Resurrezione: evento della fede e sfida filosofica. Un invito al pensiero del superamento

1. Introduzione: la ferita della mente

Accostare la Resurrezione per affrontarla filosoficamente può sembrare persino una pretesa superba, quando non assurda. Del resto la prima sconvolge e fa saltare ogni possibile schema razionale, che sia il paradigma spazio-temporale, che sia quello dell’identità, che sia, da ultimo, quello inerente alla prospettiva emancipatoria del pensiero, che pure è incapace di dare una forma a questo novum che la Resurrezione porta con sé.

Il dato incontrovertibile, infatti, è l’interruzione, sia pur salvifica, posta nel cuore della creaturalità, sempre tesa fra pensare l’ulteriore e la effettiva determinazione categoriale, e tuttavia un’interruzione che rende feconda la povertà di questo incidere ad limina e illumina ulteriormente lo statuto epistemologico della filosofia ponendola dinanzi alla sua mancanza ma contribuendo anche a farle interpretare altrimenti la sua necessità. Per questo motivo ci pare sempre valida la riflessione di Kant sulla metafisica quale scienza del limite che traccia la vocazione della filosofia a non accontentarsi delle conoscenze acquisite — si filosofa, infatti, a partire da un ignotum - ma anche a trovarsi dinanzi ad un non determinabile che non è ad essa porre e che non può oggettivamente ridurre a sé.

Tuttavia è forse il caso di sostare su tale absurdum, che sembra essere una cerniera che unisce le due parti prese in considerazione. Il Cristianesimo è, in effetti, portatore di un annuncio inedito ed irriducibile che implica un atto di fede assoluta anche se caratterizzato da una diversa ragionevolezza, ed è questo che lascia supporre l’idea di un pensiero aperto, sempre convocato all’incontro con un senso eccedente che ne disegna un equilibrio inedito. Tuttavia è pur vero che l’aggettivo assurdo esibisce un’altra radice rispetto a quella più nota e forse abusata di contrario alla logica, più propriamente quella di dissonante, conforme ad uno schema acustico. La dissonanza, tuttavia, è una cifra ermeneutica molto cercata, specie nel pensiero contemporaneo, per definire un irreversibile mutamento di paradigma culturale che pone sempre di più la condizione umana dinanzi ad una dimensione contrassegnabile con l’idea di mistero, spingendola ancora fino allo stupore della propria origine e del proprio telos . L’esperimento musicale della dodecafonia di Schönberg, così come le meravigliose Elegie Duinesi di Rainer Maria RiIke ne costituiscono una prova. Ancora una volta, l’estetica permette di individuare nel bisogno di redenzione una categoria teoretica che è, ad un tempo etica ed esistenziale e così profondamente umana da rendere cogente la riflessione sulla creaturalità, ma ancora una volta quest’ultima non può non implicare un richiamo alla dissonanza.

L’esistenzialismo di marca francese, specie quello di Albert Camus insiste su questa idea di assurdo come telos dell’ek-sistere. On doit vivre pour faire vivre l’absurd . Evidentemente, anche qui, si dà una contraddizione, anche se, a nostro avviso, essa va sviscerata altrimenti. La mancanza come condizione d’esistenza, che possiamo altrimenti dire con Heidegger tempo della povertà rende disponibili ad un’attesa e ad una vigilanza che assume una connotazione ed una via inedita e che si presenta come soglia di un altrove. Allora sarà forse possibile collegare questa idea di assurdo con la cifra ossimorica che contrassegna tanta lirica contemporanea;si veda per esempio quella di Celan che vuole contenere nella parola l’incontenibile. Quasi una somiglianza nella dissimilitudine ed è questo il dato kerygmatico del Cristianesimo che sfida il pensiero a decifrare un senso nell’assurdo. Vigilanza e stupore, dunque, come possibilità di essere nell’eccedenza e di rendere ragione del contrario così che pensare e credere sia fare la professione dei due contrari e al contempo tenerli uniti. Già nel pensiero antico la ricerca della sapienza assumeva i tratti di una voluptas superrazionale che non a caso si denominava divina. Si tratta dunque di dare al pensiero uno spessore quasi carnale, una tangenza con quanto lo supera che non elude la soglia.

A paradigma di questo pensiero piagato, drammaticamente — ed intendiamo il senso etimologico — preso nella decifrazione della sua mancanza e del suo necessario superamento, ci piace prendere un passo da un’opera letteraria di Jean Paul Sartre, Bariona o il figlio del tuono,1 un racconto scritto dall’autore per i compagni di prigionia nel campo di Treviri, durante il Natale del 1940, che tocca un mirabile vertice di intensità lirica nell’intimo dialogo di stupore e gratitudine che Maria h con se stessa rimeditando la Parola che la vuole Madre di Dio. Una sublime allegoria dell’affinità fra pensiero e mistero che rende armonica persino la dissonanza.

Lo guarda e pensa: "Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi assomiglia […] Un Dio piccolo che si può prendere nelle braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che vive2

È come se il pensiero stesso si stupisse in un brivido estatico della visita dell’eterno che muta irreversibilmente il corso della sua storia, il corso del tempo e del mondo e uscisse dalla maglie che lo irrigidiscono; lo stupore diviene, dunque, una sorta di luce fluida che apre passaggi e figura l’inedito, che inebria senza lasciar venir meno la sobrietà dell’interrogare e dell’ascoltare.

È come se dicesse a se stesso: “è l’eterno e pure lo ospito, ha inciso un’interruzione e pure è quanto grida in me l’appello delle Verità”.

Una dissonanza ed un assurdo dunque che recano il senso di un pensare altrove ed altrimenti, mai nel possesso e nella potenza che elude nel calcolo e nell’oggetto il fondo misterioso da cui le cose provengono, ma nella paziente attesa (tendere ad) del Mistero che si eventua come l’in-disponibile in sempre nuove forme. Se le cose stanno così, è la stessa filosofia che assume i tratti di un’ascesi recuperandone linguaggio e statuto fin quasi a purificare la parola Dio, sprigionandola anche dalla radura del sacro3 per restituirla come un dono giunto da un’origine sempre cercata.

Da questo punto di vista non possiamo non raccogliere l’invito che fu già di Franz Rosenzweig a rendere ai filosofi la capacità di far teologia, ed ai teologi quella di filosofare; si tratta, in effetti, di un dialogo che rende possibile una diversa ontologia dell’esserci umano, ove l’aspetto e la condizione dell’incarnazione venga coniugato secondo una fenomenologia della vita che renda al pensiero la sua radice più autentica: quella della cura nonché del pathos, inteso come possibilità di ascesa e come necessità di redenzione.

Ciò implica assumersi il compito filosofico nel senso di una responsabilità del pensare perché si tratta certo della fatica del concetto, ma a maggior ragione di una sorta di continuo esercizio spirituale capace di rendere ragione della carnalità del pensiero, ove l’ossimoro, anche qui, non può non saltare con evidenza agli occhi. Dire carnalità del pensiero, tuttavia, significa dire quell’arte della vita che già la tradizione filosofica antica si proponeva come compito e vocazione;4 e dunque in questo esercizio di tensione alla sapienza trovava una sua collocazione lo stesso mistero della morte di cui filosofare era un apprendimento, ma da cui l’idea di una vita immortale continuava comunque ad affacciarsi. Forse sarebbe importante ripercorrere questa tradizione che è la culla del nostro pensiero lasciandola attraversare ed interrompere da questo inedito ed imponderabile: la Resurrezione per risentirla nuova e stimolante e soprattutto per sentirla come un autentico invito verso la vita.

Ad ogni modo non si può trascurare un altro fondamentale aspetto che inerisce sempre più al pensiero e che è ravvisabile a nostro avviso nel bisogno di redenzione, intesa nel senso religioso come riscatto e salvezza; in effetti, qui viene sottesa ancora una volta una discontinuità, un’interruzione fra la riflessione teoretica come cammino e il telos della sapienza raggiunta, contrassegnata assolutamente da un essere oltre. Così Hans Georg Gadamer ha interpretato il pensiero di Plotino.5 Il noto esponente dell’ermeneutica pone la tradizione neoplatonica alla confluenza con l’altro grande evento culturale che stava sorgendo a ridosso del compimento della parabola della cultura greca, il Cristianesimo e ne ricava una conclusione destinata a rileggere in una nuova luce la tradizione: ovvero la fondazione religiosa del pensiero. Così commenta Gadamer:

A considerare questa tradizione di un pensiero fondato religiosamente sis copre che non fu un’interpretazione artificiosa o un travisamento indurre il pensatore tardo-antico Plotino a vedere in Platone il proprio modello sia intellettuale che religioso. Lungo l’intera storia della razionalità greca tra la filosofia e la religione è stato conservato un terreno comune. Se un pensatore stoico come Cleante rivolge al Dio supremo il suo famoso inno, nel fare ciò egli esprime tanto la verità del suo proprio pensiero quanto quella del mito. Se Epicureo e il suo mediatore romano Lucrezio cercavano di distruggere con sottile precisione logica la paura degli Dei ed il terrore della morte, anche un epicureo come Lucrezio poteva pur sempre introdurre il proprio illuminato messaggio razionale con l’inno ad una Dea[…] . Di Plotino si deve dire che, in un’epoca di alta eccitazione religiosa fu contemporaneamente entrambe le cose, un uomo religioso ed un vero pensatore.6

Sembrerebbe, e non senza una certa legittimità, che sia proprio il religioso a conferire il carattere epistemologico al pensiero nei suoi albori, spingendolo, specie nel caso di Plotino attraverso il gradi della synthesis, della synesis fino all’aplosis, alla semplicità totale, ove, però, è inevitabile una sorta di ek-stasis capace di interrompere ogni logica. Si tratta di un cammino quasi mistico, contrassegnato dalla negatio che è la sola via concessa al pensiero di dare attributi al divino.7 Un’ascetica, dunque, che, però, nulla toglie della vis philosophia. In effetti, chiosa ancora Gadamer:

Il problema fondamentale, continuamente ritornante di Plotino è rappresentato da questa necessità di pensare l’Uno. No ci si può arrestare al nous, al pensiero pensate se stesso (o altro)? con il quale Aristotele aveva descritto il modo di essere del divino. Si deve piuttosto andare oltre la dualità dell’ essere pensante. La trascendenza dell’Uno però significa insieme la massima immanenza di ogni ente nell’Uno.8

Il gioco trascendenza-immanenza, ad un tempo limite e finalità del pensiero implica la possibilità di un inizio dello stesso filosofare come immerso, sprofondato, quasi, nell’abisso dell’Uno, contrassegnabile altrimenti come il divino, possibilità che la stessa tradizione filosofica medievale fa sua, basti pensare ad Anselmo, così che la meraviglia che lo contrassegna non può che scaturire dalla coscienza di un Prius già da sempre, incontenibile, eccedente. Tuttavia quel suo eccedere sostiene l’incedere del pensiero, la necessità del dire, della dialettica dell’interruzione. Il pensiero offre ciò che non ha, si può paradossalmente dire, dove questo non avere si coniuga heideggerianamente nel senso di un indisponibile, che sottende ancora il gioco di Poros e Penia.

Con queste sollecitazioni si cercherà di intraprendere un percorso ermeneutico di reciproco contatto fra filosofia e teologia che sappia intessere con sapiente fatica mistero e decifrazione, memoria ed eschaton, logica ossimorica e fondazione in verità, pur specificando che fondazione implica qui insti-tuere, aprire un passaggio in cui il carattere rivelativo del pensiero rinvii sempre ad un oltre capace di essere confine e prossimità dell’esistenza

2. Imparare a morire e miti d’immortalità: l’aurora della filosofia

Non sembri paradossale che un saggio sulla Resurrezione ricerchi il suo incipit nella morte, o meglio nella condizione mortale del pensiero, nonostante abbiamo rilevato l’affinità quasi parentale con il divino. La mortalità è, infatti, quella soglia che permette di esperire l’Alterità del divino nonché la stessa condizione di esodo, di memoria e di attesa. Certo non si vuole affatto intendere che lo stigma di thanatos incomba minaccioso sulla cultura d’occidente; anzi, al contrario, si cerca, qui, di evidenziare come la mortalità sia la mensura dell’essere nel mondo, nonché la cifra paradossale che permette l’irrompere di un Revelatus che contrad-dice in modo kairologico quanto sembra ineluttabile al pensiero.

Anche in tal caso, intendiamo procedere tenendo presente la confluenza di due tradizioni, in modo tale che il pensiero possa acquistare una fecondità sempre maggiore, apprendendo la possibilità di ridirsi e di porsi in ascolto, soprendendosi, immaginando un’altra pienezza e rinnovando una nostalgia d’altro che, ben lungi dal risolversi in una via apofatica strictu sensu, esibisce invece tutta la possibilità di un novum ed inedito che spinge ed urge.

Con Pierre Hadot possiamo asserire che l’adagio tramandato dalla filosofia antica, secondo cui filosofare è imparare a morire si traduce, in realtà, in un vero e proprio esercizio di vita. In effetti, essa sancisce la possibilità di elevazione al pensiero dell’universalità ed immortalità. L’exercitio mori della filosofia è di una verità profondissima che ripercorre tutta la tradizione occidentale fino al zum Todsein di Heidegger, che contrassegna la possibilità autentica dell’esser-ci. Se è vero che, da un lato, si può leggere l’essere per la morte in quanto dato incontrovertibile da cui il pensiero muove come assunzione della propria finitudine che predispone all’evento dell’essere secondo Heidegger, è altrettanto pregnante quella lettura che ravvisa nella prospettiva heideggeriana una forma di stoicismo. Tuttavia non su questo ci si può attestare sic et simpliciter.

Occorre, infatti, tentare di scandagliare al fondo di questa interpretazione al fine di individuare nella stessa tradizione filosofica da cui proveniamo quella che abbiamo ormai denominato salvifica interruzione. Ancora una volta, tuttavia, non possiamo eludere il chiasma di Atene e Gerusalemme. Offriamo pertanto due criteri di lettura che, procedendo secondo un metodo genetico ed istitutivo ad un tempo, corrispondono ad una pars destruens e ad una pars construens.

Un filosofo italiano in un suo libro abbastanza recente ha fornito un’interpretazione del ruolo filosofico nella morte nella tradizione filosofica occidentale come consequenziale ad una metafisica dell’abbandono9 che, da un lato inerisce ad un pensiero tragico, da ravvisarsi addirittura nel pre-filosofico, si pensi al dramma della scissione dalla physis (intesa nel senso di phuestai) e dall’altro alla necessità di assumerne la cogenza come autentico compito dell’esserci, perché segnati dall’angoscia di questa ratio ex nihilo. Un’interpretazione certamente molto suggestiva che mette in luce, per altro, il carattere monologico del pensiero occidentale, colpito da sempre dall’orrore del tertium e sempre legato ad una figura di coscienza risvegliata a sé nella colpa come dato ontologico (si pensi a tutta quella linea teoretica che dalla figura della coscienza infelice hegeliana giunge fino all’idea di colpa che Heidegger magistralmente esprime nel suo Sein und Zeit). Tuttavia, come già si diceva, non ci è dato di sostare qui. La mortalità che caratterizza questa allure teoretica deve scorgersi come soglia, deve potersi pensare come possibilità non autoreferenziale, quanto invece aperta alla propria recezione come finita e come donata.

Non è casuale, in effetti, che Schelling abbia potuto elaborare una filosofia della rivelazione lasciandosi alle spalle quella dialettica negativa che, pur culminata in un fenomenologia dello spirito, non poteva rendere ragione del Positum originario. E dunque non l’erramento della ragione inebriata ed ossessionata dall’altro da sé, né tanto meno la sua assoluta devastazione come superamento intrinsecamente necessario della sua Bildung, quanto invece il suo stupore, l’ek-stasis della sua finitudine che pure ne dice l’autocoscienza e l’altrove rispetto all’essere situata. Se così stanno le cose, veramente l’imparare a morire è un exercitium vitae.

Tuttavia è ancora necessario un altro passo che ci spinge verso Gerusalemme; ciò che intendiamo fare è, infatti, recuperare un aspetto peculiare del pensiero ebraico, così come ci viene offerto dalla tradizione biblica e dai diversi midrashim proprio perché riteniamo di poter ricavare una fecondità inattesa.

Afferma un midrash che Dio ha creato ogni cosa e l’uomo stesso mortale, e che la mortalità stessa era insita in quel valde bonum che il Signore pronuncia. Così creando l’uomo vide che era cosa molto buona: eppure il Dio della vita si compiace di una creatura, sua immagine e somiglianza, ma mortale. D’altro canto il Libro antico testamentario della Sapienza ci ammonisce sul fatto che la morte non fu volontà di Dio. Apparentemente il contrasto sembrerebbe insanabile, in realtà l’intentio significandi è altra. La mortalità implica la perfezione della creazione, ove per perfezione, si intende inequivocabilmente la compiutezza. Ma in che cosa consiste questa compiutezza se non nel fatto che la creazione, nella sua finitudine, si riconosce creata, proprio perché sta dinanzi al Dio della vita, riconoscendosi chiamata. Così la mortalità si pone come condizione della Rivelazione. Addirittura, per parafrasare Franz Rosenzweig, come un accadere del tempo nella relazione, il che pone le basi per un’ontologia dell’evento. Allo stesso modo la tradizione ebraica contempla la mortalità come capacità di vivere il kairos messianico nella piccola soglia della storia, dalla quale, asserisce Benjamin il messia può sempre entrare.

Confrontando le due istanze interpretative si può legittimamente concludere che l’essere per la morte heideggeriano che pure è il tratto maturo della filosofia occidentale, apre sia la possibilità dell’interruzione, nonché una prospettiva inedita per lo stesso pensiero contrassegnata da un’alterità che rovescia addirittura il presente; già Levinas insegna che nella diacronia e nella diaconia a cui il volto dell’altro mi rimanda irrecusabilmente è sotteso l’essere al di là della mia morte in una escatologia disposta dalla radicale alterità nella topologia di un tempo a sua volta altro dalla temporalità, un tempo che, biblicamente, ha raggiunto la pienezza.

L’idea della morte, dunque, sottende lo spazio di una vita fedele alla terra nella quale si assuma lo stesso atto del morire. Forse, allora, è proprio sul dato incontrovertibile della morte che si può istituire una fenomenologia della speranza tanto intrinseca al pensiero quanto capace di dirne la soglia, che è vocazione al superamento. Se dalla morte e dal suo timore si origina il pensiero, secondo il magistrale incipit della Stella della Redenzione è, però, la stessa morte assunta come coscienza dell’essere creato per e nella rivelazione, nella prospettiva della redenzione a disegnare la figura stellare che lega in modo cor-responsoriale Dio e l’uomo attraverso il mondo, indicando la porta che immette ins Leben. Non tanto di una metafisica dell’abbandono, qui si tratta, quanto invece della coscienza di un passo al di là che si esplica nello stupore di un’esistenza donata. Non si è dunque che affidati alla vita dalla vita, sorretti nella propria creaturalità dalla memoria di Dio. Questo è il senso per cui lo stesso esercizio filosofico sottende plotinianamente l’ascesa del divino nell’anima fino al divino che è nel Tutto.

Una meravigliosa metafora del pensiero come apertura di porte, entrambe date nella possibilità del presente ci viene dal grande poeta Paul Celan:

L’una e l’altra porta del mondo aperte: aperta l’una e l’altra da te, nella notte bifronte. Le udiamo sbattere e sbattere, ne portiamo l’indefinito, portiamo quel Verde nel tuo Eterno.10

Se l’aurora della filosofia è lo stupore del mondo già sempre là e se il pensiero viene afferrato nella vertigine così che non potrà mai più continuare a domandare, è assolutamente vero che esso sarà sempre segnato dalla mania dell’eterno, che non è necessariamente malia dell’anamnesi come vuole una tradizione intrisa di idealismo, quanto invece apertura ad un novum ed inedito che si ravvisa nella costante novità del suo incedere, interrogare, ad-tendere ubi veritas albescit. Così, per Celan si aprono entrambe le porte del mondo, quasi si rinnovi la memoria dell’eterno e, ad un tempo, non possa che essere quel segno misterioso che non lascia il pensiero pago dell’al di qua. Inoltre, se il pensiero abita per sua natura nei pressi del divino, il suo continuo inizio non può che essere soglia.

Tuttavia non si può, a nostro avviso prescindere da un altro locus così caro alla tradizione ermeneutica contemporanea, ovvero quello di una vocazione narrativa del pensiero, ovvero la sua capacità di dire il tempo appreso pur non uscendo dalla finitezza, ed insieme annunciando, nel racconto una discontinuità, quasi che nulla sia comprensibile del proprio tempo senza l’altrove di un’origine infinita sempre pronta ad irrompere, a sorprendere.

Osserva Ugo Perone:

Narrare il finito vuol dire inseguirlo nelle pieghe, ma mantenendo nelle proprie mani il tempo, lasciandolo scorrere o accumularsi secondo una scelta che è tutta in carico all’interpretazione […]. La vera svolta consiste nel far germinare dal soggetto un’altra temporalità — come appunto avviene nella forma del racconto — . La continuità presiede alla successione entro il medesimo ordine. Ma questo non è l’unico. Tra un ordine e l’altro sussiste invece salto e discontinuità. […] La memoria e il desiderio salvano il tempo che non è più e non è ancora.11

Il non-ancora è il punto archimedeo del pensiero; non si pensa mai dal per se notum, non è casuale che Jacques Derrida abbia coniugato la categoria della Differance richiamando il termine alla sua radice di differre, differire. Ma, qui, certo il paradosso non può che accentuarsi ancora: da un lato il pensiero non può non dire, nel racconto della sua origine e del suo telos, dall’altro questo dire è figura di una mancanza. Allora la stessa aurora della filosofia è destinata a cercare il proprio meriggio già dentro di sé e sempre oltre sé.

Affrontiamo a questo punto un’istanza fondamentale che ci permette, altresì, una rilettura della metafisica, che — a sua volta-chiarifica ancor di più la riflessione kantiana con la quale si è iniziata la trattazione, nonché quell’ineluttabile passaggio della tradizione neoplatonica, ravvisabile nell’ascesa plotiniana. Si tratta della figura del desiderio che, da un lato, interrompe l’immanenza apparentemente insuperabile e, dall’altro, permette di leggere il limite come un passaggio aperto che immette sulla possibilità di un pensabile avanti lo stesso pensiero, un-vordenklich, come direbbe Schelling.

Se, apparentemente, imparare a morire potrebbe condurre a pensare che l’esercizio della filosofia sia anche legato allo svuotamento del desiderio, questa conclusione è subito confutabile in virtù del fatto che il diverso sguardo della filosofia (bios theretikos) indica l’apertura ad una prospettiva altra, sia essa l’iperuranio platonico o l’universalità del vero o la conoscenza sub specie aeternitatis, la quale non può non risultare desiderabile. Già Aristotele insegnava che solo perché l’occhio ha affinità con la luce, può desiderare di vederla. Inoltre lo stesso climax della filosofia è meta ta physika. Se così stanno le cose, la prospettiva mortale non è che attesa dell’immortalità e desiderio di pensarne la possibilità.

Certamente si dovrà distinguere fra immortalità e resurrezione, e il colloquio con la teologia che attraversa il prosieguo della trattazione non farà mancare un’occasione di confronto; in ogni caso ci sembra importante sostare sull’insoddisfazione del pensiero nella sua attestazione sull’al di qua e sulla sua vocazione ad abitare la soglia che rende ogni volta necessaria un’epistrophè, una conversione. Leggere religiosamente le categorie filosofiche, dunque, è già un invito allo stesso pensiero a non fagocitare l’eteron, ma a riconoscerne l’identità custodendone la presenza come un segnavia.

Figurata questa connessione fra desiderio e necessità di un imparare a morire per riscoprirne il proprium, è tuttavia necessario chiedersi quanto della sua natura sia il mistero che ci incalza e che ci fa questio a noi stessi, come già magistralmente sostiene Agostino. Dunque il desiderio confina con la speranza, questo sogno che si fa ad occhi aperti, fino a raggiungere una vera e propria struttura teoretica ravvisabile nell’anticipazione. Come allora non ascoltare l’interpellazione di Ernst Bloch nel suo monumentale Prinzip Hoffnung.12

Non c’è da sentire di vivere. Quel fatto-che ci pone come vivi, non viene alla luce direttamente. Esso giace assai in basso, là dove noi cominciamo ad essere in carne ed ossa. A questa spinta in noi ci si riferisce quando si dice che l’uomo non vive per vivere, bensì “perché” vive. Nessuno è andato a cercarsi questa situazione incalzante, essa è in noi da quando siamo e finché siamo. Vuote e di conseguenza cupide, anelanti e di conseguenza irrequiete vanno le cose nel nostro essere immediato […]. Questa sete si fa sempre sentire e non dice il suo nome.13

Ek-sistere è sporgersi fuori; si inizia ad esistere come spinti da un oltre. Si tratta di una topologia della psiche che orienta il presente in alto ed in avanti. Usiamo la metafora topologica, per l’appunto, in quanto la natura di questa spinta anelante dice di un non-ancora alla confluenza di un altrove, come per l’azione di una struttura anticipante della stessa coscienza. Pure questo oltre è in interiore homine; si è trascendenza viva.

Se così stanno le cose, l’imparare a morire che sottende l’esercizio filosofico come exercitium vitae ha a che fare con questo trascendere e sono già gli albori del pensiero a sancire questa irrecusabile spinta che è sempre vocazione ed incontro con la verità. Non si tratta, infatti, solo di una istanza epistemologica che risolve il logos nella cogenza del fondamento, quanto anche di uno scandaglio nella profondità umana che sottende un diverso statuto della verità, così che il mito ed il mistero vengono a caratterizzare lo stesso bios theoretikos. Da questo punto di vista ci appare del tutto confutabile un paradigma ermeneutico secondo cui il logos e la sua formulazione superi il mito e la sua forza di simboleggiare. Platone insegna il darsi insieme di mito e logos, ma la stessa tradizione contemporanea da Schelling a Cassirer allo stesso Pareyson elabora una filosofia del mito e delle forme simboliche come figure della filosofia che superino la stessa componente di calcolo e di oggettivazione della verità.

Per questo motivo il pre-filosofico inteso nella sua fenomenologia del tragico o della celebrazione del mistero con valenza celtica attesta una precisa intentio teoretica: quella di un sapere che scandisce l’allure della ricerca e che si attesta come ricerca d’una origine an-archica, indisponibile, già sempre data, già sempre ou-topicamente differita secondo il paradigma memoria-anticipazione. Su questa idea del rito come rappresentazione del mito intendiamo sostare diffusamente, dato che essa sottende sia una rottura dei piani cosmici, secondo lo schema katabasis-anabasis nonché l’istanza di una memoria ossimoricamente im-memoriale che non può rivelarsi se non nell’anticipazione e nella ram-memorazione.

Il primo momento di comunicazione fra mito e logos, così che si raggiunga un’architettonica del sapere è proprio questa sosta del pensiero dinanzi al rito. Prezioso, in tal senso, è il contributo di Jean Greisch che, in un contributo raccolto durante un dibattito pluridisciplinare sulla teoria sacrificale conia il termine di rituelle Vernunft, ragione rituale.14 Il termine direbbe dunque di un pensiero esplicantesi nello stesso processo rituale. Osserva Greisch:

Nietzsche, “sottile come sempre” (G. Van der Leeuw) dice del mito: "Non il mito getta le basi di un pensiero come intendono i figli di una cultura artificiosa, ma è pensiero esso stesso, il mito mette a parte di una rappresentazione del mondo, ma in conseguenza di un procedere, agire e patire. Chiediamoci in che misura questa distinzione invero sottile fra un pensiero fondato sul mito ed un pensiero intrinsecamente costituente il mito possa essere ricondotta al rito.15

Greisch si pone in modo problematico, esibendo le effettive difficoltà ad assumere una tale teoria, invocando per altro la definizione che Ernst Cassirer dà del contenuto della religione come attiva relazione fra uomo e Dio il cui climax è il culto e la cui sfera si radica nel mondo del sentimento e della volontà.16 Sembrerebbe, qui, in effetti, che sentimento e volontà si pongano in senso irrazionalistico e dunque in opposizione al logos. Se, tuttavia, ci riferiamo all’impiego logico del mito da parte di Platone fino a conferirgli una funzione tanto euristica quanto epistemologica, le distanze si accorciano notevolmente. Certamente, però, è necessario anche sottolineare che la categoria della volontà, almeno nella nostra accezione, è ignota al mondo greco e che il pre-logico, inteso come tragico è spesso ricondotto all’irrazionale. Ad ogni modo, anche qui, sembra emergere una figura come quella socratica in cui si dà una duplicità addirittura feconda, donde il necessario metodo dell’eironeia. Il daimon socratico che lo urge alla sapienza indica una sapienza che supera sempre il sapere logico, per la quale agire cercando il sapere e restando attestati sulla in-conoscenza. Se così stanno le cose, l’irrazionalismo può coniugarsi nel paradigma a noi più prossimo della volontà e del sentimento che implica una soggezione ad un’altezza e ad una sapienza mai deducibile, la cui possibile tangenza divina è data dalla ricerca. Ma, allora, non è possibile individuare nell’incedere del pensiero, attestato sul limite e spinto a tras. gredire sua necessitate il carattere di un drama, così che chiunque lo assuma come compito e vocazione divenga una dramatis persona, capace di suggerire ed accennare in quanto partecipante all’evento Indisponibile della verità?

L’intimo coniugarsi di ragione e passione conferisce al pensiero questa figura di approssimazione al divino, ma se è vero che lo stesso pensiero è ben oltre la ratio del calcolo e dell’adequatio, dialeghestai e procedere incessante, itinerarium in verum, è necessaria una sorta di posa in opera della verità, come insegna magistralmente Hans Georg Gadamer. Su questa base si può evincere che il rito è la rappresentazione del mito, dunque esso assurge ad evento, e più precisamente evento della verità. Compiamo ancora alcuni passi in compagnia di Jean Greisch per giungere alla tematizzazione del culto misterico come prima ed aurorale formulazione di un descensus che conduce all’adscensus. Il significato filosofico del rito è dato innegabilmente da una relazione fra immediatezza e mediazione, fasi entrambe necessarie, ma molto probabilmente occorre superare l’interpretazione hegeliana dell’immediatezza come una sorta di naivetè della ragione adottando piuttosto l’ermeneutica del non-prepensabile (un-vordenklich) e dell’indisponibile, già sempre là che induce allo stupore e mette in gioco la mediazione come didascalico cenno all’altrove, inducendo in ultima analisi l’idea già insita nella filosofia antica che sapiente è solo Dio e la giusta approssimazione a questa sapienza è la ricerca, che, ut sic implica la fatica della mediazione, dianzi ravvisata nella necessità della narrazione nella finitudine.

Questo implica altresì la necessità di delineare i confini del filosofico, di dirne la soglia, e nello stesso tempo di evidenziare il paradosso del pensiero che non può accontentarsi, il suo desiderio metafisico. Greisch, ben consapevole del nostro trovarci oggi nell’ambito di una krisis della ragione e nella ridefinizione di sue figure (a partire tanto dalla critica al logocentrismo, quanto all’onto-teologia che fa capo ad una sorta di heideggerismo), propone un percorso a ritroso verso l’origine della metafisica stessa, il cui nodo è, per così dire, la possibilità di pensare filosoficamente il religioso; tuttavia questo significa andare alla fonte del complicarsi di mito e rito:

Il tentativo di andare a ritroso verso l’origine della metafisica e da lì in avanti verso l’inizio del pensiero, se è così inteso, deve urtare sul problema della relazione fra mito e rito.17

Tale tentativo, tuttavia, potrebbe costituire una sorta di antidoto contro l’oblio di cui la filosofia si è resa, secondo Heidegger colpevole, smarrendo nell’ente l’essere e nella disponibilità della semplice presenza il non nascondimento della verità (a-letheia) in quanto il pensiero saprebbe ritornare a quella stessa fonte del suo incedere che si rivela sottraendosi alla sua presa.

Si pensi per un attimo al culto misterico greco: in questa massa di vita religiosa, quanto di filosofico si cela? Certamente occorre porvi attenzione, ma una chiara traccia della valenza filosofica è, a nostro avviso, ravvisabile nell’idea che il mistero avvolge e percorre la ragione e la sua indagine, tale che l’origine cercata e rammemorata non si riferisca sic et simpliciter ad un passato perfettamente immobile quanto ad un kairos che si pone come interruzione e compimento del tempo. Tuttavia, nel culto misterico greco tale interruzione è di natura topologica, data la rottura dei piani cosmici che si dà, come insegna il carattere psicopompo di Orfeo, conformemente allo schema adsensus-descensus.

La discesa ad inferos è indice di morte e rinascita perché si dà sempre un adscensus, un’ascesa che implica la vittoria delle forze vitali, una rinascita. Se è vero che si tratta soprattutto di culti associati alla figura della donna-terra feconda, come quello di Demetra, è però un dato fenomenologico inconfutabile che morte e vita si approssimano in un atto originario (il mito) che il rito ri-presenta sia pur in una mimesis evocatrice della potenza, come asserisce Van der Leuw. Ci serviamo proprio di una sua suggestione per meglio indicare questo descensus-adescensus.

L’autorevole fenomenologo asserisce, infatti:

Atto di salvazione. Consiste nel trionfare sulle potenze ostili alla vita. Ne deriva, abitualmente, un combattimento. Apollo uccide il pitone. Il gigantesco lavoro di Eracle nel dodeklathos è talvolta un fatto civilizzatore (vittoria sull’idra etc.), talvolta una prodezza del tutto mitica (conquista dei pomi delle Esperidi eccetera) ma vi è sempre lotta contro la morte e il salvatore conquista i suoi tesori (mandre di Gerione, mele d’oro, corno di Acheloo) contro la morte che il salvatore sconfigge e terrorizza (Ade e Persefone agli inferi, Euristeo). Del resto la morte è spesso associata all’atto della salvazione[…]. È necessario che la salvazione muoia.18

L’atto del morire appare effettivamente come un processo di metamorfosi che passa attraverso una prova; non solo la salvezza, che è riemergere delle forze vitali ne assume i tratti; si può parlare anche qui di un apprendimento del morire, per poterne tra-sgredire i confini. Si può usare questo tipo di codice per il pensiero, che assumendo con passione la propria finitudine fino a parteciparne carnalmente, divine anche in grado di assumere ciò che la supera, non certo per effetto di un’autoredenzione, come vorrebbero molte teorie spiritualistiche evocanti una sorta di neognosticismo, quanto invece come capacità di apertura all’inedito che lo supera. Anche qui, però, occorre tutto perdere, secondo quanto asserisce Schelling. Ed è forse proprio in questo senso che la kenosis, in tutta la sua pregnanza teologica, può legittimamente entrare nel pensiero.

3. Credere filosoficamente e pensare religiosamente: necessità di un chiasma

Contrariamente alla soluzione hegeliana, dunque, che sanciva l’Aufhebung della religione nella filosofia in quanto il concetto e non la rappresentazione segnava il trionfo dello Spirito assoluto (che pur contemplava, però, il suo venerdì santo speculativo), l’ipotesi qui prospettata è quella di ripercorrere e riconfigurare il rapporto fede-sapere, per mettere in evidenza come la prima mostri al secondo la sua provenienza nonché il suo senso (che è anche direzione) verso la verità che sempre lo urge, evidenziando, così, anche quanto la fede possa postulare, al di là della deduzione e dell’oggettivazione, la condizione di pensabilità dell’ulteriore. Siamo nell’ambito del desiderio metafisico che inaugura ed istituisce quella possibilità che già Heidegger ravvisava più in alto della realtà. Ben lungi dal voler riproporre lo schema fin troppo usato di un sapere che finisca subordinato alla fede, che si oppone a quello hegeliano, per rimanere, di conseguenza, sempre nell’ambito di un’opposizione non colmata, o quello di una filosofia cristiana il cui attributo sembrerebbe vanificare lo stesso sostantivo, intendiamo proporre un’ermeneutica del Cristianesimo, o altrimenti detta, una ragione della rivelazione e del kerygma che configuri una struttura chiastica in cui il pensare religiosamente rinvii ad un credere filosoficamente, volendo significare con questa seconda locuzione la capacità del pensiero di aprirsi alla comprensione del dato di fede, sia pur nell’ambito di un circolo ermeneutico, tale da presupporre che la rivelazione stessa inerisca alla struttura trascendentale dell’uomo. Così il pensiero non risulta affatto delegittimato dalla fede, anzi, può proceder ad una chiarificazione dell’esistenza. Si può quindi assolutamente affermare che il pensare si muove nell’ambito della fede, immerso in essa, eppure senza ricever da essa la propria struttura teoretica, in quanto già contrassegnato in senso trascendentale. Ad una filosofia del kerygma corrisponde altresì una fede ermeneutica, dunque una fede che sia alle prese essa stessa con un lavoro di comprensione del dato rivelato, quanto il pensiero è alle prese con questo immenso Postulato che lo attira e lo limita, dinanzi a cui deve solo ek-staticamente stupire. Si tratta di assumere l’ipotesi di fondo di una originaria gratuità in cui, a nostro avviso, la ragione è sfidata (in modo salvifico) dal mistero, e si pone come ermeneutica filosofica dell’evento di fede; ciò contribuisce allo sviluppo di un nuovo fecondo dialogo fra teologia e filosofia a partire da questioni teoretiche come creazione ed incarnazione, e da ultimo, resurrezione.

Ci sembra che un tale tentativo possa valere come risposta ad Heidegger che paragonava il rapporto fra teologia e filosofia ad un ferro ligneo.

In fondo, fede e sapere, in questa struttura chiastica non sono antagonisti, ma compagni di viaggio;la prima sempre pronta a spezzare l’insolente identità, il secondo sempre pronto a fornirle una logica, sia pur quella del paradosso. In fondo, se è vero che si pensa perché non si è a casa, secondo la bella affermazione di Novalis, è altrettanto vero che si crede perché questa patria dove non si è (E. Bloch), è prefigurata in un già da sempre che si configura come mistero. La nostra prospettiva è, per l’appunto, la ragione del mistero. Consequenziale è la questione che concerne il rapporto fra l’identità cristiana e la filosofia, specie in una tematica come quella che stiamo trattando, ma proprio in virtù del fatto che il Cristianesimo stesso sottende il rapporto tensivo fra ragione e mistero.

Ci troviamo dinanzi ad una krisis che sottende, tuttavia, un kairós sia per la fede che per il sapere. Per la fede, essere alla prese con il Mistero implica anche aprire una grande possibilità di simbolizzazione, affidando questo evento al pensiero; altresì per quest’ultimo, essere alle prese con il Mistero significa liberarsi dalle strutture entificanti per aprire una prospettiva ermeneutica sulla vita. Possiamo dire di aver impiegato la parola krisis in senso husserliano, perché questa proposta radicale permette di riappropriarci autenticamente del nostro essere al mondo, intenzionando, dopo un’epoché che ci faccia tornare al mondo della vita, quell’eccedenza di senso che inerisce a questa simbolizzazione.

L’annuario filosofico europeo ha dedicato nel 1995 un numero della propria rivista a cura di Jacques Derrida e Gianni Vattimo alla religione19 prendendo in esame da più parti le sue implicazioni filosofiche. Una posizione di tutto rilievo, senza affatto sminuire le altre, ci è sembrata quella di Aldo Giorgio Gargani che riconduce all’ambito del religioso l’evento e l’interpretazione, proponendo un modo diverso di riavvicinare filosofia e teologia, fede e sapere.

Egli osserva che non si tratta tanto, sia da un lato sia dall’altro, di una rifondazione epistemologica e metafisica; qui si pone innanzi tutto una rinuncia alla rifondazione teoretica delle entità di cui si è occupata la teologia, così da poter finalmente superare la metafisica della presenza degli oggetti (e questo è assolutamente importante anche per la stessa teologia che si propone un discorso sulla fede):20

La nostra visione rimarrà inevitabilmente superficiale finché non oltrepasseremo la metafisica della presenza degli oggetti teologici e finché non risaliremo a quel vertice che coincide con l’esperienza effettiva dell’attualità della religione, che riconosce nel discorso religioso una prospettiva ermeneutica secondo cui guardare alla vita. Vedremo allora cadere come distinzioni inerti le dicotomie tradizionali fra vita terrena e vita celeste, tra inferno e paradiso, tra umanità e divinità per ingaggiare noi stessi nel gioco più alto e fecondo delle loro affinità e differenze. Ora, le differenze non segnano scoscendimenti o abissi insuperabili fra le regioni del discorso, ma al contrario il loro interno coinvolgimento nell’economia di un discorso che si riconosce come tale e procede come discorso interminabile.21

Appare chiaro, in questo passaggio, che il superamento della teologia della semplice presenza, non solo apre una prospettiva differente alla fede, nell’ambito di un più profondo recupero biblico che attesta una fedeltà, da un lato al progetto barthiano di istituire un discorso teologico sic et simpliciter sull’ab-solutezza della Parola di Dio, dall’altro a quello heideggeriano di intendere un Dio non contaminato dall’essere. Questo, tuttavia, implica anche una prospettiva feconda dello stesso sapere che si vede implicato o ingaggiato come dice Gargano nella stessa effettività della vita, nell’adesione ad un progetto.

Su questo sfondo, risulta di una grande attualità la lezione heideggeriana che vede nell’esistenza per la fede il tratto più autentico di una fenomenologia della vita religiosa. In effetti, la chiave di lettura è propriamente costituita dalla centralità di un evento che s’incunea nel tempo della storia come possibilità già qui ed ora della redenzione fungendo da possibilità euristica della propria vita. Continua Gargano:

la modalità di recupero e di attualizzazione dell’esperienza religiosa consiste esattamente nel movimento di riflessione e di esperienza che riavvicina la religione all’immanenza, che ne riconosce i simboli nelle figure della nostra vita. Non dunque nel movimento inverso che procede a rovesciare le condizioni del mondo umano nell’antefatto di enti e ed eventi trascendenti. La trascendenza religiosa non potrebbe nemmeno essere menzionata se essa non fosse una differenza che emerge dalle figure attuali della nostra esperienza. […] Alla fine il religioso non risulterà il discorso che scopre o fa vedere un Altro Oggetto, un’Altra Entità, ma un termine di confronto secondo il quale vengono reinterpretati gli oggetti e le situazioni della nostra vita, facendoli assurger al livello di una straordinaria forza simbolica.22

Sembrerebbe la fedele traduzione filosofica di uno dei nuclei più importanti della teologia paolina, che poggia, appunto sul cardine della resurrezione come quell’evento che è già ora, in virtù del suo apax con valore kairologico, così che la resurrezione funga da prospettiva ermeneutica. Scrive Paolo (Colossesi 3, 1-4):

Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio, pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi, infatti, siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria.

Filosoficamente l’esperienza della trascendenza si esplica come un sym-ballein, un’attività simbolica che pone insieme due dimensioni e che ha per esito i postulati della ragione come forme non solo regolative ma euristiche, tali da permettere una differente lettura della vita. Un’esperienza al di là dell’empirico che accade come inedito e gratuito nella stessa esistenza incarnata.

Teologicamente questa trascendenza che è ad un tempo approssimazione alla storicità dell’uomo ha nome resurrezione. Paradossalmente, della resurrezione si dà esperienza — eccoci tornati al paradosso della verità che ha accompagnato il nostro percorso — e Paolo ne indica le condizioni, soprattutto una: assumere la vita di Cristo nell’ora, là dove questa assunzione si pone ancora una volta come capacità di spogliazione di sé (le cose della terra). Tuttavia, anche in tal caso, occorrerà evitare una lettura entificante. La resurrezione si dà qui ed ora per la potenza della Parola di Dio che implica una decisione tale che si può vivere qui ed ora come se si fosse già risorti; altrettanto le cose della terra sottendono l’opacità dell’esistenza finita nel mezzo della quale l’ultima Parola di Dio dice la sua onnipotenza nella stultitia crucis. Allo stesso modo Paolo non vuole sapere altro che Cristo e Lui crocifisso. La predicazione paolina del Cristo crocifisso-risorto che penetra il già dato della vita fattizia, da assumere fenomenologicamente, è quanto di più autentico si dia, secondo Heidegger per contrassegnare un’ermeneutica della fatticità, nella quale però la Sinngebung emerge proprio a partire dalla decisione per il kerygma. In ogni caso, il kerygma della Resurrezione che prelude all’attesa della parousia, non è staccato dall’annuncio scandaloso che il Crocifisso risorto è il termine dell’ultimità del tempo e della contraddizione rispetto alla fatticità della morte, come emerge in Paolo.

Seppure solo significata, proprio nel senso di data nei segni ed in primis quelli che sottendono il primo sostentamento della vita dell’uomo, — il banchetto eucaristico ne è sigum efficax — la resurrezione, come mistero di un’approssimazione alla trascendenza in virtù del suo manifestarsi nella creaturalità funge da paradigma che permette di gettare un differente sguardo sulla vita, rileggendo da un punto di vista filosofico lo stesso desiderio che la intesse e che si attesta come salvifica interruzione.

Se così stanno le cose, la filosofia è necessariamente alle prese con il mistero della religione cristiana, quanto lo stesso Cristianesimo deve affidarsi, in quanto interpellante la storicità, all’elaborazione di senso e alla decisione responsabile del singolo. Eppure la topologia che se ne viene a determinare presenta una sorta di discontinuità.

Gargano fa ancora notare:

Il mistero della religione cristiana non è stato annunciato all’origine come amore, cioè come la passione paradossale che scopre la disperazione e l’impossibilità della salvezza nella forma della vita umana che si sottrae al rapporto con l’altro e alla tensione inevitabile che la accompagna? Il mistero religioso si è alla fine annunciato come un sintomo e un richiamo che provengono da tutto quanto trascende l’identità nella quale l’uomo si chiude e si barrica, cioè la sua equazione autoriflessiva, il punto di fuga dalla realtà, dalla storia dell’amore e del dolore, cioè il punto di un’evasione che diviene il carcere nel quale egli è destinato lentamente a soffocare.23

Ciò implica necessariamente un pensiero dell’eteron ove, confutando del tutto il principio di non contraddizione, l’alterità deve darsi come richiamo stesso al pensare, preso nella sua nostalgia; né mai deve risolversi concettualmente: il pensiero non può non essere guidato oltre, verso il nostos che misteriosamente gli preme dentro. Ed ecco dunque che ancora una volta ragione e rivelazione si guardano in una inedita prossimità. Allora si può davvero rispondere alla do manda su come entra Dio nella filosofia, senza le contaminazioni e le antiche ipoteche entificanti. Risulterà, altresì, possibile presupporre nella kenosis e nella Croce, che — all’avviso di Lutero — dice di una revelatio Dei sub contrario una fondazione filosofica di diverso tipo. Si tratta, tuttavia, qui, di abbandonare il carattere logico deduttivo di un pensiero che, basandosi sull’identità, abbia in sé il proprio cominciamento e ravvisi nell’altro da sé un mero momento della sua consapevolezza alterata (in alio) per comprendere in modo più pregnante il nodo di ragione e rivelazione.

La Rivelazione è la ragione entrata nella ragione come afferma Tillich, e quindi, per quanto ne determini la non sufficienza — infatti la domanda perché vi è l’essere piuttosto che il Nulla permane inesausta — è in ogni caso l’impulso a compiersi.

Si deduce, così, che il pensiero filosofico, in realtà, deve la sua origine ad un ulteriore paradosso: l’eteronomia che gli fa muovere i suoi passi determina de facto la sua autonomia. Dovremmo forse formulare meglio tale paradosso e, di certo, non vi è nessuna categoria più efficace che non quella della correlazione.24

Qui, tuttavia, ci troviamo dinnanzi ad un’esigenza ineludibile, quella di pensare dal punto di vista del kerygma cristiano il cui specifico è esattamente quello dell’Incarnazione e della Resurrezione; si tratta perciò di partire dall’impossibile possibilità della correlazione Dio- uomo, come direbbe Karl Barth, tentando la misteriosa lotta con l’Angelo nella consapevolezza che occorre recuperare un nuovo rapporto fra ragione e desiderio, malgrado la coscienza di un inedito e di un quid novi (la Resurrezione) che segna il tempo della povertà del pensiero, ma forse la sua grandezza.

4. L’irruzione del Cristianesimo: l’inedito ed il paradosso

Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso

(1 Cor 2, 2).

L’irruzione del Cristianesimo nel pensiero risulta essere una contaminazione feconda e salvifica. Il declino della parabola greca, infatti, non segnava certamente solo il compimento di una via teoretica, ma anche e soprattutto la capacità di rendere ragioni di un Novum, provando ad abbandonare gli schemi consueti, o anche ad espanderli secondo le nuove acquisizioni. Non a caso, in effetti, gli albori del Cristianesimo, tutti incentrati sull’apologetica, hanno identificato la Rivelazione biblica con la vera filosofia da sempre cercata. Naturalmente questo non può lasciar supporre sic et simpliciter che si sia trattato di una mediazione senza drammi; la fatica di pensare lo skandalon dell’annuncio ha gravato sui Padri, come ha gravato sul grande annunciatore dell’Evangelo di Cristo, fino a lasciar presagire l’insufficienza degli schemi sapienziali fin ora praticati.

Occorrerà individuare i punti discriminanti che hanno dato origine a questa singolare e paradossale tangenza, giunta fino al capovolgimento della stessa sapientia in sapientissima stultitia, fino a che la correlazione fra Croce e Resurrezione non si è attestata all’orizzonte di un tempo nuovo come pretesa di indefettibile Verità, come irrimediabile sfida, visto che essa assumeva i tratti carnali di un uomo, per di più umiliato e crocifisso; tratti carnali di un corpo fattosi mortale per aprire la via della stessa Verità.

Sosteremo innanzi tutto sul concetto di Verità, al fine di individuare la prima ed irriducibile identità nella contraddizione. La parola greca che traduce il termine verità italiano e veritas latino è aletheia. Essa ricorre sia nel contesto filosofico greco-classico, ma ricorre altrettanto nella versione greca dei Vangeli. In ogni caso l’intensio del termine stesso è totalmente altro.

È proprio Heidegger in alcune delle sue pregnanti riflessioni a definire la verità secondo uno dei capisaldi della tradizione filosofica occidentale.25 Se, da un lato, la verità è il modo della svelatezza, (Unverborgenheit), essa, come insegna il mito platonico della caverna, fa si che:

le cose stesse in n certo modo mostrano la loro e-videnza senza più essere dissimulate dalle ombre

Dunque c’è un grado della verità (a-letheia) che è quello del non nascondimento, ovvero della svelatezza. Questo, tuttavia, è anche il grado che implica la visione delle cose secondo l’eidos, l’idea, concetti intercambiabili con quello di e-videnza; tuttavia questo stesso risplendere (ancora una volta l’idea), è possibile in virtù della fonte della luce che permette tale disvelatezza, che Platone ravvisa nell’idea del Bene.26

Se le cose stanno così, il radicamento della verità al bene designa un’istanza sur-ontologica tale che essa non può risolversi in una mera adequatio intellectus et rei. L’apparire dell’eidos come risplendere è reso possibile da quell’idea teleutaia che compie l’essenza della cosa.

Tuttavia, si dà, qui, un ulteriore passaggio che Heidegger non manca di sottolineare con assoluta perizia. Si passa, infatti, dalla svelatezza alla correttezza della visione, in modo tale che l’apprensione si dirige verso l’ente nella direzione giusta, così che possa aver luogo la verità dell’asserzione. Dunque resta l’ambiguità che trasferisce il problema di ciò che è svelato al vedere che si riferisce alla disvelatezza, ovvero alla correttezza del vedere.

Questo passaggio è fondamentale, per il fatto che rende ragione di come, successivamente, nella tradizione scolastica, l’intelletto nella sua attività di giudizio, si rivela come uno dei luoghi della verità, facendosi che la sua definizione sia, per l’appunto, adequatio intellectus et rei.

Da questo punto di vista, resta in ombra quel nodo così importante, quanto disatteso e nuovamente recuperato che coniuga la verità nel senso del Bene; ed è forse per questo stesso motivo, che il Cristianesimo ha potuto trovare una mediazione culturale in questo punto nodale del platonismo. Tuttavia, è necessario esaminare la figura della verità che emerge dal kerygma cristiano alla luce dell’Incarnazione nonché alla luce del riconoscimento eterno da parte del Padre della messianicità del Figlio, la cui esistenza terrena si rivela come pienezza di grazia perché ipostatizzata nella Parola eterna.

Un documento imprescindibile sembra essere a nostro avviso il Prologo del Vangelo di Giovanni, dove il Verbo si presenta come luce vera che illumina ogni uomo generato da Dio, come Parola divenuta uomo di cui abbiamo contemplato la gloria: pienezza di amore e lealtà.27

Il termine di lealtà traduce la parola greca aletheia. Tuttavia, essa viene resa in tal modo a partire da un contesto ebraico, che sovente la impiega nell’ambito di endiadi e che rende il termine emet, fermezza e, conseguentemente, verità, sicurezza, lealtà. Quest’ultima, infatti, è l’evidenza dell’amore.28

Si evince dunque che la verità è un attributo di Dio, che ne rivela, come in Esodo l’assoluta fedeltà, così come il fatto che la verità è una libera iniziativa della Rivelazione divina, tanto da avere l’ineludibile carattere di grazia. Tuttavia, questo significa che essa sancisce un carattere personale e relazionale. Si può provare a leggere, con questa chiave ermeneutica l’incipit del Prologo:

Al principio la Parola già esisteva e la parola si rivolgeva a Dio e la Parola era Dio. Mediante essa tutto cominciò ad esistere, senza di essa non cominciò ad esistere cosa alcuna di quanto esiste. Essa conteneva vita e la vita era la luce dell’uomo: questa luce splende nelle tenebre e la tenebra non l’ha soffocata.29

La Verità che si rivela è la Parola stessa con cui Dio crea, così com’è la stessa Parola di Dio in Dio. I due genitivi, soggettivo ed oggettivo implicano tanto il performativo dell’azione quanto il suo contenuto. Il Verbo che pone fra noi la sua tenda è racconto di Dio e sua spiegazione. Una spiegazione di verità che si radica nell’adesione d’amore del Figlio al Padre.

Dunque, non si tratta tanto di un risplendere che richiede la correttezza dello sguardo ma di una luce che rende possibile ad ogni generato da Dio la stessa adesione del Figlio. Si avverte già in nuce l’idea di un Dio persona che si rivela perché autorivelazione.

Tuttavia, qui, vi è più di un non-nascondimento nel senso dato dal pensiero classico. L’auto-rivelazione divina è, infatti, un evento patico che implica una partecipazione. Come giustamente osserva Michel Henry:

Rivelarsi agli uomini per Dio non potrebbe significare altro che partecipare loro la propria autorivelazione eterna. Il cristianesimo non è altro, in verità, che la teoria stupefacente e rigorosa di questa partecipazione agli uomini dell’autorivelazione di Dio.

Per questo motivo:

essa non potrebbe consistere nello svelamento di un contenuto estraneo alla sua essenza e trasmesso non si sa come a qualche iniziato.30

Radice della Verità è dunque la Rivelazione divina, ma affermare questo, significa anche sottolineare una differenza rispetto alla verità del mondo sottesa dal phainestai greco; in effetti è proprio il Prologo giovanneo ad evidenziare come la luce della Rivelazione che viene come grazia e verità è destinata a risplendere senza essere soffocata, ma pur sempre non accolta dal mondo come sua. Dunque, la mediazione filosofica, ostende già alcune contraddizioni rispetto al nucleo della Verità del Cristianesimo, paradossalmente apparsa nel mondo senza appartenervi.

Ancora più paradossale è il fatto che tale Archi-rivelazione, contrassegnata anche da Giovanni con il termine Logos abbia il suo climax nella carne d’un uomo in cui abita tutta la pienezza della divinità, inaudito per il greco, la cui sapienza è legata all’incorporea e celeste attualità del motore immobile destinato ad assoluta lontananza rispetto alla corruttibilità del mondo dei corpi, o anche all’idea di un logos che tiene insieme, leghein, e raccoglie l’essente, secondo la lezione heideggeriana, in ogni caso, principio razionale del mondo. Tuttavia, questo nucleo auto-rivelativo è altrettanto inaudito per l’ebreo uso alla Trascendenza senza immagini ed alla Indicibilità del Nome. Indubbiamente il Cristianesimo esprime un paradosso. Esso, infatti, nel suo kerygma originario sancisce il linguaggio della Charis avanti l’essere, che contraddice il nucleo ontologico del pensiero classico, nonché la possibilità inaudita che l’epifania suprema della Trascendenza divina abbia trovato il suo compimento nell’apparire di un Dio incarnato. Qui, si trova ancora un paradosso nel paradosso; non l’impotenza dell’uomo a pronunciare il Nome di Dio, ma la stessa volontà divina di pronunciare il Suo Nome nell’impotenza (kenosis), nella fragilità stessa della vita dell’uomo, divenuta la stessa manifestazione della Vita originaria.

Il nome della Verità cristiana è Vita ed in essa ogni uomo è vivente, ma nella stessa vita del Vivente manifestato come Verbo incarnato. Da questo punto di vista il discrimine è ineludibile. Il primum movens della metafisica, costretto nell’alta necessità di pensare se stesso, ignora il pathos della vita; forse la pronoia plotiniana può avergli inferto un piccolo colpo; tuttavia neppure con l’eminente pensatore neoplatonico muta l’aspetto gerarchico di una processione dell’Uno-bene in processioni sempre più lontane e corruttibili. La Rivelazione cristiana, al contrario, dice di un procedere di Dio da Dio (il riferimento è sempre al Prologo giovanneo) che nulla perde di sé, neppure nel processo kenotico, che anzi permette di divenire figli di Dio. Quanto diverso è il Logos giovanneo dalla sfera ben piena dell’essere dove tutto è identico e sazio di sé. Si può sostenere che il primo processo all’ontoteologia sia ravvisabile nella Scrittura ebraico-cristiana che invita assolutamente a pensare con ben altre categorie.

Tentando una prima sintesi, si potrebbe asserire che l’assoluta contraddizione del Cristianesimo sia data tanto da uno sviluppo inedito dell’Agape epekeina tes ousias, così come dalla singolare lettura di essa come kenosis originaria, attorno a cui s’impernia il mistero dell’incarnazione.

L’Agape rivela, altresì, come questo donare/donarsi (Ex parte Dei) sia una spogliazione che pure non impoverisce il mistero divino,31 anzi la kenosis (svuotamento/spogliazione) rivela nel supremo momento della sua manifestazione ciò che era all’inizio fra Dio come origine e Dio come Parola nella perfetta unità dell’Agape, ovvero la creazione come bene scelto. La sua ferita, che potremmo dire escatologica era già la stessa piaga del Principio, quella stessa che dice di un dramma nel cuore di Dio (Von Balthasar direbbe Teodrammatica) per cui l’essere è chiamato.

Teodrammatica come ontodrammatica, quindi, a dire di una fondazione indeducibile e paradossale nella quale la ragione stessa intuisce l’altra sorgente (sia pur luminosamente oscura) della Verità. Si dà, quindi, una sorta di filosofia apofatica, un termine mutuato alla teologia mistica, in quanto essa si riflette nella luce del mistero che la sostiene; tuttavia la riflessione non è, in tal caso, un atto su se stessa e sulla propria capacità di conoscenza, quanto un’apertura ek-sistenziale a quell’Alterità più prossima ed intima.

Si tratta dunque di ripensare la questione in modo fenomenologico, annodando Kenosis ed Incarnazione ed entrambe alla possibilità di un’ontologia dell’essere umano. Questo, per intendere che il nodo è tanto teologico, quanto antropologico. Il Cristianesimo implica infatti un’altra visione del mondo e dell’uomo. Tuttavia, questa istanza si collega al concetto già espresso della Verità cristiana come Archi-manifestazione della Vita del Vivente. Essa, infatti, non consiste sic et simpliciter in un manifestarsi indifferente a tutto ciò che manifesta,32 ma implica la capacità donata all’uomo di patir-si come Figlio nella stessa generazione di Dio. Come chiosa Michel Henry stesso, dunque, se il Verbo ha dato all’uomo il potere di divenire Figlio di Dio è necessario accomiatarsi da ogni fenomenologia del mondo.33 Ed ecco dunque affacciarsi la dicotomia fra l’essere nel mondo e il non essere del mondo che inerisce al Cristo, l’Archifiglio, nel quale, recita un locus classico della teologia paolina noi siamo Filii.

Così, se lo splendore della divinità abita in Cristo, Verbo eterno, ogni vivente è vivens gloria Dei. Tale incorporazione a Cristo è la mirabile bellezza del kerygma cristiano, ma anche ciò che provoca il tormento della ragione. In effetti ciò che si manifesta dell’uomo, sia pure l’uomo trascendentale della filosofia è il mistero nascosto nella vita di Cristo in Dio, il cui nascondimento sancisce un inequivocabile rovesciamento: una revelatio sub contrario. Tuttavia, questo è conforme allo schema adscensus-descensus ricorrente nella teologia paolina, perché, infatti, chi è stato abbassato se non colui che era stato innalzato da sempre?

Ed ecco dunque affacciarsi in maniera sempre più pronunciata lo specifico del Cristianesimo che può recuperare, solo contraddicendo, le culture; ovvero l’avvento di Cristo nella storia ed il suo irrompere come Mistero di Dio e come Parola rivolta.

Questo implica, altresì, un diverso paradigma di sapienza che è quello della conversione alla Sua stessa Vita, quello dell’adesione alla Verità sottesa al suo venire nel mondo come Luce. Una tale sapienza, tuttavia, si esprime nel pathos della propria vita ove è possibile portare la memoria Christi proprio a partire da quella dell’hadamah che siamo, in modo tale da non cadere nell’oblio circa la capacità di rinascita. Ancora una volta, in modo pregnante osserva Michel Henry:

Il Cristianesimo afferma la possibilità per l’uomo di raggiungere la Vita assoluta di Dio, Vita che ha preceduto il mondo, il tempo, la Vita eterna. Una tale possibilità significa per l’uomo nientemeno che la salvezza. Raggiungere la Vita assoluta senza inizio né fine, significherebbe unirsi ad essa, identificarsi con essa, vivere nuovamente di questa Vita che non nasce e non muore; vivere come essa, al modo in cui essa vive, e non morire.34

Ci vorremmo soffermare sull’espressione impiegata dal filosofo francese che suona raggiungere la Vita assoluta di Dio. Essa va esaminata sia da un punto di vista di antropologia filosofica, sia come assunto teologico tout-court. Il primo punto di vista ci richiama più propriamente ad una istanza fenomenologica dell’esistenza: essere nella vita implica, infatti, un’apertura trascendentale a quel primo e originario manifestarsi della Verità che è il contenuto stesso della Rivelazione divina. Dunque, questo si traduce in una fatticità incontrovertibile per cui l’esistenza è intenzionalità di un senso che la precede e la sostiene e la caratterizza come desiderio e come speranza. Se, come asserisce giustamente Henry, è necessario che la vita riguadagni la centralità della riflessione teoretica e non sia più la parente povera della filosofia, questo recupero non può essere senza le altre due componenti, ovvero desiderio e speranza per cui l’uomo è a se stesso magna questio, mistero e volontà di superamento. Tuttavia, tale possibilità di raggiungimento, si esprime per il fatto che l’Archi-manifestazione rivela il telos della natura umana; quello di essere vivente nel Soggetto di tale manifestazione. Assistiamo ad un richiamarsi di fenomenologia e vitalismo di sapore bergsoniano: nell’Assoluto siamo, ci muoviamo ed esistiamo. Siamo come possibilità di un continuo esperire la nascita, ci muoviamo perché il nostro esser-ci è in sé, senso e direzione, praxis theleia, esistiamo, perché capaci di riconoscenza dinanzi al Majus. Così scaturisce sempre la fonte della ri-generazione. Inoltre la stessa radice di de-siderare dice già di uno slancio verso il divino ed il mondo siderale, uno slancio di nostalgia per quella patria dove non si è ancora e pure sempre presagita, così come la stessa radice di speranza sottende un altrove; si annodano così strettamente filosofia e vita, come nell’epitaffio che Ernst Bloch ha voluto si scrivesse sulla sua tomba: denken heißt überschreiten.

Il secondo punto di vista, quello teologico attesta in realtà che l’essere filii in Filio è essere già risorti; si vive da risorti la propria esistenza mortale. Il mistero antropologico che ci fa attestare sulla domanda stupita circa la nostra identità: quid est homo si chiama in realtà Resurrezione. La cosa è di fatto ancora, come ai tempi del risuonare del kerygma evangelico, skandalon; nonostante ciò esprime una verità fondamentale dell’esser-ci umano. Essa ci interroga, in primis sulla nostra adesione, ma anche sulla capacità che la coscienza dell’essere risorti nel Risorto ha, di incidere sull’oggi della nostra esperienza. Non è affatto di poco conto; anzi, qui si invera forse il carattere annunciatore della filosofia di Ernst Bloch che il nostro al di là è il nostro prossimo al di qua. In termini teologici, diremmo l’aspetto storiografico della Resurrezione.35

E. Falque, in una sua conversazione presso l’Università di Macerata sottolinea con forza la necessità che la Resurrezione tocchi e interroghi la nostra esperienza e sia oggetto del nostro pensare. Cifra ossimorica e paradossale, essa è però un criterio ermeneutico del rapporto nodale fra verità e finitudine:

Ora, bisogna ammettere che la Resurrezione appartiene a quel tipo di teologumeno del quale oggi non si parla o, almeno, si parla poco e limitatamente ai commentari esegetici e omiletici dei racconti delle apparizioni. Ciò accade non perché essa non costituisca più il cuore della fede — S. Paolo non cessa di insistervi (1Co15, 1-4) —, ma tale omissione deriva dal fatto che non la riconduciamo più ad un’esperienza o ad un vissuto capace di darle un significato anche per noi, oggi.36

Occorre, dunque, riflettere sul senso e la filosofia non può assolutamente esimersi dal fare i conti con questo evento immenso che davvero cambia tutto sancendo una contraddizione del qui ed ora, ed insieme una continua redenzione del qui ed ora, perché, infatti, se la Resurrezione nella sua luce retrospettiva verso la Crocifissione è la definitiva Rivelazione di Dio, la sua definitiva Parola sull’uomo, come potrebbe non afferrare la storia ab intrinseco, operando già quella trasformazione escatologica cui ci destina il Progetto soteriologico del Padre?

D’ altro canto, una filosofia che si riconosce come ermeneutica del Cristianesimo non potrebbe mai rendere ragione del proprio statuto epistemologico senza cercare di riflettere sul senso della salvezza, riconoscendo nella Resurrezione la cifra ermeneutica di quel mistero disvelato da sempre presente nelle culture umane?

Restituiamo la parola ad E. Falque per lasciarci guidare in questa riflessione:

L’incarnazione cambia tutto”, la formula non è di un teologo ma di un filosofo (M. Merleau Ponty). Ma l’appello filosofico alla teologia — poiché il “diventare carne” (Es wird Leib) viene qui, da Husserl e non dai teologi — deve ora essere sostituito da un appello teologico alla teologia, anche se questo va messo in atto con i mezzi della filosofia: “La resurrezione cambia tutto”.37

Il passaggio lascia subito notare un’interpolazione fra filosofia e teologia in cui, per altro, si può ravvisare la necessità di una correlazione. Non più posizioni ancillari si tratta, infatti, che riporterebbero la teologia in una posizione di preminenza ed esporrebbero forse la filosofia ad una tentazione risolutiva che demandi ad altra scienza quanto le appartiene per vocazione; questa implica, al contrario, il prendere sul serio il problema dell’uomo, del suo modo di essere al mondo e di patire la vita, di riconoscersi depositario di un mistero, proprio nella sua carne senziente e cosciente. La carne (Leib) è, in effetti, l’apertura intenzionale e trascendentale che fa dell’uomo il cercatore-testimone di un senso, e manifesta la condizione di possibilità di una co-nascita nel mistero stesso che lo sostiene ed interpella. Dunque essa è in grado di intersecare filosofia e teologia, manifestando proprio quel paradosso della Verità che attraversa tutto il Cristianesimo e che si può forse riassumere con il bell’adagio di Tertulliano caro salutis cardo. Tuttavia, come già visto sopra, non era del tutto estranea alla filosofia antica, specie ad alcune tradizioni su cui ci siamo soffermati, l’interrogazione sul senso della salvezza, sia pur intesa come telos dell’uomo compiuto; il concetto teologico di incarnazione, che la filosofia mutua, specie nelle sue espressioni fenomenologiche, contribuisce ancor di più a sottolineare come l’idea della salvezza riguardi la fatticità umana nel suo concreto esistere, e non può dimenticare l’umanità che si esprime in una carne determinata smarrendola nella totalità del concetto, sviando in esso ogni domanda di senso. Per parafrasare Pascal, sarebbe una filosofia risibile. L’appello filosofico alla teologia sarebbe forse l’invito a sostare insieme su questa domanda dell’uomo, nella quale e per la quale può risuonare l’inedito appello di Dio.

Qui, però, deve risuonare anche quello teologico alla teologia che si traduce nell’invito a fare della resurrezione non la cifra di una trascendenza indistinta, ma il centro dell’annuncio di un evento che focalizza ancora di più la domanda dell’uomo presumendo in verità di dire l’ultima parola sull’uomo. Se questo è vero, non si prescinde dalla condizione di incarnazione. L’incarnazione è un perno fondamentale che permette al Cristianesimo di affermarsi nella sua specificità che contraddice ogni dualistico tentativo di fuga ed ogni tentazione spiritualistica di tipo ellenizzante; se siamo già in Cristo figli della Resurrezione, portiamo il Suo mistero di gloria già nella nostra carne e lo anticipiamo cercando le cose di lassù, secondo quanto scrive Paolo. Non si tratta qui di una mera immortalità relegata all’incorruttibilità di un’esistenza incorporea. Se la Resurrezione ha un significato per la nostra esperienza è già qui ed ora che viene vissuta, pur in questo corpo di morte che la potenza del Padre mediante il Risorto trasformerà ad immagine di quella stessa gloria che è da sempre nel Mistero trinitario. Ciò implica l’idea fondamentale ed incontrovertibile della creaturalità come istanza antropologica.

C’è però dell’altro; la condizione di risorti implica una trasformazione, categoria che Falque ha molto felicemente espresso ricorrendo alla locuzione (che dà il titolo ad una sua opera uscita nel settembre 2004) metamorphose de la finitude.38 I due concetti di trasformazione/resurrezione sono importanti perché si prende sul serio, da un lato, la morte e la finitudine, e dall’altro la forza capace di trasformare, ovvero la resurrezione. Procedendo in questo modo si evita di pensare in modo dualistico; anzi la resurrezione viene assunta filosoficamente come categoria trascendentale per dire di un altrimenti essere al mondo. Singolare è però il fatto che Falque parli di un pensiero dell’analogia, la cui pregnanza metafisica deve essere assolutamente rilevata, perché in esso si ravvisa ben più di un kantiano als ob, qui si dà, in effetti, l’idea di un compimento già avvenuto in Principio (in Cristo, come direbbe Agostino), la cui efficacia è già sperimentata nella stessa esistenza carnale. Questo pregnante nodo analogico è il battesimo. Sarà, in ogni caso, opportuno seguire Falque nel suo denso passaggio:

Ecco, allora, la domanda di Nicodemo a Gesù: “Come può un uomo entrare una seconda volta nel ventre di sua madre per rinascere? (Gv 3, 4). Lungi dall’evitare la risposta, Cristo fa esplicitamente uso dell’esistenziale della nostra ”nascita nella carne“per dire della nostra ”rinascita spirituale“; ”Quel che è nato dalla carne è carne, quel che è nato dallo Spirito è Spirito (Gv. 3, 6). Questo versetto è solitamente interpretato in maniera dualistica mentre deve essere inteso prima di tutto in maniera analogica. La formula, infatti non esorta ad opporre la carne (sarx) e lo spirito (pneuma), ma, invita, al contrario a pensare analogicamente ciò che accade nella resurrezione, della totalità dell’uomo e ciò che si vive nell’atto di nascita di ciascuno degli uomini.39

Nascita e rinascita sono connesse così come carne e spirito. Avere la vita significa nascere dall’alto ma si sperimenta questa nascita in quanto si è carne patica, corpo senziente la Vita. Ma questo significa dire che ciò che nasce dalla carne nasce davvero solo perché è già rinato nello Spirito, questa è la condizione di risorti. Resta per noi, come già per Nicodemo l’inaudito: come? Falque prosegue:

[Detto altrimenti, come la tua carne è nata alla carne nell’atto della filiazione e della generazione, così lo spirito è nato dallo spirito nell’atto del battesimo e più ancora nella resurrezione finale — dove la seconda (la resurrezione del corpo) arreca al primo (il battesimo) quella dimensione carnale che gli mancava e che, tuttavia, deve essere colta in ogni nascita. Rinascere significa nascere dall’acqua e dallo spirito, rinascere con il corpo allo stesso modo in cui io stesso sono nato dalla carne e traggo l’altro dalla mia propria carne, carne nella quale i nostri corpi restano per sempre intrecciati in un’unica trama. Sulla sica di questa conversazione di Gesù con Nicodemo, la nascita funge così da esistenziale alla resurrezione ed essa sola le dà senso, impedendole di restare una sorta di “parola vuota”, o di flatus vocis fintantoché non è riferita ad un’esperienza che appartiene anche alla nostra umanità.40

Si apre, così, uno spazio di riflessione molto pregnante sul senso stesso di questa rinascita-trasformazione che ci riporta, però, ad un agire teandrico. Se l’esperienza della Resurrezione appartiene alla nostra umanità è perché la Potenza della vita divina in Cristo ha preso su di sé l’esperienza della morte, facendola diventare propria, come affermava Lutero quando asseriva che la passione di Cristo equivale alla morte di Dio in Dio, e vincendola in questo portarla. Se, infatti i Padri greci affermano che è già Pasqua quando Cristo discende agli inferi per cercare e liberare Adamo, la stessa affermazione si può attribuire al battesimo, per il quale si è uniti alla morte ed alla Resurrezione di Cristo.

Tuttavia, in che senso la resurrezione è un’esperienza che appartiene alla nostra umanità? Se, infatti, essa dice di un novum ed inedito della grazia di Dio, come si può asserire di esperirla qui ed ora?

Si tratta da un lato di un fondamentale paradosso del Cristianesimo che rende sostanziale la Verità dell’annunzio, ma dall’altro di quella essenziale componente antropologica che fa dell’uomo un viator, e dunque attiene sia alla trasformazione che sottende la sua incessante nascita, sia a quel de-siderare che lo rende insaziabile. Per questo motivo si diceva già che la Resurrezione esprime una pregnanza metafisica proprio nel sottendere un pensiero dell’analogia.

Tentiamo ora, infatti, di assumerla come chiave ermeneutica capace di rivelare il senso antropologico del desiderio umano. Leggeremo pertanto la Resurrezione sullo sfondo della nostalgia che si configura di solito come nostalgia del mito religioso, pregnante e saturo d’essere, che si pone come convergenza di ontofania e ierofania Se la fenomenologia del sacro implica da sempre l’idea di una perennità ed un’origine eterna che interrompe la continuità, che istituisce un altro modo di essere al mondo, che si pone come nuova nella sua eternità, essa sottende, altresì, la capacità di simbolizzazione propria dell’uomo. Symballein è certo un mettere insieme ma anche un modo di anticipare quanto la ratio calcolante non è in grado di dominare, perché assolutamente altro dal principio di identità e tale anticipazione costituisce quel paese ove non siamo nati che si pone come eccedenza rispetto allo stesso simbolo. Tuttavia, se le cose stanno così, si può subito constatare che l’idea di un ritorno all’origine come restauratio risulta inadeguata. Non si tratta di un ritorno dell’eguale, neppure nelle religioni misteriche e questo è dimostrato dal fatto che il tempo religioso è sempre un’interruzione, un fuoriuscire nel caos per ricreare. Da questo punto di vista la Resurrezione contribuisce ad indicare quella novitas vitae che si agita nella ricerca umana ignota e familiare ad un tempo. Se, inoltre, si assume la dottrina del logos spermatikós leggendola in connessione con l’apertura trascendentale dell’uomo che lo dispone all’accoglienza della Rivelazione, si può subito evidenziare che la Resurrezione esprime veramente tutta la pienezza dell’umano in rapporto con la divinità. Nello specifico cristiano, poi, essa esprime il mistero della nuova creazione in cui Dio sarà davvero tutto in tutti.

Tuttavia, in nessun caso essa potrebbe essere vista solo come un ritorno in patria; tanto meno il risorgere di Gesù può essere inteso come un:

ritornare, dopo il passaggio attraverso una qualunque Odissea sull’Iliade della nostra colpa, o che significhi raggiungere il compimento in una sovra-umanità che attende solamente di giungere alla piene espressione.41

Anche per il Figlio Unigenito l’angoscia della morte si è inscritta nella fibra della sua umanità divina e la Resurrezione si è configurata come mistero della fede nel Padre proprio nel momento dell’abbandono in Lui e da Lui che esprime l’altrettanto misteriosa intensità della communio con i peccatori, da parte di Colui che non ha conosciuto il peccato. Se questo è vero, tuttavia, bisogna anche ammettere che se il Figlio ha preso su di sé ciò che non aveva, Egli ha portato in Dio la stessa esperienza della finitezza serbandola, secondo la descrizione dell’Apocalisse dell’ Agnello sgozzato in piedi, come memoria di una passione paradigmatica, sempre in atto, che è la stessa passione sofferta da Dio impassibilis sed non incompassibilis secondo la mirabile espressione di Bernardo di Clairvaux. Dunque, è la stessa passione di Dio nel Figlio e del Figlio nel Padre il presupposto del quid novi della redenzione compiuta, non tanto nel senso necessaristico — sacrificale42 quanto nel senso di una dialettica dell’eccedenza della grazia: felice colpa che ci ha meritato un così grande salvatore. E, pur tuttavia, questa stessa eccedenza era la stessa in Principio, secondo quanto recita il prologo giovanneo. Ancora in maniera pregnante chiosa Falque:

Il Dio dell’inizio assoluto è il Dio della resurrezione, nota Bonhoeffer in un commentario tanto denso quanto ancora poco conosciuto della Genesi che così prosegue: "Fin dall’inizio il mondo è stato posto sotto il segno della Resurrezione di Cristo dai morti. Di più è perché conosciamo la resurrezione che conosciamo anche la creazione di Dio.43

Da un punto di vista filosofico, tale istanza ci permette, da un lato di gettare uno sguardo retrospettivo sulla finitezza guardandola come discontinuità ferita, ma — a d un tempo — capax Dei; dall’altro, però, essa ci permette di abbozzare una fenomenologia della resurrezione, proprio in virtù del fatto che quest’ultima è, nel suo non ancora, radicata nell’esperienza umana, in modo tale che, coeredi di Cristo, facciamo nostro quel Suo passaggio nella nostra finitezza perché il Padre stesso la trasformi da esistenza finita e peccatrice a vita risorta e redenta. Tuttavia questo implica già qui ed ora la cesura rispetto ad un’esistenza kata sarx, anche se, e questo andrebbe vigorosamente sottolineato, mai escludendo la corporeità. Ma, se fenomenologia della resurrezione e fenomenologia della corporeità devono, in tal senso, interpolarsi, siamo giunti ad una convergenza con il presupposto di partenza, ovvero del chiasma fra teologia e filosofia.

Questa istanza ci permette altresì di assumere filosoficamente la creaturalità come progetto relazionale di apertura capace di correggere la ristagnante finitudine che vede nell’uomo solo un essere per la morte; diremmo, in altri termini che la creaturalità converge con quella discontinuità capace di spezzare il cerchio chiuso dell’autoreferenzialità per cui è impossibile riceversi come mistero e — come già insegna Gabriel Marcel — è l’esperienza dell’amore che permette di assumere una prospettiva altra sul mondo, quella di un non morire in nome del significato che si ha per l’altro.

Tutto ciò passa per il nodo fragile e maestoso della carne; sentiens o patiens che sia, la carne è riassunto di un mistero e forse l’espressione pareysoniana di iniziativa iniziata è la più pregnante a dire di questa sua modalità d’esistenza.

Tale fenomenologia dell’incarnazione, supera a nostro avviso, quella che Husserl aveva chiamato una via a-tea che conduce ad un discorso su filosofico su Dio. In effetti, se si assumesse questo paradigma forse, si resterebbe davvero, come osservava Merleau Ponty solo nelle prossimità della filosofia,44 laddove il compito teoretico qui proposto è quello di cogliere l’appello e la sfida della teologia riflettendo filosoficamente sulla più inaudita verità da essa prospettata, ovvero quella di una finitudine liberata dal suo corpo di morte, rialzata dalla forza di Dio, trasfigurata. Ecco dunque affacciarsi un suggestivo concetto filosofico espresso da Michel Henry, quello della carne taborica. Già tale idea ci rende consapevoli di un’Origine che mai da noi possiamo darci, che abita, bensì, una gratuità inedita e sempre nuova, radicata nella Charis oltre l’essere. Questa origine rende spirituale la carne, tanto quanto una riflessione sul fondamento necessario può rendere carnale lo spirito. Abitiamo en philosophes questo paradosso, forse per questo ci protendiamo con entrambe le mani alla Verità.

5. La carne eterna di Dio

Quello che nasce dalla carne è carne, quello che nasce dallo Spirito è Spirito, aveva replicato Gesù a Nicodemo, e pure autenticamente carne può diventare solo ciò che nasce dallo Spirito come un esser generati Dio da Dio. Per questo motivo, tale frase è speculare a quella del Prologo di Giovanni, secondo cui il Verbo ha dato il potere di diventare Figli di Dio. L’Incarnazione è il cardine dove visibile ed invisibile trovano una misteriosa tangenza, dove s’impernia il concetto di trasfigurazione e glorificazione. Ora, tuttavia, sembra emergere un contrasto anche nell’ambito di questa economia della Resurrezione tipica del Cristianesimo. Infatti, se l’umanità è assunta dal Verbo eterno, sembrerebbe facilmente deducibile che essa sia ciò di cui il Verbo era privo. La cosa, naturalmente, verrebbe a creare un problema filosofico ancor prima che teologico. Può infatti darsi in Dio la mancanza di una determinazione? Anselmo lo escluderebbe, come mostra nel suo Monologion a proposito delle prove dell’esistenza di Dio. Pur consapevoli della pertinenza della critica all’ontoteologia, assumiamo però questo locus della filosofia classica per evidenziare che il Dio che crea e che salva ha da sempre assunto ciò che ha redento e trasformato a Sua immagine.

Se questo è vero, allora come potrebbe non appartenere a Dio il predicato dell’umanità? Dovremmo rispondere che a Lui l’umanità appartiene da sempre e quanto si rivela è ciò che era da sempre. Ma, ancora, se ciò che si rivela è grazia, essa è radicata nel fondo di una natura capax Dei, paradigmatica e compiuta. Dire questo, però, è fare riferimento all’umanità di Cristo. Si compie dunque un altro passaggio; la fenomenologia delle resurrezione è radicata nella cristologia.

In maniera molto più potente, come spesso accade alla poesia, rispetto alla trattatistica, questa istanza è stata espressa da Charles Peguy, la cui perizia è riuscita a compiere una cristologia in versi:

Poiché il soprannaturale è anch’esso carnale/ e l’albero della grazia è così profondo/e si radica nel suolo/e cerca il fondo/ e l’albero della razza è esso stesso eterno/ E l’eternità stessa è nel temporale/e l’albero della grazia è così profondo/ e si radica nel suolo e tocca il fondo/e il tempo stesso è tempo in temporale.45

Soprannaturale e carnale, grazia e suolo si richiamano, così che ciò che da sempre è eterno si radica nel tempo. Questi bellissimi versi valgono tanto per il Soggetto di cui il soprannaturale è predicato, ovvero Dio, quanto anche per la creazione, contemplata eterna nel Principio e capace di esistenza nel tempo in virtù della relazione creaturale. Non è così alieno alla filosofia parlare di creatio aeterna, come insegna la teoria eriugeniana delle quattro nature. Tuttavia, se la creazione eterna è creazione compiuta, essa non potrà che essere compiuta nell’ultimo Adamo, cioè in Cristo. Da questo punto di vista, è l’ultimo Adamo, il primo dei risorti, il primogenito della nuova creazione, il Principio in cui tutto sussiste. Nella distensio fra primogenito ed ultimo si trova, a nostro avviso il senso di una fenomenologia dell’Incarnazione che implica l’assunzione eterna della carne da parte di Dio. Un autorevole Padre della Chiesa quale Ireneo, deduce la contemporaneità di creazione e resurrezione ma tale contemporaneità include l’incarnazione.

Per questo motivo, se si dà un’esistenza terrena di Gesù nella carne, meglio nella forma umana, secondo quanto recita Fil. 2, questa stessa esistenza è la stessa che il Padre ha contemplato da sempre nel Verbo consustanziale che a Lui si rivolge.

Cristo risorto porta nel Mistero di Dio una carne glorificata, ma è proprio vero che questa carne glorificata, trasfigurata e trasformata, come definitivo segno della Rivelazione di Dio non era già assunta all’inizio? Il Dio trinitario della pericoresi, per riprendere l’allure con cui abbiamo aperto il paragrafo, può essere pensato senza l’eternità della carne di Cristo? L’Incarnazione, del resto è ciò che connota la seconda persona della Trinità Santa, come divina persona.

Inoltre, dare una simile lettura è proprio così estraneo al dato cristiano, se si pensa al lungo dibattito sulla corporeità del Risorto che i Vangeli ci prospettano, specie nelle narrazioni giovannee? Vero è, comunque, che si tratta di una corporeità il cui senso è convertito nell’atto della resurrezione, e — tuttavia — non è forse vero che sanatum est quod assumptum? Se le cose stanno così, l’assunzione della carne ex parte Dei, non può certo essere né una sorta di moralismo della rivelazione, né tanto meno condurre ad una lettura docetica. Osserva ancora Falque:

La futura vita nel Cristianesimo non la “negazione” della vita carnale presente, contrariamente a quanto sostengono Nietzsche e il suo interprete Didier Franck, ma ne rappresenta, al contrario la trasformazione; nel cristianesimo non c’è nessuna negazione della corruttibilità, né questo si propone di ignorarla o eluderla, ma c’è soltanto la sua assunzione nell’incarnazione, che nell’atto della resurrezione, ne converte il senso. Per altro verso, quanto al significato della corporeità risorta, ricordiamo che esso risiede non soltanto nella sua metamorfosi, ma anche nel suo modo di fenomenalizzarsi, ossia nella tipologia dell’apparizione o della manifestazione.46

Convertire il senso è tutt’altro che negare la attualità della carne, per questo tale conversione è agire di Dio, anzi un agire di Dio nell’uomo e con l’uomo. È opera teandrico. Per questo l’incarnazione cambia tutto, come afferma Merleau Ponty, per l’uomo certo, ma ne risulta affetta la stessa economia divina.

Dio ha portato in se stesso la carne che ab eterno contemplava sanata, portando in sé altresì l’evento di una spogliazione (kenosis) che ha recato il germe di questa ultima trasformazione. Tuttavia, questa è vicenda che coinvolge, non solo la volontà creativa del Padre, non solo la volontà di adesione del Figlio, ma anche lo Spirito Santo, la cui opera pneumatologica sottende l’essere risuscitato del Figlio da parte del Padre, e in Lui, l’assunzione e la trasformazione del nostro corpo; questo, tuttavia, in virtù di quella cum-passione di Dio nell’uomo, sofferta da Cristo, sottesa alla partecipazione dell’uomo alla figliolanza del Padre in Cristo.

Tuttavia, si tratta, qui anche di un appello teologico alla filosofia. È l’implesso del Cristianesimo a ricordare al pensiero il suo non poter prescindere dalla vita intesa nella condizione carnale dell’esistenza che fa del filosofo, nella sua umanità, un homo viator, così che la stessa carnalità, ben lungi dall’essere emarginata dall’altezza della riflessione teoretica, viene invece convogliata nel suo senso trascendente che risiede nella stessa umanità fragile e storica, ma — al contempo — parabola di un mistero capace di riassumere il mondo nell’aspetto epifanico dell’irruzione assolutamente inedita e non manipolabile della grazia. In fondo la stessa trasfigurazione, come anticipazione dell’indefettibile Promessa insita nell’evento della Resurrezione si ha a partire dal corpo; essa rivela, dunque, ciò che dovrà essere la glorificazione come sorte dei santi nella Luce di cui godiamo già per l’appartenenza a Cristo. L’invito della teologia alla filosofia è, a nostro avviso, quello di ravvisare nella carne la possibilità di un senso che apre già qui ed ora ad un altrimenti essere.

L’epifania del Volto di marca levinassiana non dice forse di questo altrimenti irriducibile, facendo addirittura in modo che questo volto altrui che mi fronteggia assurga a paradigma dell’Infigurabile Volto la cui visitazione, secondo quanto è scritto nella mirabile pagina dei discepoli di Emmaus, si sottrae all’onnipotenza del visibile, donandosi in un altro modo della presenza, nella relazione asimmetrica della responsabilità e della diaconia. È forse questo uno dei possibili significati che la Resurrezione assume nella nostra esperienza carnale in modo tale che, oltre alla sua irriducibilità a teologumeno, essa induca altresì una modalità affatto nuova del pensare. In Levinas la relazione con l’altro, di sapore squisitamente escatologico, può prestarsi ad un’efficace lettura protologico, nel senso che, posto il valore epifanico del Volto, in quanto icona della prossimità della stessa trascendenza, questo può darsi in virtù di ciò che era all’inizio. Si potrebbe addirittura usare come chiosa a tale concetto quanto osserva Michel Henry:

Dal punto di vista fenomenologico, occorre richiamare il fatto che tale relazione dev’essere colta là dove si compie, ossia fuori del mondo, prima di esso. Che cosa accade prima del mondo, lo sappiamo: la relazione d’intimità fenomenologica reciproca tra la Vita assoluta ed il Primo Vivente per il fatto che essa si prova in Lui che si prova in essa".47

Ricorriamo ancora a categorie teologiche, la cui valenza filosofica è indubbia. Tale relazione del Principio è una relazione di intimità fenomenologica che ricalca il principio pericoretico per cui Io sono nel Padre ed il Padre è in me. Tuttavia, questa stessa intimità è entrata nel mondo, assumendolo, in modo tale da colmare ogni abisso fra la Vita nella sua archimanifestazione ed ogni vivente. Questo ingresso nel mondo è avvenuto assumendo un corpo, così che non si prescinde affatto dalla fenomenologia dell’Incarnazione. Arguisce ulteriormente Henry:

Un abisso non separa forse la Vita infinita che si adduce da sé a sé nel suo Verbo, e una vita, un Sé quali i nostri, incapaci di addursi da soli alla vita, votati pertanto ad una morte certa? Interviene qui l’Incarnazione in senso cristiano. L’unione che supera l’abisso ricompie solo mediante l’Incarnazione del Verbo nella carne di un uomo che, come tale “è venuto da Dio”, “inviato da lui”, ossia il Messia o Cristo. Tale unione è stata detta una deificazione, poiché l’intimità fenomenologica tra la Vita e il Suo Verbo, la quale si ripete allorché il Verbo stesso si fa carne nel Cristo, ogni unione con la carne è insieme un’unione con il Verbo e in lui, con la Vita assoluta.48

L’umanizzazione del Verbo è la deificazione dell’uomo, ma questo reciproco appartenersi è possibile per mezzo dell’Incarnazione. Tuttavia, essa è già ab eterno la consumata unità fra Dio e uomo e, al contempo, la stessa colmata distanza. Come dire che la carne costituisce in Dio la relazione fra le divine persone nella sempre presente distinzione fra Padre e Figlio che sola permette la piena rivelazione all’uomo e al mondo della divina immagine, mentre per l’uomo costituisce proprio la porta da cui irrompe il Mistero della deificazione che è telos dell’uomo in quanto suo inizio in Cristo. Forse, per questo, è possibile dare una lettura nel senso della restaurazione, anche se più che un valore passato, il termine dovrebbe assumere una semantica paradigmatica che implica piuttosto una institutio ex novo della creazione nel compiuto Adamo, una semantica che spezza la cattura cronologica, se, come recitano gli inni cristologica tipici della teologia paolina in Cristo siamo già stati eletti dal Padre ed in Lui siamo già nuove creature.

Sarebbe, allora opportuno parlare come fa Henry di un’Archi-carne del Verbo in cui è inscritta un’Archipassione che tiene insieme umanizzazione e deificazione, ma la deificazione dell’uomo, in quanto speculare all’umanizzazione di Dio assume in sé quella metamorfizzazione che converte la carne in corporeità senziente e paziente, capace cioè di esperire la potenza dello Spirito in virtù della partecipazione all’intimità fenomenologica della Vita divina.

E dunque, in questo senso, si può comprendere l’idea teologica della Mystica Persona, che inerisce all’altrettanto pregnante teoria del Corpo Mistico, per cui non c’è più né giudeo né greco, né uomo né donna, ma tutti sono uno in Cristo. Si potrebbe affermare, altrettanto legittimamente che la carne senziente, capace di intimità fenomenologica con il Principio stesso della generazione, dice con impareggiabile eloquenza di un Dio affezione, secondo la terminologia di Bernardo, il quale, pur non direttamente affetto dalla finitezza, vuole portarla nel Figlio fino a ricondurla come sua stessa passione per trasformarla nell’evento della Resurrezione. Ecco, dunque perché Dio è amore ferito che reca nella relazione con la creaturalità la memoria di questa distanza colmata, così che sia possibile la metamorfosi del mondo, in nome di questa assunzione carnale che permette a Dio di attraversare la stessa morte.

Se la nostra carne non è, dunque, più un ostacolo, ma una via della ap-prensione del divino è perché, rivelandosi in essa, Dio stesso ne ha convertito il senso, intessendo, attraverso la Sua trascendenza una continuità con la carne. E forse è questo l’evento eccezionale, paradossale e fecondo del Cristianesimo che ci fa interrogare oggi sull’immensa massa di vita filosofica che emerge in modo stupefacente.

6. Conclusione

L’orizzonte di un reciproco confronto teoretico fra filosofia e teologia è la condizione di possibilità della capacità di entrambe le scienze di interpellarsi in modo nuovo e di tradurre nell’esistenza e nel vissuto di ogni uomo le istanze fondamentali che le caratterizzano. Da questo punto di vista, la filosofia può riscoprirsi sempre nuovamente interpellata e sfidata a comprendere nella sua riflessione, pur sempre un pensiero secondo, la creaturalità umana, mai riducendola ad un’enfasi del mondo, o addirittura ad un evento astratto dello spirito. Così essa potrà ancor meglio porre le domande radicali che si sintetizzano tanto nell’esperienza e nel riconoscimento di un bene come senso, quanto nel bisogno di redenzione, in maniera tale che non può non fare seriamente i conti con una prospettiva escatologica che intercorre come riserva critica e prospettiva di futuro, non certo come oppio ideologico. E, se la naturale vocazione della filosofia resta assolutamente la verità, essa non può che trovarsi confrontata con un necessario, quanto salvifico pensiero dell’inesauribile che, lasciandola rendere ragione della propria insufficiente terrestrità la pone in cammino verso il sempre inedito della gratuità.

Allo stesso modo, la seconda, teandrica juxta propria natura, dovrà necessariamente recuperare la sua forza ermeneutica per non rinunciare mai alla ricchezza del kerygma di cui è alta ed umile servitrice ma comunicarlo in una koiné culturale e teoretica che lo renda sempre capace di dare un senso ed appellare circa la decisione per il senso stesso. Non solo, la sua funzione non deve, a nostro avviso ridursi ad un ruolo critico e di confine (secondo la pregnanza che la parola assume nella filosofia kantiana), che non sarebbe capace di mordere la complessa ricchezza della realtà che si trova ad affrontare; bensì deve poter contribuire ad uno sviluppo del pensiero, aiutandolo a riflettere sulle questioni che ineriscono all’uomo, alla sua finitezza, ma anche all’esigenza di superamento che fa si, come dice Pascal che l’homme depasse toujours l’homme. Non solo, essa potrà richiamarsi alla filosofia quanto all’esigenza di analisi del linguaggio ed alla significatività della parola Dio, sia a partire dalle condizioni trascendentali della Rivelazione, sia a partire dalla capacità di comprensione del dato rivelato come interpellazione nell’oggi.

Siamo, in questo senso, giunti all’esigenza di una correlazione fra filosofia e teologia, una correlazione sempre più urgente e pregnante in modo tale che la filosofia si senta chiamata a riflettere sulla datità teologica senza per altro essere accusata di derive rinunciatarie o di qualsivoglia ingerenza. Questa stessa esigenza è quella che Camper chiamerebbe di una conseguita autonomia attraverso l’eteronomia. Tuttavia, il predicato dell’eteronomia sarebbe estensibile ad entrambe, tanto la teologia, quanto la filosofia, dato che il loro incipit non si trova comunque in se stesse, quanto nella verità, di cui il carattere rivelativo, dell’esser rivelato è un carattere intrinseco. E pur tuttavia, questo essere seconde da parte di entrambe le scienze quanto attiene alla loro stessa specificità. Illuminante, da questo punto di vista, ci sembra questa dichiarazione di Wolfhart Pannenberg:

Laddove Dio e la totalità del reale non sono pensati nella loro reciproca appartenenza e nel mutuo rimando, il discorso su Dio rimane una parola vuota o una rappresentazione oggettivamente infondata, destinata a soccombere alla critica una volta che sia spiegata, ad esempio antropomorficamente, come un prodotto della proiezione religiosa. Se si è coscienti di cosa si dice quando si parla di “Dio”, non è più possibile pensare la realtà di mondo e di uomo senza pensare Dio come la loro origine, viceversa, si può pensare Dio solo quando si pensa la totalità del reale come da Lui prodotta. Per questo la filosofia fin dai presocratici ha visto il suo compito nel pensare la realtà nel suo complesso. Ossia nell’unità del cosmo inteso come correlato alla domanda filosofica su Dio.49

L’esigenza di pensare insieme sullo sfondo di queste domande fondamentali rende feconda la metodologia della correlazione, d’altro canto salva dal rischio di fare di Dio un’ipotesi di cui decidere che possa essere superflua. Si potrà arguire che ipotizziamo, invece, un’istanza ermeneutica che conduce necessariamente ad attestarsi sulla feconda soglia di queste domande.

Se tutto questo è vero, tuttavia, non è possibile neppure una sorta di reductio metodologica che conduca alla notte in cui tutte le vacche sono nere, di marca hegeliana. Il paradosso fecondo, talora dissonante e ricchissimo della resurrezione non può non interpellare la riflessione dei due versanti, spingerla oltre, non lasciarla mai quieta dei risultati, pur facendo in modo che esse siano contente del quia, come magistralmente versifica Dante Alighieri, in virtù del fatto che quest’ultimo le apre di fatto al Novum della grazia, le rimanda al loro stupore estatico dell’inizio, accende l’interiore luce di un desiderio e di una speranza che, insiti nell’uomo, come ospiti sempre intimi ed ignoti, dicono di un ineludibile mistero ontologico.


  1. J. Paul Sartre, Bariona ou le Fils du tonnerre, trad. it di M. A. Aimo e A. Delogu (cur.), Marinotti edizioni, Milano 2003. ↩︎

  2. Ivi, p. 91. ↩︎

  3. Si tratta, qui di un riferimento a quanto scrive Heidegger rinviando il nominare e il significare Dio attraverso l’orizzonte trascendentale del sacro e dell’essere che, a nostro avviso, non rende ragione di quella as-solutezza dell’evento rivelativo che si può contrassegnare teologicamente con il nome di grazia. Nonostante la critica all’onto-teologia che opera la reductio Deus- Ens, ci sembra che Heidegger non sia del tutto riuscito a liberarsi da questo retaggio; quanto dell’ultimo Dio, di questa figura non del tutto decifrata, è ancora irretito nella radura del sacro? ↩︎

  4. Si veda su questo la preziosa, pur nella sua brevità, prefazione di A. Davidson a P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Tornio 2005. ↩︎

  5. Cfr. H. G. Gadamer, Il pensiero come redenzione, in Studi platonici vol II, Marietti, Genova 1984, pp. 279-290. ↩︎

  6. Ivi, p. 285. ↩︎

  7. La stessa Stimmung è ravvisabile nelle Confessioni di Agostino. ↩︎

  8. Gadamer, Il pensiero come redenzione, in Studi platonici vol II, Marietti, Genova 1984, cit., p. 286. ↩︎

  9. R. Mancini, Il silenzio via verso la vita, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano 2002, p. 178. ↩︎

  10. P. Celan, Von Schwelle zu Scwelle, trad. it a cura di G. Bevilacqua, Di soglia in soglia, Einaudi, Torino 1996, p. 44. ↩︎

  11. U. Perone, Il presente possibile, Guida, Napoli 2005, pp. 113-114. ↩︎

  12. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt 1959, trad. It di E. De Angelis e T. Cavallo, Il principio speranza, Garzanti, Milano 1994, 2005. ↩︎

  13. Ivi, p. 55. ↩︎

  14. Ci riferiamo al saggio Homo mimeticus, in R. Schenk hersg, Zur Theorie des Opfers, ein interdisziplinäres Gespräch, Frommann Holzboog, Stuggart; Bad-Cannstatt 1995, pp. 27-58 ↩︎

  15. Greisch, cit., p. 29. Citiamo il testo tedesco di cui abbiamo dato la traduzione italiana nel corpo del testo. “Nietzsche ”subtil wie immer“ (G. van der Leeuw) sagt vom Mythus: ”Dem Mythus liegt nicht ein Gedanke zugrunde, wie die Kinder einer verkünstelten Kultur meinen. Sondern er selber ist ein Denken: er teilt eine Vorstellung von der Welt mit, aber in der Abfolge von Vorgängen, Handlungen, und Leiden. Fragen wir uns inwiefern diese tatsächlich subtile Unterscheidung Zwischen einem dem Mythus zugrunde liegenden Gedanken und deinem ihn konstituirenden Denken, sich auf den Ritus übertraten lässt. ↩︎

  16. Ivi, p. 30. Citiamo il testo tedesco da noi parafrasato nel corpo del testo. “Der Gehalt des religiösen seine eigentliche und tiefste Würzel nicht in der Welt der Vorstellung, sondern in der Gefühls- und Willenswelt” ↩︎

  17. Greisch, cit., p. 34. Riportiamo il testo tedesco: “So verstanden, muß der Versuch eines Rückgangs in die Ursprünge der Metaphysik und darüber hinaus in das anfängliche Denken früher oder später auf das Problem des Verhältnisses von Mythus und Ritus stoßen”. ↩︎

  18. G. Van der Leeuw, Phänomenologie der Religion, trad. it. di V. Vacca, Fenomenologia della religione, Bollati Boringhieri, Torino 1975, pp. 82-83. ↩︎

  19. Annuario filosofico europeo, La religione, a cura di J. Derrida e G. Vattimo, Biblioteca di cultura moderna Laterza, Roma Bari 1995 ↩︎

  20. Se per la filosofia ontologica di matrice non metafisica è imprescindibile la critica all’ontoteologia, allo stesso modo essa lo è per la teologia. Si pensi per un attimo alla lettura di Dietrich Bonhoeffer, che scorge nel Dio della semplice presenza non solo il tappabuchi, ma altrettanto quel Dio che non è, in quanto sarebbe solo un surrogato ontico conseguente alla formulazione oggettivante del pensiero. ↩︎

  21. A. G. Gargano, cit. p. 112 ↩︎

  22. Ivi, p. 113. ↩︎

  23. Ivi, p. 119. ↩︎

  24. Questo termine, legato innanzi tutto al Neues Denken di Franz Rosenzweig, nel quale la Rivelazione, sancendo il mondo in quanto creazione, permette di istituire un rapporto fra Dio, mondo, uomo, non più solo chiusi nella loro irriducibilità come Urphenomene, ma capaci di relazione in virtù dell’evento stesso della Rivelazione. Con altrettanta efficacia lo ribadisce B. Camper, Die Gründung einer philosophischen Teologie im Ereignis, in www. mondodomani. org/dialeghesthai. Non solo, egli recupera il concetto di evento, che ridona al pensiero la storicità e la fatticità del cammino verso il senso, coniugando ebraismo ed ermeneutica, ma evidenzia altresì che la via fenomenologica della Strenge Wissenschaft indicata da Husserl, apre di fatto alla necessità di un radicamento del dato ad una donazione. Ben espressa da J. L. Marion, nella sua interpretazione husserliana, tale idea sembra aprire una via theo-logica nella filosofia, ma senza generare sottomissioni metodologiche, tale da mettere in evidenza l’assoluta necessità di un pensiero della Rivelazione come dato inerente alla propria fattcità imprescindibile. ↩︎

  25. Si confronti su questo i due saggi, Dell’essenza della verità e La dottrina platonica della verità, contenuti in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 133-192. ↩︎

  26. Ivi, p. 181. ↩︎

  27. Usiamo la traduzione ed il commento di J. Mateos, J. Barreto, El Evangelio de Juan, trad. it. Di T. Tosatti, Il Vangelo di Giovanni. Analisi linguistica e commento esegetico, Cittadella ed., Assisi 1982. ↩︎

  28. Ivi, p. 42. ↩︎

  29. Ivi, p. 35. ↩︎

  30. M. Henry, C’est moi la vérité, trad. it di G. Sansonetti, Io sono la verità, Queriniana, Brescia 1997, p. 45. ↩︎

  31. Una bella analisi della contraddizione fra l’Uno plotiniano, che si può esprimere solo in termini apofatici e che, di conseguenza, non è ciò che dona e l’evento cristiano come assunzione da parte di Dio di ciò che non aveva (l’umanità, in Cristo) è condotta da J. L Chretien, La voix nue. Phenomenologie de la promesse, Minuti, Paris 1990, precisamente nel saggio Le Bien donne ce qu’il n’a pas, pp. 259-274. Chretien sottolinea, infatti, una cristianizzazione retrospettiva del pensiero plotiniano, che è molto più del bonum diffusivum sui. Si tratta, infatti, quanto all’Incarnazione, di una kenosis che sottende l’eccedenza della Charis. Non solo, si dovrebbe notare, da un punto di vista filologico, la stessa appartenenza semantica fra kenosis e eskênôsen, termine ricorrente nel Prologo giovanneo il cui significato è accamparsi, piantare la tenda. ↩︎

  32. Henry, C’est moi la vérité, trad. it di G. Sansonetti, Io sono la verità, Queriniana, Brescia 1997, p. 34. ↩︎

  33. Ivi, p. 129. ↩︎

  34. Ivi, p. 183. ↩︎

  35. Il dibattito sulla storicità della Resurrezione e sul senso del sepolcro vuoto, che tanto anima esegeti e teologi, è ricchissimo di implicazioni. Senza Resurrezione vana è la nostra fede, come già ammonisce S. Paolo. Tuttavia, vivere da risorti secondo la fede cristiana, significa, farne un’esperienza nell’esistenza storica. Quindi non può trattarsi di un mero teologumeno che rinvia l’eschaton in un indefinito. D’altra parte la Resurrezione è il Novum di Dio, l’esaudimento da parte del Padre per la pietà del Figlio; essa assume e redime la storia, così che è ad un tempo meta-storica. Tale controversia propria della cristologia biblica, non è, però un dibattito fra eruditi; in effetti, come si può rendere ragione della Speranza, senza ammettere di essere salvati in spe? Ed inoltre: se la Resurrezione è un evento paradigmatico, avvenuto apax che davvero cambia la storia, come si può relegarlo in una paradossale tangenza senza contatto? ↩︎

  36. E. Falque, Nascita e metamorfosi della finitezza: un paradigma per la resurrezione? Relazione tenuta presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze Umane dell’Università di Macerata, il 29 maggio 2004 nell’ambito del Colloquio su Filosofia e Religione, La Resurrezione come mistero del desiderio a cura di G. Ferretti. Gli atti sono in pubblicazione. ↩︎

  37. Ivi↩︎

  38. E. Falque, Metamorphose de la finitude. Essai philosophique sur la naissance et la résurrection, La Nuit surveillée, Paris 2004. ↩︎

  39. E. Falque, Nascita e metamorfosi della finitezza: un paradigma per la resurrezione? , cit., p. 2. ↩︎

  40. Ivi↩︎

  41. Ivi↩︎

  42. Ci permettiamo di rinviare su questo al nostro studio Cristianesimo senza sacrificio, Cittadella Editrice, Assisi 2001. ↩︎

  43. Falque si riferisce ad un corso tenuto all’Università di Berlino nel semestre invernale 1932-33 dall’eminente teologo protestante che aveva come tema creazione e caduta. Crediamo che il passaggio sia davvero molto pregnante anche perché può fornire preziosi punti per legare ontologia della creaturalità e fenomenologia della Resurrezione. ↩︎

  44. Mutuiamo la citazione da E. Falque. ↩︎

  45. C. Péguy, Œuvres poétiques, cit in. F Castelli, Volti di Gesù nella letteratura moderna, 3 vol., cit., vol III, Edizioni Paoline, Milano 1995, p. 245. ↩︎

  46. Falque, cit., p. 7. ↩︎

  47. M. Henry, Incarnation. Une philosophie de la chair, trad. it di G. Sansonetti, Incarnazione. Una filosofia della carne, Sei, Torino 2001, p. 283. ↩︎

  48. Ibidem↩︎

  49. W. Pannenberg, Theologie und Philosophia. Ihr Verhältnis im Lichte ihrer gemeinsamen Geschichte, trad. it. di G. Sansonetti, Teologia e filosofia. Il loro rapporto alla luce della storia comune, Queriniana, Brescia 1999. ↩︎