Il tema del corpo ha finalmente ritrovato una sua collocazione filosofica dopo l’evidente esilio da una tradizione di pensiero che ne ha fatto la sede imprigionante dell’uomo, un muto involucro dell’anima, o anche l’espressione concepibile e sussumibile nell’essenziale attributo dell’extensio.
Tuttavia, sarebbe più adeguato parlare di corporeità, per evidenziare un vero e proprio plesso ontologico per cui essere ed avere un corpo implica, marcelianamente, il misterioso scambio con l’essere da cui siamo sostenuti, nel quale l’ek-sistenza diventa affidamento e dono e da ultimo apertura al Mistero inoggettivabile che ci mantiene presso il Suo orizzonte e attraversa la nostra vita nello stupore della promessa.
Se le cose stanno così, certamente io sono il mio corpo, ma lo sono in quanto mi ricevo in esso come un me aperto alla Vita, che si esplica in me come una manifestazione patica e sono a me il Mistero di questo Assoluto inoggettivabile. Nella dialettica di questo me mihi, tuttavia si gioca certamente la possibilità di un soggetto ritrovato nel lungo détour proprio di un’epoché che ne lascia individuare la corporeità in quanto polo intenzionale di contenuti noematici e valoriali, quanto anche di fenomeni rivelati, tale che non di un mero cogito possa più trattarsi ma di un soggetto che patisce e agisce, senziente e con-senziente ad un appello di verità che lo costituisce nell’esser-ci e lo fa riconoscere mistero. Come già scrive Agostino mihi questio factum sum.
Tuttavia, per il corpo risulta vero quanto già Agostino scriveva nel libro X delle Confessiones circa il tempo: come dire infatti cos’è il corpo, cos’è il mio corpo?
Leib e chair sono rispettivamente i due termini tedeschi e francesi che traducono la corporeità e che in entrambi i casi si contraddistinguono nettamente da una semantica legata al corpo come inanimata struttura scheletrica. Entrambi sottendono la sede privilegiata di un mirabilis commercium con l’essere, l’apertura stupefatta ad una con-vocazione che implica, per mezzo di questo appello stesso, la compiutezza dell’esistenza.
Preziosissime, da questo punto di vista le indicazioni ermeneutiche della tradizione biblica. La tradizione della mistica ebraica espressa nella Qabbala sancisce che Dio avrebbe creato più mondi, ma che li avrebbe tutti distrutti finché non ha potuto creare l’uomo come apex, quasi che l’uomo e la donna, perché maschi e femmina li creò, come recita il Genesi siano il compimento del mondo, in quanto cosmo cosciente. Se pur non venga fatta un’esplicita menzione al corpo, tuttavia si deduce in modo chiaro che la corporeità è il Mistero stesso attraverso cui Dio si rivela. Se, poi, proviamo a decodificare l’espressione a sua immagine, non sarebbe molto difficile individuare come la carne creata e cosciente possa sintetizzare l’invisibile, convogliando in unità dinamica Spirito e corpo.
Da questo punto di vista, sarebbe forse necessario individuare quella connessione ad un tempo centripeta e centrifuga che si dà fra Atene e Gerusalemme, ovvero fra due visioni che si potrebbero certamente definire ontologiche al fine di superare letture cristallizzate e trovando, dunque, proprio nel concetto di immagine come eikon un tratto comune.
Se non ci attestiamo solo sul fatto che la visione platonica, sancendo un dualismo, vede nell’eikon una mimesis dell’eidos, forse si potrebbe individuare la possibilità di una lettura più feconda. Indicazioni pregnanti ci vengono in questo senso da Pavel Florenskij, che nel suo suggestivo saggio dal titolo Il significato dell’idealismo1 intende la filosofia platonica non tanto come un sistema di concetti e di giudizi determinati, un sistema, in ultima analisi sempre uguale a sé stesso, ma come una tensione spirituale, un’ascesa dalla terra verso il cielo, tale che il visibile sancito nell’immagine non sia che un simbolo. Pensare al platonismo come ad una simbolica ci avvicina sorprendentemente al dato biblico.
La creazione è immagine di Dio perché è da sempre in Lui; la sua teleologia in effetti è coincidente con il Principio che può essere contraddistinto come Verbo e come Sapienza. La chiave ermeneutica è il Prologo del Vangelo giovanneo. Se il Verbo contiene le rationes seminales delle cose create e ne è, per questo sostegno ontologico, il loro essere immagine non implica sic et simpliciter essere una copia, una mimesis passibile di contraffazione della verità, quanto invece il loro essere convocate a realizzare quella stessa Veritas che ne è la forma. Importantissima da questo punto di vista è la teologia della Bildung ripresa dalla mistica speculativa renana, un esempio per tutti l’opus eckhartiana, che implica la formazione del Verbo nell’anima. Tuttavia essa non può darsi senza la consonantia in una forma visibile che ne dice ad un tempo l’integritas e la bellezza. Rivisitiamo, così, istanze salienti della dottrina estetica classica, in special modo quella del Santo dottore Aquinate, ma riteniamo che, per quanto preziosa, essa debba essere integrata da una dottrina fenomenologica che non si limiti a parlare di parvenza o simulacro, ma che ravvisi nel phainesthai l’evento epifanico dell’invisibile, non perché il fenomeno in quanto manifestazione non possa essere accreditato quoad se, ma perché, in quanto manifestazione, è un chiaro symballein, simboleggiare. Quindi si può parlare di una fenomenologia dello splendor formae la cui manifestazione sancisca un contenuto di aletheia, di non nascondimento.
Non sembra affatto casuale che il termine doxa, dal greco dokeo, implichi semanticamente l’apparire ma anche la gloria, traducendo l’ebraico kabod. Nel mondo biblico la gloria di Dio non è che il venire alla presenza della Sua invisibilità e l’essenza della Sua manifestazione è de facto la natura cristica e l’ipostasi teandrica che regge l’Incarnazione.
Il Corpo del Verbo, nella carne prima, nella specie sacramentale poi, sancisce l’ingresso di Dio invisibile nel mondo.
Si potrebbe dire che sia stata la theologia carnis a indurre la possibilità di una philosophia carnis e non a caso un pensatore come Florenskij, immerso intellettualmente, ma, potremmo dire, con ancor più forza, vitalmente nel fiume carsico del dato cristiano, come accade alle grandi menti della tradizione ortodossa, rilegga il dato filosofico altrimenti, pro-vocando però tutta la tradizione filosofica invocata dall’Occidente a ripensare l’ignotum ed il mistero che la ferisce con una nostalgia dell’origine.
Ripensare la bellezza in questo alveo corrisponde a ripercorrere la grande tradizione simbolica del pensiero, rinnovandola, però, grazie all’acquisizione di una nuova acquisizione ontologica che non esclude più l’essere dalla manifestazione, ma fa della stessa manifestazione una cifra analogica ed anagogica, recuperando così una inedita dimensione dell’immagine, tale che, assurta a simbolo, essa possa donner à penser.
1. Imago ed eikon: medesimezza dell’oggetto o alterità del volto?
Il ruolo dell’immagine nella tradizione filosofica è sempre stato fondamentale. Essa è, infatti, collegata all’attività dell’intelletto che la elabora come chiave gnoseologica del mondo. L’attività imaginalis, come osserva per esempio Cassirer nella sua Filosofia delle forme simboliche, concerne la creatività intellettuale nella sua elaborazione e conduzione a coscienza dell’universo simbolico come cifra significante e pienezza ontologica. Sembra, da questo punto di vista, pacifico che l’imago abbia un valore epistemologico su cui fondare le condizioni di possibilità di conoscenza.
D’altra parte la kantiana dicotomia, nonché saldatura di fenomeno e noumeno prelude alla stessa idea di un’analogia trascendentale che collega dialetticamente gnoseologia e finalismo, quasi che l’imago possa essere non solo criterio di lettura di una natura materialiter spectata, quanto anche formaliter, secondo bellezza e libertà.
Tuttavia, la tradizione gnoseologica, specie moderna, si è resa spesso responsabile di un appiattimento in modo tale che l’imago è venuta via via a perdere questo suo valore simbolico, ed è stata irretita nella cattura concettuale. Il climax è stato raggiunto con la riflessione hegeliana che vedeva nel concetto l’approdo dello Spirito certo di sé, rovesciando il senso simbolico dell’immagine nella semantica di una rappresentazione legata alla immediatezza. Concipere è, da questo punto di vista, cum-prehendere e assoggettare alle proprie forme intellettuali. Se, infatti, quidiquid recipitur per modum recipientis recipitur, il sub-iectum che sta di contro all’ob-iectum non è sic et simpliciter un passivo recettore, ma lo costituisce nelle forme della conoscenza che gli competono. L’obiectum è, quindi, assoggettato ai criteri formali che lo costituiscono in intellectu, ma non solo perché prius fuit in sensu, quanto anche perché l’intelletto non è solo possibilis quanto anche agens. La tradizione realista medievale, da questo punto di vista, si mostra molto più articolata di quanto si possa credere, prova ne sia l’idea di un universale imaginalis tratto da ciò che è in re ma elaborato secondo le categorie dell’intelletto, così che l’esse in re rinvia necessariamente ad un esse in intellectu che non inerisce tanto alla presenza dell’oggetto della conoscenza quanto alle condizioni formali del conoscere.
Se ne evince, a nostro avviso, l’idea di una reductio ove qualsivoglia riferimento all’alterità viene eluso, una sorta di criptoidealismo, la cui corrente sotterranea ha ossessionato tanto Descartes quanto Fichte, tanto Hegel, quanto Husserl. In ogni caso, questo ha significato anche il venir meno di tutte le sfumature simboliche ed analogiche che corredavano l’imago.
Ci si attesta, in effetti, sul concetto facendo in modo che questo riguardi la forma universale ed epistemologica del conoscere. In realtà, tale forma concettuale esibisce caratteri di generalità, non di universalità, rendendo così molto arduo l’ingresso dell’alterità nella filosofia, nonché operando una seconda reductio, dal concetto all’oggetto.
Ob-jectum è ciò che sta di contro come sottolinea l’etimo latino, ripreso per altro anche nel tedesco Gegen-stand e, in quanto sta di contro, necessita di essere compreso, nel senso, però, di essere totalmente afferrato dall’intelletto che, nell’ambito gnoseologico, denota il soggetto conoscente, secondo le sue forme per cui l’oggetto viene costituito secondo criteri di validità ed evidenza. Questa attività di astrazione-generalizzazione basata sull’evidenza e sull’accertabilità è stata il Leitmotiv delle scienze cosiddette obiettivanti, definite anche, secondo la celebre distinzione diltheyana, Naturwissenschaften. L’oggetto è divenuto quindi la cifra epistemologica dell’idea fondante di obiettività o oggettività, idea che, per altro, è commisurata all’accertabilità e verificabilità matematica. Essa, a sua volta, ha determinato un criterio di leggibilità del mondo: quella di tipo matematico sancendo, dunque, un paradigma gnoseologico ed epistemologico che si pensava basato sull’istanza di universalità della conoscenza.
Tuttavia, non si può non trascurare il fatto che, se pur l’oggetto della conoscenza non possa prescindere dalla res, in ogni caso le forme di leggibilità sono dettate dall’intelletto conoscente così che, secondo l’istanza kantiana, ripresa in altro modo anche da Husserl, si può parlare di costituzione dell’oggetto (Verfassung); questa idea apre da un lato all’ipotesi addotta da un celebre inteprete della filosofia moderna, proveniente dalla tradizione neoscolastica, quale Gustavo Bontandini, del dualismo gnoseologico presupposto, dall’altro ad una ricaduta di tipo idealistico della fenomenologia. Al di là del dibattito circa l’idealismo o il realismo, crediamo che sia però importante sottolineare che anche l’oggettività non sia che un altro modo di dire la medesimezza, con la quale ha fatto soprattutto i conti il pensiero di derivazione ebraica, individuabile nell’opera di Franz Rosenzweig e di Emmanuel Levinas.
Il primo identifica nell’attività generalizzante dell’intelletto che risulta dalla domanda gnoseologica fondamentale ti esti, una sorta di apoplessia filosofica, di malattia paralizzante che taglia con ogni possibile relazione e che impedisce di vedere la cosa stessa.2 Il secondo evidenzia in modo radicale l’allergia che affligge il pensiero, quella dell’altro e dell’alterità.
L’oggettivazione risulterebbe, dunque, essere il climax di tale estromissione dell’altro nonché di un dualismo incolmabile rispetto ad un sub-jectum, il quale, in quanto substrato unificante di ogni determinazione, subisce di per se stesso una reductio. Esso è semplice presenza, e questo darsi come An-wesenheit gli conferisce la possibilità di essere a portata di mano nel senso strumentale tanto da ignorare la singolarità della sua esistenza storica e spirituale. Altrettanto pregnante, da questo punto di vista, appare la denuncia adorniana del collettivo manipolato o del mondo amministrato, come destino e deriva di un’ontologia della ragione strumentale. Scrive Adorno:
Il carattere oggettivo dello strumento, che lo rende universalmente disponibile, la sua «oggettività» per tutti, implica già la critica del dominio al cui servizio il pensiero si è sviluppato. Lungo la via della mitologia alla logistica il pensiero ha perduto l’elemento della riflessione su di sé, e oggi il macchinario mutila gli uomini anche se li sostenta. Ma nella forma delle macchine la ratio estraniata si muove in direzione di una società che concilia il pensiero, cristallizzato in apparato materiale ed intellettuale, con l’essere vivente liberato e lo riferisce alla società stessa come al soggetto reale.3
L’idea di fondo è quella di un oggetto in quanto strumento, come viene anche indicato da Heidegger, legato alla disponibilità manipolabile (Zuhandenheit), che consegue da un criterio di un’oggettività come condizione di possibilità di conoscenza vera ed evidente. Questo ha de facto significato una deriva della gnoseologia che si è lasciata asservire al dominio. D’altro canto, la razionalità strumentale ha inficiato anche la natura dell’uomo, riducendolo a sub-jectum. Non più di un mero sostrato di determinazione si tratta, quanto anche, e questo ci sembra evidenziare la deriva assolutamente antiumanista delle cui ricadute estetiche dovremo qui occuparci, di una vera e propria manipolazione per cui l’ipseità irriducibile ed inoggettivabile che chiamiamo persona, viene ridotta alla medesimezza delle strutture impersonali che determinano l’epoca della tecnica, come l’epoca delle immagini del mondo, come scrive Martin Heidegger.
Il Leitmotiv del pensiero adorniano, in questo caso, mostra non pochi punti di contatto con quello heideggeriano del man, della struttura impersonale della chiacchiera che non solo denuncia l’unidimensionalità dell’uomo, ma anche l’unidimensionalità del pensiero appiattito sull’oggetto che ripete nell’uomo la stessa operazione manipolatrice riducendo la poliformità ricchissima della sua ontologia, così che l’unica istanza di esteriorità, per parafrasare Levinas, non sarebbe che la massificata dimensione del pubblico.
Il dualismo soggetto-oggetto opera la reductio del mondo amministrato riassunto dall’uomo amministrato, così che si perviene ad una deriva totalitaria. Si tratta di una Um-wertung che denuncia chiaramente come il pensiero nato dalla tradizione occidentale non abbia fatto seriamente i conti con l’alterità ed abbia appiattito sulla dimensione della semplice presenza il mondo facendo anche dell’uomo una sorta di enfasi del mondo.
Da questo punto di vista si può afferrare come la drammatica portata del pensiero nietzschiano della morte di Dio si colleghi all’idea della morte dell’uomo, intesa come mort du sujet che ridisegna un paesaggio di pensiero nel quale non può che sorgere l’aspirazione ad una luce della redenzione come altra prospettiva sulle cose, secondo la conclusione dei Minima moralia adorniani. In ogni caso, anche la grande operazione della fenomenologia vuol essere, secondo la lettura levinassiana, questo tentativo di recuperare orizzonti dimenticati. In una pregnante analisi, il filosofo lituano asserisce:
L’identità-risultato è l’astrazione stabilita da un pensiero pietrificato che ha già dimenticato la sua vita e gli orizzonti dai quali, attraverso una serie di movimenti, forse felici, ma sconsiderati e irresponsabili, esso si stacca per affrettarsi verso tale risultato.4
Il binomio identità-risultato implica da un lato una sorta di isomorfismo fra l’oggetto e le forme del pensiero con cui è coglibile, dall’altro il cammino su cui si attesta la tradizione filosofica che non prescinde dall’equazione essere-pensiero. Su questa ontologia della medesimezza non può costituirsi alcuna ontologia dell’essere umano. L’identità diviene, così, un’astrazione disincarnata che influenza lo stesso soggetto; quindi, se, come si è messo in luce, siamo passati dalla complessa ricchezza dell’imago, attraverso il concetto, all’obiectum, è altrettanto vero che si è passati dall’uomo attraverso il soggetto come sostrato di determinazioni, ad una egologia di tipo idealistico nella quale l’esteriorità dell’altro dal pensiero, è stata ridotta all’essere del pensiero preso, tuttavia, nelle sue strutture concettuali e costitutive,
Ancora una volta è Levinas ad aiutarci in questa analisi con le sue puntuali osservazioni, secondo cui
L’io è l’identificazione per eccellenza, l’origine del fenomeno stesso dell’identità. L’identità dell’io non è, infatti la permanenza di una qualità inalterabile. Io sono me stesso non perché identifichi preliminarmente questo o quel tratto di carattere per poi ritrovarmi come lo stesso. È invece, proprio perché io sono sin da subito lo stesso — me ipse — un’ipseità, che posso identificare ogni oggetto, ogni tratto del carattere ed ogni essere […]. La vera conoscenza in cui l’Io “lascia fare” e lascia risplendere un essere estraneo non interrompe questa identificazione originaria, non attrae senza ritorno l’io fuori di sé. L’essere entra nella sfera della vera conoscenza.5
Il principio d’identità fonda il cammino del pensiero una connessione fra ontologia e gnoseologia. Esso è, tuttavia. legato ad un’altra operazione filosofica responsabile di questo paesaggio teoretico scandito dalla totalità. Si tratta della generalizzazione. Il generale è principio di conoscenza a partire da strutture dell’intelletto e opera de facto un’identificazione. Tuttavia esso non dice che ne è del volto, del soggetto che non può prescindere dalla volontà, dal desiderio, dalla sua stessa incarnazione. Frutto di un platonismo esasperato che ha squalificato il sensibile al di là forse dello stesso Platone o di un criptico tentativo di conoscenza come dominio, anche questa è in ogni caso la genesi di un pensiero che ha sottolineato con enfasi l’io, smarrendolo nelle strutture impersonali della generalità.
In principio era l’essere vorrebbe poter scrivere una tradizione filosofica totalitaria, ma in controcanto si erge la possibilità di un altro inizio: In principio era il Verbo. Come ben sottolinea Agostino,6 si dà una connessione fra Principio e Verbo così che il primo termine che segue una preposizione locativa sta per Cristo, e così si può leggere In Principio come in Cristo. Proseguendo la lettura, tuttavia, si evince che Cristo è la Parola che si rivolge a Dio7 ed è Dio. L’esse procede dal Verbo ed il Verbo rivelante Dio in quanto Dio Lui stesso è Colui per il quale l’ens creatum sussiste in quanto persona divina (hypostasis e non già prosopon). In Lui l’ens creatum è cosciente di essere imago Dei.
Se le cose stanno così l’immagine assurge ad un contenuto epifanico il cui carattere rivelativo sancisce rispettivamente un riferimento trinitario ad intra nonché ad extra. Quello che abbiamo definito come ad intra concerne Cristo e la Sua ipostasi divina in quanto Rivelazione dell’Invisibile Dio, della cui sostanza8 è impronta. Quella ad extra attiene, invece all’aspetto ontologico creaturale per cui l’uomo partecipa al Mistero di Dio.
L’ambito ricchissimo della teologia cristiana ci reimmette nell’ambito dell’imago, recuperando, altresì, l’idea dell’Incarnazione come condizione di possibilità di una conoscenza che, con un termine più efficace e pregnante potremmo definire con-naturalità, dato che l’imago Dei formata nell’uomo per la nascita di Cristo al tempo è ad un tempo il termine di conoscenza di Dio tramite la carità da cui procede la generazione da Dio (a Deo ed in Deum).
Da questo punto di vista anche l’elaborazione filosofica è necessitata a trovare nuove categorie, ma è proprio l’ambito estetico, più che quello gnoseologico, a ridisegnare il panorama ontologico. Fondamentale, in tal senso il Volto, di cui Levinas ben sviluppa la portata ontologica elaborando la sua ethica qua philosophia prima che taglia con ogni medesimezza di tipo gnoseologico e riconduce nell’ambito filosofico l’istanza di un’inoggettivabilità che lascia spazio al Mistero dell’Infinito e al suo irrompere come gloria a partire dall’appello che dal Volto mi viene. Tale appello è l’ingiunzione del biblico comandamento non uccidere, ma, certamente, se il Volto parla non ci sembra del tutto inadeguato ricollocarlo sullo sfondo del Verbo divino che rivela nella parola l’immagine inapparente di Dio ma non prescindendo dall’Alterità.
La lettura che si tenta, di un’estetica filosofica sulla base di questo Leitmotiv implica scorgere le possibilità di un’ontologia che sia capace di recuperare l’alterità ridefinendo i contorni di una humanitas capace di conferire un senso affatto nuovo alla persona come relazione alla Verità, nonché ad una filosofia capace di porsi di fronte all’essere come Mistero.
2. Phainesthai: l’apparire dell’inapparente e la forma dell’invisibile
Omne namque, quod intelligitur et sentitur, nihil aliud est, nisi non apparentis apparitio, occulti manifestatio, negati affirmatio, incomprehensibilis comprehensio, ineffabilis fatus, inaccessibilis accessus, inintelligibilis intellectus, incorporalis corpus, superessentialis essentia, informis forma, immensurabilis mensura, innumerabilis numerus, carentis pondere pondus, spiritualis incrassatio, invisibilis visibilitas, illocalis localitas, carentis tempore temporalitas, infiniti definitio, incircumscripti circumscriptio, et cetera, quae puro intellectu et cogitantur, et perspiciuntur, et quae memoriae finibus capi nesciunt, et mentis aciem fugiunt.
Giovanni Scoto, De divisione Naturae, III, 4: PL 122, 633-b.
L’esergo di questo paragrafo dall’allure mistica è stato scelto per il suo tentativo di sempre cercare un climax costruendo il ragionamento sull’oppositio. Ogni apparire dice dell’inapparente, ogni misura, l’incommensurabile, e ogni cosa intelligibile rinvia a ciò che è oltre lo stesso intelligibile. Il passaggio è di Scoto, ma esso nostra somiglianze non casuali con altri loci di Dionigi l’Areopagita o di Agostino. La teologia mistica cristiana, sia nella sua produzione più speculativa (nella linea che va da Dionigi fino a Cusano e ad Eckhart), o in quella più affettiva (che comprende la produzione estetica di Giovanni della Croce, di Silesius, di Teresa d’Ávila) è legata all’idea di una sorta di negatio negationis che estenua il linguaggio e che, dicendo, si arresta dinanzi all’Indicibile in atto di lode adorante. Non è affatto casuale che, presso questi autori, la trattazione speculativa è spesso interrotta, attraversata o conclusa dalla preghiera. Ciò implica, a nostro avviso, che qui non si dà mai un’identità di essere, pensiero, linguaggio, ma lo stesso pensiero porta al linguaggio l’Indicibile, l’Ineffabile, il Non pensabile prima che si sia manifestato come Colui che è absconditus perché revelatus, e revelatus perché absconditus.
I mistici presuppongono, dunque, sempre un’Alterità senza cui non si dà né sete della ragione, né quiete del cuore dopo l’inquieto sitire. Per questo, tuttavia, la filosofia che recupera in una ermeneutica dialogica la teologia trae da essa la fecondità per ripensare alcune categorie teoretiche.
Dunque si può dire che in questo ambito estetico venga implicata una fenomenologia dell’invisibile, il quale per altro dà valore a quanto si manifesta. Molto interessante, da questo punto di vista l’idea sviluppata dal fenomenologo francese Maurice Merleau-Ponty circa una filosofia basata sulla fede percettiva. Egli scrive:
I metodi di prova e di conoscenza che un pensiero già installato nel mondo inventa, i concetti d’oggetto e di soggetto che esso introduce, non ci permettono di comprendere che cos’è la fede percettiva, proprio perché essa è una fede, cioè un’adesione che si dà al di là delle prove, non necessaria, intessuta di incredulità in ogni momento minacciata dalla non-fede. La credenza e l’incredulità sono qui strettamente collegate che troviamo sempre l’una nell’altra e in particolare un germe di non-verità nella verità.9
Sembra chiaro che il passaggio dica di una insufficienza del dualismo metodologico, adducendo l’idea di un altrove o di un’alterità che non può essere conosciuta se non per fede. Tuttavia, una filosofia centrata sulla fede, non può che fare i conti con l’invisibile. Dalla teologia sappiamo che la fede è la sostanza delle cose che non si vedono. Merleau-Ponty indica, pertanto, l’apertura della filosofia che non escluda l’occultamento del mondo, quasi che l’eidos stesso a cui tende sia una sorta di viso per speculum et in aenigmate.
Il fenomenologo francese mette in evidenza come l’operazione filosofica implichi sempre, da questo punto di vista, un movimento di perdita rispetto alla letteralità della visione come stato di fatto, per recuperarla come senso e possibilità sua, ma recuperando, altresì, ciò che in verità significhi. Come dire che il significato resta nell’orizzonte invisibile presso il cui occultamento la filosofia si apre. Andare oltre la letteralità della visione implica per Merleau-Ponty un atto di riflessione che conduca il filosofo al di là del mondo stesso e di ciò che è per noi.10 Tuttavia, qui viene implicato il percepire e l’immaginare come atto di pensiero che, però,
non è pensiero di vedere o di sentire ma piuttosto l’assunto di non applicare e anzi di dimenticare i criteri di verificazione e di prendere per “buono” ciò che non è visto e non potrebbe esserlo.11
C’è un’interrogazione, quindi, dal fondo del silenzio delle cose stesse alla filosofia, che incontra l’interrogazione della filosofia nello stupore del lasciar essere la cosa senza immobilizzarla, in modo che la percezione stessa sia lo scarto e la differenza delle cose rispetto alle nostre norme.12Essa è una sorta di custodia della trascendenza intrinseca delle cose, quasi che l’interrogazione sia un ricondurle nell’invisibile il cui fondo è silenzio.
Per questo motivo, Merleau-Ponty ritiene che anche il linguaggio della filosofia debba essere pregnante di questa differenza, restituendo la vita del tutto e facendo vibrare, fino a disgiungerle le nostre evidenze abituali.13
Tale è il Leitmotiv di tanta parte dell’estetica del Novecento, che recupera il concetto di creazione come capacità di incontro fra visibile ed invisibile, come recita ad esempio uno dei cori di Eliot:
Perché l’uomo è corpo e spirito congiunti, E quindi deve servire come corpo e spirito. Visibile e invisibile due mondi si incontrano nell’Uomo; Visibile e invisibile si devono incontrare nel Suo Tempio. Non rinnegate il corpo.14
Tale connessione fra creazione e immagine dice altresì di un’attività che è propria della filosofia, al quale, all’avviso di Merleau-Ponty, è contatto con l’essere. Così egli scrive in una Nota di lavoro senza data:
La filosofia, proprio come “Essere parlante in noi”, espressione dell’esperienza di per sé muta, è creazione. Creazione che in pari tempo è reintegrazione dell’Essere; infatti essa non è creazione nel senso di uno dei Gebilde qualsiasi che la storia fabbrica; essa si sa Gebilde e vuole superarsi come puro Gebilde, ritrovare la propria origine. È dunque creazione in senso radicale.15
Se le cose stanno così, il contatto con l’Essere trascende l’oggettivazione; creare è riattingere l’origine, per questo la creazione si rivela come nostalgia del reale che manca e che si manifesta come fondo interrogante delle cose dal silenzio. Ritorniamo, dunque, all’idea eriugeniana secondo cui l’inapparente si manifesta in ciò che appare e ciò che si comprende è l’icona dell’incomprensibile. Nella possibile alienazione del mondo amministrato che opera una reductio persino dell’umano alle strutture manipolabili, la filosofia si erge come esigenza e domanda di trascendenza irripetibile che recupera l’immagine come partecipazione ontologica. Oltre il come del mondo c’è un che inapparente suscitato e non oggettivato dalla domanda di senso.
Probabilmente la riappropriazione di un’estetica come teoria ontologica recuperata specie in sede ermeneutica, a cominciare dall’opera pareysoniana, si muove esattamente in questa direzione, in modo tale che il plesso ontologico della bellezza rinvii ad una gratuità inoggettivabile che, tuttavia, sancisce una vera e propria vocazione ad essere.
Ancora una volta possiamo concludere come la riflessione teologica, specie patristica, contenga delle masse di vita filosofica che il pensiero stesso non ha del tutto esplicitato nel suo percorso, ma che, nel momento in cui vi ha posto ascolto, gli ha donato una fertilità affatto nuova. Nonostante si possa obiettare, e di fatto questa obiezione è stata mossa in questi tempi, che si tratti di una svolta teologica della filosofia, riteniamo, al contrario, che categorie come quelle del bene e del bello, pur connotate secondo il paradigma della teologia speculativa mistica, siano di grande aiuto alla filosofia per ripensare il senso della sua fondazione in verità.
Memorabile è la pagina di Dionigi che si sofferma sulla radice del termine greco che traduce l’aggettivo bello, kalos, per individuare l’identità di derivazione etimologica con il verbo kalein che significa chiamare ma anche creare:
In riferimento agli uomini si distingue tra bello e bellezza come tra colui che partecipa e ciò di cui partecipa, ma a proposito di Dio non è così: si dice Bellezza per la bellezza da Lui distribuita perché chiama a sé tutte le cose, e Bello perché è sempre, non diminuisce né cresce mai.16
Chiamare attraverso la bellezza, tema non solo platonico, ma addirittura biblico, implica però la formazione di un’immagine che potremmo altrimenti definire come partecipazione ontologica, così che la bontà delle cose create non sia scissa dalla bellezza ma in essa si riveli come simbolo dell’Inapparente.
La medesima istanza è ripresa da un esponente contemporaneo della fenomenologia francese, Jean-Luc Chretien, che recupera l’evento e l’avvento della bellezza come un aver da essere.17 Da questo punto di vista il carattere eventuale del bello apre lo spazio ontologico delle cose ma fungendo da richiamo invisibile che spinge oltre esse verso il significato epifanico. Tale spazio ontologico, tuttavia, si connota come una sorta di pathos che si immette al fondo del visibile come una ferita. Potrebbe legittimamente trattarsi di una passio divinorum di tipo mistico, dato che Chretien cita i sermoni di Bernardo sul Cantico dei Cantici, secondo cui la bellezza dello Sposo è velata agli occhi, ma si presenta come una piaga misteriosa che colpisce (e forse atterrisce, qualora volessimo leggere secondo questa categoria estetica i passi biblici di varie teofanie) suscitando, però, una cor-rispondenza, una sorta di adesione rispetto a quella apertura ontologica da essa generata.
Bellezza dunque come teo-logica da un lato, mentre, dall’altro come via ontologica. Sarebbe, però, forse il caso di barrare questo concetto al modo heideggeriano perché essa dice pur sempre di un’eccedenza che si rivela solo come in una Lichtung. Ma, infine, bellezza come paradigma di gratuità sul fondo della quale ripensare l’incipit filosofico dello stupore, non quindi come paralisi del theorein ma come riconoscimento partecipe di questa chiamata. Indubbiamente, tuttavia, occorre precisare un’altra questione di non meno eminente portata.
Si è detto sopra come il paradigma dell’objectum, che sfocia in un dualismo metodologico sia in essenza un paradigma ottico dominante nella tradizione filosofica moderna che finiva per identificare in una cattura obiettivante ed in una reductio ad similem l’alterità gratuita dei fenomeni. Ad esso fa da controcanto un paradigma acroamatico, ove l’ascolto lascia essere l’alterità senza riduzioni od oggettivazioni e genera una cor-rispondenza all’appello misterioso dell’essere.
Tuttavia fissare l’attenzione sulla categoria della bellezza recuperando la sua semantica di chiamare a implica a nostro avviso recuperare in altro modo l’immagine e comprenderla in connessione con un evento creativo che istituisce il mondo attraverso il suo appello. Grembo pregno dell’essere, la bellezza è in tal senso il grembo della Parola nella quale, secondo il mirabile prologo del Vangelo di Giovanni, tutto è stato fatto e tutto quello che è in essa è Vita e Luce. In effetti la bellezza che si dona nel visibile dell’immagine non riduce l’immagine ad una semplice presenza, ma rinvia ad un altrove da cui fa irruzione il Mistero. Potremmo allo stesso modo parlare di gloria nel senso teologico di una manifestazione dell’invisibile.
In questo ambito ermeneutico rileggiamo e di fatto torniamo al tema del corpo nella filosofia. E ci avvaliamo proprio dell’aiuto di Chretien:
Rendendosi visibile il corpo non si rende solo visibile, lascia venire alla luce l’anima invisibile che, vivificandolo, ne è perpetua origine e senza cui nulla potrebbe mostrarsi.18
In questo scambio misterioso di visibile ed invisibile la corporeità si lega all’incarnazione, la quale implica sempre un richiamo alla Fonte da cui si origina la manifestazione dell’invisibile. L’evento epifanico del Verbo è, in questo senso, il più chiaro indice di una carnalità che si origina da una gratuità misteriosa in modo tale che essa possa conferire un valore sacramentale ad ogni carne che vive nel mondo partecipando a questa prima ed originaria manifestazione come al suo mistero ontologico.
Il segreto del corpo è dunque la sua nascita all’invisibile, così come quello dell’anima è il venire alla manifestazione, nascendo al visibile e indicando il mistero della trascendenza del corpo che viene ad essere il tempio dell’incontro con la Verità.
Nel Prologo del Vangelo di Giovanni si può leggere come l’Incarnazione del Verbo che pone la tenda fra noi sia la conditio per cui la Grazia e la Verità vengono donate da una Carne non generata dal carne e sangue ma da Dio. Ed in questa Carne, cardine di ogni carne redenta, si sperimenta il ricevere un corpo come stupefacente epifania dell’essere.
3. Phainesthai o dell’approssimarsi dell’invisibile
Il fenomeno nel suo donarsi si compie, ma colui che lo riceve in quanto esso viene alla vista spirituale è all’origine di questo compimento. Un apparire, infatti, è tale se avviene nell’ambito di un riconoscimento stupito, che è ad un tempo intuizione dell’eidos e interrogazione radicale circa la fonte di questo stesso apparire. Useremo ancora la categoria teologica della gloria per evidenziare la sorgente di irradiazione della manifestazione stessa mai riducibile a quest’ultima. Una fenomenologia della luce come possibilità di un’estetica dell’Incarnazione non può non radicarsi in questo plesso dell’invisibile come eidos del fenomeno.
Mirabilmente scrive Rainer Maria Rilke, l’invisibile è essenziale. Non tanto perché unum necessarium, ma quanto perché implica il giungere alla luce di ogni cosa, che viene così a perdere, il senso di ciò di cui ci si può appropriare attraverso un’operazione gnoseologica dell’intelletto.
È pur vero, però, che l’invisibile è necessario, la sua necessità deriva dal fatto che solo in esso i fenomeni non sono meri oggetti transeunti ma simboliche presenze e silenziosi richiami alla originaria chiamata della ed alla bellezza. Così se il fenomeno è phainesthai, lo potremo cogliere nella sua capacità di essere epifania dell’invisibile, ed insieme custodia della sua irriducibile trascendenza capace però di connotare il reale di una preziosa Sinngebung, quella che attiene alla dimensione della terra salvata nella luce dell’in-stans convergente nello sguardo creatore di Dio e nell’epifania del tempo consumato nell’eterno serbato nello sguardo dell’angelo.
Chiamiamo in causa questo testimone del Mistero che non tradisce per i sensi l’invisibile19 per evidenziare quell’haecceitas, quel misterioso al di dentro delle cose che pur donandosi nel reale non permette la presa della generalizzazione ma, nel rivelarsi, come ciò che serba l’immanifesto, suscita stupore. Se questo è vero, non solo il pensiero è un grande metaphorein e non solo l’uomo esprime una razionalità simbolica, già capace di per sé, di farci mettere in discussione l’idea di una ratio come calcolo e misura, ma lo stesso simbolo assurge ad una funzione euristica.
È necessario però rivolgersi, vivificandole, a tradizioni più connesse con la teologia mistica orientale per comprendere come l’essenza della manifestazione non implica alcun dualismo gnoseologico presupposto; bensì essa stessa è terminus in quo la conoscenza è contemplazione dell’invisibile manifesto, mai esito di una costruzione deduttiva ma sorgente gratuita di una donazione. Si preannuncia, dunque, una ben altra fenomenologia. Qui, la Sinngebung è data non tanto dall’intenzionalità della coscienza, quanto invece dall’irradiazione metafisica che rende manifesto l’invisibile della cosa stessa e rende la coscienza capace del mistero. In tal caso il manifestarsi dell’invisibile è eccedenza del mondo creato rispetto alla misura che la conoscenza stessa presume dare. Forse già la distinzione apportata dalla stessa filosofia kantiana fra natura formaliter et materialiter spectata vuol sottendere proprio questa stessa ulteriorità. In un’altra ipotesi ermeneutica, si potrebbe concludere che l’invisibile che abita la prossimità del pensare sancisce la memoria di un’origine ad un tempo posta come telos, nella quale tutto fu grazia e nella quale la stessa natura creata si compie nello sguardo invisibile di Dio ove per altro si ricongiunge nel nunc stans ogni tempo. Questo implica però ripensare quell’idea della filosofia che ravvisa nella metafora ottica (eidos significa anche sguardo) una presa di possesso obiettivante. L’irradiazione della bellezza come verità che sancisce l’e-videnza del fenomeno è il pragma ontologico con cui la cosa stessa si dona; la cosa, in altri termini, è un dato che la coscienza accoglie come effetto di una donazione. Donde la necessità del simbolo, che Florenskij descrive come
luogo della salienza del reale, lo sfondo sul quale si delinea la realtà intelligibile della pura visione. Questo significa porsi il problema dell’unità.20
L’unità è un topos della filosofia, essa costituisce, altrettanto, il topos del reale, come già insegnava Platone, ponendosi ad un tempo la questione concernente la stessa articolazione dell’unità nel diverso. L’unità del reale è la ricchezza del suo comporsi in forme, le quali non sottendono solamente l’entelechia della loro singolarità, ma fanno anche in modo di esplicare la compiutezza dell’Uno nella loro stessa finalità. Per questo è necessario presupporre l’epekeina tes ousias, una Differenza ontologica ante litteram che sancisca l’irriducibilità del reale alla misura obiettivante della conoscenza ma anche il mistero da cui scaturisce il mondo come evento di senso.
Da questo punto di vista, un’ipotesi metafisica che recupera l’invisibile come fondamento non conseguente ad alcuna fondazione — essendo il principio primo autoevidente — non si traduce necessariamente in un oblio dell’essere, quanto forse recupera la stessa complessità ontologica nella varietà dei suoi aspetti, per questo è lo stesso simbolo a rivelarsi pregnante di valenze ontologiche. Esso è manifestazione e rimando, ulteriorità e sponda a quell’evento dell’essere per cui, ad esempio nell’arte, è lo stesso mondo ad accadere, un mondo salvato nella memoria di un’origine un-vordenklich, capace di rivelare l’epifania dell’essere.
Per questo motivo Florenskij ravvisa nell’arte dell’icona la prossimità e l’irruzione dell’eterno, uno, ineffabile e sempre misterioso, ma ne evidenzia anche il nesso ontologico; escludere questo implesso, infatti, sarebbe tagliare via il criterio veritativo che sottende la stessa forma come phainesthai e che, come si potrà vedere meglio in seguito, decreta la necessità dell’immagine (eikon).
Symballo: unisco. Questo è il significato, dunque il simbolo è natura sintetica di visibile ed invisibile, eterno e tempo, ma forse, come asserisce Massimo Cacciari a proposito dell’angelologia, concetto ben applicabile anche alla nostra analisi:
il suo annuncio non riguarda un farsi-visibile dell’invisibile, un tradursi-tradirsi dell’invisibile nel e per il visibilmente percepibile, bensì la possibilità per l’uomo di corrispondere all’invisibile in quanto tale…21
Paradossalmente la possibilità di corrispondere all’invisibile che all’uomo è data è quella dell’incarnazione come possibilità ontologica e tonalità emotiva, per questo la creazione simbolica ex parte hominis è testimonianza di questa originaria corrispondenza da cui può facilmente scaturire la categoria del nostos nel senso che questo acquisisce nell’ambito della fenomenologia della religione, così come l’annuncio di un diverso topos che custodisce la certezza del Verbum originario: Ecco faccio nuove tutte le cose.
La mediazione teologica che in questo ambito si cerca implica la possibilità di una più adeguata comprensione dell’immagine non certo come guscio o involucro esterno, ma come originale corrispondenza all’invisibile e soglia di irruzione del mistero ontologico nel mondo. Non per nulla si è già parlato sopra della sua funzione euristica, perché anche all’immagine si conviene il metaphorein, ed il suo valore di mediazione è sancito dallo stesso pensiero filosofico incentrato sul simbolo. Questo significa, comunque, rovesciare quella prospettiva hegeliana che riduce l’immagine a rappresentazione e la ricomprende nell’Aufhebung del concetto: molto più che Vor-stellung, porsi davanti qualcosa, sia pur dinanzi alla vista spirituale, l’imago-manifestazione è la prossimità dell’invisibile all’uomo e al mondo e solo per questa via irrutionis l’uomo vi può corrispondere in quanto risvegliato alla sua prima ed originaria possibilità ontologica. Ciò che nasce dallo Spirito è spirito e ciò che è donazione originaria riverbera nella trasparenza del dono.
Per questo motivo, avanti di soffermarci sull’icona come evento dell’invisibile nella sua epifania più autentica, riteniamo sia opportuno analizzare il concetto di volto come eidos e sguardo rivolto all’invisibile e da quella stessa fonte originato, facendo intersecare la fenomenologia del volto come percezione della forma ed entelechia del divino, con la fenomenologia del volto come recupero dell’universale singolarità della carne umana che, vivificata, diventa non solo segno di una ingiunzione etica come vuole Levinas invitante alla responsabilità ma plesso ontologico della Parola.
L’eidos, lo sguardo: metaforica della luce come irruzione del divino
La luce è metafora metafisica della vita, come già recita il pensiero antico ricorrendo al binomio phos / zoé ed in quanto tale, essa concerne la creazione divina come ontologia della partecipazione, secondo l’accezione classica, che ben esprime nel I canto del Paradiso Dante Alighieri:
La Gloria di Colui che tutto move per l’universo penetra e risplende da qualche parte più e meno altrove.22
Per questo motivo essa rompe la continuità di una tradizione gnoseologica che ravvisa nella metafora ottica una prima traccia della metodica obiettivante che cattura l’oggetto. Se, infatti, la luce viene recuperata nel senso di plesso ontologico che permette la visibilità, essa non può ridursi al fondamento inconcussum deduttivamente determinato. La luce è, al contrario, quanto permette la vita stessa di tutto ciò che è creato. Nesso ontologico, essa è ciò che fa essere, prima indeducibile manifestazione dell’essere, che, in quanto tale, si esplica come epifania. Per questo stesso motivo, la luce è manifestazione dell’immanifesto, per cui l’invisibile si fa presente. Occorre subito sgombrare il campo da un altro possibile equivoco: non si tratta della semplice presenza dell’ente, ma di ciò che avviene e si compie come gratuità originaria.
Se leggessimo fenomenologicamente il mirabile Prologo del Vangelo di Giovanni, là dove recita che in Lui era la vita e la vita era la Luce degli uomini, potremmo certamente evincere che il binomio vita-luce è l’evidenza in sé prima ovverosia la manifestazione patica della vita che rende possibile la Sinngebung delle cose. E forse un ritorno alle cose stesse secondo l’imperativo husserliano sarebbe sì, un metodo filosoficamente regressivo, ma tale re-gressione è indicazione e suggerimento di quell’orizzonte originario che resterebbe ineludibilmente, compiuta ogni riduzione. La luce è l’orizzonte della donazione.
Occorrerebbe esplicare il nesso Luce-incarnazione. Già lo stesso Jean-Louis Chretien ha evidenziato che il corpo che viene alla luce tradisce il suo nesso con la sorgente invisibile. Se essa si manifesta nella visibilità degli esseri creati attraverso il nodo del corpo, non si può che ammettere, con Michel Henry, una Archi-carne come compiutezza della manifestazione della vita. La luce è irruzione del Mistero nel mistero stesso di questa carne visibile, per mezzo di cui il mondo e la vita sono sentiti profondamente nello stupore dell’epifania dell’essere.
Una metafisica della Luce, dunque è avanti e al di là di ogni metafisica dell’essere, anzi oseremmo dire che si tratta di una metaforologia dell’ingresso e della permanenza dell’invisibile in ogni forma compiuta, quasi che l’invisibile necessiti dell’entelechia di ogni forma creata per esplicare la sua potenza rivelativa che è l’Atto stesso della chiamata all’esistenza. Da questo punto di vista, ci sembra molto pregnante la lettura del platonismo fatta da Florenskji. Egli ravvisa nella filosofia platonica una sorta di concezione ecclesiale (secondo la radice etimologica del termine) che implica una visione della realtà come un tutto vivente, ontologicamente imperniato sull’invisibile stesso che risplende in un nodo saldo di verità e bellezza. La stessa dialogia dialettica di Platone sottende, all’avviso di Florenskij un pensiero simbolicamente articolato, così che:
I termini del sistema platonico cessano di essere termini in senso stretto e diventano simboli vivi dei moti interiori. Fra questi simboli non si può stabilire un ordine esteriore: l’unica vita, l’unico centro trans-razionale si può percepire solo con un cuore che con essi si trova in armonia.23
Un modo diverso di poter dire l’uomo come capax Dei, e non soltanto in nome di una similitudo ove l’altro è inghiottito e neutralizzato, ma come possibilità di una contemplazione eidetica ove la vista spirituale è resa possibile dalla gratuità originaria dell’Invisibile che è già sovra-razione entelechia di ogni forma. L’eidos come sguardo interiore si apre sull’invisibile perché quest’ultimo vi fa irruzione come via epifanica verso l’essere. Questa irruzione, implica, per altro, la capacità di riconoscersi somiglianza proprio attraverso questo cammino di stupore verso questa eccedenza che è principio ed essenza della manifestazione
Fenomenologia del volto
Se la metaforica della Luce è la condizione di possibilità di percezione della forma, nonché il principio metafisico della creazione, ragione per la quale il platonismo ha rappresentato un ottimo medium ermeneutico per un pensiero che riflette a partire dal Cristianesimo, essa rappresenta, altresì, una delle istanze fondamentali per ripensare anche la creazione come immagine-somiglianza divina, come vestigium Dei. Non è però sufficiente l’idea di uno specchio che riflette, in quanto il rapporto creato-Creatore si esplica nella dimensione dell’essere chiamato e del partecipare di questa chiamata. Il binomio luce-vita, ripreso nel Prologo del Vangelo di Giovanni è tenuto insieme da un terzo termine che, per la verità, ricorre come primo nel Prologo stesso: il Verbo. Questo implica in primis la dimensione spirituale e speculativa della Parola, ma anche la sua capacità di essere Rivelazione originaria che apre la breccia al rivelato donandolo alla sua apertura dialogica. L’attribuzione di Luce a Dio non può escludere quella di Verbo, e dunque il fatto che la Rivelazione divina vuol essere riconosciuta e confessata.
La creazione viene pneumatizzata, colmata di Spirito attraverso la Parola nel suo abitare le parole del riconoscere, del ringraziare, dell’invocare e questo è possibile per mezzo della creatura che si apre, rompendo la sua solitudine, al divino appello, riconoscendone il risuonare interiore, un risuonare che ne costituisce la sua entelechia, perché Verbum efficax. Se si dà un primordiale stupore di Dio, dinanzi all’opera compiuta della creazione dell’umanità secondo quanto recita il Genesi: vide che era cosa molto buona, si dà un corrispondente stupore da parte dell’uomo, rivelato a sé stesso come mistero, viva irruzione ex nihilo con i suoi confini in Dio. La categoria dello stupore certamente segna un inizio, in ogni caso questo inizio ha bisogno di essere narrato, portato alla memoria, condotto dunque al linguaggio. Se Dio è loquens persona, l’uomo stesso è colui la cui esistenza è nella parola, per questo motivo la persona diviene tale nella parola. Ancora una volta ci saranno preziose le osservazioni di Florenskij:
Il volto è la manifestazione di una certa realtà e si apprezza appunto come mediatore fra conoscitore e conosciuto, come l’aprirsi alla nostra vista e alla nostra intelligenza della realtà conosciuta. A parte questa sua funzione, cioè a parte il suo rivelarci una realtà esterna, il volto non avrebbe significato.24
Il volto non è quindi una immota forma, è, al contrario, condensazione della Parola, sineddoche del suo farsi corpo. Il suo valore è epifanico e la sua essenza è manifestazione; per questo motivo il mondo biblico vi scorge e ci invita a scorgervi quella primordiale Rivelazione in cui Dio stesso si è reso presente, pur celandosi dentro un plesso d’umanità. Il salmista stesso esclama: Segnata è su di noi la luce del tuo Volto, ed è ancora l’umanità del misterioso servo sofferente dei mirabili carmi del profeta Isaia a ricordarci l’icona di dolorosa bellezza in cui Dio ha nascosto la sua Verità eccedente per imprimersi come assoluta Trascendenza nella prossimità di un volto paradigma di tutti i volti che ingiungono la responsabilità e la comunione. Principio an-archico, come insegna Levinas, il Volto implica altresì la rammemorazione di un altrimenti e di un oltre che sfugge ad ogni oggettivazione e disvela nella traccia un mistero ontologico. Fenomenologicamente inteso, il volto è il dono che si apre sulla donazione in un percorso regressivo. In effetti esso irrompe ex abrupto e si sottrae a d ogni principio deduttivo.
Così il volto si erge a categoria teoretica e, rovesciando il paradigma metafisico, fonda sì nell’etica una filosofia prima di altro genere, tuttavia occorre specificarne il senso. Essa, infatti, richiama il senso di un approssimarsi alla Trascendenza che è oltre la stessa metafisica ontologica. Se tale Trascendenza è, secondo il paradigma enologico del neoplatonismo, cui Levinas si riferisce, il Bene oltre l’essere, tuttavia essa assume anche i tratti personali del Dio biblico, che si fa volto nella Parola appellante. Per questo, udire la Parola è già poterla pronunciare e scorgere in questa pronuncia la radice dell’alterità che costituisce il nostro esistere di soggetti convocati. Come dire che il volto è autentica cifra della Trascendenza, nonché autentica rivelazione di Dio. Da questo punto di vista il volto è phainesthai, nell’autentico senso di rivelazione dell’Inapparente, e tale epifania è inscindibile, pena la non esistenza, dalla stessa manifestazione originaria dell’eccedenza divina. Florenskij arguisce a tale proposito:
È staccando la manifestazione fenomenica dalla sostanza che il peccato s’introduce nello sguardo, nella più pura rivelazione dell’imagine di Dio-estraneo, avulso da questo principio spirituale, il demonio con esso eclissa la luce di Dio: il volto è questa luce mescolata alla tenebra, è questo corpo esposto a situazioni che ne deturpano con piaghe la bella forma. Come il peccato s’impadronisce della persona il volto cessa d’essere la finestra da cui si effonde la luce di Dio: essa mostra semmai ancor più nitidamente le macchie di sporco sul cristallo; il volto si stacca dalla persona, dal suo principio creatore, perde vita e s’irrigidisce in una maschera dominata dalla passione.25
È interessante la connessione individuata da Florenskij fra volto e persona, così che si possa meglio comprendere come si dia un’essenza rivelativa inscindibile: la persona è riverbero della gloria divina, dunque essa non è prosopon, maschera che contraddice la Rivelazione originaria, a meno che non scelga la scissione rispetto ad essa e divenga autoaffermazione inospitale che taglia la possibilità di ogni relazione. Levinas osserva giustamente che il volto parla, mirabile possibilità di un paradigma acroamatico nell’ambito di un’estetica dell’immagine che fa di quest’ultima una finestra spalancata sull’invisibile la cui Presenza è capace di interpellare. Se fra persona e volto si dà tale nesso etico, in senso levinassiano, che invita alla custodia e alla responsabilità — la storia di Caino e Abele nel Genesi è emblematica — l’immagine umana assume una valenza di universale dignità e di rinvio alla Trascendenza, ma occorre tener presente che il volto stesso in quanto sineddoche della persona è questo rinvio, si tratta dunque di una relatio non adventitia, ontologicamente pregnante che attiene anche al mistero del farsi corpo da parte della Parola.
Introduciamo qui un’altra categoria, quella della corporeità, perché su questo presupposto è possibile comprenderla come la chiave ermeneutica di una riflessione etica nell’ambito dell’estetica e della fenomenologia. Per questo la mediazione di Levinas è preziosa. Provando a leggere sinotticamente tali concetti, si ha la connessione fra volto, persona, corpo. Se il volto sottende la persona come relazione, e dunque lascia evincere la sua rivelatività, il corpo è il condensarsi di questo rapporto con l’Archivita, come direbbe Michel Henry. E dunque come può la filosofia che nasce dallo stupore non radicare la propria riflessione su questa originaria epifania dell’essere dove convergono determinatezza e universalità?
Indubbiamente la ricerca fenomenologica riesce a coniugare la riflessione teoretica con l’istanza di una corporeità dove si condensa la radice più profonda dell’essere al mondo come rivelazione di un mistero che salda nella valenza dell’invisibile ciò che si manifesta e viene in luce. Per questo motivo, come osserva Florenskij, non si può operare una scissione con la sostanza e, come osserva Levinas, il volto immette su di un’origine ulteriore ed è capace di rinviare a ciò che il pensiero può solo riconoscere. Il corpo è, dunque, esser-ci, il nostro modo di commercio con il mondo, che è inevitabilmente la nostra attestazione di una verità che mai possediamo ma che ci possiede. A tal proposito scrive Levinas:
Non è più l’uomo, con una sua vocazione, che cerca o possiede la verità: è la verità che suscita e possiede l’uomo (senza dipendere da lui!). L’interiorità dell’io identico a sé stesso si dissolve nella totalità senza recessi e senza segreti. Tutto l’umano è fuori. Ciò può passare come una delle più decise formulazioni del materialismo.26
Ci sembra notevole questa connessione che si stabilisce fra verità ed esteriorità dell’uomo. Se la prima lo possiede, nel senso di condurlo ad una adesione vitale, e intendiamo qui l’erleben fenomenologico, d’altro canto l’esteriorità di cui il filosofo ebreo francese parla implica l’esistenza come Leib, corpo vivente, nel quale si esprime l’inscindibile nesso con la Verità che è anche il mistero dell’essere come vocazione e come bellezza, se teniamo conto della radice di cui si è già parlato. D’altro canto questo è anche un criterio discriminante rispetto a tutte quelle forme idolatriche che si soffermano sulla corporeità come una sorta di guscio o maschera, che non sarebbe in grado di rivelare nulla, anzi, forse di contraffare la stessa vocazione rivelativa che è propria della carne, della condizione di incarnazione. Dunque, non basta sic et simpliciter attenersi all’immagine per sottendere la propensione ad un umanesimo come svolta della cultura, è necessario che questa immagine non sia scissa dal rapporto veritativo e rivelativo ricorrente quando essa intenziona un incontro con la Verità e le dà la forma della sua vita. Osserva puntualmente Florenskij:
La piena contrapposizione a sguardo è rappresentata dalla parola maschera. La maschera o larva è qualcosa che ha una certa somiglianza con il volto, che si spaccia per volto, ed è preso per tale, ma che dentro è vuoto, sia nel senso materiale, fisico, sia quanto a sostanza metafisica.27
La possibilità che la maschera non solo celi, ma addirittura si presenti come vuota di verità permette che il soggetto si decomponga nell’infinità delle sue pulsioni, che contraffaccia la manifestazione in un possibile orizzonte di manipolazione, culminante addirittura nell’uomo unidimensionale. Occorre, dunque, riacquisire la capacità di riflessione sull’epifania della corporeità che si esprime nella possibilità di un volto ove si rifletta il Mistero, così che si possa parlare di un Trascendente concreto così come si ricorre al termine di universale concreto che, per la tradizione teologica cristiana, è il Corpo di Cristo.
Dopo l’epifania originaria dell’Incarnazione, ogni carne esprime un’intenzionalità universale che è ben evidenziata dalla categoria, anch’essa teologica, della somiglianza Dei. Si dovrà, per questo, recuperare in sede filosofica questo dato, per recuperare anche il senso di una nuova soggettività capace di rinnovare l’estetica come forma di Verità.
4. Geometria di decreazione o spirituale nell’arte
L’istanza estetica fortemente impegnata nella riflessione sulla corporeità non può non trovare un adeguato spazio di riflessione nell’arte. Non solo perché essa attiene ad una precipua percezione della forma, ma anche perché essa concerne un momento rivelativo, di verità, in cui il mondo umano viene al culmine della sua stessa essenza. Come dire che l’eidos dell’arte è di per sé orizzonte di apertura e compimento di un’intenzionalità che costituisce l’uomo come intersoggettività. Per questo motivo è necessario recuperare l’umano e la sua intentio simbolica, mai dimenticando che l’arte ha in sé una pregnanza ontologica che la avvicina al progetto della creazione incessantemente operante. Come ben osserva Pavel Evdokimov:
Un artista rivela la sostanza dell’essere purificato dalle sue deficienze, fa contemplare il suo aspetto ideale. Secondo la parola di Baudelaire, egli fa vedere “un’altra natura”, la sua verità nascosta. La bellezza costituisce perciò una delle facce della trinità ideale del vero, del buono, del bello. L’artista porta la sua luce nell’oscurità, egli non riproduce né copia, bensì crea delle forme sensibili, ricettacolo di un contenuto ideale.28
La natura epifania e simbolica dell’arte dice di un’azione umana che non è sic et simpliciter conatus essendi, quanto dimorare presso un’origine che, heideggerianamente, implica sempre anche una destinazione. Allora vi viene sottesa anche un’antropologia nella quale l’uomo, l’artista si apprende, ma non tanto come entità monadica, quanto come possibilità di una trascendenza intenzionata nel suo agire simbolico, nel suo dare forma per darsi forma. Altrettanto rilevanti sono le riflessioni di Pareyson:
Dall’opera d’arte trapela tutta intera l’originale personalità e spiritualità dell’artista, denunciata prima che dal soggetto e dal tema, dallo stesso irripetibile e personalissimo modo ch’egli ha tenuto nel formarla. In questo modo di formare è presente tutta la spiritualità dell’artista, nel senso che questa, una volta che si è posta sotto il segno della formatività, esige il suo modo di formare, anzi si fa, essa stessa, quel determinato modo di formare. È dunque il modo di formare, cioè lo “stile”, quello che trascina nell’arte l’intera vita spirituale dell’artista, perché questi nel suo formare segue un modo singolarissimo e inconfondibile, ch’è unicamente suo e non d’altri.29
Qui si sottende, naturalmente la soggettività dell’artista che, in quanto dotato di natura spirituale ha come telos un mondo spirituale. Dunque, non si potrebbe parlare di arte, nell’accezione di Pareyson, se non implicando l’humanitas. Crediamo, inoltre, che questa idea sia fondamentale per evidenziare il ruolo della soggettività umana, sia pur diversamente intesa da quella del mero cogito, nell’ambito della creazione artistica che è sempre evento di verità e di gratuità, nonché possibilità di dare forma umilmente al mistero dell’essere dopo averne ricevuta la chiamata come sete di bellezza. Occorre forse rivolgersi verso l’Oriente cristiano per comprendere come l’arte sia irruzione del Mistero e memoria di una ferita che sottende tutta la portata pregnante dell’esperienza di verità dell’uomo, che lo fa essere sempre spostato oltre sé e sempre interiormente proteso al senso trascendente di cui è custode. Un esempio è costituito dall’arte dell’icona, testimone vivente dell’Invisibile, affissa in ogni casa come simbolo e segnale di un’opera di Verità che, compiutasi nel Mistero di Dio, si compie nuovamente nel silenzio del raccoglimento e della contemplazione di chi guarda, dirigendo lo sguardo sul luogo di quell’irruzione di bellezza. L’icona, dunque, diviene una sorta di metafisica della bellezza, facendo della stessa arte un mistero ontologico. Come ben asserisce Evdokimov:
Nel suo momento culminante, l’arte aspira alla visione dell’essere integrale del mondo come deve essere nella sua perfezione; l’arte abbozza un’approssimazione al mistero ontologico. La percezione intuitiva della bellezza è già una certa vittoria creatrice sul caos e sulla bruttezza.30
Da questo punto di vista essa necessita di un correlato vivente e cosciente tanto da poter esibire quel nodo pregnante, già analizzato, di kalos-kalein, ma anche la sua istanza etica (kalos kai agathos). Per questo motivo l’immagine viene ad assumere un ruolo fondamentale. Non si tratta sic et simpliciter di un mundus imaginalis concepito come atto intellettuale e simbolico, quanto invece di quella correlazione ontologico-creaturale per cui solo è possibile un approdo al mistero dell’essere, quindi un recupero dell’uomo.
Diversamente accade in tante manifestazioni dell’arte contemporanea ove il non figurativo, ben lungi dal prefigurare l’istanza di un’estetica dell’invisibile che si sottrae dalla cattura dei sensi, elimina il riferimento ontologico, tagliando recisamente ogni riferimento all’uomo. Per questo motivo afferma Evdokimov:
Un tempo i grandi maestri toccando una qualsiasi particella dell’essere davano il sentimento di tenere fra le mani il mondo palpitante di vita nella sua totalità. Adesso su pannelli immensi il mondo si restringe alla povertà di alcuni frammenti […] L’arte non figurativa, informale, astratta sopprime ogni supporto ontologico negando l’oggetto concreto. Non si tratta di una mela rossa, ma del rossore in sé stesso, una macchia colorata dove l’artista proietta un significato che lui solo comprende.31
Riteniamo opportuno soffermarci su questo passaggio. L’idea dell’astrazione prelude a quella della possibilità di enti solo mentali, il cui mentalismo implica la mancanza di ogni riferimento al mondo in quanto possibilità di ek-sistenza. Quindi si tratta di un’accessibilità indecifrabile dovuta ad una sfiducia nella capacità rivelativi ed ontologica del simbolo o del linguaggio. Si tratta della confluenza di ben tre crisi: quella del soggetto, quella della parola, quella del senso. Molto diversamente starebbero le cose se si partisse da una prospettiva fenomenologia tale che il fenomeno di realtà come possibilità di donazione di senso, riguarda, o almeno può riguardare, un vissuto spirituale che, pur costituendosi in una coscienza intenzionale, tuttavia è comunicabile intersoggettivamente; questo è particolarmente vero nell’arte, come messa in opera della verità e come fatto rivelativi di verità. Nell’accezione fenomenologia, infatti, tutto è epochizzato, ma la reductio deve necessariamente attestarsi alla coscienza, dunque non può fare a meno dell’uomo, della sua humanitas, i cui vissuti intenzionali e noematici si esplicano in una storia di incarnazione. Evdokimov prosegue ancora nella sua analisi estetica prendendo ad esempio l’astrattismo di Malevic:
Malevic ha sentito in sé stesso una mistica della notte in cui il mondo si ricrea come potrebbe essere. È la “mezzanotte” di cui parla Mallarmé e la sua “goccia di niente”. Creatore del suprematismo Malevic cerca l’“intensità suprema dell’assenza”. Lo spazio liberato da ogni trama diviene un contenente senza dimensioni, senza componenti spaziali, una forma aprioristica pura senza oggetto né oggetto.32
La cifra dell’Assenza funge da euristica paradossale con cui scrutare il senso del mondo, pur attestandosi sull’enigma irresolubile. Dunque l’Assenza diviene astratto principio di trascendenza ove però va smarrendosi lo stesso senso cercato, quasi si trattasse di un freddo e cerebrale scrutare il mistero per ridurlo al nulla di ogni rappresentazione in una disperante ermeneutica dell’aorgico. Parossismo del dionisiaco, l’Assenza stessa si scompone in una geometria di decretazione ove lo spirituale si riduce ad una fuga di linee, ad una pluridimensionalità senza riferimento ontologico, ove le cose ed i soggetti dileguano nell’informe e nel vuoto. Spiritualità dell’anticreazione si potrebbe dire e, come tale, nuova forma di hybris trasvalutante, di cui si potrebbe dire con Gregorio di Nazianzo: “Guai a chi ha scrutato subdolamente i misteri di Dio…”.33
Pure, ci si potrebbe ricondurre ad un diverso piano di lettura che sarebbe al contrario l’estremizzazione del pensiero tragico, ove l’ineluttabile senso di perdita risultante dalla morte di Dio, si traduce in una altrettanto forte nostalgia di Dio. Se le cose stanno così, tuttavia, è ineludibile il fatto che l’arte non possa abdicare alla sua istanza simbolica, al suo carattere rivelativo di un pulchrum che è via di irruzione del Mistero, non subdolamente scrutato ma accolto nella cura e nel raccoglimento dell’anima.
5. Conclusione: Homo veritatis splendor
Dopo questo excursus, per la verità molto breve, possiamo individuare come la sete di bellezza e quella di verità si coimplicano e non si tratta sic et simpliciter di mera aisthesis, a meno che tale sentire non coinvolga l’erleben sia pur fenomenologico che apre ad una dimensione dell’intenzionalità di senso che si esplica come ulteriorità ma s’impernia nell’Incarnazione. Tale categoria annoda teologia e filosofia proprio per il recupero della corporeità che sottende; per la stessa filosofia contemporanea essa definisce il senso di una gratuità tale che ci si scopre come donati e tale che la propria identità non è ravvisabile se non nell’acquisizione della relazione, già intenzionata nell’ek-sistere. D’altra parte, per la teologia, essa ravvisa l’universale concreto, Cristo, che fa apparire l’assoluto nella relazione e rende possibile il paradosso della Verità.
Si inserisce qui il Mistero della Bellezza nella sua epifania e nella sua capacità di rivelare l’assoluta trascendenza della concretezza umana, quasi che, in altri termini, non sia possibile il darsi della Bellezza senza la capacità di riconoscimento, senza la possibilità di averne coscienza. La ferita della Bellezza incide la carne viva dell’uomo, la piaga in una intensità indicibile, le rivela che non tutto è consumabile e disponibile nella cattura oggettivante, che il reale è ciò che manca. Per questo stesso motivo non si può prescindere, parlando di Bellezza dall’immagine (eikon), dall’uomo. Dunque epifania della bellezza come epifania dell’umano.
Naturalmente questo implica che l’arte debba ritrovare una nuova consistenza ontologica, proprio a partire dalla capacità di ravvisare nella raffigurazione del volto una sorta di possibilità etica, per così dire una comunione dei volti con il Volto invisibile che rinvii e suggerisca. In questo senso l’arte diventa una forma di contemplazione capace di scrutare certo il Mistero, ma scandagliandolo nell’adorazione e nell’accoglienza, come da sempre insegnano i pittori di icone. Si dà, in tal senso, una forma di partecipazione ontologica che coinvolge la stessa creazione artistica, ma forse sarebbe meglio identificare tale categoria come partecipazione cristologica, in quanto è l’idea stessa di Incarnazione ad informare l’opera, la quale diventa, in tal modo, concretizzazione dello Spirito. Osserva Evdokimov:
La Bellezza di Dio, proprio come la Sua Luce, non è né materiale, né sensibile, né intellettuale, ma si dona in sé stessa o attraverso le forme di questo mondo e si lascia contemplare dagli occhi aperti del corpo trasfigurato. Questa non è né la mistica “sensibile” dei messaliani, né una riduzione al solo intelligibile, né una grossolana materializzazione dello spirituale, ma la comunione assai concreta della natura creata dell’uomo intero con le energie divine increate. È il mistero dell’“Ottavo giorno”.34
Qui presupponiamo, comunque, un riferimento teologico che diventa ad un tempo sia antropologico che teologico. Prendiamo come paradigma l’icona in quanto, se essa è donata alla contemplazione e assume un ruolo privilegiato nel culto del Cristianesimo d’Oriente, tuttavia rimanda anche alla dimensione contemplativa dell’artista, che tratteggiando i lineamenti segreti del Volto divino, confessa la sua fede nell’Incarnazione e nella destinazione ultima e compiuta dell’uomo. Per questo si può comprendere come Agostino dica che l’uomo può divenire carnale persino nello spirito e può divenire spirituale anche nella sua carne. In altri termini è l’incarnazione a tenere insieme, da un lato, l’ineludibilità del volto come imago Dei, dall’altro l’ipostasi della Resurrezione che attraversa ogni forma e fa convergere le forze dell’ascesa nell’uomo in quanto coscienza del mondo che appare come mistero di Dio.
Senza queste istanze, certamente l’immagine sarebbe vuota e la persona si ridurrebbe a maschera. In questo senso è anche più comprensibile il motivo per cui si è parlato dell’istanza etica dell’arte, essendo essa capace di rivelare o suggerire la trascendenza attraverso la rappresentazione del volto, che — nell’ambito della cultura biblica — non è riducibile al paradigma ottico, ma rinvia a quello acroamatico, sintetizzando insieme l’epifania del Dio invisibile ed il comandamento dell’amore che sancisce la trascendenza come prossimità.
In conclusione, possiamo evincere dall’estetica una pregnante capacità ontologica che getti le basi per istituire una filosofia della carne in grado di superare l’istanza della mera gettatezza e assumere, invece, i tratti di un pensiero del riconoscimento e della gratitudine.
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P. Florenskij, Smysl idealizma, trad. it a cura di N. Valentini, Il significato dell’idealismo, Rusconi, Milano 1999. ↩︎
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Quanto questa idea rosenzweighiana abbia in comune con la fenomenologia di Husserl è facilmente individuabile. Per ulteriori approfondimenti cfr. il nostro Rivelazione e linguaggio, ripensare l’essere con Franz Rosenzweig, pro manoscriptu, Macerata-Perugia 2003. ↩︎
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Cfr. T.W. Adorno Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 43. ↩︎
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Cfr. E. Levinas, En decouvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, trad. it. di F. Sossi, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Cortina, Milano 1998, p. 168. ↩︎
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Levinas, En decouvrant…, trad. it. cit., p. 214. ↩︎
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Lo si può riscontrare in De Trinitate, in Nuova Biblioteca Agostiniana, Opere di Sant’Agostino, vol. IV, Città Nuova Editrice, 3a ed. Roma 2003, p. 19. ↩︎
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J. Mateos, El Evangelio de Juan, trad. it. di T. Tosatti, Il Vangelo di Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi 1982. ↩︎
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In questo caso, allo stesso modo, il ricorso della teologia al termine ousia dovrebbe essere considerato in via analogica. Non si tratta, qui, infatti, della sostanza come unico sostrato necessario delle determinazioni, ma del Mistero di Dio nella Sua forza creatrice, rivelatrice e salvatrice che procede attraverso e da Cristo e dallo Spirito. Quindi si evince la relazione divina fra Caritas, Verbum, Notitia, partecipata all’uomo nel Verbo come mens, notitia, amor. ↩︎
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M. Merleau-Ponty, Le visibile et l’invisible, trad. it. di A. Bonomi del testo stabilito da C. Lefort, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano, p. 54. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 55. ↩︎
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Ivi, p. 123. ↩︎
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Ivi, p. 122. ↩︎
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T.S. Eliot, Choruses from “The Rock”, trad. it. Cori da La Rocca in T.S. Eliot, Opere, a cura di R. Sanesi, Classici Bompiani, Milano 1986, p. 241. ↩︎
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M. Merleau-Ponty, Le visibile…, trad. it. cit., p. 213. ↩︎
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Dionigi Areopagita, DN IV, 7, 701 c, in Tutte le opere, trad. it. di P. Scazzoso, introduzione, prefazione, note ed indici di E. Bellini, Rusconi, Milano 1981. ↩︎
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Si confronti su questo C. Canullo, La fenomenologia rovesciata, Rosenberg e Sellier, Torino 2004. ↩︎
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J.-L. Chretien, La voix nue. Phénomenologie de la promesse, Minuit, Paris 1990, p. 13. Riportiamo il testo francese di cui abbiamo dato la traduzione nel corpo del testo: “En se rendant visibile, le corps ne se rend pas seul visibile, il lasse venir au jour du monde l’âme invisibile, qui en le vivifiant, est sa perpetuelle origine et sans la quelle il ne montrerait rien”. ↩︎
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Cfr. M. Cacciari, L’Angelo necessario, Adelphi, Milano 1987. ↩︎
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Cfr. Introduzione a P. Florenskij, Smysl…, trad. it. cit., p. XIII. ↩︎
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Cacciari, L’Angelo, cit., p. 17. ↩︎
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Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, “Paradiso”, canto I, a cura di N. Sapegno, La Nuova Italia, Firenze 1979. ↩︎
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Florenskij,, Smysl, trad. it. cit., p. 35. ↩︎
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Florenskij, Ikonostas, trad. it di E. Zolla, Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, Milano 1977, p. 45. ↩︎
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P. Florenskij, Ikonostas, trad. it. cit., p. 49. ↩︎
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E. Levinas, Humanisme de l’autre homme, trad. it. di A. Moscato, Umanesimo dell’altro uomo, Il Melangolo, Genova 1985, p. 119. ↩︎
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P. Florenskij, Ikonostas, trad. it. cit., p. 45. ↩︎
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P. Evdokimov, L’art de l’icone. Théologie de la beauté, trad. it. di P. Giuseppe da Vetralla, Teologia della Bellezza. L’arte dell’icona, Edizioni Paoline, Roma 1982, p. 45. ↩︎
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L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Bompiani, Milano 1988, p. 29. ↩︎
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P. Evdokimov, L’art…, trad. it. cit., p. 45. ↩︎
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Ivi, p. 95. ↩︎
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Ivi, p. 96. ↩︎
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Gregorio di Nazianzo, Oratio 31, 8, PG 36, 14B. ↩︎
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Cfr. P. Evdokimov, L’art…, trad. it. cit., pp. 52-53. ↩︎