Recensione a Graziano Ripanti, Parola e tempo

Graziano Ripanti, Parola e tempo, Morcelliana, Brescia 2004.

Seguendo il già noto e fortunato Parola e ascolto, edito circa tredici anni fa sempre per i tipi di Morcelliana, questo volume di Graziano Ripanti, professore di filosofia teoretica all’Università di Urbino, riprende la via ermeneutica, sempre tracciata in ascolto delle sue voci più autorevoli, specie Gadamer, ma confrontandole con altre, forse meno associate a questa corrente, ma altrettanto feconde di spunti innovativi.

Se, infatti, nel volume precedente, Ripanti poneva la categoria acroamatica come possibilità di un altro inizio della filosofia, evidenziando come Heidegger da un lato proponesse il carattere e-ventuale del linguaggio in quanto radura rivelativa di un essere non contaminato con la cattura metafisica e con la sua forma moderna della semplice presenza, come Gadamer, dall’altro ravvisasse la possibilità del linguaggio sotto la forma di quella heilige Kette della tradizione da cui poter giungere a comprendere l’essere, ed infine come Levinas, filosofo di certo non appartenente all’ermeneutica, ma prezioso per ripensare in sede critica la filosofia, aprendola alla sua altra radice, quella ebraica, ponesse il problema dell’Alterità alla base di un pensare altrimenti, che aprisse la filosofia ad un Dio non metafisicamente contaminato, ora lo studioso italiano si misura con un’altra sfida e propone un ulteriore sviluppo.

Non basta, infatti, solo recuperare la centralità del linguaggio nel suo valore performativo che, in fondo implica sempre un’idea che ha ossessionato la tradizione filosofica da Platone, ovvero il rapporto fra parola e cosa, o anche nella suo valenza evocativa e istitutiva, secondo il verso di Hölderlin; occorre anche ripensare la sua incidenza ontologica, la sua vocazione di Haus des Seins, la sua apertura di un mondo della relazione. In altri termini, occorre fissare l’attenzione sui nodi teoretici che si danno fra linguaggio e ontologia, fra parola e pensiero, ed infine fra essere e storicità attraverso il linguaggio. Si può, dunque dire, che in questo bel volumetto, agile e pregnante, come è nello stile dell’autore, già allievo dell’eminente filosofo Italo Mancini, la questione della parola disegna una topologia filosofica che si intesse della convergenza di fonti plurali: la metafisica e l’ermeneutica, l’analisi fenomenologica del linguaggio, la filosofia del tempo e quella della libertà. Così su questi temi altrettanti autori si trovano a colloquiare in modo pregnante e fecondo, dando propriamente l’idea di una tradizione come un ambiente vivo e vitale ove lo stupore ascoltante del pensiero è capace di riversarsi nel linguaggio traboccante di questa eccedenza. Dunque Agostino, Duns Scoto, Heidegger e Pareyson trovano in quell’implesso originario essere-verità- storicità dell’esser-ci la linfa vitale del loro pensare.

Ad ogni modo, ancor prima di questo implesso ontologico, si pone al pensiero implicato nella serietà e nell’apertura trascendente della propria vocazione al vero, un vero e proprio epekeina tes ousias, al di là dell’essere o dell’essenza come ben recita il titolo di un’opera di Levinas. L’uso sostantivato della locuzione avverbiale vuol mettere in luce che la stessa riflessione teoretica pensa a partire da un evento schellinghianamente un-vordenklich, immemoriale, pur nel paradosso di farne memoria, sempre come nostalgia dell’inedito. Si tratta di un evento di gratuità. balbettato e forse appena emerso in alcuni squarci della tradizione greca; si pensi al quel Bene oltre l’essere di Plotino e del neoplatonismo. Pur tuttavia, questo evento traguarda il pensiero sull’altra sponda, altrettanto fertile della sua origine; quella del mondo ebraico-biblico, alludendo alla categoria della Rivelazione.

Mentore di questo percorso è Franz Rosenzweig, che inaugura la sua idea di nuovo pensiero inteso come pensiero della parola, dove la Parola è Parola Rivelata, come capacità creatrice originaria per cui le cose vengono all’essere. Dabar, l’ebraico per Parola è altresì il termine che traduce cosa. Tale istanza evidenzia che il linguaggio è oltre la mera strumentalità e sottende invece la capacità di lasciar av-venire l’essere, divenire Ereignis, avvenimento. Proprio questo recupero permette all’autore di riflettere sulla connessione fra linguaggio e tempo. La Rivelazione è, infatti, evento originario, ma necessita della storia per articolarsi nella sua eccedenza, e questo è già un necessitare dell’alterità e del tempo. Da questo punto di vista, il pensiero della Parola è dialogico, ha bisogno di prendere sul serio il tempo, perché ciò implica prendere sul serio l’altro.

In ogni caso la connessione fra Parola e tempo è già stata ravvisata da Agostino nel Libro XI delle Confessioni, cui Ripanti dedica un ampio capitolo. Agostino elabora una vera e propria fenomenologia della temporalità, come categoria propria dell’ens creatum. Su questa si gioca innanzi tutto il rapporto fra Parola divina e ed eternità da un lato e dall’altro fra incarnazione e storia della salvezza. La parola umana è tempo dinanzi all’eterno, essa è, in egual modo, messa in crisi dinanzi al Verbo divino. Questa è la conseguenza di una infinita differenza ontologica; tuttavia il Verbo di Dio si è articolato in parole nel tempo: esortazioni, ingiunzioni, consolazioni, per questo motivo l’accoglienza ex parte hominis diviene in Agostino ermeneutica, sia dell’audire che dell’intelligere. Il dire di Dio ad intra (nella circuminsessione trinitaria) è contemporaneo al Suo dire ad extra (nel Verbo che contiene la ratio delle cose); questa idea patristica serve ad Agostino, non solo come risposta polemica ai Manichei ma anche ad individuare l’articolazione dell’eterna Parola di Dio nella creazione che sola dà inizio al tempo, ed- analogicamente- anche ad evidenziare come lo stesso pensiero sia generato dal verbum mentis, per cui è possibile il concetto come successione di immagine-suono.

Ripanti mostra come tale idea sia ripresa dall’ermeneutica gadameriana per cui il pensiero è una prospettiva del riverbero linguistico o anche da Beierwaltes per cui, invece, la linguisticità si dà grazie al fondamento del verbum che pre-esiste ad ogni temporalizzazione. Se le cose stanno così, il linguaggio stesso si fonda su un’istanza fenomenologica che attiene alla sua verità ed all’articolazione del senso, intesa come verità del dire, nel giudizio. Avvalendosi di un abbozzo di fenomenologia del linguaggio che Italo Mancini aveva solo abbozzato, il filosofo di Urbino cerca di evidenziare un altro nodo fondamentale che è quello concernente il rapporto fra ermeneutica e metafisica.

Nonostante la legittimità della critica heideggeriana circa l’oblio dell’essere, non si può comunque escludere, e di questo lo stesso Heidegger è certo che la stessa metafisica sia una grande metafora ove il rapporto fra esse et verum è portato al linguaggio, ma ove pure non può venire eluso il rapporto con la trascendenza ed il mistero, così che l’ermeneutica può giungere in soccorso in questo andare oltre, come Gadamer asserisce in un libro intervista dal titolo: L’ultimo Dio.

In ultima analisi, il linguaggio in quanto casa dell’essere e fenomeno dell’esser-ci non può non implicare la storicità nel senso di una domanda radicale circa il male e la morte. Tale domanda, però, si radica sul mistero ontologico della libertà che riguarda Dio quanto l’uomo. Ecco allora proporsi il dialogo con Schelling, Pareyson e Duns Scoto, tre autori che tanto si sono misurati con la libertà in Dio, cercando di elaborare un pensiero capace di essere fedele all’idea di un Dio divino, non irrigidito in catture metafisiche. I tre filosofi vengono chiamati in causa secondo un ordine più speculativo che cronologico, come si può vedere. In effetti, Duns Scoto sembra completare ed integrare Pareyson laddove l’ontologia della libertà del filosofo torinese sembra a Ripanti esibire alcune ombre. Per Pareyson Dio è Bene scelto, ed il male è possibilità vinta che solo l’uomo tragicamente sarebbe in grado di risvegliare, Duns Scoto recupera la bontà di Dio concependo un Deus sive charitas, evitando così che la libertà divina causi un hysteron proteron rispetto al Bene divino. La stessa charitas si coniuga con la trascendenza e la libertà, quella libertà che, paradossalmente, volgendosi ad extra nella creazione è contingentia, ma solo così esprime la Sua volontà creatrice. Ed ecco ancora una volta la fondamentale questione di eternità e tempo radicarsi nel pensiero di una gratuità che si dona al linguaggio perché quest’ultimo si erge sulla capacità acroamatica, donde il recupero della radice ebraica ed il volgersi a Gerusalemme, senza però abbandonare Atene, perché ambedue le radici hanno fatto e fanno l’Occidente.