che, mentre dischiude la verità come orizzonte di contemplazione, disvela ad un tempo l’essenza della concretezza esistenziale nella sua assiologia fondata su questa prima manifestazione.
A tale proposito la suggestione che ci viene dal pensiero classico è notevole: la metafisica assume i caratteri di una iniziazione nella quale si schiude l’esperienza del vero vissuta nell’esistente concreto, così che l’istanza dell’al di là (meta) traduce nella storia la vera misura del bene, del bello e del giusto, così che l’in sé dell’idea suprema si manifesta sempre nella storicità.
È proprio Platone a sollevare, a nostro avviso, la questione concernente l’assoluta validità della verità insita nell’istanza metafisica e il suo rapporto con l’esistenza nella sua concretezza, tanto da fornire all’ermeneutica un’ottima possibilità di discernere ed esplorare il nesso verità-storia, come ben evidenzia Gadamer in una memorabile intervista rilasciata a Giovanni Reale.1 Fedeli a queste suggestioni, cogliamo altresì l’istanza heideggeriana secondo la quale, da un lato la metafisica è un destino ineludibile, mentre dall’altro è necessario ripercorrerla in un inizio ancora inedito. D’altro canto, però, non si può che rivisitare Platone e la grandiosa conquista della sua seconda navigazione per valutare davvero l’apporto della metafisica alla riflessione filosofica ed il suo contenuto volto alle cose ultime come possibile orizzonte di senso di ciò che è all’origine: tanto an-hypotheton quanto irriducibile al fondamento deduttivo.
In tal senso, la metafisica si connette al desiderio che contraddistingue l’uomo nella sua intenzionalità e la stessa parola della filosofia in quanto symbolon di questo inedito che muove primamente il pensiero. Se le cose stanno così, il suffisso meta, di cui è nostra intenzione occuparci, contribuisce davvero a mettere in luce la portata davvero innovativa, tanto che si potrà evincere il suo tratto fondamentale nella stessa riflessione fenomenologica, il cui intento è quello di far luce sulla coscienza condotta all’e-divenza attraverso un orizzonte di senso che in tanto si costituisce in quanto se ne è colpiti, in modo tale che venga a costituire un itinerario spirituale.
Facciamo nostre in tal senso le riflessioni condotte da Romano Guardini nel suo saggio su Socrate e Platone del 1926, quando asserisce:
Un autentico filosofare significa essere colpiti dal raggio di senso che proviene dall’essenza, donde sorge quell’interiore chiarezza e solidità che si chiama conoscenza. Essa equivale all’obbedienza verso il comando emanato dal senso.2
Tale idea del senso, sia nell’accezione di significato, quanto in quella di direzione costituisce a nostro avviso la pista ermeneutica per addentrarci nel fertile quanto sconfinato terreno della metafisica ed esplorarne i sentieri non ancora battuti, rinnovandone, ad un tempo quelli percorsi grazie a quello sguardo interiore di cui è capace la filosofia attenendosi continuamente ed umilmente alla stupita domanda sull’origine ed il telos in una convergenza incessante sull’humanum.
2. Philosophos eros: il nome della metafisica
L’esplorazione analitica della metafisica sgombra, a nostro avviso, il campo da un’idea che pure può tentare la stessa filosofia: ovvero che la metafisica sia una sorta di sistematica onnicomprendente. Se è vero che tale idea ha campeggiato nella tradizione a partire dal 700 — si veda Baumgarten — è altrettanto indubbio che la critica kantiana ha dato un contributo assolutamente decisivo al superamento di una siffatta interpretazione, riportando la stessa metafisica, se possibile, ancor più presso le sue origini, facendone la scienza del limite e del desiderio dell’illimitato — dunque riportandola alla domanda fondamentale: che cos’è l’uomo — e leggendola alla luce dell’analogia atta ancor più ad immergersi nel senso delle cose e del mondo.3 In tal senso, ci sembra che sia possibile davvero preconizzare un avvicinamento a Platone.
Sotto questo rispetto ci riferiamo all’Eros di cui supremamente il filosofo greco parla nel mito del Simposio.
Eros ha un’identità che solo Diotima per la prima volta evidenzia, sconvolgendo ogni idea diffusa, un’identità che, per l’appunto, riteniamo possa contrassegnare il nome più autentico della metafisica.
Eros è figlio di Poros e Penia; la sua doppia origine; ricchezza e povertà è la più autentica metafora della natura del pensiero, che, citando un’espressione di Pareyson, potremmo definire ancipite. Da un lato, infatti, il pensiero vuol essere fondativo, mentre, dall’altro il suo primo cominciamento è dato da uno sfondo indeducibile, an-archico, ogni volta eccedente le sue stesse formulazioni. Uno sfondo, questo, che, tuttavia, affascina e ferisce, e che disvela i tratti del bene e del bello come conditio prima dell’essere.
Di conseguenza, Eros, nato sotto il segno della Bellezza, è amore del bello e suo desiderio ineludibile, è cammino di unità con la Sapienza originaria che illumina la stessa condizione della filosofia e del filosofo stesso in quanto mediazione e partecipazione al divino originario. Non per niente Eros è mediazione fra il divino e l’umano ma, ad un tempo costituisce una sorta di ermeneutica del divino all’umano. Per questo motivo è destinato a traguardare il pensiero verso l’ulteriorità, a segnarlo con la sete del mistero, farne figura della mancanza che sottende la sete. Per questo stesso motivo non si può prescindere né dal valore tautegorico del mito che dice il pathos del logos, né dal suo ruolo di methaxù che traguarda verso l’altra dimensione.
A ragione scrive Giovanni Reale:
Platone usava (per dire ciò che noi chiamiamo fede) la parola elpis, «speranza». […]. Platone ha scoperto per primo che con la pura ragione si può dimostrare che c’è un’altra dimensione dell’essere che non è puramente quella sensibile.4
La stessa ragione platonica è erotica proprio per il fatto che non si avvale della mera empiria, bensì è intuitiva, sebbene l’intuizione (nel senso di eidos) dice di un essere afferrati dalla forza sovrumana della verità che, dunque, necessita della mediazione del linguaggio in quanto logos symbolikos atto davvero a dire, suggerendo la forza unitiva dell’eros5
Così scrive Gerhard Krüger a riguardo della natura di Eros:
Il carattere proprio di Eros consiste nel fatto che la sua personale divinità non stordisce la riflessione umana nonostante l’entusiasmo, ma proprio la risveglia. Il rapimento da parte della potenza dell’autonoma natura desiderante crea una situazione diversa rispetto a quella del paganesimo. Infatti, mentre nel paganesimo l’anima era presso le cose, ad esse, per così dire, consegnata, e dalla loro personale potenza condotta ed entusiasmata, ora è presso se stessa, proprio in questo modo, tuttavia, essa è, ad un tempo, separata dalle cose, di cui ha bisogno.6
Da sempre l’entusiasmo — così come attraverso i secoli ci viene prospettato dalla tradizione romantica — è una sorta di perturbazione dello spirito e di eccitazione sovrumana. Dalla pizia estasiata e portatrice di una sapienza non sua fino alla mania divina, la categoria qui presa in esame viene tramandata alla letteratura come paradigma di una rottura del piano cosmico, caratterizzata dal mito.
Non così Platone per il quale l’entusiasmo è risveglio della riflessione e moto del logos verso la tangenza con l’ulteriorità che sancisce una differenza ontologica rispetto al kosmos delle cose. Paradossalmente, l’eros che sancisce la seconda navigazione e che si presenta nella sua connotazione di mito implica una critica al paganesimo e mentre preconizza il carattere del logos come itinerario nella verità, struttura diversamente sia il piano gnoseologico che quello logico, in modo tale da sancire lo stesso carattere metafisico della filosofia.
Essa, per altro, è da sempre attestata sul dinamismo fra la molteplicità del reale e il suo essere richiamato all’uno ma è proprio l’eros a sancire questa dialettica in quanto unificazione delle polarità su cui si erige la struttura ontologica del reale.
Per questo motivo osserva Virgilio Melchiorre:
L’idea dominante del Convito, come del Fedro, è a ben vedere l’affrancamento dal sensibile, in quanto il sensibile è determinatezza, singolarità. Si potrebbe anzi dire, a questo riguardo, che il vero soggetto dell’amore non è propriamente neppure il singolo che si libera da sé e ritorna all’uno, ma l’Uno stesso, L’Essere in sé cha dal molteplice richiama e ritrae a sé: l’amore dunque, quale passione dell’amante o — come leggiamo nel Fedro — quale divina e suprema follia, delirio o possesso di Dio.7
Se è indubbia la funzione ontologica dell’eros, è altrettanto fuor di dubbio che esso si pone come necessaria passione, desiderio che richiama il pensiero alla sua stessa vocazione, verso la scoperta perenne della sua origine in modo tale che l’erotica di cui parla Platone non è in realtà che un desiderio metafisico.
D’altro canto, però, si dovrà fare seriamente i conti con un’istanza fondamentale della filosofia;ovvero l’estasi della ragione.
Su questo presupposto, risulta però necessario soffermarci sull’idea di mediazione espressa nello stesso mito di Eros.
La sua natura di daimon lo pone fra deità ed umanità così che esso è in un grado particolare dell’essere, ma questi implica altresì che esso sia davvero philosophos eros, poiché egli stesso è simile all’uomo filosofico, il quale, secondo quanto asserisce Krüger è afferrato dalla filosofia come mistero assoluto ma anche
dalla potenza demonica di un tale amore, non il sapere banausico di un razionale dominio del mondo, ma dall’inquietudine per ciò che è lontano, per l’essere che è veramente divino, che solo è sapiente.8
Tuttavia, il philosophos eros, misura stessa di una divina inquietudine dell’uomo (e forse di questa, sia pur in modo consumante, hanno avuto sentore i tragici greci) non può che aver a che fare con il desiderio della bellezza, nella quale la Sapienza si rivela come splendore del vero e nella quale anche eros può essere fecondo di bellezza.
Si può forse parlare di mania, ma a nostro avviso l’ek-stasis rende con maggior efficacia l’idea di una ragione in ascesa, il cui compimento oltre se stessa dice di un contrassegno divino che la ferisce e la sana. Se Eros è figlio di Poros e Penia e se la ragione è essenzialmente un’erotica, è forse l’indigenza che determina la sua stessa ricchezza. Essa deve vigilare il tempo della povertà e figurando la mancanza, suggerire in quella figura il divino cercato, così che pensare sia un vero e proprio esodo.
Si tratta di un cammino dal dissimile al più simile; in verità la stessa ragione è della natura della luce per cui la verità (a-letheia) risplende nel non nascondimento e presiedendo alla sua prima rivelazione nella bellezza, è per questo che la ragione non può non lasciarsi ferire e bruciare dal desiderio; in ogni caso non si può prescindere dal carattere drammatico di questo itinerario com’è suggerito nel mito della caverna che intesse le pagine più memorabili della Repubblica. Bisogna emergere dalle ombre e lasciarsi trafiggere dalla nuda luce della verità e rischiare il dolore per una mancanza che sembra farsi quasi più acuta, ed infine vedere rettamente riconoscendo nello stesso disvelamento della verità nella bellezza la propria destinazione come propria provenienza.
Verità e pensiero consumano, dunque, nella mediazione erotica la loro unità, ma di una dialettica dell’amore si tratta in verità per la quale la bellezza e l’ebbrezza della sapienza intesse la passione della ragione, o meglio di passione la ragione accendendo la sete dell’uno.
Eros è infatti termine della riunione, esso stesso facoltà unitiva ma, come asserisce Melchiorre magistralmente:
La riunione mantiene le diversità e non le confonde, perché i diversi continuano a parlare diversamente della propria comunione, questa è una memoria originale, ma è ad un tempo un compito infinito.9
La ragione serba certo la memoria di un’unità originaria, e tuttavia, questa stessa memoria ontologica si situa al compimento del suo cammino estatico, allo steso modo la sua unità con il vero determina dialetticamente l’ontologia del suo desiderare l’Uno nel quale il vero si esplica, del suo desiderio del bello nel quale si dà la mediazione fra sensibile ed intelligibile, del suo anelito alla perfetta somiglianza che la rende consapevole di una differenza.
Si può dunque declinare nel nome dell’erotica in quanto nostalgia dell’uno l’idea stessa della metafisica, che, davvero, se intesa in tal modo, si configura come il destino stesso della filosofia, secondo l’affermazione di Heidegger. Ed è proprio l’intuizione dell’Uno disvelata nello splendore originario della verità come bellezza ed impressa nello stesso appassionato itinerario della ragione a contrassegnare una delle questioni metafisiche di Platone: la tensione fra ciò che è stabile ed eterno e ciò che appare nel mondo delle cose e dell’empiria. L’atto conoscitivo che gli è proprio è quindi intriso di uno slancio spirituale che ben ha individuato Romano Guardini:
Per il pensiero platonico gli elementi ultimi della realtà non sono sostanze amorfe o atomi privi di qualità da un lato, e principi astratti dall’altro, ma sono forme. Il mondo è costituito da forme, dell’essenza e del valore, dell’accader e della validità. Nello stesso tempo ciò significa che la forma fondamentale dell’atto conoscitivo non è né concettuale né astratta, né intuizione incontrollabile, ma intuizione viva, che poggia su una considerazione aperta della realtà. […]. Al cuore di questa intuizione c’è un elemento più profondo che si può definire quasi religioso.10
Non si tratta tanto di un filosofare come imparare morire, che pur è proprio di Platone, quanto invece, qui di un filosofare capace di ebbrezza e già nel pensiero antico l’ebbrezza aveva a che fare con il divino sebbene questo divino contrassegnasse la sospensione di ogni possibilità razionale, in quanto sacrum; tuttavia in Platone non di questo divino si tratta: l’intuizione del logos e quella del nous ha già proceduto ad una purificazione della stessa idea del divino, si tratta bensì di quella aletheia come aglaia che si manifesta protologicamente e di cui solo un’intuizione religiosa può suscitare l’inquieta ricerca per far salire il desiderio dell’uno dell’anima fino all’Uno divino universale.
3. Metafisica e teologia: un’affinità elettiva travagliata
La metafisica ha costituito per la teologia una poderosa mediazione speculativa, un mirabile impianto per rendere ragione di un evento assolutamente inedito come il kerygma. Con questo non si vuol ridurre il retaggio greco, che costituisce una gran parte della tradizione filosofica occidentale ad un mero preambulum fidei, né si vuol fare di Platone ed Aristotele dei criptocristiani; resta indubbio, comunque, il fatto che tanto l’impianto platonico, quanto quello aristotelico abbiano davvero costituito una possibilità ermeneutica per lo sviluppo di una teologia del Logos come mediatore nell’economia della creazione, quanto in quella redenzione e di spingere la ragione al suo stesso limite, all’intuizione del Mistero del Deus semper maior, che pure si manifesta nella paradossale penia.
La vicissitudine della Patristica greca sottende una prova emblematica, proprio a partire da quella teologia della bellezza che tanto ha appassionato i Padri greci.
Potremmo sostenere che il retaggio platonico abbia dato origine ad un fenomeno di rifrazione sull’intero corpus del kerygma cristiano, dato che tanto l’eros quanto l’aletheia determinano l’itinerarium in Deum.11 Tale è per esempio il percorso origeniano e quello di Clemente di Alessandria.
Il primo ravvisa l’idea di una Sapienza applicabile al Cristo, il quale, in quanto Rivelazione della Sapienza del Padre accende un desiderio di bellezza perché fa appello ad una possibile conoscenza di tipo erotico. Origene applica al Cristo stesso l’appellativo di eros, perché la bellezza della Rivelazione non può che rendere innamorato colui che ha il desiderio della divina conoscenza. Si può cogliere chiaramente qui il rifrangersi del platonismo, anche per quanto concerne il legame fra Cristianesimo e Sapienza. Lo stesso Platone, insegna, infatti, che Sophos è veramente solo Dio, l’uomo è philo-sophos, quindi la sua iniziazione alla Sapienza può essere avviata solo nella mediazione erotica. Nella patristica greca il Mediatore ha il volto del Cristo in cui risplende la gloria del Padre e per cui il cristiano può essere introdotto nel Mistero culminante nell’elevazione sulla Croce.
Un secondo prezioso testimone di questa infinitamente feconda mediazione ermeneutica è Clemente Alessandrino, come già si diceva, il quale, da insigne erudito, cerca un confronto culturale e sapienziale con i pagani del tempo per rendere ragione di una possibilità speculativa del Cristianesimo stesso, che, talora si presenta con i tratti della vera philosophia.12 Il Logos come pedagogo assume in lui i tratti del Cristo Incarnato, la cui Sapienza deve poter condurre ad una perfetta apatheia. L’esemplarità di Cristo che si sviluppa sulla scorta del platonismo, conosce qui, però una correzione in senso stoico. In effetti, l’apatia che lo stoicismo sancisce in quanto assenza di emozioni smodate, viene ad assumere i tratti della pace in Cristo che risulta dall’assenza del peccato, dunque Clemente la riconosce come dono della Resurrezione,13 indicando così la possibilità di un’ermeneutica della Rivelazione che viene a rendere più significativa, ab intrinseco la sua stessa ricerca, chiarificando ciò che Guardini ha definito come impulso religioso.
La vicissitudine che ha intrecciato fecondamene metafisica e Cristianesimo nella tradizione patristica greca ha posto in luce l’esito estetico-mistico della riflessione patristica. Da un lato infatti il Logos come splendore della Verità si manifesta nella Bellezza divina come exemplum creationis e laddove la bellezza viene sfigurata nella kenosis e nella passione, anche questa immagine si congiunge all’idea di una gloria escatologica che deve già disvelare, praesens in mysterio la Bellezza salvifica della Resurrezione.14 Dall’altro la Bellezza del Logos pedagogo riecheggia la Stimmung sponsale del Cantico dei Cantici, per cui la Sposa dal cuore ferito, desiderando lo Sposo che con la Bellezza le ha ferito il cuore, ottiene da lui di essere un solo corpo. Da questo punto di vista risulta chiaro quanto l’istanza dell’eros platonico abbia contrassegnato la sorte della tradizione patristica greca.
La vicissitudine dell’affinità elettiva fra teologia e metafisica nella tradizione occidentale mostra, invece, una differente peculiarità; nonostante anche in Occidente il cantus firmus sia stato quello della Rivelazione della gloria divina come economia della salvezza del creato, il contesto storico-culturale nel quale la stessa riflessione ha attecchito, è stato caratterizzato da un forte appetito ontologico, per usare un’espressione maritainiana, per cui tale tradizione ha sempre cercato di ricondurre nell’alveo di una riflessione sull’essere il dato kerygmatico.
La stessa economia della salvezza escatologica, già protologicamente significata nella creazione è possibile in quanto la creazione partecipa all’Essere di Dio, e quindi lo stesso Essere doveva corrispondere ad un possibile nome di Dio15 .
La preoccupazione ermeneutica del Cristianesimo Occidentale era quella di una possibile comprensione del dato Rivelato a partire dall’idea dell’essere come presupposto gnoseologico dei principi primi che presiedono all’esistenza, come già insegna Aristotele, che, molto più di Platone, ha funto da mediazione nella teologia medievale. Da questo punto di vista era fondamentale il concetto di ousia, sostanza, per identificare l’essere e a maggior ragione l’Esse di Dio, il quale poteva davvero riassumere le quattro cause nella sua possibilità di creare e ri-creare nella salvezza escatologica. Il concetto di mediazione, con cui i Padri greci declinano in Cristo alcune suggestioni del platonismo (p. es il Demiurgo) assume in Occidente il carattere sempre più decisivo e certamente grandioso dell’analogia entis, articolando una vera e propria dialettica fra coelestis e terrestris hierarchia così che si combinano due possibili vie; quella ascensiva e quella discensiva caratterizzate dal fatto che l’esercizio filosofico della fede (intelligo ut credam) procede da un continuo ravvisare i segni della Rivelazione in base al dispiegarsi dell’esse divino e, di conseguenza, l’esercizio credente della filosofia si esplica sulla base di un Deus semper maior che partecipando il Suo essere al tutto resta comunque nel Suo Mistero Unum necessarium e dunque contrassegnato da una forte differenza ontologica.16 È quindi chiaro che l’Ousia divina è il presupposto più importante per pensare il dato Rivelato secondo la ragionevolezza. Il problema che, comunque veniva a porsi era quello di un’identità sostanziale fra Dio e Cristo Gesù, che di Dio è la Rivelazione. Se, infatti, l’analogia entis sancisce un ordo universalis, come potrebbero esserci due sostanze? Il pensiero metafisico esclude questa possibilità. Tuttavia è proprio il concetto di Logos a risolvere la controversia e a decidere l’esito verso la consustanzialità (homousía). Proprio su questo punto si dà un felice connubio fra Cristianesimo e traditone aristotelica, ove, però, è il Cristianesimo stesso a fungere da nuova istanza teoretico-speculativa, implicando nell’omousia del Padre e del Figlio una serie di feconde interpretazioni.
Il Logos è Parola di Dio, presso Dio dal Principio ne è la Rivelazione. Se le cose stanno così, Egli non solo è la causa esemplare per cui sono fatte tutte le cose, non solo la causa finale per cui in Lui sono ricapitolate tutte e cose, ma Egli è la stessa ipostasi divina che rivela tutta la pienezza della divinità. Resta, comunque, il fatto che il kerygma cristiano si fonda sul farsi carne del Logos, ma questa Sua Incarnazione non può essere interpretata nel segno di un Dio inferiore, quanto invece come natura ipostatica, ovvero come la divina umanità di Dio, che, in quanto tale, non può che essere della stessa sostanza. Quanto la consustanzialità divina sia un’elaborazione ermeneutica che deve l’impianto speculativo all’aristotelismo lo si può arguire proprio a partire dalla categoria di ipostasi che richiama l’hypokeimenon come sostrato di sussistenza. In tal senso l’ipostasi teandrica implica tutta la sussistenza divina nel sostrato dell’umanità che sottende l’Incarnazione.
Si può avvertire, qui, un primo abbozzo di ontologia trinitaria che, tuttavia, conosce un ulteriore sviluppo grazie alla riflessione di Tommaso d’Aquino circa l’idea di persona e di relazione. Qui, si dà, però, una prima cesura dalla tradizione aristotelica che lascia deporre a favore di una fecondità del Cristianesimo stesso nei riguardi di un pur nobile retaggio filosofico. Il vero punto nodale è proprio l’idea di relatio. Se, infatti, per Aristotele, la relazione corrisponde ad una categoria, ovvero ad uno dei predicati più generali dell’essere, il che lo contrassegna in modo accidentale, dato che se è tolto l’esse nessuna relatio può sussistere, l’idea della omousia da cui consegue che in Cristo una sola sostanza è ipostatizzata nella natura teandrica, implica anche un modo nuovo di leggere la relazione. Così, in effetti, chiosa Tommaso nella Summa Theologica.
Relatio autem in divinis non est sicut accidens inharens subiecto, sed est ipse divina essentia: unde est subistens sicut essentia divina subsistit.17
La relazione è dunque ontologicamente pregnante, anzi essa dice necessitate lo stesso mistero ontologico della divinità. Quindi si dà relatio ad intra, ove le divine persone si riconoscono nel vincolo della Caritas e si inabitano nella reciprocità del dono. Si dà, per converso, una relatio ad extra, il cui climax è sancito dalla Rivelazione. Quindi Dio stesso è in sé relatio, l’Assoluto implica, dunque un momento relativo.18
A nostro avviso possibile ravvisare l’inizio di una possibile ontologia trinitaria, che è sufficiente a sancire come la filosofia nata dalla riflessione sul Mistero cristiano non si riduce certamente ad una mera ontoteologia, ma esprime tutta la ricchezza e la felice fecondità delle sue espressioni. Se, infatti, da un lato il monito heideggeriano contro il rischio dell’ontoteologia si mostra prezioso invito a mantenere la possibilità del Mistero della deitas, così che il pensiero debba essere un suggerire ed un rinviare, indicando ed auscultando l’Evento, dall’altro l’identità trinitaria del Cristianesimo fornisce nuove prospettive alla stessa ermeneutica nonché allo stesso rinnovamento dell’orizzonte ontologico, insegnando a coniugare in maniera sempre più feconda verità e storia.
Per questo motivo l’elezione di metafisica e teologia, di speculazione del Mistero e itinerario spiritual ein Deum non è sic et simpliciter la storia di una reductio onto-teologica, così come l’analogia entis non è un modo di raccorciare la differenza fra Dio, uomo e mondo. Il loro intreccio rende ragione della pregnanza di una metafora che dice quanto il linguaggio, suggerendo, si ritira al di qua del Mistero che dice, più negando che affermando. Il ruolo della teologia catabatica spiega decisamente quanto l’appetito ontologico sia in realtà una mozione della scienza che si riconosce posta al centro luminosamente oscuro di una rivelazione più alta, che ha bisogno di essere purificata e resa casta.
Questo è alla base dell’intentio teoretica di Tommaso d’Aquino, il quale, se pur rappresentante della dottrina ontologica su Dio, non può assolutamente essere colpevolizzato di trascurare la differenza ontologica, ed in ultima analisi teologica, dato che distingue fra esse ed essentia (così arricchendo la speculazione aristotelica di un nuovo significato) per tracciare una differenza fra la gloria del Deus in se e quella del Deus pro nobis, inteso come causa della bellezza (intesa in senso di ordo) cosmica. In ultima analisi anche il termine esse è quasi una metafora per cui l’intelligenza del filosofo possa cercare di intenzionare il Mistero di Dio.
Così, infatti, commenta Tommaso:
Ipsum esse est similitudo divinae bonitatis.19
Questo sarebbe sufficiente ad evidenziare come l’esse stesso non implichi una perfetta congruenza con la sussistenza divina e che non basta comunque l’idea dell’essere come istanza gnoseologica a poter afferrarne il mistero. In effetti Tommaso, fedele alla dottrina secondo cui gratia non tollit naturam sed eam perficit, evidenzia come lo spirito umano giunge al massimo della conoscenza se l’intelligenza naturale viene rafforzata da una nuova luce, quella della sapienza ed innalzato alla contemplazione del Deus semper maximus.20
Non si dà, dunque in Tommaso d’Aquino alcuna oggettivazione di Dio, né a nostro avviso possono trovarsi dei margini per legittimare nell’Aquinate una deriva ontoteologia. L’approccio che egli propone è molto più dialettico di quanto non si pensi, basti pensare all’uso dell’ossimoro ricorrente nella sua filosofia. L’essere di cui Tommaso parla è velata rivelazione, dato che l’uomo non è capace di incontrarlo in una intuizione immediata, ma nella mediazione degli enti mondani, in quanto spirito in condizione di incarnazione, (Geist in Welt, per parafrasare un’opera di Karl Rahner). Questo però, sulla base della distinzione già fatta scongiura il pericolo — tanto deprecato da Heidegger — della Seinsvergessenheit, dell’oblio dell’essere. In quanto actus essendi che si esplica nel reale, l’esse di Tommaso somiglia più di quanto si possa intendere all’Ereignis heideggeriano; fatto salvo poi il fatto che sulla scorta dell’evento dell’essere si rivela anche l’ultimo Dio.
È forse necessario, dunque, rileggere la storia degli effetti di Tommaso sull’orizzonte della filosofia e della teologia contemporanea per poter contestualizzare la critica di Heidegger e di tanti altri pensatori contemporanei, e di conseguenza rileggere la storia dell’essere seguendo l’avventura metafisica nel suo infinito esplicarsi ed implicarsi.
Molto pregnante ci sembra la riflessione di Von Balthasar circa l’eredità di Tomasso allorché asserisce:
Tommaso ha ricavato un filosofumeno tutto suo particolare, la dottrina dell’actus essendi come prima ed immediata e universale operazione di Dio nel mondo. Tommaso parla di un processus essendi a divino principio in omnia existentia; nomen entis designat processum essendi a Deo in omnia entis.21
Ci sembra possibile evincere due istanze fondamentali:
- l’actus essendi non si identifica con il com’è di Dio, definendo solo una delle principali operazioni: il processo causativo dell’essere di ogni cosa. Se Dio è causa dell’essere, deve essere preservata la Sua differenza dal mondo. È infatti spiegabile il senso per cui l’Aquinate sancisce — nell’ambito dell’analogia entis — una proporzione, legata alla partecipazione degli enti al processo creativo divino, e, ad un tempo una non proporzione che preserva la differenza del Deus totaliter alter
- l’esistenza stessa implica una derivazione divina dovuta alla sua potenza incessantemente creativa, ma anche qui non sembra esservi spazio per qualsivoglia oblio dell’essere negli enti
Tommaso recupera, in tal modo, anche l’istanza se vogliamo più moderna di una riflessione sull’essere in quanto mistero ontologico. Egli pone in luce come la finitudine della creatura la renda consapevole del suo rapporto di partecipazione a Dio, all’essere reale di Dio, eppure questa partecipazione non è assolutamente un depotenziamento dell’esse-unum, quanto la stessa possibilità attuata dall’onnipossente libertà di Dio.22 Quindi l’esse conduce a Dio come prova ab effectibus. Tuttavia Egli resta caligo nell’ardore intimo che lo connota, e proprio qui viene sancito il debito che Tommaso contrae con la teologia apofatica di Dionigi l’Areopagita che pone Dio epekeina tes ousias; chiosa Von Balthasar da tale punto di vista:
L’esse, come Tommaso pensa, è nello stesso tempo interamente pieno ed interamente nulla, pieno perché l’elemento più nobile, il primo e massimamente proprio effetto di Dio, perché «Dio causa ogni cosa mediante l’essere», e l’essere è il primo e più intimo di tutti gli altri effetti», e invece nullo perché esso come tale non esiste, «infatti non si può dire che il correre corre», bensì colui che corre, così non si può neanche dire che l’essere è.23
Non solo siamo distanti da qualsivoglia ontoteologia, ma possiamo anche dire che l’adesione di Tommaso al Cristianesimo ha inaugurato una nuova stagione del pensiero, una nuova confluenza dell’intelligere e del credere che lega entrambi ed entrambi ab-solve in un esercizio di libertà dinanzi all’Evento della Rivelazione.
Siamo tanto persuasi di ciò che possiamo giungere alla conclusione per cui, non solo la teologia ha assunto la mediazione metafisica come possibilità speculativa del dato cristiano, ma essa stessa ha contribuito a rinnovare lo stesso pensiero metafisico offrendo nuove frontiere alla filosofia, specie nella veste dell’ermeneutica così come della fenomenologia. La capacità del dato cristiano di donner à penser non può, infatti, che continuare a suscitare l’apertura di nuovi orizzonti rinnovando il dialogo fra le due discipline e lo stesso linguaggio per ri-dire, meglio ri-tradurre le parole fondamentali.
4. Epekeina tes ousias: il rinnovamento della metafisica sulla sponda della fenomenologia e dell’ermeneutica
Ripensare la tradizione risulta un imperativo decisivo tanto sul versante teologico che su quello filosofico; questo esercizio sancisce infatti, nella continua rilettura, l’istanza di un rinnovamento e di una ripresa che rende fecondo il passato e rende il futuro capace di riassumere le infinite possibilità. Sulla base di questa consapevolezza si potrà notare come un’evidente esito non oggettuale della metafisica è ravvisabile già in Platone e nella tradizione neoplatonica, in particolare nella filosofia di Plotino. In entrambi il climax del pensiero, infatti, non coincide con l’essere ma con il bene oltre l’essere, che, in virtù della sua trascendenza, non si lascia catturare nelle maglie entificanti. Platone stesso ricorre alla metafora per poter parlare del Bene sovrasostanziale, quella della luce e della bellezza, donde il felice connubio della kalokagathia, ove l’estetica esprime la sua valenza morale ed assiologica ed intesse una differente semantica metafisica che sottende lo stesso trascendere del pensiero.
Così Platone scrive nel Flebo:
Dunque non possiamo afferrare il Bene in un’idea unica. Dopo averlo colto con tre, ossia bellezza, proporzione, verità, diciamo che questo, come un uno è giustissimo che lo consideriamo come causa di ciò che è nella mescolanza, ed è a motivo di esso, in quanto è bene che la mescolanza diventa buona.24
Non solo l’inafferrabilità del Bene dice di un oltre che pur contrassegna l’esercizio teoretico, ma anche le tre idee di bellezza, proporzione verità, non sono che simboli per poter dire l’indicibile, in tal senso Platone le denomina vestiboli che introducono nella dimora del bene. Quasi nel pensiero platonico si desse l’istanza di un’alterità; del resto già nel Parmenide l’idea dell’eteron occupa un ruolo fondamentale.
4.1. Heteron e straniero nel pensiero di Derrida
Suggestiva interpretazione a questo proposito è quella che ci offre Jacques Derrida nel suo L’ospitalità, a proposito dello straniero come simbolo teoretico, il quale pone la domanda radicale nel cuore del logos e mette in questione l’insolente filosofia dell’identità.25 Una metafisica di questo tipo, infatti, non può ridursi ad una logica dell’identità di un essere eguale a se stesso, né tanto meno ad una logica della deduzione. Se si sottolinea il suffisso meta, essa è oltre e proprio per la sua ulteriorità attiene al desiderio dello stesso pensiero, alla speranza del pensare.
4.2. Kant: metafisica: scienza del limite e della speranza
In tal senso possiamo davvero apprezzare oggi la riflessione di Kant circa la metafisica. Il filosofo illuminista sottolinea nella sua Dialettica Trascendentale nella Critica della Ragion Pura che, affinché non si cada nell’illusione che non appartiene alla filosofia, di una conoscenza impropria, la metafisica deve restare scienza del limite, eppure inevitabile contrassegno del pensare umano che funge da apertura all’infinito. Del limite non ci si può accontentare, quindi la metafisica che, ut sic, contrassegna la soglia (Hestia, per ricorrere alla simbologia della cultura greca) da dove il pensiero deve muoversi e dove deve ritrovare la sua identità, apre in realtà l’ulteriore che manca, e dunque, scienza del limite, essa confessa umilmente un’eccedenza, l’eccedenza per la quale l’uomo si pone le domande fondamentali. Non è un caso che, avvalendosi del metodo analogico, e trasferendo l’istanza dell’ulteriore in sede morale, essa unisce la domanda sul fare a quella sulla speranza, per postulare l’idea di un Regno dei fini, che non sembra molto differire dal Bene platonico. La questione della speranza non è, in effetti, sic et simpliciter una questione attinente alla virus morale. Essa è ben radicata in sede teoretica dato che non solo pone l’istanza della conoscenza ma ne sottende il valore che le è proprio grazie al suo carattere inevitabilmente metafisico. Kant insegna un uso fecondo della stessa antinomia della ragione, specchio della struttura ancipite dell’uomo, sulla quale teologia e filosofia si tendono la mano, che da un lato si trova a superarsi sempre, dall’altro si attesta sulla possibilità, sulla contingenza, intesa nel senso proprio di un contatto con quanto lo supera e lo interroga; d’altra parte già Pascal sosteneva la coscienza del nulla ed il suo confine con una grandezza ulteriore e più alta, in ultima analisi il confinare del nulla in Dio.
Non è dunque l’antinomia a esigere l’uso analogico e non è dunque l’antinomia a svelare, ante litteram che il mondo stesso, oggetto della conoscenza non può essere ridotto ad un mero problema epistemologico ma rivelarsi nel senso di un mistero che non cessa di provocare stupore?
Ben lungi da un’interpretazione di quella scolastica scadente nello scolasticismo, Kant permette una purificazione dello stesso pensiero, liberando anche lui il campo del pensiero dai limiti rischiosi dell’ontoteologia. Ci sembra vitale sottolineare che tale posizione sul pensiero di Kant è espressa da un teologo cattolico, definito come l’uomo più colto del Novecento, Hans Urs Von Balthasar, già compagno di viaggio di questo percorso. Riflettendo sull’introduzione da parte di Kant dei postulati come possibilità stessa della ragione nella sua struttura antinomia, il famoso teologo evidenzia che Kant salva davvero l avocazione gnoseologica della ragione e l’esigenza umana di una speranza che traduce nella possibilità dell’uomo, nel rischio responsoriale della sua libertà la pensabilità stessa di una più originaria libertà divina capace di fondare la stessa possibilità umana proprio perché, secondo il linguaggio dei mistici altotedeschi, Un-grund, libertà da ogni deducibile fondamento.
La densissima pagina balthasariana così recita:
L’altezza interiore della ragione, che tende a dispetto di tutte le finitezze all’infinito, quella che le rivela Dio e non poniamo l’eccelsa gloria propria di Dio che essa nella ragione pura non è appunto assolutamente in grado di percepire.
Questo modo di ragionare rimanda indubbiamente indietro alla teologia negativa antica e cristiana. Dio (e ciò che da parte del mondo di Dio appartiene all’uomo, decisione eterna nella libertà, esistenza eterna nell’immortalità) attraverso tutte le verità note dei primi paini e, più in profondità, lo sconosciuto, in tute le rivelazioni è, più in profondità il nascosto […]. Dopo tutti i razionalismi della scolastica e del neoclassicismo, ma anche di una metafisica dello spirito a seguito di Leibniz, questo critico richiamo all’indietro di Kant apporta liberazione e purificazione.26
Che sia un insigne teologo quale Von Balthasar ad esprimere questo giudizio su Kant denota quanto anche la stessa teologia necessiti di pensare il Mistero e come, per questo, invochi l’aiuto di un’adeguata riflessione filosofica conscia di un orizzonte trascendente su cui la ragione possa iniziare il suo cammino, il quale costituisce anche la sua dimensione trascendentale. In questo senso, però, siamo rinviati alla categoria estetica del sublime, che pure si rivela pregnante di un significato ontologico che si esplica, tuttavia, oltre ogni entificazione.
Come ben sintetizza Von Baltasar circa la dottrina del sublime del filosofo di Königsberg:
Il discorso veramente elevato f a elevare nel giubilo e la riempie di gioia e di orgoglio come se avesse trovato essa stessa e questo per la ragione che si è resa consapevole del suo autentico destino: l’uomo infatti è non solo introdotto nel cosmo universale (quale cittadino del mondo)… Ma nella sua anima c’è un invincibile amore per ogni realtà eternamente grande, più divina di quanto noi siamo.27
Tuttavia, se la metafisica è una sorta di habitus del pensare, la sua vocazione è quella di fondare una koiné filosofica basata sulla possibilità dialogica, sulla convergenza di diverse correnti che dicono, in un certo senso, di una storia della verità dell’essere, delle sue riprese, delle sue mutazioni, delle sue armonie, dei passaggi e delle fenditure aperte per mostrare una sempre maggiore fecondità. Se le cose stanno così, il «paesaggio «sempre compiantesi della metafisica è riconducibile a quanto già scriveva Aristotele: to on pollachos legetai. Per questo motivo dunque possiamo certo ritenere superata la metafisica costretta nel letto di Procuste dello scolasticismo, ma non le sue nuove possibilità di esser detta che già Kant ostende.
4.3. Metafisica tra verità e storicità: la suggestione di J. Greisch
Sarebbe allora opportuno parlare di metamorfosi e rinnovamento, dunque di una metafisica attestata più sul desiderio che sull’apofansi, e dunque di una sponda della metafisica ove ciò che è stabile ed eterno deve aprirsi a ciò che è storico ed evenemenziale. Questa posizione, di cui daremo ampio conto, è quella che caratterizza il pensiero del filosofo franco-tedesco Jean Greisch, diffuso ampiamente in Italia da Alessandra Cislaghi.28
Potremmo quasi disegnare un’ellisse ove i due fuochi siano costituiti dall’ermeneutica da un lato e dall’altro dalla metafisica. Sapere e comprendere si intersecano, dunque, in modo tale che l’orizzonte veritativo del primo, più conscio del desiderio del vero che non del suo effettivo ed unico raggiungimento deve incontrare l’esigenza di senso del secondo che muove da un orizzonte di storicità. L’ermeneutica ci pone, in tal modo, dinanzi al fatto che il comprendere storico, coniugato al comprender-si del soggetto incarnato, è intrinsecamente aperto ad un’esigenza assiologica, quella della verità, la quale, però, recupera la connessione trascendentale di esse et bonum. In ogni caso, se l’esercizio del comprendere è una modalità esistenziale per cui ne va della domanda ontologica (Heidegger), si può facilmente evincere che esso implica un’esigenza metafisica nel senso di un’apertura assiologica alla libertà del bene.
Jean Greisch descrive questo incontro inevitabile e prezioso, ricorrendo al linguaggio mitologico di Vernant che narra in maniera allegorica, l’incontro fra Hermes, il dio degli interpreti, dei divinatori ed Hestia, la dea del focolare, mettendo in moto la dialettica del proprio e dell’altro, della distinzione e dell’appropriazione.29 Tuttavia, questo incontro implica un’ancor più forte dialettizzazione del pensiero che, ancora una volta, esplicitando il legame intrinseco di essere e linguaggio, non riduce tutto a quanto è presente (logos apophantikos), ma rinvia ad una trascendenza. Dunque ermeneutica e metafisica si richiamano, non già in una sorta di Aufhebung di matrice hegeliana, ma come immediatezza e mediazione, se è vero che la metaforicità del linguaggio implicante la comprensione, implica la mediazione di una traditio che è lo stesso medium per cui l’essere si dà come storicità.
Questo connubio si mostra oggi particolarmente fecondo specie per quanto attiene il dialogo fra filosofia e teologia. Il teologo Wolfhart Pannenberg ritiene che la teologia basata sulla Rivelazione in quanto verità di fede necessiti di una teoria filosofica, pur tuttavia, dovendo rinunciare ad una metafisica astorica, essendo la stessa Rivelazione fondata sulle manifestazioni storicamente concrete della realtà divina. Così l’eternità di un Dio che agisce nella storia è in essenza una presenza diacronica che si dà attraverso rimandi e che si esplica nell’accadere della Rivelazione nell’oggi umano, per questo la teologia stessa deve affidarsi all’ermeneutica, al rischio dell’interpretazione che lascia emergere il novum della Revelatio Dei nella fedeltà alle fonti che sono, per un certo verso immutabili (il complesso del depositum fidei). Quasi che la metafisica, nell’ultima delle sue metamorfosi sussista e debba sussistere nella sua tensione religiosa.
In questo senso riprendiamo qui le tesi fondamentali di Jean Greisch in riferimento a quella che definisce come fonction meta. La prima tesi concerne un capovolgimento di un’asserzione di Gilson il quale ritiene che prolegomeni ad ogni fenomenologia debba essere una metafisica dell’essere, ove per il nostro si dà l’assoluto contrario. Ne consegue la problematicità del termine metafisica dell’essere che, tanto nella fenomenologia (nella declinazione della Sinngebung) che nell’ermeneutica (declinato come Evento), si attesta secondo la pluralità del suo darsi, ma, ancor più, secondo la necessaria coniugazione con la storicità. Una metafisica come storia dell’essere nelle varie epoche della ragione deve ricusare l’immutabilità e l’oggettivazione; in altre parole scongiurare l’oblio dell’essere.
Nella seconda tesi Greisch cerca una soluzione al dilemma fra l’esse e la sua storicità recuperando un contributo di Dilthey che nell’introduzione incompiuta alle Scienze dello Spirito, laddove sancisce l’impossibilità di una metafisica come scienza della conoscenza/coscienza della totalità (il che sancisce il divorzio dal sistema hegeliano), ma recupera la fonction meta come esperienza umana, esperienza di un esser-ci consapevole del meta-fisico che intesse l’esistenza stessa, quasi che essa sia la tonalità emotiva progettuale del Dasein.30
Come esito si ha una ragione exta-filosofica, che recuperi il pluralismo delle tradizioni religiose e poetiche, in una sorta di metaforologia.
Greisch ritiene che, però, che tale paradigma extra-filosofico sia anche intra-filosofico, quasi che debba esplorare il sistema topico della metafisica, in modo tale che essa non sia sic et simpliciter un discorso dell’essere in quanto essere nella totalità chiusa, ma, come ben insegna il logos biblico, che costituisce l’altra riva della tradizione filosofica d’occidente un discorso sull’evento dell’essere in quanto senso che accade via via nella prospettiva dialogica di una Parola divina che rivelando all’uomo tutto il suo carattere performativo, lo fa testimone-inviato nella storia dell’eterno che pure si schiude intenzionalmente al bisogno di Redenzione.31 Dunque si tratta di una metafisica in cui si preservata la fonction meta e che recuperi il dialogo fra essere, bene, etica e che recuperi la struttura del desiderio.
4.4. Approdi della metafisica fra teologia, pensiero neoebraico, teoria critica
Il retaggio ebraico-biblico, convogliato da molteplici parti nella filosofia, da Levinas, a Rosenzweig, allo stesso Adorno induce a riflettere sulla necessaria metamorfosi della metafisica in virtù della dimensione intrastorica. Non possiamo, non far menzione, in questa sede, la connessione che si dà fra l’elemento totalitario della metafisica intesa come oggettivazione dell’esse e il suo esito storico di allergia per l ‘altro — il cui paradigma è Auschwitz — che percorre lo stesso pensiero, come Levinas ben evidenzia. Questa stessa idea, veniva per altro sviluppata da Theodor W. Adorno nelle sue lezioni sulla Metafisica tenute per un semestre nell’estate del 1966.32
Ci sembra opportuno ricordare alcune tesi espresse dall’insigne esponente della Scuola di Francoforte nella quattordicesima lezione. La prima si basa sulla confutazione dell’idea aristotelica secondo la quale, la stessa materia mostra una tensione verso il fine, dato che l’essere si orienta da sé teleologicamente verso la divinità senza un influsso divino.33 La seconda, diretta conseguenza di quella già enunciata, conclude che ciò che è ha un senso.
Le riserve di Adorno attengono principalmente al fatto che questo esse, articolato in necessità rigida negli enti esprime una potenza affermativa della Metafisica stessa la cui teleologia esclude ogni riferimento intratemporale, dato che, se ciò che è, deriva dall’actus purus, il senso di cui è dotato è già immanente, dunque ciò che è è id cui competit esse . Tuttavia, la grande obiezione di Adorno è la rivendicazione di una mancata giustizia dell’essere nei riguardi delle vittime di Auschwitz. Si può riguardo ed esse e al loro eccidio asserire che ciò che è è sensato senza una ideologia, senza cadere nell’astuzia della ragione, che nella Dialettica negativa Adorno chiama Vormacht des absoluten Subjekts, prepotenza del soggetto assoluto.
Vale la pena citare il testo:
Al cospetto di queste esperienze l’affermazione di un senso, posto formaliter nella metafisica, si è trasformata in ideologia, cioè in una vuota consolazione che assolve al contempo una funzione molto precisa nel mondo come esso ormai è;cioè quella di tenere gli uomini alla sbarra.34
La deriva ideologica della metafisica è l’oblio della sua fonction meta, l’oblio di quel bene epekeina tes ousias che orienta la vera tendenza metafisica come sapere del desiderio. Se l’ousia è il bene stesso, in una congruenza che depone a favore dell’identico e cancella ogni dialettica, il mondo stesso, ed ancor prima l’uomo non è che il prodotto della tecnica: per l’appunto il mondo amministrato.
Tuttavia la tesi adorniano non vuol affatto recitare un de profundis per la metafisica. Anzi, egli ne distingue nella sua storia, un momento critico, per cui essa ha fatto il tentativo di accertarsi dell’enigmatico e del caotico, ha espresso la sua forza nella ratio di comprendere senza accontentarsi dell’irrazionale.35 Adorno riconosce questo grande merito in particolare a Tommaso d’Aquino:
Per esempio, nel modo più grandioso nella metafisica tomistica, che è il tentativo di mettere d’accordo la dottrina cristiana con il pensiero speculativo, e che in ciò già contiene anche la potenzialità di trasformare in questo modo in una specie di critica ciò che ci è stabilito e imposto in modo semplicemente dogmatico.36
Adorno non è estraneo all’idea di una metafisica capace di intenzionare l’ulteriore e che si coniuga, dunque, più con l’istanza della speranza e dell’ulteriorità che non con quella dell’oggettivazione che, per citare Heidegger, si attesta sull’orizzonte dell’imposizione. Tale recupero originario preconizza la stessa possibilità di una trasformazione della metafisica stessa in quanto segnata dall’esperienza storica. Così Adorno commenta:
In altre parole: la trasformazione della metafisica che stiamo conoscendo è un cambiamento nel più profondo dell’Io e della sua cosiddetta sostanza; è la liquidazione di ciò che nella vecchia metafisica si è voluto designare attraverso una psicologia razionale quindi attraverso una dottrina dell’essere in sé dell’anima.37
Ciò che viene qui confutato è il fatto che si possa ridurre l’umanità dell’uomo a quel sostrato di predicabilità che annulla ogni differenza e che, quindi, per usare il linguaggio di Adorno stesso sconfina nella possibilità spersonalizzante della fungibilità e sostituibilità di ogni singolo uomo,38 Per contro, la prospettiva di un’ulteriorità, immette espressamente sull’orizzonte dell’alterità, che può e deve recuperare la metafisica in senso etico, salvando così verità e storia, e attribuendo all’etica l’istanza di filosofia prima. Come dire che la metafisica può trovare la sua identità e la ragione della sua metamorofosi proprio in un’etica dell’alterità.
Su questa base potremmo evidenziare una felice coniugazione fra la riflessione adorniana e quella levinassiana in quanto entrambe possono contribuire ad una differente topologia metafisica.
Emmanuel Levinas metaforizza nella fenomenologia del volto l’idea di quella che abbiamo individuato come fonction meta, in quanto vi vede la spezzatura dell’identità escludente e della totalità che segna il pensiero dell’allergia dell’altro. La fonction meta di cui egli si fa portavoce è l’idea dell’infinito che mette fuori gioco quella totalitaria, ma che, d’altro canto segna la soglia della finitudine come un passaggio aperto alla possibilità di cogliere nell’alterità la prae-sentia di una trascendenza che fa esplodere ogni fondamento e che risponde alla categoria biblica della visitazione capace scandisce una differente fenomenologia del tempo.
Dunque la meta-fisica levinassiana si esplica come l’altezza del bene. Nella sua opera Totalità ed Infinito si trovano su questo pagine straordinarie, a cominciare da quella che si apre con queste suggestive righe:
La vera vita è assente. Ma noi siamo al mondo. La metafisica sorge e si mantiene in questo alibi. Essa è rivolta all’altrove, all’altrimenti, all’altro.39
Ciò implica che essa si coniughi con il desiderio come connotazione ontologica, dato che Levinas continua asserendo che
il desiderio metafisico tende verso una cosa totalmente altra, verso l’assolutamente altro […]. Non aspira al ritorno perché è il desiderio di un paese nel quale non siamo mai nati […]. Il desiderio metafisico ha un’altra intenzione — desidera ciò che sta al di là di tutto quello che può semplicemente completarlo. È come la bontà — il Desiderato non lo riempie ma lo svuota.40
Quanto in tali suggestivi passi riveli un debito con il codice biblico, con la matrice ebraico-cristiana è evidente, specie a partire dall’idea di svuotamento che rinvia alla kenosis. Proprio per questo motivo la meta-fisica offerta dal paradigma levinassiana è quella che si attesta sull’Opera della Bontà in quanto generosità diffusiva ed assolutamente non esigente reciprocità, capace anzi di prendere su di sé, nella responsabilità, l’alterità dell’innocenza inerme e persino della colpa, secondo il mirabile paradosso di Levinas che riecheggia istanze di teologia cristiana.
L’istanza di Levinas permette, altresì, di recuperare le categorie dell’identità e dell’alterità in una relazione che si esplica in pura gratuità. Così egli scrive:
L’Altro metafisico non è altro secondo un’alterità che non è formale, secondo un’alterità che non è il semplice rovescio dell’identità, né secondo un’alterità fatta di resistenza al Medesimo, ma secondo un’alterità anteriore ad ogni iniziativa, ad ogni imperialismo del Medesimo. Altro secondo un’alterità che costituisce proprio il contenuto dell’Altro […]. L’Assolutamente Altro è Altri.41
Anche in tal caso sembra ravvisabile qui un tratto assolutamente biblico. Altro quanto al contenuto è Dio: altezza del Bene, Trascendenza della Sua stessa Bontà, ab-solto da ogni possibile deduzione e presente nell’interruzione del medesimo, presente nei volti come traccia della Sua sempre anteriore e pure escatologica visitazione.
Come si può vedere tanto Adorno quanto Levinas connotano la loro meta-fisica di un forte colore messianico, così che nell’uno, come nell’altro la figura di tale eccedenza sospende anche il paradigma dell’eidos e della visione a favore di un paradigma di linguaggio, dunque acroamatico, che permette di preservare lo scarto di questa Alterità suprema, che, nella conclusione dell’opera citata Levinas chiama divinità.
Questa presenza che supera come forma la misura dell’io, non è riassorbita nella mia visione. L’eccedenza dell’esteriorità inadeguata alla visione che, ancora, la misura, costituisce appunto la dimensione dell’altezza o la divinità dell’esteriorità. La divinità mantiene le distanze.
Tuttavia, questa presenza deve venire al pensiero: il logos deve poterla confessare sia pur nell’assenza, il discorso che confessa la Sua eccedenza dall’inadeguatezza che gli è propria, allora, non è più un discorso su, che farebbe ricadere tutto al di qua della visione e nella medesimezza dell’oggettività, quanto invece un discorso a
Scrive Levinas infatti:
Il Discorso è discorso con Dio e non con gli uguali, secondo la distinzione stabilità da Platone nel Fedro. La metafisica è l’essenza di questo linguaggio con Dio.42
Ed ecco che l’al di là dell’essere è il Nome di quest’altezza del Bene, mai abitabile interamente sulle labbra, e pure sempre presente al desiderio che dimori nella storia umana, divenendo Affermazione ospitale di ogni alterità, Icona pregna di mistero che mette in gioco la stressa trascendenza del linguaggio.
5. Esse et Deus convertuntur? Retrospettiva metafisica del Cristianesimo
Esse et Deus convertuntur vuol sintetizzare la memoria di un percorso filosofico e teologico che ha caratterizzato una tradizione, quella della grande sintesi di fede e ragione, il monumento del Medioevo. Nostro compito sarà quello di indagarne i nodi teoretici e problematici in modo tale da individuare le linee di demarcazione grazie a cui operare un’ermeneutica rovesciata e procedere ad una rilettura della metafisica sui guadagni del Cristianesimo.
Al fine di esplicitare una tale ricognizione ci sembra opportuno citare un’opera già disponibile in traduzione italiana scritta da un esegeta, André La coque e da un filosofo Paul Ricœur, Come pensa la bibbia, il cui originale inglese, Thinking biblically suona di fatto come pensare sulla scorta della Bibbia. Fra i molti meriti dell’opera vi è senza dubbio quello di ricostruire in sede teoretica la cosiddetta metafisica dell’Esodo. Cercheremo di ripercorrere le linee fondamentali offerte dai due pensatori.
L’esegesi di Lacoque ci introduce in un contesto sia biblico sia extra-biblico, specie egizio, in cui ricorre il nome Jhwh; questo sarebbe in particolare quello dei madianiti, di cui la memoria collettiva di Israele ricorderebbe un culto, ma ciò non toglie l’originalità della Rivelazione fatta a Mosè, sulla base di cui andrebbe spiegata la richiesta da parte del patriarca del Nome di Dio. Su questo punto l’esegeta canadese rievoca i culti del vicino oriente, nei quali il nome esprime la potenza numinosa che proprio attraverso il nome viene comunicata. Mosè, chiedendo il nome, potrebbe benissimo avere l’intento di impossessarsi della forza di Dio come scudo di difesa nel paese d’Egitto. Egli intende conoscere il segreto del nome, o il suo significato (Maimonide).
Dio si rivela a Mosé, tuttavia, come il Tu a cui ci si può risolvere, nella preghiera, al vocativo, ma non accetta la sua degradazione ad idolo, dunque ehjeh asher ehjeh, il nome con cui Dio si presenta vuol essere un impegno di apertura al futuro del e con il popolo, come già nota la traduzione tedesca di Martin Buber ich erweise mich, als der ich mich erweisen, werde, mi mostrerò in quanto mi mostrerò, o meglio, sono in quanto mi mostrerò. La radice del verbo hjh tende a rappresentare un’azione dinamica, e dunque dovrebbe tradursi con accadere, evenire e, da un punto di vista filosofico implica una libera decisione della Revelatio ex parte Dei, un Dio che è puro volere, libero dal suo stesso fondamento.43
Come dunque i LXX sono arrivati a tradurre ehje asher ehje con egó eimi ho ón in greco? E in latino ego sum qui sum? Inizia qui il rapporto intenso e complesso fra Dio ed essere che intesse tutta una tradizione da Tommaso d’Aquino a Kant. Di fatto la traduzione reca, come sostiene Paul Ricœur il contrassegno di una lotta fra Atene e Gerusalemme.44 Un contributo importante è quello di Filone di Alessandria il quale, attestandosi sulla linea del platonismo, evoca Dio ricorrendo alla formula ho ón, con un articolo maschile per contrassegnare il carattere personale e distinguerlo dai falsi dei, così che egli intende separare ciò che è da ciò che non è, l’essere reale da quello opinato. Tuttavia, poiché nessun nome proprio può evocare Dio, in realtà Egli stesso rivela a Mosé non il proprio nome ma l’esistente.45 Dunque è come se Egli dicesse la mia natura è di essere non di essere detta.
In ogni caso, all’avviso di Ricœur l’acclimatazione culturale è stata operata da un collegamento, almeno sul lessico dell’essere46 dal Nuovo Testamento, specie l’Evangelo di Giovanni e l’Apocalisse, cominciare dalla formula ricorrente ben cinque volte Colui che è, che era, che viene. Tuttavia, sull’orizzonte di Gerusalemme veniva a radicarsi quell’éinai greco di cui già Aristotele riconosceva la pluralità del dire, così il rapporto fra Rivelazione ed ermeneutica è scandita proprio su questo discrimine dell’éinai e dell’esse rispetto al Tetragramma. Questo, però, dice ancora una volta della plurivocità, ma come già si è ribadito quest’ultimo è una sorta di performativo divino che implica l’accreditamento dell’autorità del profeta che lo pronuncia, e d’altra parte un’inziativa assolutamente gratuita del Deus loquens persona, che non sembra essere implicato né nell’éinai, né tanto meno nell’esse. Una prova ne è il fatto che nessun Padre, né tanto meno i grandi scolastici hanno pensato di consegnare mediante il codice ontologico l’essenza ed il mistero divino alla ragione umana completamente. E se, nel linguaggio ricorre l’espressione che l’essere è il nome proprio di Dio, subito si afferma anche che l’essere è indefinibile, Per questo motivo si potrà contrassegnare la riflessione sull’esse riferita a Dio come una mediazione ermeneutica e culturale, ove l’analogia si esplica secondo il sensus eminentior, come purificazione stessa degli attributi più sublimi, e, ciò nonostante, la via analogica non può che incontrare quella apofatica.
Se le cose stanno così, si può concludere che Esse et Deus non convertuntur, sebbene la tradizione teologica, nella persona di Agostino abbia individuato una meravigliosa consonantia tanto da legittimare l’uso dei termini filosofia cristiana e metafisica biblica.
Crediamo che vi si invece la possibilità che il Cristianesimo offra una retrospettiva sulla metafisica capace di far risaltare fecondamene le divergenze. Se, infatti, lo stesso Agostino, ha recuperato un sostrato metafisico alla Rivelazione, grazie alla sua opera di traduzione di Plotino, così che l’uno sia divenuto l’unum necessarium, è opportuno individuare invece una decisiva divaricazione.
L’Uno di Plotino, attraverso le sue processioni sembra evidenziare una partecipazione degradata della sua generosa pienezza, laddove l’unità divina che contrassegna il Mistero Cristiano, essendo una Tri-unità, denota una reciproca partecipazione delle divine persone in una Comunione supersostanziale, chiamata anche pericoresi. Quindi più che di partecipazione degradata secondo la pro-hódosis plotiniana dovremmo parlare di donazione fra le persone divine, quasi si tratti dun processo intra-kenotico che non cessa di mostrare la fecondità della Vita divina. Da questo punto di vista potremo evincere che la vita intratrinitaria, che è all’apice della Rivelazione cristiana è un procedere di notitia-veritas-amor per usare la terminologia agostiniana, ove la notitia (conoscenza) è il donarsi delle divine persone convergente nella veritas (Verità) della Rivelazione mediante il Verbo, che comunica nella stessa creazione l’amor (lo stesso Amore che costituisce il Mistero di Dio nel suo compiacersi della creazione attraverso il Verbo). Se però si tratta di una communio personarum divinarum si deve escludere tanto una partecipazione degradata, quanto una gerarchia intradivina; inoltre si dovrà contemplare nell’economia trinitaria la categoria dell’Incarnazione, nella quale la natura divina e quella umana sono ipostatizzate in persona Christi. Nel momento incarnativo Dio rimane nella sua natura divina, senza modificazione alcuna, pur assumendo ciò che non ha, ovvero l’umanità. Proprio per questo motivo, ha osservato il filosofo contemporaneo Jean Louis Chretien, se Dio è il Bene sovrasostanziale Egli dona ciò che non ha, intendendo con questo la partecipazione alla gloria della Sua vita divina all’uomo nello svuotamento e nella kenosis.47 Sulla base di questa preziosa istanza, Chretien conclude che
Dio prende per sé e su di sé ciò che non aveva e non era — essendo questa assunzione il nocciolo stesso della fede cristiana.48
Laddove
l’Uno non è uscito da se stesso, restando nel suo eremitaggio, e niente si è aggiunto a lui, perché non si aggiunge al numero degli enti.49
Se la processione dice l’impassibilità dell’Uno e la sua immutabilità, l’assunzione della carne d parte di Dio dice che Egli è impassibilis sed non incompassibilis, come recita la formula di Duns Scoto, nulla, in altre parole, muta la Sua natura, ma Egli è capace di prender su di sé, di patire la dissomiglianza, di cum-patire. Tale eccedenza, come ben sottolinea Chretien, contribuisce ad una cristianizzazione retrospettiva del pensiero neoplatonico come risposta all’influenza del pensiero plotiniano su molti teologi cristiani.50
Questa idea, per altro, si sta mostrando feconda a livello fenomenologico per lo sviluppo di un pensiero della donazione in sede fenomenologica che rinnova la stessa metafisica nel senso di un mistero ontologico e attraverso il pensiero stesso del dono permette di ripensarla in termini di filosofia prima confinanti con le istanze levinassiana.
Chretien recupera, per suffragare questa ipotesi la stessa liturgia cristiana, specie la Liturgia delle Ore del primo giorno dell’Anno, rispettivamente l’Antifona I dei Vespri dell’ottava di Natale,51 la quale non fa che ribadire tale concetto:
Creator generis umani, animatum corpus sumens, de Virgine nasci dignatus est et largitus est nobis sua Deitatem.
Tuttavia l’idea si trova ancor meglio formulata nell’Antifona delle lodi, che recita:
Deus homo factus est; quod fuit permansit, et quod non erat assumpsit.
In tal senso va corretta la stessa formulazione del bonum diffusivum sui tipico del pensiero medievale, dato che forse risentiva dell’influenza di quella che si può definire una sorta di enologia negativa che non può essere assolutamente identificata con la kenosis del Verbo di Dio che entra nella notte del mondo, si consuma nel silenzio e si dona svuotandosi per arricchire. Così il mistero kenotico è situato, per così dire oltre la stessa categoria del Dio trascendente, dato che davvero Dio tra-scende la Sua stessa trascendenza pur suscitando la sete ontologica della ragione, ma rinnovandola nel senso di una pura estasi che la ferisce, di un desiderio di Bellezza.
6. Conclusione
La metafisica è un destino proprio perché il suo vertice è il desiderio ed il sapere che su di essa si sviluppa non può che evidenziare il passo al di là della stessa ragione, sbilanciata e solo in tal modo in armonia con se stessa. Non è, infatti, l’oggettività di ogni determinazione, a renderla paga di sé, e come Kant insegna, dire essere non è che dire la mera posizione di una cosa.
Pensare è cercare la fonte segreta dell’inizio e fiutarne tracce lontane, già state pur nel loro av-venire, tenebrose pur nella luce chiara del loro rivelarsi.
Così l’affinità elettiva che si esplica fra metafisica e mistica sembra ancor più evidente: anche la metafisica è un vedere di spalle un evento, sostare sul limite della terra promessa senza entrare, pur segnando un percorso prezioso. Ecco perché risuonano preziose le parole di Paul Ricœur quando evidenzia che nel pensiero ne va sempre di un’unità analogica del nostro agire che ne fa un’opera aperta, contrassegnata dall’infinito sforzo d’esistenza che non può non urgere al sapere la domanda sul bene.
Una grande metafora, si diceva, nella quale ciò che viene significato è oltre il detto e costituisce il più grande valore, nella quale il silenzio del non più dire sottende la potenza della ragione e la sua sempre possibile libertà per il bene. Forse per questo potremo davvero dire che essa non può che essere ossimorica, che ogni espressione è un invocare ed un ad-tendere ubi albescit veritas.
Per questo motivo vorremmo concludere questo excursus sulla metafisica con una pro-vocazione lirica, intendendo per pro-vocazione un convocare oltre, nell’attesa e nel raccoglimento il pensiero stesso, citando i versi limpidissimi di Paul Celan:
Tu che mi precedi nel passato tu davanti a me nel nulla di una notte tu incontrato nell’ancora notte tu ancora tu.
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La nuova interpretazione di Platone, un dialogo fra H.G. Gadamer e la scuola di Tubinga-Milano, a cura di G. Girgenti, Rusconi, Milano 1998. ↩︎
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R. Guardini, Gesammelte Schriften, trad. it di V. Minelli Meneghetti, in Opera omnia, vol. XVI, a cura di O. Brino con introduzione di E. Berti, Socrate e Platone, Morcelliana, Brescia 2006, p. 418. ↩︎
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Su questo si può certamente confrontare la suggestiva interpretazione di V. Melchiorre in Analogia ed analisi trascendentale, Mursia, Milano 1995, ma anche quella data da G. Ferretti, Ontologia e teologia in Kant, Rosenberg & Sellier, Torino 1996, in cui si può evidenziare l’istanza di un recupero della metafisica tanto in senso critico quanto in senso del desiderio più autentico del pensiero che si trova fra l’estasi del suo limite e l’eccedenza del valore che lo colpisce. Da questo punto di vista ci sembra che l’axiologia sottesa in queste due analisi recuperi l’istanza dell’agathon di cui parla Platone e che cercheremo di esaminare a partire dall’eros. ↩︎
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G. Reale, C. Sini, Agostino e la scrittura dell’interiorità, a cura di M. Finazzer Flory, Paoline, Cinisello Balsamo 2006, p. 47. ↩︎
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Su questo tema riteniamo imprescindibile il libro di G. Krüger, Einsicht und Leidenschaft, trad. it. di E. Peroli, nota introduttiva di G. Reale, Ragione e passione. L’essenza del pensiero platonico, Vita e Pensiero, 2ª ed. Milano 1996. Il tedesco Einsicht, tradotto con ragione, indica, per essere fedeli al suo etimo, la stessa intuizione, in quanto il prefisso ein- indica sempre l’idea dell’interiorità, laddove Sicht è invece il sostantivo del verbo sehen, che traduce l’italiano vedere. Se dunque la ragione è una visione interiore, essa non può che implicare l’idea di una forza sovrarazionale che la orienta. Essa può sicuramente essere, da un lato la passione in quanto percorso erotico, mentre dall’altro la luce della verità (alétheia) che ne rivela la sua natura, per così dire, trascendente. ↩︎
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Ivi, p. 61. ↩︎
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V. Melchiorre, Metacritica dell’Eros, Vita e pensiero, Milano 1987, p. 72. ↩︎
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G. Krüger, trad. it. cit., p. 152. ↩︎
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Melchiorre, op. cit., pp. 69-70. ↩︎
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R. Guardini, op. cit., p. 375. ↩︎
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Su questo rinviamo ad una notevole opera di M.B. Zorzi, Desiderio della Bellezza, Studia Anselmiana Roma 2007. L’autrice compie un itinerario di tipo chiastico per poter individuare la complessità del prisma kerygmatico all’incontro con il mondo greco rendendo ragione di una rifrazione che, se pur contrassegnata da possibili assorbimenti, non è tuttavia scevra da implosioni, deviazioni, contraddizioni. Tuttavia, proprio qui si trova la possibile fecondità di un pensiero che, interpolando dialogicamente due tradizioni, ne sottende la dialettica di luci ed ombre e la straordinaria complessità ermeneutica. ↩︎
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Per ulteriori approfondimenti rinviamo al già citato testo di M.B. Zorzi, specie nella seconda parte. ↩︎
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L’idea dell’apátheia come dono del Risorto non è estranea alla tradizione della Chiesa delle origini. Come si può leggere in un antichissimo preconio pasquale dell’Anonimo Quartodecimano: «Dalla [sua] passione la [nostra] impassibilità». Si veda, per ulteriori approfondimenti, I più antichi testi Pasquali della Chiesa, a cura di R. Cantalemessa, Edizioni Liturgiche, Roma 1972. ↩︎
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È questa la tesi sposata nel suo lavoro da M.B. Zorzi, che per altro si può a nostro avviso legittimamente riscontrare nei racconti della Passione di Giovanni. Tuttavia questa stessa tesi ha un’eco notevole presso uno dei più insigni teologi della tradizione cattolica contemporanea, H.U. von Balthasar, il quale non separa mai una theologia crucis da una theologia gloriae, come si può ravvisare in Theologie der drei Tage, trad. it a cura di G. Ruggieri, Teologia dei tre giorni, Queriniana, Brescia 1990. ↩︎
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Si provi a pensare a quella che É. Gilson ha individuato come metafisica dell’Esodo e che corrisponde all’ermeneutica del celebre passo di Es. 3,14 che ampi dibattiti ha suscitato e sta suscitando nell’ambito del dialogo fra filosofia e teologia. Su questo si tornerà ampiamente nel corpo del testo. Per ora basti rinviare A. Lacoque, P. Ricœur, Thinking biblically, trad. it. di F. Bassani, Come pensa la Bibbia, Paideia, Brescia 2002. ↩︎
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Per questo motivo occorre talora dissentire dalla critica della filosofia contemporanea all’ontoteologia come estensibile a tutta la filosofia medievale, fortemente impegnata nel dialogo con la teologia. ↩︎
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Summa Theol., I, q. 29, a. 4. ↩︎
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Rimandiamo alle suggestive e pregnanti riflessioni di Massimo Cacciari, nel suo Della cosa ultima, Adelphi, Milano 2004, specie le pp. 331 ss. ↩︎
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De ver., q. 22, a. 2. ↩︎
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Un’ottima chiosa al pensiero di Tommaso e al suo rapporto con la metafisica si può trovare in H.U. von Balthasar, Herrlichkeit, trad. it. di G. Sommavilla, Gloria. Un’estetica teologica, vol. 4, Nello spazio della metafisica, Jaca Book, Milano 1975, pp. 355 ss. ↩︎
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Von Balthasar, op .cit., p. 362. ↩︎
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Ivi, p. 364. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Platone, Filebo,in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1991, p. 474. ↩︎
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J. Derrida, L’ospitalità, Baldini e Castoldi, Milano 2000, p. 40. ↩︎
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H.U. von Balthasar, op. cit., vol. 5, pp. 441-442. ↩︎
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Ivi, p. 455. ↩︎
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J. Greisch, Le cogito herméneutique, Vrin, Paris 2000, diffusa ampiamente in Italia da A. Cislaghi, Il sapere del desiderio. Libertà metafisica e saggezza etica, Cittadella, Assisi 2002. ↩︎
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J. Greisch, op. cit., p. 154. ↩︎
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A nostro avviso l’interpretazione risulta molto suggestiva e di gran lunga più pregnante rispetto a quella di una Gettatezza nella finitudine che recide ogni possibile trascendenza, sia pur come capacità umana di simboleggiare alla guisa di Cassirer. Rimandiamo ad ogni modo a J. Greisch, op. cit., pp. 191 ss. ↩︎
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È chiaro qui il nostro riferimento a Franz Rosenzweig e alla sua immortale Stella della Redenzione. ↩︎
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Ci riferiamo a Th. W. Adorno, Metaphysik. Begriff und Probleme, trad. it a cura di S. Petrucciani, Metafisica. Concetto e problemi, Einaudi, Torino 2006, specie la tredicesima e quattordicesima lezione. ↩︎
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Ivi, p. 124. ↩︎
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Ivi, p. 125. ↩︎
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Ibidem. Corsivi nostri. ↩︎
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Ivi, p. 126. ↩︎
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Ivi, p. 130. ↩︎
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Ivi, p. 132. ↩︎
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E. Levinas, Totalité et Infini, trad. it. di A. Dell’Asta, Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano 1980, p. 31. ↩︎
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Ivi, p. 32. ↩︎
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Ivi, p. 37. ↩︎
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Ivi, p. 305. ↩︎
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Ci riferiamo alle pp. 301ss dell’opera citata. Mentre, per un accostamento filosofico-teologico rimandiamo anche alle intense pagine delle lezioni di L. Pareyson raccolte da Francesco Tomatis e Gianni Vattimo nel volume Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995. ↩︎
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Ivi, p. 321. ↩︎
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Filone addiviene a questa conclusione attraverso fonti platoniche, quali il Timeo e la Lettera VII. Ricœur trova la cosa sorprendente; tuttavia, a ben vedere, nel primo testo c’è un passo che conduce a questa conclusione, ove Platone afferma che il Fattore e Padre di questo universo è molto difficile trovarlo ed impossibile parlane a tutti. Questo starebbe a significare il Mistero di Dio. Nel secondo scritto, ci sembra interessante per spiegare l’idea di Filone l’osservazione che Platone fa circa l’instabilità dei nomi, e la stessa instabilità della definizione. Quand’anche Dio rivelasse il suo nome, come potrebbe essere ascoltato e ripetuto dall’uomo nella povertà del suo linguaggio. In effetti consocerebbe la degradazione ad eidolon, il che si pone in dissonane con il divieto dell’ebraismo. ↩︎
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Penser, trad. it. cit., p. 328. ↩︎
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J.L. Chretien, La voix nue. Phénomenologie de la promesse, Editions du Minuit, Paris 1990, specie tutto il saggio Le Bien donne ce qu’il n’a pas, pp. 259-274. ↩︎
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Ivi, p. 269. Forniamo l’originale francese: «Dieu prend, pour soi et sur soi, ce qu’il n’avait pas et ce qu’il n’était pas — cette assomption étant le noyau même de la foi chretienne». ↩︎
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Ivi,p. 263. Il testo francese recita: «L’Un n’est pas sorti de soi-même — demeurant dans son hermitage — et rien ne s’est ajouté à lui, puisqu’il ne fait pas nombre avec les étants». ↩︎
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Ivi, p. 269. ↩︎
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Precisiamo che la citazione si riferisce al Breviario Romano. ↩︎