Via aesthetica. La messa in opera della verità

La nostra parola si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto Pensante può osare di pronunciare, perché Essa non fa altro che incoronare quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e del loro indissolubile rapporto.

H.U. von Balthasar, Gloria. Un’estetica teologica 1. La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1971.

Pensare la bellezza è la finalità che la filosofia non può eludere se, juxta propria natura, si occupa dell’inizio, se il suo aprire cammini nell’esserci è una chiave di decifrazione di un senso che non si esaurisce qui ed ora, e che, addirittura non si esaurisce nella possibilità di affermazione verbale, ma rinvia ad un silenzio, non già dell’indistinto ma della premeva forma dell’essere che, secondo la classica dottrina dei trascendentali procede per bellezza e verità e, in ultima analisi, riposa ipostaticamente sul Bonum.

Questo tentativo vuol recuperare altrimenti la protologia, ravvisando nella Bellezza l’origine, ma anche l’ultimità del mondo, quella luce della redenzione, secondo i Minima Moralia di Adorno sotto cui solo il mondo può apparire. Da questo punto di vista, la Bellezza è legittimamente una delle parole della filosofia, e forse proprio quest’ultima la salva dalla deriva di un commercium che ne fa la forma esangue e presto consunta di una hybris oggettivante, riportandola alla prima sua vocazione di compiutezza ma anche di armonia, così come di grazia, di grazia originale, e proprio perché originale ultima, escatologica.

Se nel carattere routinario dell’esserci la bellezza è passibile, paradossalmente, di una deformazione nella maschera della parvenza, non così è per la filosofia. Qui la bellezza è lo splendor formae, l’identità gratuitamente ricevuta dell’esistenza che attiene alla sua possibilità più propria. Essa è testimone dell’invisibile, non tradito per i sensi, come afferma Massimo Cacciari,1 o, meglio, dell’invisibile che rende pregnante di mistero il sensibile, che non lo contraddice, ma ne esprime l’al di dentro.

Assolutamente non necessaria, in quanto prima e autentica espressione di grazia, la bellezza è paradossalmente quanto di più essenziale all’uomo vi possa essere:

Truth is Beauty and Beauty is Truth. That’s all you know on earth and that’s all you need to know2

scrive John Keats nella bellissima lirica Ode on a Grecian Urn sottolineando il bisogno umano, ma anche tutta la pienezza di questa sapienza. Quasi a dire che la bellezza detiene un’istanza gnoseologica, il che non sembra molto lontano dall’istanza platonica della contemplazione dell’eidos del mondo sensibile secondo l’imago intellectualis, o da quella che ravvisa nelle forme simboliche la tensione verso l’invisibile, così che la conoscenza è la capacità di partecipazione al suo evento, la co-nascita (per tradurre il senso letterale del termine francese co-naissance).

Così la bellezza assume un contrassegno ontologico del quale vogliamo servirci per tentare di ripensare la Stimmung fondamentale della filosofia e anche il suo compito etico. Un’esigenza che si fa più cogente soprattutto ora, nel secolo che ha vissuto e vive il dramma dell’estremo, della possibile capacità di distruzione che forse dovremo meglio definire antigenesi. Forse la bellezza è un altro modo dato alla filosofia per fare memoria e per pensare una leggerezza che non è evasione quanto possibilità effettiva di elaborazione, trasfigurazione e promessa di un novum che è origine in quanto capacità rigenerante ma anche capacità di essere rigenerati, riedificata creaturalità.

Accanto ad una teologia della bellezza, così preziosa teoreticamente, tentiamo un’ontologia della bellezza che tenga insieme la severa lezione heideggeriana e, ad un tempo, quella luminosa e leggera di un’ermeneutica che ravvisa nell’essere l’incontro con la Bellezza vivente, che è Verità.

1. Ripensare la Bellezza

La Bellezza ha il potere di attrarre e chiamare all’altrove, evoca il pensiero così che la domanda originaria, quella di origine metafisica che si chiede dell’essere, del perché dell’essere rispetto al nulla, trova nella pienezza eccedente della manifestazione della Bellezza la possibile e sempre nuova risposta di un rivelarsi che è pura generosità di essere, in-fondato inizio perché esplicato nella libertà originaria di una de-cisione. In tal senso la Bellezza è un grembo sempre fecondo, immagine della compiutezza originale verso cui la ricerca si snoda.

Tuttavia, il pensiero filosofico non può che intenzionarla e anticiparla simbolicamente nell’idea di un intero che non può risolversi nella totalità del reale, l’omnitudo realitatis del mondo a portata di mano, ma che dice invece di un senso capace di tenere insieme ogni esperienza, di rinviare continuamente in simboli questa Unità oltre la sostanza che, in quanto inizio è capace di darsi come relazione di pulchrum-verum-bonum nel diversum. Riprendiamo, qui, la dottrina classica dei trascendentali dell’essere per evidenziare una possibile metafisica da riformulare nella bellezza, dopo il dibattito circa il lungo addio della metafisica, che, è pur sempre, secondo la suggestiva interpretazione di Heidegger, un destino.

Non si può, da questo punto di vista superare la metafisica, o per meglio dire si deve ripensarla con una grammatica differente che non la coniughi più nella semplice presenza, ma nell’ambito di un desiderio possibile, di un etero-topos, più che di un a-topo, e forse la categoria della bellezza può venire in soccorso, perché già presente ma altrimenti, già coglibile ma non nella determinazione oggettuale, quanto invece in un evento che sposta il senso del mondo al di là del dicibile. Nella bellezza il carattere di grande metafora della metafisica si coniuga a quello di una dia-ferenza, nel senso di uno spostare altrove un senso già dato nella gratuità. Ed è forse questo il ruolo del mito, la verità filosofica che quest’ultimo afferma all’alba del pensiero stesso: non è possibile che il pensiero possa accontentarsi, che non voglia e debba spingersi oltre insonnemente e vegliare in lotta con l’indicibile.

Illuminante questa pagina kantiana:

Platone vide molto bene che la nostra capacità conoscitiva sente un bisogno assai più alto che, che semplicemente di compitare apparenze secondo un’unità sintetica, per poterle leggere come esperienza; e notò benissimo che la nostra ragione si innalza per propria natura verso conoscenze, le quali procedono troppo oltre, perché sia mai possibile ad un qualsiasi oggetto, che possa essere dato dall’esperienza, di corrispondere ad esse, e le quali nondimeno hanno una loro realtà e non sono affatto semplici chimere.3

L’idea di una conoscenza fruitiva, che possa essere diversamente coniugata attraversa come un fil rouge tutta la tradizione filosofica; questo implica per altro una diversa modalità di incontro con la verità che si lega ad un’esperienza di interezza e pienezza non definibile categorialmente (e, in effetti, anche nel pensiero kantiano l’uso puro delle categorie è riservato al mondo noumenico) ma non per questo meno reale. La bellezza può, allora, offrire questo paradigma altro in quanto articolata su metafore e simboli, nonché sempre pronta a tradurre in una cifra di invisibile la realtà che si offre. Essa dona, a nostro avviso, un radicamento metafisico alla fenomenologia, in quanto rinvia ad un senso più alto la stessa esperienza, rendendole manifesto che non può esaurirsi nel disponibile e manipolabile.

Ci si deve chiedere, dunque, quanto l’arte sia capace di continuare a svelare alla filosofia il suo compito euristico ed ermeneutico. Quello euristico sta nell’individuare nella bellezza la possibilità di leggere il mondo sub specie libertatis, mentre quello ermeneutico permette di ravvisare nell’epifania del bello la condizione di un’esistenza liberata e riconciliata, così che l’esperienza del bello diviene la condizione di possibilità di dialogo con la verità, nello stupore di afferrare il gioco gratuito della creazione. Da questo punto di vista il suo valore teoretico si esplica nella discontinuità del mondo che essa rivela in rapporto con l’omnitudo realitatis disponibile nella presenza. Donde l’idea di una radice divina della bellezza, o forse di Dio come fonte della bellezza.

Tuttavia, come sottolinea Kant, si tratta di una conoscenza che procede troppo oltre, ragione per la quale la bellezza sancisce il nostro carattere anceps, dove la finitudine ci riporta al qui ed ora dell’esserci, ma l’infinito che scandisce questo oltre nell’inquietudine della nostra ricerca rivela che altro ed altrove è il nostro dimorare la terra. Per questo come scrive Hölderlin, poeticamente ma pieno di merito abita l’uomo. Tale abitare poetico non è forse ciò che permette di donare ciò che resta, non certo come avanzo ma in quanto essenziale, l’essenziale dell’eccedenza che permette la percezione dell’essere come grazia.

Qui, tuttavia, abbiamo compiuto un passo che si dovrà meglio esplicitare, operando una connessione fra bellezza e poesis e l’esplicitazione può avvenire sulla base del fatto che l’evento creativo del chiamare in vita attiene alla radice di kalos, bello e di questo compito infinito partecipa la parola poetica, capace, appunto di istituire/donare quanto resta, ovvero quanto eccede il pensiero e lo richiama a una conversione che è, al contempo, attenzione verso l’inedito ed immemoriale. La parola poetica dunque può dire il mistero ontologico della bellezza.

Il nesso ontologia-poesia è prezioso per dire l’altrettanto ineludibile connessione fra esse e pulchritudo, che pure può essere hic et nunc intenzionato in virtù della natura ancipite del nostro pensare.

Ciò che occorre, a nostro avviso, sottolineare è l’istanza gnoseologica della bellezza e, di conseguenza, della poesis che di questa pulchritudine è la forma più raffinata. La questione fondamentale è l’accezione che dovrebbe, in ultima analisi, assumere il termine conoscenza. Se la si vuole considerare secondo l’istanza epistemologica, fondativi, sulla base della necessità, certamente non la si può ordinare alla bellezza; se — al contrario — vi si voglia ravvisare un’istanza partecipativa e fruitiva, allora non si può escludere la radice conoscitiva. La distinzione fatta dalla filosofia medievale circa la conoscenza per connaturalità affettiva sembra assolutamente riecheggiare questa idea. Non si tratta, certo, di una gnoseologia epistemica, e pur tuttavia, partecipando all’evento dell’essere, essa in-stituisce un altro modo di lettura del mondo, una sorta di metaforologia, di cui la bellezza è principio euristico.

Asserire questo implica per altro, assumere la bellezza come principio ontologico e come possibilità di rivelazione della verità. Essa è, in tal senso, istanza fenomenologica, ben radicata nell’evento di donazione, in modo tale da non poter ridursi a parvenza (Schein), ma da ostendersi come portata intenzionale dell’essere che è sempre manifestazione.

Una digressione merita, tuttavia, anche il termine estetica, che si attribuisce, solitamente, a tutto ciò che attiene alla bellezza in quanto oggetto di indagine filosofica. L’etimo di estetica, aisthesis è sostanzialmente legato alla percezione, in quanto traduce sentire, e non è un caso che la metafisica settecentesca di Baumgarten abbia denominato estetica la dottrina della percezione. A nostro avviso ciò non costituisce affatto una diminuzione, o anche un tentativo di relegare la bellezza all’infimo gradino della filosofia, quasi una sorta di matrice doxastica delle cose dove la verità a malapena lumeggia; infatti se ne può dare una lettura fenomenologica che recupererebbe diversamente la sua intentio metafisica.

Se, infatti, pensiamo la percezione (percipi) come il sentimento fondamentale dell’essere, assumendo il paradigma rosminiano, possiamo facilmente arguire che la percezione (aisthesis) non si dà senza una radice ontologica. Tuttavia, ci sembra necessario sottolineare che, in tal caso, l’idea dell’essere come origine attuale di ogni altra idea, non si esplica in quanto universale astratto, povero di determinazioni perché ipostasi di ricezione di ogni determinazione; essa si dà bensì in una condizione di ek-sistenza incarnata, in modo tale che la sua trasparenza si sostanzia nella vita4 . Se così stanno le cose, risulta chiara la connessione fra l’essere e la vita. Questo implica, perciò, che l’essere assuma una connotazione affettiva, sia per l’appunto, sentimento fondamentale.

E, tuttavia, come vi entra la bellezza? Essa ha un ruolo importante in quanto la Grundstimmung apre all’esistente un orizzonte di trascendenza che lo rende consapevole della non risolvibilità nell’hic et nunc ma lo rinvia a una pienezza intuita nella quale la verità raggiunge il climax della sua epifania, facendosi incontro e vocazione. Tale evento in cui si esplica il kairós della trasparenza della vita al sé, ha la forma della bellezza, così che essa non può che avere un carattere definitivo, escatologico, potremmo dire pur nella finitudine dell’ek-sistente.

Possiamo parlare di un’esperienza fruitiva in cui il mondo e il sé si manifestano fuori dalla catena della necessità, nella loro finalità di grazia, facendo si che si giunga a una sintesi nell’istante rivelativo in cui il mondo, il sé, la vita, Dio stesso si rinviano l’un l’altro in un gioco di verità e bellezza. Non si deve, tuttavia, pensare che questa esperienza, possa e voglia escludere la speculazione filosofica a favore di una confusa sofisticheria mistica. Anzi essa è pregna di filosofia, rinviando allo stupore dell’inizio, all’iniziazione stessa al pensiero nella meraviglia che custodisce la domanda dell’essere, alla passione per la verità che si traduce in un commercium fra sophia ed eros come insegna Platone.

Nel Simposio si trova una sezione dedicata al dialogo fra Socrate e la sacerdotessa Diotima di Mantinea, nella quale si evidenzia la connessione fra eros, bellezza e filosofia. Vale la pena riportare il testo:

[…] La sapienza è una delle cose più belle ed Eros è amore per il bello. Perciò è necessario che Eros sia filosofo, e, in quanto filosofo, che sia intermedio fra il sapiente e l’ignorante. E causa di questo è la sua nascita: infatti, ha il padre sapiente pieno di risorse e la madre non sapiente priva di risorse.5

Secondo le mirabili espressioni della sacerdotessa Diotima la bellezza conduce alla sapienza mediante eros, che assurge qui a principio divino di iniziazione al pensiero. Cogliendo la metafora, possiamo assolutamente arguire come la genesi della filosofia è implicata con l’idea fondamentale che la radice stessa dell’essere sia bellezza e amore, forse anche per questo la sua dimora nel mondo traguarda sempre verso l’oltre, e la sua sosta è mendicanza e sovrabbondanza, se, nel tempo della povertà può annunciare l’evento della bellezza come mediazione dell’invisibile.6 D’altro canto la connessione fra l’eros come origine divina e la bellezza permette di identificare nella seconda un plesso ontologico che depone a favore della dottrina classica dei trascendentali ma che, a nostro avviso, la supera in quanto, da questo punto di vista, la bellezza non è solo una proprietà predicabile ma è la stessa condizione del darsi dell’esse in quanto ne fa risplendere l’aletheia. Se si ripensa in questo modo la concezione metafisica classica, si evince chiaramente che non sarebbe mai comunque possibile smarrire l’essere nell’ente manipolabile o obliarlo nella presentificazione dell’adequatio logica.

In altri termini si può dire che il positum dell’essere nella sua istanza tetica è propriamente la bellezza ed essa la si può intendere come e-videnza in sé prima. Per questo motivo la sua in-seitas è il telos dell’ek-sistere, inteso come aver da essere, così che essa assume una portata contemplativa di valore quasi religioso. Vorremmo, ora fissare l’attenzione sull’aver da essere, il quale non si coniuga sic et simpliciter in senso di una praxis, quanto proprio come istanza di filosofia prima che renda ragione della propria verità patica. L’aver da essere ricondotto alla soggettività umana sottolinea la tonalità emotiva con la quale si percepisce la propria esistenza come relazione ontologica fondamentale, che non può se non darsi nella bellezza, tenendo presente la sua semantica di essere chiamati. Da questo punto di vista è certamente possibile una metafisica esistenziale secondo la bellezza. Tale metafisica si coniuga, tuttavia, ad un’istanza fenomenologica che può essere ravvisata nel dato originario della bellezza che si offre come intuizione d’altrove (ta physika) a partire dall’ineludibilità dell’esser-ci quale finitudine e corporeità. Queste due ultime istanze, poi, contrassegnano la condizione privilegiata del metaphorein, così che la stessa esistenza ancorata al presupposto ontologico della bellezza diviene metafora stessa di questo evento epifanico.

Non si prescinde da una via analogica che traduce in simboli questa partecipazione alla bellezza coniugata secondo il paradigma della vocazione ontologica ancor prima che etica, in modo tale che la verità che si dà nella bellezza suscita una corrispondenza che è, al contempo, apertura all’essere. Possiamo in tal senso dare nome a quella Lichtung dell’essere di cui già parlava Heidegger e definirla attraverso la bellezza.

Illuminanti da questo punto di vista le riflessioni del fenomenologo Jean Louis Chretien che vede nella bellezza un’esperienza dell’origine, afferrata ex post, nell’afferrarsi come soggetto convocato e cor-rispondente al suo appello, testimone della manifestazione originale che, proprio in virtù di questo fatto, può essere significata per simboli, decifrata ed interpretata come misterioso commercium con l’altrove.

Recuperare la bellezza al pensiero filosofico, come si sta tentando di fare, implica, da un lato ritornare alle sue fonti originali per recuperarne la fecondità, ma dall’altro farne il principio euristico di una metafisica, di cui troppo spesso si è abusato, riducendo la sua riflessione sull’essere alla sistematica oggettivante delle sue determinazioni, e rendendola immobile ed indifferente alla storicità. Al contrario essa necessita di trovare una nuova koiné per poter nuovamente articolare le parole dell’origine in un orizzonte di senso che renda ragione della finitudine nonché del suo radicamento nel mistero che ne sostiene il cammino del qui ed ora.

2. Ridonare il linguaggio

Sembra dunque che la notizia più propria dell’Essere debba infine dispiegarsi appunto nello spazio espressivo della trasgressione, in quella sporgenza del dire che-almeno in apparenza e connettendo i lontani- trapassa dal proprio all’improprio.

V. Melchiorre, La via analogica, Vita e Pensiero, Milano 1996, p. 46.

Se è vero che la Bellezza è il climax di quanto l’intelletto può concepire e ad un tempo la parola più appropriata per nominare l’essere, è necessario che il linguaggio che la dice riveli la sua portata assoluta, pur articolandola nelle sue povere forme. Il passo citato di Melchiorre ci sembra pregnante perché sottolinea quanto quell’antica e sempre nuova connessione di essere e linguaggio debba passare per il rischio dell’apofasi, esserne segnata e ferita, in modo tale da tentare una tras-gressione, un passaggio verso l’altrove per cui la dicotomia fra l’impossibilità e la necessità del dire muti in una fecondità dell’espressione simbolica.

Dunque la metafora di cui si diceva è sua necessitate trasgressiva, non si accontenta dell’esprimere, ma vuole significare rinviando, vuole contenere la bellezza d’origine pur scoprendola assolutamente incontenibile. La povertà del linguaggio si radica nella sua capacità di eccedere e tale eccedenza implica la capacità di riattingere la fonte della bellezza come fonte generativa e sapienziale.

Forse per questo è essenziale il ricorso alla catacresi,7 per dire l’impossibile possibilità, insita nello stesso statuto del linguaggio di accennare e rivelare. Ma come negare che il contenuto stesso di tale rivelazione sia la bellezza come richiamo dell’origine sottesa al non-ancora?

Il linguaggio implica, da questo punto di vista, un esser parlati dalla bellezza originaria per cui solo è possibile dare consistenza espressiva e significativa alla parola.

La bellezza significata nella possibilità della parola si esplica come approssimazione tras-grediente, assurgendo ad unica indicazione di cui abbiamo bisogno.8

Essa configura il reale in stretta affinità con lo spirituale e, metaforicamente, significata ed accennata nel linguaggio essa dice altrimenti il reale, articolandolo nella nostalgia di una mancanza, quella mancanza per cui si intuisce quasi affettivamente l’esistenza dell’Assoluto.

Paradigma ineludibile della bellezza è, in tal modo, la leggerezza che vuole liberare ab intrinseco la stessa parola dalla funzione strumentale; in essa si anima l’inquietudine dell’Assoluto, così che essa diviene ethos, dimorare nella prossimità di quel primo chiamare dell’essere per cui il mondo viene in-stituito nella luce invisibile di quel richiamo presso cui ci si raccoglie, heideggerianamente. Se il linguaggio è Haus des Seins, se nel linguaggio l’essere si eventualizza nella differenza originaria, tutto questo è possibile in virtù della sua capacità evocatrice, che pure si sviluppa solo come ascolto di quel primo appellare.

Ci sembra altresì notevole questo mutamento di codice che si esplica sulla tensione fra visibile ed udibile. È pur vero che nella contemplazione del bello come eidos, la presa dello sguardo non assume la forma di una cattura oggettivante, essendo la bellezza lo stesso terminus in quo la propria ek-sistenza si origina, e tuttavia, assumere il paradigma acroamatico significa obbedire al compito di trovare una lingua che dica questa misteriosa convocazione. Forse per questo motivo la poesia detiene una preziosa e imprescindibile radice ontologica.

Su questa ontologia poetica si gioca per altro una radice gnoseologica che fa apparire il mondo, come sostiene Adorno nella luce della redenzione9 perché essa lo salva a partire da quella Geheimnis Wort, quella parola segreta che pronuncia nella bellezza il mistero stesso del mondo. Così afferma Novalis:

La misteriosa potenza del Canto ci viene a salutare quaggiù in innumerevoli metamorfosi.10

Quale potenza misteriosa può possedere il canto se non quella di una pregnanza ontologica, quella di contenere il pensiero germinale, il pensiero dell’inizio nel meriggio dell’essere che viene totalmente alla luce dal suo primo nascondimento. Il canto è latenza ed epifania dell’essere, così che non può che dirlo in infinite forme, innumerevoli metamorfosi. Esso dice l’essere nella bellezza.

Il riposo della creazione non è che la bellezza totalmente manifesta nel suo primo sorgere. Dio vide che ogni cosa era bella, ogni cosa vivente per la Sua Parola.

I poeti ci insegnano i sentieri non tracciati e le radure da dove il linguaggio trae la propria energheia, ci mostrano il luogo rivelativo della poesis, ed infine ad attendere ubi albescit veritas. Il loro tempo è quello dell’erranza, quello della povertà, ma da questo tempo si origina una grande ricchezza, quella della familiarità con il divino infinitamente significato nei simboli. Una perfetta euristica. Un’euristica così pregnante, tanto che Heidegger ritiene che la fonte della filosofia possa proprio ravvisarsi nella poesia. In essa, si può comprendere come non si sfugga al destino della metafisica, ma anche come sia possibile ripensare la metafisica accentuando il suffisso meta . Il linguaggio poetico è evocativo, ma proprio per questo è proteso all’altrove della bellezza come interezza di senso, rappresentando, ad un tempo, anche l’ipotesi di una mediazione per cui, come scrive Heidegger terrestri e celesti si corrispondono in una topologia dell’essere, in una vera e propria poetica dello spazio.

Nell’immortale saggio heideggeriano, Wozu Dichter, Perché i poeti contenuto in Sentieri Interrotti, l’insigne filosofo di Marburg asserisce in merito alla poesia di Hölderlin:

Il poeta pensa nella regione delimitata da quella illuminazione dell’essere che, in quanto dominio della metafisica occidentale autocompientesi, è giunta alla sua configurazione conclusiva. La poesia pensante (denkende Dichtung) di Hölderlin ha contribuito a determinare questo dominio del pensare poetante (dichtendes Denken) . Il suo poetare abita questa regione più familiarmente di qualsiasi altra poesia del suo tempo. La regione in cui Hölderlin è giunto è una rivelazione (Offenbarkeit) dell’essere che rientra nella struttura (Geschick) dell’essere stesso e che, in base a questa, è assegnata al poeta.11

La prima connessione importante è quella fra poesis e pensiero che, a nostro avviso dice altrimenti l’antichissima relazione fra logos e ed essere. Vi è, tuttavia, una differenza di fondo: la poesia pensa nell’apertura rivelativa del logos ed è essa stessa re-velatio. Dunque il suo darsi come habitus dell’uomo rinvia ad un’illuminazione, quella dell’essere che delinea una regione, un topos nel quale si compie la sua manifestazione. In ogni caso, essa si esplica in un rinvio storico, affidato al poeta. Tuttavia non è forse il carattere pensante della poesia da ravvisarsi nella bellezza. Di conseguenza, non è dunque la bellezza uno di quei predicati per cui risuona ancora immortale l’affermazione di Aristotele to on pollachos leghetai? Dove, secondo Heidegger, ricompie il dominio della metafisica occidentale è possibile che si possa ancora recuperare un diverso inizio per cui la metafisica è certamente un destino, Geschick^[12]direbbe Heidegger, ma il termine indica la modalità di un inviare storico, che attiene al Da-sein, al suo abitare poetico nella capacità di in-stituire ciò che resta. Ma che cosa resta davvero? Saremmo tentati di dire l’impensato, ciò che la metafisica sostanzialista ed oggettivante non può catturare senza commettere il più fondamentale oblio. Questo impensato, però, ha il carattere dell’evento del linguaggio, che non può non sentirsi con-vocato verso la regione di questa illuminazione. Se, tuttavia, si assume la bellezza nel significato dell’appello originario, essa non può che restare come compito nella poesia, un compito affidato ed assunto dal poeta. Così la bellezza può divenire ancora paradigma di una ontologia fondamentale.

Non è un caso che la koiné ermeneutica abbia assunto la teoria estetica come modello per ripensare l’altra vitale connessione, quella fra esse et verum, ravvisando nell’opera d’arte una messa in opera della verità esplicatesi nell’infinito gioco dell’essere, e forse dando un nuovo linguaggio alla bellezza. In ogni caso questo linguaggio nuovo affonda le proprie radici nella tradizione del pensiero che ci caratterizza in quanto dialogo vivente.

Questo è possibile per il fatto che la bellezza si pone come il poetare del pensiero, in questo senso come esperienza fondamentale del pensare. Se così stanno le cose, risulta del tutto chiaro il motivo per cui abbiamo ravvisato nella via aesthetica una vera e propria euristica.

Fondamentale in questo senso la riflessione pareysoniana contenuta in Estetica. Teoria della formatività:

L’estetica non è una parte della filosofia, ma la filosofia intera concentrata sui problemi della bellezza e dell’arte, e in secondo luogo le questioni concrete dell’estetica per il fatto di essere particolari non cessano affatto di essere filosofiche, e non la cedono in nulla, quanto a difficoltà, alle questioni più generali, impegnate come sono in una immediata e perentoria verificabilità delle soluzioni proposte. Piuttosto si può dire che l’estetica è un felice esempio del punto di incontro delle due vie della riflessione filosofica: la via all’insù che trae risultati universali dalla meditazione sull’esperienza concreta, e la via all’ingiù, che si serve di questi risultati per interpretare l’esperienza e risolverne i problemi.12

La convergenza delle due vie di cui Pareyson parla evidenzia che la filosofia in quanto theorein abita il mondo, ma essa è al contempo una sorta di segnavia che traguarda sulla condizione stessa di questo abitare e figurare il kosmos, per l’appunto l’estetica. Di conseguenza, l’estetica diviene un paradigma privilegiato per pensare la bellezza, per darle una configurazione filosofica. D’altra parte, poi, la filosofia si origina come senso di una riflessione sull’esperienza della vita tout court ed in tal modo la bellezza è una modalità per dare alla vita la forma filosofica. In tal senso, del tutto appropriatamente, Pareyson ritiene l’estetica una teoria della formatività.

In ogni caso la koiné della bellezza nell’ambito filosofico merita alcune precisazioni. L’ipotesi di lavoro da cui siamo partiti è senza dubbio quella della via classica ed ancor prima antiqua, che attiene alla bellezza in quanto trascendentale dell’essere. Non si può dimenticare però, quanto anche in epoca romantica prima, e, conseguentemente, in quel passaggio fra Otto e Novecento sancito da Nietzsche la bellezza sia stata assolutamente radicata nella filosofia. Questo implica un’ulteriore riflessione, da condurre proprio dialogando con Nietzsche, convogliando, di conseguenza, il nodo della bellezza in ambito ermeneutico. Il tragico e maestoso pensatore tedesco che più di ogni altro ha incarnato il dramma dell’incipiente secolo, recupera il tema della bellezza nell’ambito del tragico. Non la bellezza apollinea, dalle splendide forme che sono di per sé una correzione del tragico con il filosofico, rappresenta per Nietzsche una forma filosofica, quanto quella dionisiaca, capace di non dimenticare il tragico dell’esistenza, ma anzi di giustificare l’esistenza ed il mondo solo come fenomeni estetici,13 La bellezza è una modalità filosofica di non allontanare il dolore della vita ma di riscattarlo nelle sue forme, di riportare il soggetto ferito e smarrito (poiché il cogito non è che un diverso paradigma dell’affabulazione metafisica che corregge il tragico con il principio dell’evidenza) alla fonte della sua ek-sistenza che è progettualità e con-vocazione da parte della verità di cui ci si deve continuare a chiedere quanta misura possiamo sopportare. Essa stessa è attraversata dal dolore e ciò che contribuisce ulteriormente ad accentuare la tragedia è che la bellezza stessa ferisce e soggioga pur mentre libera. Essa non risolve la natura anceps dell’esistenza, ne fa esplodere invece tutto il grido facendola sostare sul crocevia fra la scelta dell’assunzione della sua vocazione e la disperazione della desolante chiusura. Nietzsche stesso, travolto dalla tragedia della morte di Dio e straziato dalla luce sinistra che promana da questo evento puntuale quanto pregno di orrore, non ha visto, pur anelandola fino al parossismo, la dolorosa bellezza del Crocifisso, segno incontrovertibile dell’ombra e della kenosis nella stessa Bellezza divina, per cui il tutto buono-bello della Genesi non si dà se non in quell’atto estremo della consegna di Dio.

Ma il pensiero di Nietzsche è prezioso ad una riflessione filosofica che voglia porsi come ermeneutica dell’esperienza religiosa a partire dalla bellezza; ci insegna a comprenderne tutta la pregnanza drammatica, ma anche a guardare la fenomenalità della terra sotto la luce della redenzione, invitandoci a traguardare, in quanto filosofi, sugli orizzonti della letteratura e della musica, a ritrovare enormi masse di vita filosofica nel pre- od extra- filosofico, così che essa cerchi ancora un linguaggio per dire il senso, il suo rapporto con la differenza, la sua attesa di Dio.

Così la nuova aurora del pensiero, così come il culminare del suo meriggio è intrisa di poesia; non si tratta di una teoresi acerba, che impiega la poetica perché ancora ai primi passi. Trattasi, bensì di un logos poetico giunto al suo culmine nel radicamento dentro il Mistero e quindi capace di stare nella vita per darle la forma, certo di un commercio con il mondo, ma pur sempre di un commercium che è via verso l’originaria bellezza, forse rinvio ad essa in virtù della viva metafora che ogni ek-sistenza è.

Da questo punto di vista, allora, non l’astrazione che immobilizza ogni conoscere, o almeno non solo essa è la lingua filosofica della bellezza che salva perché rinvia alla fonte invisibile dello spirito, quanto la poesia, capace di esprimere l’intrinseco trascendere e trascendersi del pensiero, di salvare le cose senza tradirle nella parvenza dei sensi, ma dando ai sensi il compito epifanico di manifestare la bellezza. Se la filosofia è definibile con Platone un’erotica e se il desiderio di sapienza è connaturale a quello di bellezza, allora la poetica che declina la bellezza nelle forme della creazione è sua natura ontologica, partecipa dell’essere evocandolo nella percezione della forma, che, in tal modo è rivelativa.

Illuminanti come conclusione questi versi di Paul Claudel tratti dalla terza delle sue grandi odi dal titolo Magnificat

Cos’è infatti il possesso e la gioia e la proprietà e l’ordinamento Dinanzi all’intelligenza del poeta che di molte cose insieme Fa una sola cosa con se stesso, Perché comprendere è come rifare La cosa che si è presa con sé.14

3. Figurare la soglia

Sintetizzare una filosofia della bellezza, tenendo presente la semantica del termine e la sua derivazione etimologica che implica un ricondurre all’origine, è possibile ricorrendo ad una configurazione imperniata su due parole: limite e mistero. Questi due termini ci sono preziosi in quanto configurano anche una topologia del pensiero che contribuisca a conferire alla teoresi una sorta di corporeità o forse di carnalità capaci di ripensare la sua episteme stessa.

Il limite, inteso qui nel senso di prossimità all’ulteriore, kantianamente nel senso di Grenze, configura la condizione esistenziale dell’uomo, la sua natura di viator la sua simbolicità. Non è un caso che nel pensiero ebraico, implicato con l’esegesi delle Scritture, specie quelle del Primo Testamento, il valde bonum del Genesi è ravvisato proprio nella finitezza della creazione, condizione privilegiata e spazio per l’accesso dialogico di e con Dio.15

In questo senso possiamo ricorrere al termine soglia, ancor più pregnante perché sottolinea, da un lato la discontinuità, forse la cesura; dall’altro la possibilità che un altro la abiti, un altro che enfatizza la cesura perché fa saltare la calcolabilità, con cui la ragione pretende di ricondurre tutto alla sua presa giustificatrice, ma, in ogni caso rivela anche l’origine e l’orientamento per cui i fenomeni appaiono originari e irriducibili, realmente meta-fisici e meta-etici.16

D’altro canto, con il termine mistero non si vuole tanto connotare religiosamente il pensare (anche se, almeno nella sua semantica, il termine dice di un legame con l’origine) quanto evidenziare che l’esercizio filosofico, come pratica spirituale non può che iniziare se non con la coscienza d’essere afferrati, feriti dalla nostalgia di un’origine mai tanto pregna ontologicamente quanto nel momento in cui si presenta con la connotazione di una rivelazione.

Non ha forse la bellezza questa connotazione misteriosa che invita allo stupore ed al silenzio per dar meglio forma alla parola filosofica?

In questo senso, inoltre, la filosofia non può recuperare alla ragione un’altra dimensione che la sottragga da quel suo conatus calcolante per restituirla alla sua dimensione di domanda, di sosta e di invocazione dell’indicibile?

Indubbiamente si tratta di una razionalità non paga di sé. Nel suo primo sorgere, essa sa già di non essere in patria, di abitare una terra altra; paradossalmente in questa alterità si dà la sua salus, nella consapevolezza di essere sostenuta da un fondo abissale e luminoso che la orienta con una gratuità generosa e indisponibile verso il futuro, pur mantenendo sempre in essa la memoria della sua provenienza. Tuttavia, il più sorprendente dei paradossi sta nel fatto che essa è come in patria dinanzi al manifestarsi della bellezza. Quasi la bellezza sia una cifra immemoriale che attesta la natura trascendente dell’uomo, il suo sentire che oltre il qui e l’ora c’è un’eccedenza di senso che custodisce la meraviglia e l’indicibile.

Da questo punto di vista possiamo, per un verso, accogliere quanto diceva Wittgenstein circa il fatto che il senso del mondo, del suo che, non del suo come è il mistico, tanto che l’indicibile e il non detto è l’importante; per un altro verso, tuttavia, la natura per così dire terapeutica della filosofia non sta tanto nel fatto che i limiti del linguaggio sono i limiti del mondo, così che il linguaggio filosofico debba strettamente perseguire un’emendazione da tutti quei fraintendimenti metafisici; essa consisterebbe, a nostro avviso, nella capacità della filosofia di stare dinanzi al Mistero, di custodirlo, (Wittgenstein stesso, in fondo, sosteneva che pregare implica pensare al senso della vita). Il Mistero è la tras-gressione della soglia, ma ad un tempo, anche ciò che meglio la configura come transito. Esso è lo spazio del non-dove, ma anche ciò che conferma la possibilità di irruzione della bellezza sull’al di qua, perché essa possa essere intravista sulla soglia. Il Mistero è l’unum necessarium del pensiero.

Se le cose stanno così, il compito infinito del pensiero è quello di figurare questa soglia come una tras-gressione che si giochi nei termini di un trascendere. In realta’, lo insegnava Bloch, l’eminente filosofo del Prinzip Hoffnung, denken heiât überschreiten17.

Pensare è superarsi, perché filosofare è essere nell’inquietudine.18 Tuttavia, figurare la soglia, evidenzia, altresì, che questa figura non può che essere scolpita nel Mistero; questo implica la necessità di un pensiero poetante di heideggeriana memoria, capace di evocare e chiamare all’esistenza il già da sempre eppure mai oggettivabile e consumabile. Ecco il suo tempo della povertà, ma anche il tempo dell’attesa e della coscienza di un’irruzione della bellezza, kairos capace di circondare e illuminare l’intero esser-ci.

La soglia ha un valore spazio-temporale in quanto dice di una terra che non ha dove, a cui ogni dove tende, in quanto destinazione della teoresi, ma anche di un’anteriorità escatologica, in un fecondo ossimoro che rinvia all’u-topia che il pensiero può intenzionare ed anticipare, ma solo in cenno.

Il carattere di questo pensiero tras-gressivo è ravvisabile nella figura biblica della terra promessa che Mosè intravede da lontano senza farvi ingresso; per altro le scritture bibliche sono piene di riferimenti a questo sostare e sporgersi pur restando nel qui ed ora, a questo figurare per astenersi poi da farsi immagini, così come si può vedere nelle narrazioni delle teofanie, dove Dio non appare che di spalle, non è udibile che in voce di sottile silenzio.

La soglia è mundus imaginalis o geografia dell’anima, tanto necessaria alla filosofia quanto le forme simboliche entro cui pensa la bellezza che la pro-voca al suo compito inesauribile di dialogo con la verità. Non è un caso che il pensiero utopico blochiano in cui la speranza è chiave euristica per un’ontologia del non-ancora si avvalga di una riflessione sulla bellezza e sull’arte. Siamo nell’ambito di un’estetica che recupera alla filosofia, attraverso l’immagine, l’ordine del desiderio, ed in esso il senso del suo tras-gredire. In altri termini, figurare la soglia è possibile in virtù di una luce interiore e proveniente d’altrove. Forse la teoresi può convergere su un’immagine in particolare, l’icona. Ancor prima di soffermarci su questo, tuttavia, ci sembra pregnante questo passaggio tratto dalla monumentale opera blochiano che così commenta la struttura del Paradiso di Dante Alighieri:

Mentre la geografia dantesca lascia penetrare nel Paradiso figure e forme concise del mondo reale-obiettivo solo come metafore e in ultima analisi come simboli di una lontanissima utopia spaziale. Di conseguenza la Divina Commedia trasforma la sua stessa architettura dei sette cieli della sfera delle stelle fisse nel mistero di desiderio di uno spazio dotato di profondità tanto interiore quanto ultramondana.19

Indubbiamente la Divina Commedia dantesca è strutturata secondo la tradizione metafisica simbolica tipica della teologia medievale tanto cristiana quanto arabeggiante, in tal senso essa va letta secondo l’ermeneutica simbolica ed allegorica. Questo tipo di struttura che consente alla poetica di Dante un’allure filosofica si può facilmente ricondurre ad una metafisica della luce la cui spazialità corrisponde in realtà al topos del desiderio che imprime nell’anima la sua forma di bellezza, confermandole la sua celeste origine. Tale profondità dell’anima che coniuga sapere e desiderio è altrettanto la parte più alta, l’apex mentis,20 soglia nella quale irrompe il mistero della grazia ed il kairos della creazione compiuta, dunque in essa si riflette un mistero di bellezza originale che è insieme mundus imaginalis nonché eternità già raggiunta, condizione di un dimorare nell’altrove, di cui la bellezza è manifestazione.

Si tratta di una filosofia del simbolo, la cui natura, ben lungi dall’essere calcolante evoca e richiama. Ben lungi dal caratterizzare l’infanzia del pensiero, essa ne denota, al contrario, la compiutezza che paradossalmente è ravvisabile proprio nel riconoscere di non poter essere in sé autosufficiente.

Certamente la rivisitazione blochiana della poetica dantesca dice di un’istanza ineludibile che ha da sempre attraversato la filosofia classica, quella secondo cui la poesia, cogliendo l’universale, manifesta ponderose masse di pensiero, iscritte fra l’allegoria, la metafora, i simboli. Tale pensiero poetante implica che non si può filosofare se non avvolti da questa prima manifestazione di bellezza che mette la stessa filosofia nell’attesa, del mistero e la pone sulla soglia, nella fedeltà al suo compito di annunciare un evento. Per questo motivo, oggi, essa è implicata con il linguaggio dell’arte, in quanto immagine del compimento; anche in tal caso, però, non possiamo non ricordare come l’idea di pulchritudo della filosofia classica sia caratterizzata dall’idea di integritas e consonantia, in ultima analisi dall’idea dell’armonia che richiama la compiutezza della forma bella.

Forse, allora, la via aesthetica assume, da un lato i tratti di un’ascetica, dall’altro quella di un’etica, dato che l’integritas e la consonantia disegnano anche il topos di una giustezza dell’anima che implica la giustizia di un sempre possibile ordo amoris nella civitas hominis. Anche per questo motivo la bellezza ha rappresentato la figura dell’ethos nel pensiero rinascimentale.

Se questo è vero, tuttavia, l’arte e la bellezza contribuiscono a plasmare un topos teoretico in cui l’eccedenza di senso si dice, irrompendo, nel qui e ora. Come afferma Remo Bodei nella bellissima introduzione all’edizione italiana del Principio Speranza:

L’opera d’arte, infatti, ancor prima di venire eseguita presuppone l’indeterminatezza di un esperimento della perfezione fantastico e più esatto possibile. Una volta realizzata, poi, si irradia in lontananza da essa un’eccedenza di senso che appare come una festa di possibilità eseguite […]. La musica specialmente dà voce all’enigma. Attraverso il suono, nel suo «non ancora» spazialmente insituabile, l’incognito dell’esistenza si lascia si lascia oscuramente intuire e l’inaudito si fa udibile. Per suo tramite si avverte appunto che qualcosa manca e almeno questa mancanza il suono la esprime chiaramente.21

Interessante è l’espressione esperimento della perfezione, che per altro non è affatto sconosciuta Bloch, considerando il titolo di un’altra celebre opera Experimentum mundi. Tuttavia crediamo si possa interpretare il termine experimentum anche nel senso di ciò che si esperisce, di cui si fa esperienza, che mette in gioco la propria intuizione e comprensione nel continuo commercium con la verità. Da questo punto di vista la stessa arte orientata al telos della bellezza è un leghein, un porre raccogliente22 di quanto si esperisce nell’intuizione, in un apax rivelativo dell’essere. Se così stanno le cose, l’arte è altresì figura di quell’eccedenza per cui la filosofia deve abitare la soglia, ma ad un tempo, essa, pur nel frammento figura quella libertà dall’oppressione e dalla morte che rappresenta il climax della creaturalità, il mistero del desiderio. Per questo motivo l’opera d’arte assume sempre una valenza di tipo religioso, sia pur implicito.23

Forse non è del tutto illegittimo assimilare a questo experimentum della perfezione la stessa arte dell’icona, essa stessa soglia e custodia del Mistero, essa stessa manifesta in effusione di luce che rinvia sempre ad un’epifania del divino. Le icone che campeggiano nelle izsbe russe, testimoni silenti della divina bellezza sono un’indicazione della Presenza d’altrove, della discesa della bellezza nel mondo per salvarlo, come scrive Dostoevskji.

L’icona dice altresì di una pneumatizzazione della creazione la quale avviene attraverso la Bellezza e viene nella Bellezza percepita.

Così afferma Pàvel Evdokimov:

Dostoevskij l’ha compreso bene: «Lo Spirito Santo — dice — è la percezione diretta della Bellezza», egli comunica lo splendore della Santita.24

Da questo punto di vista l’icona è approssimazione al Mistero trinitario, come attesta la bellissima opera di Rublev, nonché la finestra da cui l’eterno fa irruzione, una porta regale. Essa è quasi una sorta di sineddoche, in quanto la sua contemplazione rende immediatamente manifesta la bellezza e la sua verità. Anche per l’icona vale, in ogni caso, una chiave di lettura metaforica che, tuttavia, necessita anche di essere portata fino alla catacresi in virtù dell’eccedenza che figura. In questo senso riportiamo le puntuali e preziose riflessioni di Pavel Florenskij nel suo saggio sull’icona dal titolo Le porte regali:

L’icona è identica alla visione celeste e non lo è, è la linea che contorna la visione. La visione non è l’icona: essa è reale in se stessa; l’icona, che coincide nel contorno con l’immagine spirituale, è per la nostra coscienza questa immagine e fuori dell’immagine, senza di essa, a parte essa, in se stessa non è né immagine né icona, bensì una tavola. Così una finestra è una finestra in quanto attraverso ad essa si diffonde il dominio della luce e allora la stessa finestra che ci dà luce è luce, non è somigliante alla luce, non è collegata per un’associazione soggettiva a una nozione di luce soggettivamente escogitata, ma è la luce stessa nella sua identità ontologica […]. Perciò la finestra è luce o è legno o vetro, ma non sarà mai semplicemente una finestra. Così anche le icone — «visibili rappresentazioni di spettacoli misteriosi» secondo la formula di San Dionigi l’Areopagita. E l’icona è sempre più grande di se stessa, quando è una visione celeste o meno di se stessa se essa non apre a una coscienza il mondo soprannaturale.25

È del tutto evidente cogliere, qui, l’idea di uno spazio-tempo che configura una corrispondenza fra divino ed umano, un nesso ontologico ineludibile, che, tuttavia, non ricalca le orme della classica metafisica dell’essere. L’essere della bellezza, o meglio l’essere come bellezza che l’icona rap-presenta si esplica proprio come assolutamente altro, serbando la sua differenza ontologica, nonostante questo la sua bellezza interrompe la semplice presenza delle determinazioni ontologiche rivelando un’altra natura, il mistero silenzioso delle cose nella loro fenomenalità trasparente di questa prima ed originaria donazione ontologica.

Ed ecco figurata la soglia dove il desiderio si riconosce capace del Mistero, ma anche ove il Mistero necessita di questo orizzonte di senso per darsi in un’interrogazione/invocazione infinita, quasi che la bellezza apra una nuova istanza del bios theroetikos.

4. Simbolizzare l’invisibile

La poesia raduna tutto per una celeste partenza verso il cielo, possiamo dire, parafrasando Raissa Maritain, e questo implica la sua capacità di mediazione fra la soglia ed il mistero, ed in quanto portatrice di bellezza, essa si intuisce come una vera e propria metaxù che rende percettibile nel mondo l’invisibile intuito in un istante di rivelazione. All’origine dello stesso stupore pensante dell’uomo essa è vero e proprio sym-ballein . Non è un caso che, nella tradizione simbolista, ben incarnata da Arthur Rimbaud il poeta venga definito voyant, il veggente. La poesia è capace di vedere l’invisibile essenziale.

In ogni caso questa azione del vedere richiama la radice di eidos, idea platonica, così che ci riconduce ad un’attività teoretica, contemplativa, quasi che la poesia (e questo non è affatto raro nel Novecento) rientri nell’ambito di una facoltà intellettuale, già evocata, per altro, dalla tradizione classica che definiva l’arte, con Tommaso d’Aquino, recta ratio factibilium.

Questo non può darsi, tuttavia, se non attraverso un’intuizione creativa che penetra una zona preconscia dello spirito, per l’appunto un preconscio spirituale, sul quale — dice William Blake — nella sua introduzione alla sua opera Jerusalem, the eternal eye is opened, l’occhio eterno si apre.

Tale preconscio è super-razionale ed è caratterizzato da una universalità che necessita della forma per rivelarsi, pur mentendosi, attraverso di essa, invisibile. Proprio questo fa pensare ai romantici, specie tedeschi che il canto dell’anima sia triste perché percorso dalla nostalgia del reale che manca.

Potremmo forse affermare che nella poesia è possibile dare una forma al noumeno delle cose solo pensabili, per dirla con Kant. Non è neppure un caso che O. Gardet e L. Lacombe parlino di una funzione cognitiva della poesia riproponendo la possibilità di una co-naissance, là dove le categorie della determinazione intellettuale non riescono nel loro intento, restando sulla soglia di un’indicibile anelito. Questa funzione è particolarmente vera nell’opera di Hopkins, poeta metafisico inglese che, nel 1866, convertito al cattolicesimo entro a far parte della comunità dei gesuiti, della cui poetica i due autori affermano:

È la realtà nascosta di ogni singolo esistente, realtà che penetra la soggettività del poeta, che essa si dedica senza tregua a svelare […]. È il «Sé» nascosto di ogni cosa quello di cui il poeta, […] attende la rivelazione.26

Tuttavia, questo sé delle cose che implica l’individua ed invisibile essenza è contrassegnato da Hopkins con il termine, che fu già di Duns Scoto, di hecceitas, termine che contrassegna l’irripetibile singolarità di ogni cosa nella sua comunione con l’invisibile. Questo self, o ipse rinvia ad un’istanza invisibile che caratterizza la stessa intrinsecità delle cose e che pure le fa partecipare di un mistero universale in virtù della comunione con l’assoluto Self che è quello di Cristo; infatti, proprio perché le cose sono aperte sull’incontro con il Cristo si possono rivelare nella forma/figura della loro interiorità.27

Da questo punto di vista l’intuizione poetica sembra esibire alcuni punti di contatto con l’esperienza mistica. Non è questo il luogo per addentrarci in una, pur pregnante, riflessione che, però, ci farebbe di gran lunga sconfinare, rispetto al nostro argomento; in ogni caso ci sembra importante richiamare questa confluenza in virtù del ruolo del simbolo ravvisabile in entrambi, così che, potremmo concludere, in conformità con le teorie estetiche, che nel caso dell’intuizione poetica non si è molto lontani da un’esperienza di tipo religioso.28

Il ruolo del simbolo non è accessorio, anzi l’intenzionalità poetica è simbolica juxta propriam naturam in quanto il simbolo è il cuore stesso dell’opera che si radica nel cuore del mistero. Nel simbolo, poeticamente, si consuma la tangenza con il mistero custodito nel preconscio spirituale. Esso, necessariamente, si esplica come attività di creazione, esprimendosi in tutta la sua positività; pur tuttavia la sua esplicazione custodisce anche una sorta di negatività che rinvia a un carattere necessariamente ossimorica, e questo non è vero solo dell’esperienza mistica, si pensi per esempio a Giovanni della Croce, quanto anche dell’esperienza poetica, esprimendo esso la coscienza di un’assenza.

Pregnante, da questo punto di vista, la riflessione che compie George Morel a proposito della simbolicità in Giovanni della Croce:

Il simbolo si offre alla Presenza, la Presenza lo coglie, lo annienta e lo trasfigura, e alla fine di questa operazione, la Presenza stessa che si manifesta in un movimento incessante di creazione e decreazione, di vuoto e plenitudine. Se così stanno le cose è chiaro che non ogni tipo di poesia, certo, ma la poesia di un Rimbaud e un Hölderlin, nella sua ricerca di realizzazione di identità, sarebbe mistica proprio in quanto poesia.29

Se ci soffermassimo sulla decreazione e sul vuoto, non potremmo leggere tali categorie se non dialetticamente, ponendole accanto all’eccedenza e alla pienezza. Quindi le prime non dovrebbero essere interpretate in modo sic et simpliciter negativo, quanto proprio come una via negationis che lascia figurare la Presenza. Dunque il simbolo è cifra di un cammino verso l’interiore in cui si dà una relazione di tipo sinestesico tra la visione e l’ascolto dell’invisibile, d’altro canto è organon di una percezione spirituale che non potrebbe essere altrimenti detta. Consumato dalla Presenza, esso non scompare ma si compie nella sua funzione simbolica. Potremmo quasi dire che il simbolo sia di natura psicopompo; non possiede nel senso di una presa oggettiva ciò che significa, lo lascia essere nella sua forma come se si trattasse di una translucida oscurità. Il simbolo è dunque il risultato dell’interazione fra intelletto e preconscio spirituale che si effonde in creatività ponendosi come istanza conoscitiva del reale mancante e già intuito.

Tuttavia, per dire la bellezza intuita in un istante di rivelazione, è necessaria una parola segreta, assolutamente extra-ordinaria, la quale deve passare attraverso il buio, la nudità, la povertà e la notte di tutte le parole per l’ascolto dell’invisibile, e per la sua pronuncia, che resta necessità e grazia. Come osserva Massimo Cacciari a commento dell sermone eckhartiano Ave gratia plena

Vi è la parola che si parla, la parola che esce da noi e si irrigidisce nella rappresentazione, che diviene proprietà di ciò che designa, che si deposita nel designatum. Ma vi è la parola che permane in chi la pronuncia come le immagini delle creature permangono nel Padre che pure è Logos.30

La parola poetica, per sua natura simbolica resta in interiore homine ma non in una chiusura autosufficiente e inospitale, quanto in una custodia insonne delle cose e del loro mistero nel seno dell’ineffabile. Essa, dunque, si rivela come un altro modo del Logos, se pur anch’essa esercita l’atto del leghein, di raccogliere insieme visibile ed invisibile, facendosi fulcro della loro tangenza misteriosa.

Essa evoca l’invisibile facendolo emergere dal silenzio colmo del suo ascolto interiore, in un richiamarsi insonne di logos endiathekos e logos prophorikos. Se il simbolo è epifania d’invisibile, se evoca la lacerante coscienza di una mancanza, se la sua natura racchiude in sé anche il momento della decreazione è perché, giunto alla parola, greve di spazio e suono, esso porta con sé la memoria indicibile della bellezza che ferisce. Per questo lo sforzo della creazione proprio della parola è segnato dall’impotenza dell’attingimento pieno della bellezza e dall’intrinseco anelito di sempre approssimarvisi. Esso è preso fra l’artiglio dell’apofasi e la potenza del dire. Questa povertà, a un tempo ricchezza, è custodia di uno stupore che deve sempre salvare il pensiero dalla sua tentazione totalitaria ma che deve, altresì, proiettarlo verso un dialogo con la poesia e con l’arte in quanto sede di quella verità sinfonica sempre pronta a donarsi nella sua inesauribilità. Di certo siamo dinanzi ad una pregnanza ontologica attraverso cui è forse possibile riproporre un nuovo inizio del discorso metafisico, proprio a partire da quel suffisso meta, già ravvisato come possibile topos di un desiderio che orienta il sapere, ne dice la sua necessità per l’umano, la libertà e lo stupore di un’indagine che resta un cercare ed attendere, un lascia essere il vero nella sua forma di bellezza, facendone, altresì un criterio etico.

5. La messa in opera della verità

La luminosità del bello non è l’apparire di un essere statico, ma l’imporsi nella presenza del vivente ben proporzionato e adatto a vivere.

G. Vattimo, Poesia e ontologia, Mursia, Milano 1985, p. 143.

Nell’analizzare le istanze ontologiche del bello e la bellezza presenti nella tradizione filosofica classica, Gianni Vattimo coniuga con esse un’istanza fondamentale della tradizione ermeneutica, ovvero quella secondo la quale il bello che viene rap-presentato nell’opera d’arte ha un valore esistenziale e antropologico, capace di orientare l’esserci nel mondo. Questa posizione dell’ermeneutica si sviluppa ulteriormente con l’idea di messa in opera della verità, ben evidenziata nel pensiero gadameriano. Entrambe, in ogni caso, possono essere messe in relazione a partire dall’idea di un’esperienza di verità, di una sua fruizione che si dà nell’arte. Il pensiero classico la ravvisa nell’ordo e nella proportio richiamando l’attenzione alla dynamis del suo manifestarsi tanto nella forma della bellezza, quanto nell’esistenza del fruitore, capace di assumersi il compito di vivere secondo la veritas, facendo così del riconoscimento della bellezza contemplata un criterio di tipo etico. In area ermeneutica si può trovare un’affermazione che va nello stesso senso, laddove si afferma che l’esperienza artistica, interrogando e destando la comprensione del fruitore, in quanto posa in opera della verità, modifica profondamente il suo stesso esser-ci, incidendo sulla sua Bildung. Ciò implica che l’opera d’arte nella sua manifestazione di bellezza è connessa a un’idea di verità il cui carattere è dialogico e acroamatico, così che essa non può che provocare l’istanza esistenziale anche nel senso di una partecipazione e condivisione di senso. Si può certamente concludere che l’esperienza estetica è un’esperienza di verità di indubbia rilevanza filosofica. Il passo successivo ci deve condurre a riflettere sul carattere di tale verità. Si diceva sopra di una partecipazione e condivisione di senso; un’istanza particolarmente sentita dalla tradizione classica, dato che tale partecipare aveva una condizione trascendentale, quella del logos. Se il logos sanciva la possibilità di un mondo comune fra gli uomini, tale condizione era assicurata dal fatto che esso esprimeva altresì la possibilità, propria di ogni uomo, di rispondere ad un appello della verità. Ora, l’istanza secondo cui il bello è, non solo trascendentale dell’essere, ma anche ordo, mensura, proportio sancisce una modalità relazionale della vita intersoggettiva, tanto da farci concludere che si dà un ethos della bellezza. Questo giustifica anche, da un lato l’idea dell’universalità del bello, derivante dall’universalità dell’idea dell’essere,31 dall’altro l’idea di un ethos ontologicamente orientato che recuperi, nell’universalità, l’istanza di un riconoscimento della singolarità, in virtù di una dimensione dinamica e acroamatica della verità, il cui dinamismo interrompe il paradigma dell’adequatio. Se le cose stanno così, si può anche ben comprendere quella che lo stesso Vattimo chiama vocazione ontologica delle poetiche del Novecento32 nonché l’idea blochiano dell’opera d’arte come topos esprimente un’ontologia del non-ancora. Quello che deve comunque far riflettere è il fatto che il riferimento ontologico non è mai escluso, anzi è il presupposto su cui pensare la connessione fra verità e bellezza. Sembrerebbe quasi che non si esca da uno stesso pensiero, che per altro è alla base di tutta la cultura occidentale, in entrambi i versanti greco ed ebraico. Se, infatti, l’idea dell’essere è connotata esteticamente nella tradizione filosofica greca, altrettanto la Rivelazione biblica e le teofanie ricorrenti in entrambi i Testamenti sono esteticamente caratterizzate, una per tutti la Trasfigurazione. Non si esce, ad ogni modo, da un trinomio ermeneutico contrassegnato da bellezza-verità-luce.

Dicevamo già sopra dell’istanza fondativa della bellezza in quanto possibilità euristica del vero; questa idea risulta tanto più pregnante nell’evento della Rivelazione nel quale si esperisce, altresì, la santità di Colui che si rivela nell’opera della creazione, nonché la verità della salvezza, di quella redenzione per cui il mondo appare nella sua integritas. Da questo punto di vista, assumersi il compito e la vocazione della bellezza, nell’arte, implica rispondere all’appello del creatore, operando nella verità della facoltà creativa ed in comunione con lui, quel mistero che già qui ed ora fa guardare il mondo come creaturalità riuscita.

Recuperare questa idea significa, altresì, ripensare radicalmente l’antropologia, l’etica e poter operare un’ermeneutica tanto filosofica quanto teologica che getti le basi per una diversa e più pregnante recezione della verità, la quale possa salvare — da un lato l’unicità e l’inesauribilità — dall’altro lato la sua fenomenologia, la sua storicità in modo tale che si eviti tanto la deriva dogmatica ed irrigidita dell’immutabilità, ottenuta per altro secondo un criterio oggettivante, quanto quella del relativismo che configura il pensiero in senso rizomatico.33

Da questo punto di vista è opportuno dare voce a un celebre teologo, di notevolissima rilevanza, che tanto ha riflettuto sulla bellezza nell’ambito della nostra cultura contemporanea. Si tratta dello stesso Von Balthasar, con il quale abbiamo aperto la nostra trattazione:

In un mondo senza bellezza — anche se gli uomini non riescono a fare a meno di questa parola e l’hanno continuamente sulle labbra, equivocandone il senso -, in un mondo che non ne è forse privo, ma che non è più in grado di vederla, di fare i conti con essa, anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover-essere-adempiuto; e l’uomo resta perplesso di fronte ad esso e si chiede perché non deve piuttosto preferire il male […]. In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti a favore della verità hanno estuario la loro forza di conclusione logica: i sillogismi, cioè, ruotano secondo il ritmo prefissato, coem delle macchine rotative o dei calcoli elettronici che devono sputare un determinato numero di dati al minuto, ma il processo che porta alla conclusione è un meccanismo che non inchioda più nessuno e la stessa conclusione non conclude più.34

Se la bellezza è lo splendore della verità, recidere tale legame significa da un lato fare della prima una forma usurata, disponibile al consumo ed al dominio in un mondo amministrato, delle seconda un’idea funzionale, legata all’espressività del tempo, per dirla con Pareyson. In ultima analisi significa svuotare di senso lo stesso stupore del pensare. Si può, pertanto, avere una verifica sub contrario nel momento in cui ogni esperienza fruitiva di bellezza fa anche presentire il dover essere della giustizia, il desiderio di un mondo pacificato, redento. D’altro canto in tutto questo si esperisce anche l’idea imprescindibile della verità.

Ci sembra utile, da questo punto di vista, accostare alla voce incomparabile di H. U. Von Balthasar, l’altrettanto autorevole voce del filosofo Gianni Vattimo, che riflettendo sul rapporto fra arte ed ermeneutica, giunge necessariamente a ripensare il nesso fra arte e religione. Questa voce, infatti, fa da controcanto all’esigenza balthasariana che la bellezza, coniugabile in ambito teologico possa provocare il pensiero e la formulazione della verità che esso elabora, inducendolo, in ultima analisi, a riflettere su se stesso. Vattimo, d’altro canto, ritiene che proprio una riflessione sull’esperienza estetica — nella sua opera Oltre l’interpretazione egli dedica notevoli pagine alla sua esperienza avuta nella Chiesa di S. Ivo alla Sapienza a Roma35 — possa provocare il pensiero teologico:

Si può immaginare che la consapevolezza del legame di derivazione tra arte e religione tocchi, anche in qualche senso, i modi dell’esperienza religiosa di oggi? Se l’arte può ritrovare la propria essenzialità divenendo consapevole del proprio statuto di religione secolarizzata, la religione potrebbe trovare in questo legame una ragione per pensarsi in termini «più estetici» […].36

La sfida è, dunque, quella di riflettere sulla vocazione alla verità che caratterizza entrambi i pensieri, ma, più radicalmente, di evidenziare che imprescindibile per l’uomo è la stessa esigenza di verità, da cui solo può procedere un’esperienza di senso. Se questo è vero, non si dovrebbe forse riproporre — com’è stato per la filosofia e così com’è per la teologia — un’estetica nell’etica, nella politica, in ogni relazione, evitando di relegare l’idea di bellezza a forme di consumo che risultano, in ultima analisi, alienanti, e riscattando l’estetica stessa dai fraintendimenti tipici della società tecnica e massificata?

È chiaro che occorrerà liberare la stessa estetica, nonché la bellezza da una semantica riduttiva per ridare loro la dignità di una via teoretica che sia davvero una messa in opera della verità e che possa promuovere una forma più alta di ethos fra gli uomini. Emblematici i versi di Hölderlin:

Molto ha esperito l’uomo Molti celesti ha nominato da quando siamo un colloquio e possiamo ascoltarci l’un l’altro.

Forse la bellezza, nel suo carattere evocativo, non getta le basi per un dialogo che attinga, anche fra i terrestri a quella stessa fonte e non è forse il colloquio la possibile convergenza sulla verità in nome di quel logos che a questo compito convoca gli uomini?37

Il recupero della più squisita tradizione filosofica che vede nella partecipazione al logos come istanza di verità, la possibile istituzione di un mondo comune, non solo è ripresa in senso ermeneutico, specie quanto alla tensione fra appartenenza alla tradizione e dialogo, ma offre anche notevolissimi spunti per riflettere sul ruolo dell’arte e della bellezza nel veicolare una verità che garantisce il senso e l’orientamento dell’esistenza.

Molto pregnante è la riflessione che fa Hans Georg Gadamer sulla verità dell’arte, rivendicandone nel celeberrimo libro Verità e Metodo la specificità rispetto a quella delle scienze oggettivanti. All’avviso di Gadamer non si può caratterizzare l’esperienza estetica ad un effimero bagliore trasfigurante prestato alla realtà,38 né d’altro canto ridurla ad una modificazione dell’esperienza della realtà una volta esperita. Se fosse così, infatti, non si uscirebbe ancora dalle maglie del metodo gnoseologico oggettivante. L’ottica fenomenologica con cui ci si pone nei riguardi dell’esperienza estetica, implica, invece, che essa non pensa secondo la relazione reale ideale, quanto invece esperisce in quanto vede la verità autentica.39

In tal senso ci sembra che emerga un valore epifanico, rivelativo laddove l’opera d’arte che esperisce e mette in opera un’autentica esperienza di verità attraverso la bellezza, apre anche un mondo che non può non interpellare quello del fruitore/interprete in una sorta di interiore con-sonanza, caratterizzando ulteriormente la verità come evento e come dialogo. In ultima analisi la bellezza, correlato dell’esperienza estetica contribuisce a dar forma a un pensiero rivelativo per il quale la verità non può che darsi inesauribilmente, pur rimanendo unica; d’altra parte, il concetto della sua unicità, ben lungi dal legittimare pretese approprianti, salva, invece, una differenza rispetto alla sua fenomenologia, che spinge sempre ad ulteriore ricerca e ascolto del suo orizzonte.

Così possiamo anche comprendere la condizione di parola prima e ultima della bellezza in quanto esperienza di senso e, se vogliamo, riempimento di una intenzionalità ontologica propria dell’umano, che, proprio in virtù di questo fatto informa ab intrinseco la sua storicità.


  1. M. Cacciari, L’Angelo necessario Adelphi, Milano 1986. ↩︎

  2. J. Keats, Ode on a Grecian Urn↩︎

  3. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, trad. it. di G. Colli, Critica della ragion pura, Adelphi, Milano 1976, p. 375. ↩︎

  4. Sulla possibilità di una lettura fenomenologica dell’ontologismo rosminiano si veda, tra gli altri, R. De Monticelli, L’ordine del cuore, Garzanti, Milano 2003, in particolare p. 100. ↩︎

  5. Simposio,204 A, 205 B, in Platone. Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1991, p512. Corsivi nostri. ↩︎

  6. Sull’idea di Bellezza come mediazione si gioca tutto il recupero cristiano del platonismo, come si può arguire dalla Patrologia greca. Cristo, Sapienza di Dio per il quale l’universo sussiste è anche il più bello fra i Figli dell’uomo, secondo l’espressione biblica sulle cui labbra è effusa la Grazia. Un’implicazione, quella di grazia e bellezza, che oggi viene eminentemente recuperata nella riflessione teologica. ↩︎

  7. Si dice catacresi, come già insegna Aristotele la traslazione, nel linguaggio comune, di un cocnetto per il quale non si dà una parola propria. Tutto questo depone a favore di un gioco linguistico ove il reale si dona in una serie di rimandi simbolici, salvati nell’invisibile della significazione stessa. ↩︎

  8. V. Melchiorre, op. cit., p. 47. ↩︎

  9. T. W. Adorno, Minima Moralia, Einaudi, Torino 2005. ↩︎

  10. Novalis, Heinrich von Ofterdingen, cit in O. Gardet, L. Lacombe, L’expérience du soi. Etude de mystique comparée, trad. it. Di V. Possenti, L’esperienza del sé. Studio di mistica comparata, Massimo, Milano 1988, p. 239. ↩︎

  11. M. Heidegger, Holzwege, trad. it. Di P. Chiodi, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 251. Sul carattere e-ventuale dell’essere annunciato dai poeti nel tempo della mancanza e della povertà si veda tutto il saggio contenuto nell’opera, da noi citato nel corpo del testo. ↩︎

  12. L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività. Bompiani, Milano 1988, p. 15. ↩︎

  13. Si veda per questo la suggestiva e pregnante biografia filosofica di Nietzsche scritta da R. Safranski ,Nietzsche, trad. it. di S. Franchini, Nietzsche. Biografia di un pensiero, Tea, Milano 2004, p. 67. ↩︎

  14. P. Claudel, Cinq grandes odes, trad. it. di L. Castiglione, Cinque grandi odi, Edizioni Logos, Roma 1991, p. 111. ↩︎

  15. Su questo si veda un’opera emblematica per tutte, F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, Nijhoff, Den Haag 1976, trad. it. a cura di G. Bonola, La Stella della redenzione, Marietti, Casale Monferrato 1985. Ora anche Vita e Pensiero, Milano 2005, a cura di G. Botola. ↩︎

  16. La terminologia di riferimento è quella mutuata da f. Rosenzweig, op. cit. e usata con la medesima intenzionalità dell’autore per indicare (con meta-fisico) che la fenomenicità della creazione in quanto attualità trascende ed eccede ogni istanza deduttiva della ragione, in quanto è eccedenza della vita che si manifesta come tale in virtù della Rivelazione; con meta-etico l’istanza secondo la quale la ragione dell’antico pensiero oggettivante è impotente dinanzi all’eccedenza del singolo ens creatum indisponibile alla sua capacità astrattiva-obiettivante che Rosenzweig definisce apoplessia filosofica. ↩︎

  17. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt 1959, trad. it. di E. DeAngelis e T. Cavallo, Il principio speranza, Garzanti, Milano 1994. ↩︎

  18. In tedesco inquietante si dice unheimlich,in realtà la radice del termine; un privativo e heimlich significa letteralmente non essere in patria. Ci sembra importante fissare l’attenzione su tale etimo per toccare il punto nodale secondo cui il pensiero filosofico, nel suo superarsi, necessità di figurarsi una terra in cui dimorare, una terra che sostenga il suo cammino. Proprio in tal senso, ha bisogno di rivolgersi al linguaggio poetico ed alla sua capacità in-ventiva. Questo implica, ulteriormente, che la filosofia già qui ed ora abita una terra altra, la cui figura,non ancora divenuta è intreccio di soglia e mistero. Tuttavia questo altrove nel dove del suo abitare ha sempre il sembiante della bellezza, forma della patria compiuta e irruzione dello spirituale e dell’invisibile su cui l’essere si raccoglie manifestando il suo evento. ↩︎

  19. E. Bloch, Das Prinzip…,trad. it. Cit., p. 949. ↩︎

  20. Su questo si veda in particolare Meister Eckhart, specie uno dei suoi sermoni tedeschi dal titolo Predica Verbum... L’apex mentis è recuperato all’interno del pensiero utopico da Ernst Bloch in corrispondenza con la figura dell’apex terrae. Il filosofo tedesco vi legge una corrispondenza fra interiore ed esteriore che caratterizza questa spinta in avanti nell’altrove, capace di leggere il mondo nell’ottica di un impulso di luce interiore che si volge all’esterno. Si potrebbe facilmente conchiudere circa il carattere utopico della bellezza, a partire dalla quale viene configurato un ordine metafisico che, comunque, resta, una sapienza del desidero. ↩︎

  21. R. Bodei, Introduzione a Il Principio Speranza, tra. It. cit.,p XXXI. I corsivi si riferiscono ad espressioni dello stesso Ernst Bloch. ↩︎

  22. Intendiamo impiegare il termine secondo l’intentio heideggeriana che ravvisa il Dasein come il raccogliente rispetto all’essere; in tal modo cerchiamo di recuperare all’arte una dimensione teoretica nonché ontologica. ↩︎

  23. Su questo si vedano in particolare gli Scritti filosofici di R. Guardini, ma anche la poesia di C. Baudelaire, Les phares contenuta nella raccolta Les Fleures du Mal, dove viene chiaramente evidenziato che ogni opera d’arte è come un singhiozzo che arriva sino all’eternità di Dio dove si consuma. In ogni caso resta, sulla terra, come testimone vivente,di quello stesso eterno cercato nella bellezza. D’altra parte Romano Guardini sottolinea che la funzione catartica dell’arte,la cui vocazione di creare nella bellezza, trasfigura anche il dramma, il dolore, le ferite, è tangenza al divino, anche quando scendesse negli anfratti più oscuri dell’umano. ↩︎

  24. P. N. Evdokimov, L’art de l’iconê. Theologie de la beauté, Desclée De Brouwer, Paris 1972, trad. it di P. Giuseppe da Vetralla, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, Edizioni Paoline, Roma 1982, p. 31. ↩︎

  25. P. Florenskij, ÈÊÎÍÎÑÒÀÑ, trad. it di E. Zolla, Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, Milano 1977, pp. 60-61. ↩︎

  26. L. Gardet, O. Lacombe, L’experience… trad. it. cit, p. 275. ↩︎

  27. Si veda, per un maggior approfondimento la bella appendice, dedicata da L. Gardet, O. Lacombe nell’opera citata, pp 274 e ss. ↩︎

  28. Si veda G. Vattimo, Oltre l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari 1997. ↩︎

  29. G. Morel Le sens de l’existence selon Jean dela Croix in, L. Gardet, O. Lacombe, L’experience, trad. it cit., p. 251. ↩︎

  30. M. Cacciari, L’angelo necessario, Adelphi, Milano 1987, p. 31. ↩︎

  31. Questa universalità è per altro ben espressa da Aristotele attraverso la formulazione dell’idea dell’epaghoghé in cui parla di un esercito in marcia, i cui componenti, si fermano nello stesso punto e nello stesso tempo, seguendo la decisone del primo che ha sostato, proprio in virtù di un con-venire. Questo ribadisce a nostro avviso la vocazione dialogica della filosofia greca. ↩︎

  32. G. Vattimo, Ontologia e poesia, Mursia, Milano 1985, pp. 33-68. ↩︎

  33. Si veda ad esempio il pensiero filosofico di Felix Guattari. ↩︎

  34. H. U Von Balthasar, Gloria…. cit, pp . 103-111. ↩︎

  35. G. Vattimo, Oltre...cit, pp. 73-91. ↩︎

  36. Ivi, p. 91. Il termine religione secolarizzata impiegato da Vattimo è di matrice hegeliana. L’attributo secolarizzata non è qui usato secondo una connotazione antireligiosa, anzi intende forse mostrare quanto l’opera d’arte nel senso di dare una forma di bellezza al vero sia legata, lo sappia o no, ad un’ intenzionalità religiosa, già solo per il fatto di esplorare con la creatività il mistero ontologico nonché antropologico dell’esistenza, meditandone il senso, pur nella sua poieisis↩︎

  37. L’esperienza dei volontari accorsi da ogni parte nella Firenze travolta dalle acque dell’inondazione dell’Arno per salvare preziosi documenti dell’umanità, spinti da un’esigenza di servire la verità della dignità umana ci sembra possa essere emblematica dell’ethos della bellezza come paradigma antropologico. Questo conduce altresì ad una riflessione sulla bellezza nell’ambito della praxis umana, come dimensione pro-gettante un senso più alto e altro del vivere comune e civile. ↩︎

  38. H. G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Mohr, Tübingen 1965, trad. it. di G. Vattimo, Verità e Metodo, Bompiani, Milano 2000, p. 195. ↩︎

  39. Ivi, p. 191. ↩︎