Rosenzweig e la questione dell’essere: pensare l’inizio in una terra altra

1. Essere senza ontologia: distretta e sfida della filosofia contemporanea

Riproporre la questione dell’essere nella sua centralità è stato certamente un merito heideggeriano, così come quello di attraversare-superare (secondo i termini tedeschi Überwindung-Verwindung) il pensiero metafisico, colpevole dell’oblio dell’essere e dello smarrimento di esso di volta in volta nelle maglie del fondamento entificante; in ultima analisi del Summum ens. In questo senso la sfida per la filosofia è serrata, quanto invitante; occorre, infatti, ribaltare i termini, e trovare un linguaggio consono alla nuova comprensione dell’essere, inteso, dapprima come progetto appropriante dell’esser-ci, sottratto alla cattura ontica, poi come evento ed invio storico-destinale del linguaggio e della parola. Si tratta, in ultima analisi di prendere congedo dalla metafisica ontologica in un lungo addio che la attraversi per poter, di conseguenza, ripensare l’inizio.

Questa esigenza del novum del pensiero accomuna Heidegger e Rosenzweig; non solo; essa attesta entrambi i pensatori sull’orizzonte della finitudine e della storicità, fornendo loro -attraverso l’essere per la morte, se pur diversamente elaborato e riproposto da Rosenzweig- il dato fenomenologico irriducibile capace di ripercorrere criticamente la tradizione filosofica, suscitando in essa la possibilità di un nuovo inizio. Ciò che, a nostro avviso, dovrebbe essere rivendicato con motivazioni inequivocabili, è il fatto che tale rinnovamento del pensiero dell’inizio nasce da una profonda interazione con la tradizione ebraico-biblica, la quale costituisce, altrettanto legittimamente del versante greco, il senso della riflessione filosofica dell’occidente.1

Riteniamo, pertanto, che il pensiero di Rosenzweig sia capace di dare conto di questo altro inizio, e di evidenziare in modo eloquente che: « se l’essere è altro da quello che l’ontologia aveva compreso […] è perché ha abitato una terra diversa».2 Questo non tanto perché Rosenzweig tematizza alla maniera di Heidegger l’istanza di una riproposta questione ontologica, quanto perché, soffermandosi sul concetto centrale della Rivelazione e sul suo carattere di evento della Parola che rinnova la creazione ad ogni istante, attraverso il dono mattutino del linguaggio all’uomo, sembra far emergere da questa terra altra — che è per l’appunto la tradizione ebraico-biblica — quegli stessi caratteri portanti con cui Heidegger definisce la questione dell’essere. La cosa risulta tanto più pregnante specie se si considera come dopo la «svolta», la questione dell’essere viene connessa da Heidegger ad un pensiero dell’ascolto e della rammemorazione, scaturito dal linguaggio e dal suo carattere di evento.

Qui si gioca la contemporaneità non solo cronologica, dei due pensatori. Entrambi partono, infatti, dall’effettività dell’esistenza e prendono le distanze dall’ego sum dell’autocoscienza cartesiana, svuotata di ogni implicazione storica. L’essere dell’esser-ci è, infatti, legato all’esser-sempre mio ed al fatto che l’esserci è l’appellato.3 Se pur con esiti diversi, specie per quanto concerne la categoria dell’alterità, e l’elaborazione della seconda persona, sviluppata nella Stella, ci sembra che il pensiero di Heidegger sia di fatto attraversato in qualche modo dalla tradizione biblica; più precisamente — come sostiene M. Zarader — dal Dio della Bibbia, questo Dio senza cui linguaggio e pensiero perderebbero il loro senso specificatamente ebraico.4

In virtù di questo fatto crediamo che sia possibile, avvalendoci di un’auscultazione di questa «terra altra», che è Gerusalemme nei riguardi di Atene, nella quale il pensiero di Rosenzweig funge da criterio orientativo, riprendere la questione dell’essere. Riteniamo, infatti, che il mondo biblico possa aiutarci a ripensarla depurata dall’ispessimento ontologico-metafisico. Naturalmente siamo consapevoli della difficoltà, che già fu heideggeriana, di inventare nuove categorie linguistiche in grado di rendere ragione di tale attraversamento-superamento. Nutriamo però la convinzione che il contributo di Franz Rosenzweig alla riflessione sulla comprensione dell’essere a partire dal mondo biblico sia fondamentale. Egli stesso lo ripensa, infatti, con una originarietà assolutamente nuova, pur nell’ambito dell’antico pensiero ebraico, come evento storico aperto che accade tra gli uomini e ad essi stessi.5

L’interrogazione altrettanto serrata del retaggio biblico e della letteratura midrashica potranno, così, essere una preziosa chiave ermeneutica per rileggere in modo critico la storia dell’essere, l’avventura della sua progressiva rottura dell’identità con il pensiero, nonché quella della totalità metafisica dalla Jonia a Jena, fino a giungere all’istanza di un essere altrimenti. È altrettanto opportuno, tuttavia, riflettere sui diversi motivi di crisi di una comprensione dell’essere secondo l’orizzonte greco-occidentale, convenuto, in ultima analisi, su un’istanza di tipo ontoteologico. Se è vero che il pensiero greco classico, fatto proprio dalla tradizione patristico-medievale e tramandato fino alla tradizione cartesiana moderna, ha contribuito allo sviluppo dell’ontoteologia occidentale, tanto che anche i grandi intepreti dell’Antica Alleanza hanno tradotto in tal senso il messaggio della Rivelazione, è altrettanto indubbio che proprio su questo fronte ha iniziato a determinarsi la crisi. La comprensione dell’essere come presenza o come ousia, ha infatti determinato quella sorta di oblio dell’essere, che Nietzsche ha chiamato morte di Dio.6 Ciò rende quanto mai necessario ripensare questo inizio e comprenderlo nella sua totale alterità.

Dunque l’ebraismo come altro inizio; ma per questo è necessario misurarsi ed andare con Heidegger oltre Heidegger, sia pur ricchi delle sue suggestioni, per interpellare Rosenzweig e riportare alla luce quella dette impensée con l’universo ebraico. Occorre elaborare altresì un pensiero della parola su questa scorta biblica, per poter dare ancor più consapevolmente conto di come il linguaggio sia “Haus des Seins”, dimora dell’essere.

Si deve, da questo punto di vista, raccogliere la sfida che aveva già lanciato in modo inequivocabile Emmanuel Levinas: considerare e riappropriarsi del versante biblico come della propria legittima tradizione (la Bibbia altrettanto legittimamente che Omero); non solo, ma anche ravvisare nelle Scritture bibliche la possibilità di filosofare. Ci sembra che questa sfida sia stata già presentita e accolta da Franz Rosenzweig; la Stella è certamente, almeno in uno degli strati possibili delle sue infinite letture, un commento alla Bibbia, ma essa si attesta ad un tempo nella sua architettura filosofica. Dobbiamo in tal senso concludere che la stessa tradizione biblica offra un’occasione notevole per ripensare l’essere, e la Stella della Redenzione ne è una prova incontrovertibile. Secondo quanto Casper scrive, infatti:

Il contributo decisivo della Stella della Redenzione di Rosenzweig consiste in questo: in essa dapprima si mette in luce analiticamente la possibilità di pensare l’essere come «evento accaduto» che ha avuto luogo nella rivelazione biblica intesa come ciò «oltre cui non si può pensare cosa più grande». Con ciò si fonda la comprensione della realtà in generale su un’esperienza dell’essere più originaria di quella dell’essere in quanto presenza. E solo grazie a quest’esperienza più originaria si può parlare autenticamente di Dio.7

Filosofia e teologia sono dunque preziose nella loro correlazione al fine di un rinnovarsi del pensiero; il segreto sta senza dubbio in quella e; l’und della correlazione, con la quale Rosenzweig connetteva ebraismo e filosofia, germanità ed ebraicità (Deutschtum und Judentum), riportando ad un tempo la vita e la storicità a dignità filosofica. Nella categoria della rivelazione si può, infatti, cogliere la pietra angolare di un’autentica elaborazione filosofica, in cui si intravede già in nuce la possibilità di riproporre la questione dell’essere, cercando di attraversare le distrette del linguaggio. La rivelazione è ciò che consente la svolta dalla fissità del pensiero senza tempo alla sonorità vivente della parola, e, grazie alla nuova ermeneutica grammaticale che Rosenzweig elabora con impareggiabile maestria, essa consente di attestarsi sull’orizzonte della Parola, di cercare la parola di Dio in quella dell’uomo. Fondamentale risulta, a questo proposito, l’elaborazione di categorie narrative, dialogiche, liturgiche e celebrative, in cui si tratta sempre di un lasciar risuonare ed ascoltare, di testimoniare un venire all’essere.

Per tornare alla suggestione filosofica della Bibbia, ci sembra utile citare quanto asserisce uno studioso francese di Rosenzweig, Gérard Bensussan, circa la categoria della temporalità e quella dell’essere del linguaggio.

La Stella scruta la parola di Dio portata dalla voce biblica e vi ritrova il tracciato di tre «grammatiche», narrativa, dialogica, corale, perché, in effetti, noi cerchiamo la parola dell’uomo nella parola di Dio. Tre tempi (passato, presente, futuro), tre modi (logos, eros, pathos), tre movimenti (evento, esperienza, atto), in cui si strutturerebbe la maniera biblico-ebraica di manifestazione dell’essere del linguaggio.8

Evidente è qui un’anticipazione delle istanze heideggeriane, nonché la possibilità di elaborare, dal punto di vista biblico, una filosofia della parola che rispecchi il carattere eventuale e linguistico dell’essere di cui parla Heidegger in Unterwegs zur Sprache, e preluda ad una sorta di de-ontologizzazione, segnando un definitivo congedo da un approccio sostanzialistico ed ontoteologico. Sembrerebbe dunque che la questione dell’essere si attesti su una zona di transizione fra due terre, quella greca da un lato e quella biblico- ebraica dall’altro, ma ciò non significa affatto l’escludersi reciproco delle due prospettive, quanto un reciproco comprendersi l’uno alla luce dell’altra. La provenienza biblico-ebraica designa un’esperienza di fede, che però nell’ebraismo ha un diverso codice rispetto a quello greco; in ebraico la fede viene tradotta con il termine ’emunah, derivante dal verbo ’mn (da cui amen) che significa aderire a, essere fedeli a. Dunque risulta sempre come fides ex auditu, sulla base della quale si rinnova la consistenza creaturale dell’uomo (in quanto esserci) e la fedeltà del Dio dei Padri.9 Proprio a motivo di ciò possiamo ravvisare la mancanza di un aspetto fondativo alla maniera della metafisica, forse è questo che può indicarci il sentiero di un altrimenti dire.

Riteniamo allora che sia legittima l’affermazione secondo cui la particolarità dell’ebraismo e della sua fenomenologia rappresenta ad un tempo una prospettiva sul campo aperto della realtà, illuminante anche per la stessa filosofia. Come non pensare, ad esempio, all’insistenza heideggeriana sulla differenza ontologica, sull’impossibile reductio dell’essere agli enti (sia pur al Summum Ens fondante) e di conseguenza a quella svolta in cui, incamminandosi per i sentieri del linguaggio, Heidegger ha cercato un diverso statuto dell’Essere, sia pur non esplicitando il suo debito con l’ebraismo? O forse, la critica all’ontoteologia non sarebbe il risultato di un’auscultazione più autentica dell’ebraismo biblico, di un abitare, pur provvisoriamente, questa terra altra?

Un altro dato ci sembra da questo punto di vista incontrovertibile: quello che riguarda la possibilità di un pensiero della parola che permetta un’apertura, un venire all’essere. Già la lingua ebraica possiede un termine che sembra porre una tale premessa e che indica una nuova frontiera filosofica, le cui sollecitazioni ci sono ancora una volta note grazie ad Heidegger; il termine in questione è yesh.10 Nella tradizione cabalistica il termine si riferisce dapprima alla creatio ex nihilo (in ebraico yesh me’àyn), tuttavia — come sottolinea Neher — esso sottende altresì il sorgere della creazione, non già dal nulla, ma da ’àyn, dall’abisso divino. In tal modo yesh starebbe ad indicare un venire all’essere, nel senso però di un ek-sistere, e questo renderebbe l’idea di un’apertura, per così dire, donante.11

Ciò può richiamare alla mente il tedesco es gibt, che -come insegna Heidegger- dovrebbe tradursi più propriamente si dà.12 In tal senso, esso suppone un’istanza di gratuità e di apertura e questo è certamente un contributo importante dell’ebraismo alla filosofia, perché sembra gettare le basi anche per una comprensione dell’essere come evento (Ereignis) che si dà nella possibilità acroamatica.13 In base a queste considerazioni ci sembra che, pur non tematizzando mai un’ontologia così come la potrebbe intendere un retaggio tipicamente greco, l’ebraismo sia però in grado di illuminare le prospettive e gli orizzonti di una nuova comprensione dell’essere, attestato, ora, grazie all’apporto dell’ermeneutica, su istanze linguistiche. Forse su questo pensiero della parola, Atene e Gerusalemme possono incontrarsi, ma certamente Gerusalemme, ipostatizzata nel nostro caso dalla figura di Franz Rosenzweig, ha a suo merito un’altra istanza fondamentale, quella della temporalità, categoria trascendentale a partire da cui la comprensione dell’essere accade.

Queste note introduttive avevano lo scopo di immettere nel cuore di un problema delicato quanto nodale, e di rendere ragione del fatto che stiamo tentando di sviluppare la questione dell’essere spostandola su un terreno che sembrerebbe non competerle affatto. Siamo consapevoli di correre il rischio di una forzatura, ma riteniamo che proprio l’ambito ermeneutico nel quale ci muoviamo ci sostenga in un’operazione che non intende affatto forzare, quanto invece interrogare e vivificare i testi, provando altresì, in virtù della fusione di orizzonti, a dialogare con lo stesso autore, in una contemporaneità diacronica che permetta di leggere sinotticamente e di recepire sempre più profondamente la tradizione di pensiero della quale siamo partecipi.

2. L’Essere si dice in molti modi: l’essere altrimenti detto

Parlare di «essere» in Rosenzweig significa inevitabilmente prendere in esame le diverse implicazioni emergenti da un rapporto che connette lo stesso essere al linguaggio e al pensiero. Rosenzweig intende, attraverso la pietra angolare della rivelazione, procedere all’elaborazione di un pensiero al di là del concetto statico dell’essenza. Suggestivo ci pare, da questo punto di vista un passaggio della Stella che qui riportiamo:

La durevole essenza del mondo configurato era l’universale, più esattamente la specie, la quale contiene in sé, sia pure in modo universale, l’individuo, anzi di continuo lo genera nel proprio seno. Nel mondo che si rivela come creatura quest’essenza durevole viene capovolta in un’essenza istantanea, «sempre rinnovata» e tuttavia universale. Un’essenza quindi in-essenziale. Che cosa s’intende con questo? Un’essenza del mondo ormai entrato nella corrente della realtà, un’essenza che non è «sempre dovunque», un’essenza la quale nasce nuova ogni istante, con l’intero contenuto del particolare che essa include in sé.14

Proprio il termine di «essenza in-essenziale» implica da un lato la messa in discussione del fondamento totalizzante, dall’altro getta le basi per l’evento della rivelazione istantanea e sempre nuova, che accade all’esser-ci del mondo. Dunque è solo la rivelazione che permette di definire l’essenza del mondo, che è — tuttavia — in-essenziale, perché rinnovata ogni istante nell’accadere della parola in questo esser-ci individuo che ogni volta sono, segnato dal bisogno di essere. Per questo Rosenzweig prosegue:

Contrapposto ad essere l’esser-ci significa l’universale che è ripieno di particolare e non è sempre e dovunque, bensì (contagiato in questo dal particolare) deve incessantemente divenire nuovo per conservare la propria esistenza […]. Il suo proprio essere, che esso ha alle spalle ovvero possedeva prima di quel suo divenir-creatura, non può procurargli tutto ciò perché quell’essere è rimasto là alle sue spalle, nell’apparenza priva di essenza del pre-mondo.15

Come acutamente osserva Anne Elizabeth Bauer, nella sua preziosa opera su Rosenzweig:

Ci sono diversi modi dell’essere: l’essere intemporale (come nel caso dei tre orizzonti intrascendibili, Dio, il mondo e l’uomo) e l’essere che accade nel momento in cui si gettano ponti fra creazione, rivelazione, redenzione. In questo senso l’essere non deve essere compreso come il concetto onniavvolgente i tre orizzonti di Dio, il mondo, l’uomo, ma semplicemente come esser-ci (Da-sein), esser così (So-sein), datità, (Gegebenheit), sia nella temporalità dell’intemporale, che fonda senza dubbio il divenire della realtà […], sia nella temporalità dell’evento che nel presente, passato, futuro si distende in una triplice forma di relazione.16

Procedendo via negationis escludiamo subito un’interpretazione dell’essere in quanto semplice presenza e ci attestiamo su una categoria che è quella dell’esser-ci. Ma va subito osservato, poiché lo stesso Rosenzweig invoca un’istanza in-essenziale, che l’esser-ci non può subire la reductio a mero ente. L’esserci si riconosce, in effetti, in quanto bisognoso di essere come apertura relazionale, che sempre si rinnova nella rivelazione. Potremo quindi concludere che l’esser-ci in quanto fenomeno irriducibile viene rinnovato costantemente come venire all’essere nella Parola. Per questo motivo l’interpretazione midrashica può esserci utile; essa infatti permette di comprendere meglio questa sorta di s-fondamento che rende all’essere il suo significato abissale. Vedremo come questo possa permettere di intercambiare l’essere con il nulla, secondo la tradizione cabalistica, di cui certamente, sia pur in uno strato profondo della sua opera, Rosenzweig è debitore. I primi versetti del Genesi usano il termine ebraico tohu-bohu, che potremmo rendere in italiano con abisso; proprio questo termine permette agli esegeti di penetrare nel giardino chiuso del Nulla.17 In questo senso risultano pregnanti le parole di Zarader, che asserisce:

Il nulla non è semplicemente pre-liminare, il suo tumulto non si estingue con la creazione, ma l’accompagna continuamente, si tratta di una riserva di forze pronta a risorgere, pronta allo stesso tempo a rispondere all’appello dell’essere, quando questo si ricorda della sua originaria parentela con il nulla.18

Si può comprendere, così, l’istanza rosenzweighiana secondo la quale il venire all’essere della creazione deve essere sempre rinnovato nella sua perennità. Ciò depone a nostro avviso a favore di un carattere linguistico ed eventuale dell’essere, e che, anche questa volta crediamo ravvisare nell’esegesi ebraica delle Scritture.

Se è vero che gli interpreti ebrei non si limitano soltanto a riconoscere un’originaria parentela tra essere e nulla, è pur vero che essi si attestano su un orizzonte ermeneutico che vede nella lingua ebraica un calco della realtà, una mimesi ed una scrittura delle cose, nonché su un’idea di lingua, la cui essenza è concepita da Dio ed affidata all’uomo nell’infinita possibilità combinatoria delle lettere.19 In questo senso, essi ravvisano tale parentela anche a livello linguistico; come sottolinea Zarader, essi decifrano e decodificano il termine ebraico ’Ayin (non-esistenza o nulla); secondo l’anagramma delle lettere che lo compongono; dunque esso verrebbe a corrispondere ad ’Ani, che in ebraico traduce il sì, o l’essere, ovvero l’affermazione dell’esistenza.

Risuonano in una feconda sintonia con il pensiero rosenzweighiano queste interpretazioni cabalistiche: «L’’Ayin* è il tutto e pertanto è inabbordabile, è presente e pertanto introvabile. È prossimo e pertanto lontano*. Ben lungi dall’essere negazione dell’esistenza, il nulla è l’essenza dell’essere».20 Difficile non cogliere qui un’assonanza con quella sorta di dialettica rosenzweighiana che coglie nell’istanza del rinnovamento perenne della rivelazione il farsi lontano e vicino di Dio e l’originaria fenomenologia della relazione.

Sempre secondo la lettura cabalistica da noi qui adottata per andare al cuore della questione, ’Ayin è intercambiale con il termine ’Ani; in quanto però, particella esistenziale positiva, ’Ani presenta anche un’altra irradiazione semantica, e può esser inteso come l’Io divino.21 L’abisso (’Ayin) lascia risuonare il primo dire di Dio, che creando si riferisce a sé come ad un io dinanzi alla creazione. ’Ani è dunque il compimento sonoro del silente inizio, esso segna il dono del linguaggio nonché il carattere rivelativo della Parola che risuona nell’anima e nel mondo. Dunque il fondamento in-fondato della creazione, in quanto venire all’essere è il perenne rinnovarsi di questo in una pura libertà divina. In questo stesso passaggio da ’Ayin ad ‘’Ani si potrebbe cogliere una sorta di pre-originaria dialogia in cui Dio stesso negherebbe il suo abisso per affermare l’esistenza della creazione, per farle spazio e lasciarla essere nella propria alterità. Questa proposta ermeneutica permette a Rosenzweig di dare conto di quella che abbiamo definita l’esperienza più originaria dell’essere; egli traspone altresì in termini ontologici il No con cui Dio nega la sua essenza ed il Si con cui afferma la creazione. Si tratta, infatti, di parole archetipiche che denotano gli stati iniziali di Dio.22

Egli ravvisa anche nel nulla autonegantesi di Dio, il cominciamento stesso della creazione. Possiamo allora comprendere in che senso Rosenzweig ravvisa nel nulla l’inizio del nostro sapere di qualcosa. Il filosofo di Kassel indica qui non solo la possibilità di un’ermeneutica biblica sempre nuova, ma anche la legittimità di una riflessione filosofica derivante dalla tradizione ebraico-biblica. Le istanze citate, in effetti, verrebbero a costituire il nucleo della critica rosenzweighiana al pensiero essenzialista ed entificante che si attesta sulla domanda “cos’è”. Sarà utile, da questo punto di vista, metterci ancora una volta in ascolto della densa pagina rosenzweighiana.

Soltanto di Dio è concesso dire che Egli è il nulla; questa sarebbe una prima, anzi la prima conoscenza della sua essenza. Qui infatti nulla può essere un predicato, proprio perché Dio non è affatto conosciuto nella sua essenza; la domanda che cos’è Dio? è impossibile.23

Questo passaggio ci sembra fondamentale anche sotto un altro punto di vista: non solo la questione dell’essere non può più porsi secondo una prospettiva entificante, ma -soprattutto -essa non può più implicare una reductio del concetto di Dio. La filosofia esperiente di Rosenzweig che ha come presupposto la rivelazione si pone dal punto di vista di un’ermeneutica della fatticità e della storicità, nella quale l’apertura relazionale alla Parola interpellante permette di comprendere l’accadere della creazione come evento di un’alterità che si fa presente a partire da un invio. Dunque l’essere viene a perdere quella sorta di rigidità conferitagli da un pensiero di tipo sostanzialista per diventare parola dell’incontro e dell’avvenire. In tale prospettiva lo stesso Rosenzweig afferma nella lettera a Martin Goldner: «L’ebraico “hyh” (essere) non è certo come l’indogermanico essere, secondo la sua essenza, copula, e dunque statico, quanto invece una parola del divenire, dell’avvenire, dell’accadere…».24 Quest’affermazione può facilmente essere vista in prospettiva sinottica con quanto Rosenzweig asserisce nella Stella:

Noi sperimentiamo che Dio ama, non che Dio è l’amore. Nell’amore Egli ci viene troppo vicino perché noi possiamo ancora dire: questo o questa cosa è Lui. Nel suo amore noi sperimentiamo soltanto che Egli è Dio, ma non che cosa Egli sia. Il «che cosa», l’essenza rimane celata. Essa si cela proprio nell’atto stesso di rivelarsi. L’essenza di un Dio che non si rivela potrebbe restare alla lunga preclusa; infatti, cosa mai si cela per l’uomo all’esperienza che è sempre in viaggio, al concetto che afferra, alla ragione che registra? Ma proprio perché Dio nella rivelazione si effonde su di noi e da statico diviene per noi qualcosa di attivo, Egli getta la nostra libera ragione, cui nulla di statico può resistere, nelle catene dell’amore e, imprigionati da questo legame, chiamati da questo appello individuale, ci muoviamo nel cerchio in cui ci siamo trovati e sul percorso su cui siamo stati collocati, senza poterli oltrepassare se non facendo presa con concetti vuoti e senza vigore.25

Possiamo qui scorgere i tratti fondamentali dell’essere ebraicamente inteso. Il primo aspetto discriminante rispetto all’ontologia greca è l’estraneità del concetto di copula. Essa, infatti, risponde alla domanda circa «cos’è? » e collega un soggetto ad un predicato nel giudizio, rispecchiando un cosmo ordinato dall’intelletto. L’essere si dà quindi a comprendere nella capacità giudicante, è logos. Nel mondo biblico essere è invece contrassegnato dall’accadere, è evento accaduto. In quanto tale è indisponibile al giudizio e rinvia ad una comprensione più originaria della realtà, accessibile all’uomo. L’essere è dunque dono di questo evento; accade tra gli uomini, dunque è evento storico aperto, che in quanto tale, supera la comprensione della semplice presenza.

Per lo stesso motivo esso si dà nell’esperienza di una relazione che è via via dinamismo dell’azione. Ecco dunque perché l’ebraismo non conosce né l’astrazione, né il concetto, i cui esiti sono rispettivamente la codificazione e la rigida ontologia sostanzialistica. La lingua che la tradizione ebraica fonda in prevalenza sul verbo e sull’azione, può inoltre offrire notevoli spunti ermeneutici, specie per quanto concerne il progressivo abbandono del concetto e del giudizio, a favore di un’attenzione particolare al nome, ed al nome proprio. Questo sarà il nostro percorso ed il nostro approdo, anche se, prima, riteniamo necessarie alcune osservazioni preliminari a partire da due capisaldi che possiamo riassumere come segue:

  • la connessione fra linguaggio ed essere
  • la connessione fra rivelazione ed essere.

Prende forma, in base a tali capisaldi, una sorta di configurazione della realtà che rispecchia il sistema di filosofia dello stesso Rosenzweig. L’atto linguistico è di per sé rivelativo; in esso la rivelazione acquisisce centralità in quanto chiarificazione e dischiudimento della verità (potremo parlare con Casper altrettanto di Seinserhellung, rischiaramento dell’essere), che esprime la connessione vivente (Lebensbezug) della realtà entro cui (e non viceversa) il pensiero si sviluppa. Il linguaggio rappresenta dunque l’orizzonte trascendentale, la condizione di possibilità della rivelazione. Questa, a sua volta, si pone come possibilità di apertura relazionale che, configurando la nascita dell’io e del tu in senso dialogico, è altresì alla base di quella connessione vitale che accade fra gli elementi e in tal senso anticipa la redenzione del mondo, configurandolo come realtà capace di ricevere il nome.

Viene, in tal modo, a darsi una relazione fra Sprache come evento pre-originario; — la creazione è, infatti, un primo rivelarsi intradivino nella parola — in-fondato ed autofondantesi — e gesprochensein, in quanto ineludibile contrassegno dell’esser-ci. In altri termini si stabilisce una connessione fra venire al linguaggio e venire all’essere; il venire al linguaggio non può essere, tuttavia, considerato soltanto mera struttura formale, esso manifesta bensì un contenuto, che è proprio la realtà vivente nel paradigma della relazione primaria Dio-uomo. Dunque zur Sprache kommen implica una chiarificazione di senso ed una chiarificazione di sé in quanto esser-ci ed esser-ci in relazione. Inequivocabile contrassegno dell’essere è dunque l’accadere della relazione. Il contrassegno linguistico, designa altresì, la capacità di ricevere la parola ex parte hominis e quella di donare il nome ex parte Dei. Ed è proprio il nome che permette di connettere il mondo filosofico al mondo biblico della rivelazione, essendo il punto di intersezione dove si incontrano, da un lato il perenne rinnovarsi della rivelazione e dall’altro il fondamento perenne della creazione. Sullo sfondo di questa apertura donante non si può, dunque che rimettere in discussione ogni necessità immutabile ed è proprio nella sfida posta dal mondo biblico alla filosofia che questo può essere ulteriormente chiarito.

3. Hayah: parola ed evento dell’altro: motivi da Es. 3,14

La tradizione biblica ha in se un locus, che si è mostrato sempre fertile oggetto di un contendere ermeneutico, via via invocato a sostegno di un’interpretazione metafisica che deponeva a favore di Dio come Ipsum esse subsistens, di cui celebre è l’elaborazione della metafisica dell’Esodo nella filosofia medievale, nonché a confutazione di una lettura ontoteologica, sulla base del discriminante fra il Dio divino ed il Dio causa sui. Preziosi, a riguardo, anche gli studi di Martin Buber, traduttore insieme a Rosenzweig della Bibbia in tedesco, o quelli di Ernst Bloch nel suo Das Prinzip Hoffnung. Rosenzweig stesso, avvalendosi delle sue conoscenze filologiche, si attesta su queste posizioni di contestazione rispetto ad una sorta di lettura platonizzante che verrebbe ad inficiare l’esatto significato del passo dell’Esodo.

Procederemo, pertanto, citando innanzi tutto il testo in questione e facendo riferimento alla controversia interpretativa che ne ha caratterizzato la recezione. Di seguito accosteremo lo stesso passaggio attraverso commenti e saggi del nostro autore, cercando di evidenziare ancora meglio il ruolo portante di un’intepretazione grammaticale del nuovo pensiero, nonché quello altrettanto incidente che l’esperienza di fede esercita su di esso. Il passo è tratto da Es. 3, 14-15, nella traduzione italiana a cura della Cei, corredata di note e commenti tratti dalla Bible de Jerusalem.

Dio disse a Mosé: «Io sono colui che sono!» Poi disse: «Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi». Dio aggiunse: «Dirai agli Israeliti: il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre, questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».

La controversia ermeneutica sta nella rivelazione del nome di Dio, Io sono colui che sono; essa diviene tanto più forte se si legge questa espressione ebraica ’ehyeh ‘asher ‘ehyeh alla luce del tetragramma Yhwh. La forma base di ’ehyeh, è hayah, che significa essere, ma anche divenire, e non implica mai un presupposto ontologico-metafisico atto a definire un’essenza, anche se il concetto di essere, inteso nel modo di una presenza relazionale, appartiene alla lingua ebraica. L’incontro fra filosofia greca e mondo biblico ha di fatto contribuito alla denominazione di Dio come essere; prova ne sia la LXX, che traduce il celebre passo di Es. 3, 14 con egó eimi ho ôn, determinando quella che è stata definita da Gilson una metafisica dell’Esodo. Questa traduzione permette ai medievali di pervenire alla conclusione secondo la quale essere è il nome di Dio, o meglio il suo autodenominarsi. Il problema che viene a crearsi, tuttavia, inerisce al fatto che la traduzione dei LXX rinvierebbe all’immutabilità in quanto essenza, e si muoverebbe dunque nell’orizzonte greco che pone l’inizio del sapere nella domanda cos’è.

Il versetto 14 del capitolo 3 del libro dell’Esodo, tuttavia, evidenzia un altro aspetto importante; Dio si rivela come «Io sono» a Mosé ma allo stesso tempo si presenta come il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe, inverando, così, il senso dell’essere come evento storicamente accaduto e dantesi nella relazione. Il verbo hayah, se pur tradotto con essere, non sottende dunque l’essere nel senso filosofico-metafisico della definizione dell’essenza, quanto invece nel senso di una presenza che è sempre accanto all’uomo, dinanzi a cui si è costituiti nella propria identità responsoriale. Per questo il passo di Esodo 3, 14 non si pone in nessun senso come risposta alla domanda cos’è. Da questo punto di vista si tende oggi a privilegiare la traduzione «Io sono quello che sono».

C’è però da tenere conto di un altro aspetto, altrettanto fondamentale; se Io-sono è colui che accompagna e procede nella e con la storia dell’uomo, Dio è colui che in ogni tempo, oggi, come nel futuro, così come nel passato è accanto all’uomo. Questa è l’esperienza dell’esser-ci storico, che afferma la presenza del Dio dei padri, capace di chiamare, al vocativo, mio Dio. Vorremmo sostare dunque sul valore della temporalità nella tradizione ebraica e sulla sua incidenza nel filosofico. A tal fine può esserci prezioso l’aiuto della filologia che ricostruisce il farsi del linguaggio in rapporto ad un universo significante.

Il tetragramma Yhwh potrebbe, secondo una suggestiva ipotesi filologica, costituire la risultante di un acrostico, o sigla che si riferisce alle iniziali delle tre forme verbali di hayah, indicanti il presente (colui che sono), il futuro, (colui che sarò), il passato (colui che sono stato).26 Questo è quanto attesta altresì la filologia veterotestamentaria che ravvisa nella radice verbale un indicatore temporale, sul quale distinguere tre livelli: quello copulativo, per cui è possibile tradurre il tetragramma come io sarò con, quello esistenziale, che implica un’apertura ed un’attesa del futuro ed infine un livello di transizione, che rende percettibile l’azione di Dio.27 Tenendo conto di ciò, ci sembra pregnante la scelta di Martin Buber, il quale traduce il tetragramma e l’espressione rivelata di Dio ’ehyeh ‘asher ‘ehyeh: Io sarò presente (accanto a te) così come io sarò presente; traduzione accettata e condivisa da Rosenzweig. Egli motiva inoltre questa traduzione evidenziando che quel futuro del verbo essere non può venir compreso come il latino esse, quanto invece come adesse.28

Rosenzweig stesso sottolinea questo aspetto fondamentale in una lettera scritta a Martin Goldner nella quale osserva che:

Solo poiché colui che ti si fa presente, ti si farà sempre presente quando ne hai bisogno e lo invochi — io sarò presente- solo in virtù di questo fatto egli è, poi, per la nostra riflessione, anche il sempre esistente, l’assoluto, l’eterno, as- solto dunque dalla mia necessità e dal mio istante, ma soltanto da as-solvere, poiché ogni futuro istante potrebbe stare al posto di quello attuale.29

Ci sembra importante sottolineare la ricorrenza del verbo tedesco werden, che sottende non solo l’azione del divenire, quanto anche quella del farsi prossimo da parte di Dio, presente nell’invocazione e nella necessità dell’uomo. Presente, certo, nella relazione, non nella presenza immutabile di una categoria sostanzialista, di una causa sui, dinanzi a cui non si può danzare o produrre musica; presente, quindi, nella testimonianza del suo oggi con l’uomo. Si deduce così che il nome di Dio assume un valore teofanico e performativo.30 In effetti, la rivelazione del nome è accompagnata dall’efficacia dell’azione divina che è proprio dell’uomo sperimentare ed inverare nella vita. L’appellativo di eterno come esistente da sempre segue, dunque, questa esperienza che accade nella centralità dell’esserci umano ed è il prodotto di una riflessione che semplicemente ri-conosce. In termini filosofici si tratta del riconoscimento di un daß anteriore al pensiero e di un’alterità manifestata nella sua interpellazione gratuita che rende libera la testimonianza, pur affidando ad essa il suo divenire presente. Ciò implica l’impossibilità di ridurre il tetragramma ad una formula dogmatico-filosofica; il tetragramma Yhwh è, infatti, un nome orientato all’azione. Possiamo altresì concludere che esso è un Botenspruch,31 il nome di un invio che necessita della memoria dell’uomo

Esso sottende altrettanto una presenza che si manifesta nella narrazione e nell’invocazione, nel dialogo, nella preghiera corale, siano esse coniugate al presente o al passato o al futuro, alla seconda o alla terza persona, eterna, certo, ma nella fedeltà alla parola, nel rinnovarsi della Rivelazione. E qui si gioca anche la sua trascendenza: essa, infatti, implica un appello proveniente da un’alterità capace di relazione, ovvero di una relazione in ogni tempo, in ogni esperienza e momento della storia dell’uomo. L’esperienza della liberazione nella storicità di Israele permette il riconoscimento di un’alleanza eterna quale atto costitutivo del mondo, che può fondarsi essenzialmente sul passato della creazione, come garanzia e promessa del futuro dell’uomo e di Dio.

Rosenzweig sottolinea come il Dio che egli chiama dir Daseiende (colui che ti è accanto), è esperito ad un tempo come Immerseiende (Il sempre esistente). Il ricorso a questi termini ci pare sia assolutamente fedele alla radice ebraica del verbo hayah, in quanto determinazione di una presenza, ma a questo riguardo non poche sono state le difficoltà ermeneutiche. Il nostro autore ne sottolinea alcune, specie in un saggio, compreso nei Kleinere Schriften, dal titolo Der Ewige, L’Eterno, nel quale polemizza con la traduzione di Mendelssohn. La traduzione mendelssohniana di Es. 3, 14 reciterebbe pertanto: «Dio parlò a Mosé: Io sono l’essere che è eterno. Egli disse infatti: Così devi parlare ai figli di Israele: «L’essere eterno che si chiama io sono eterno mi ha mandato a voi».32

La traduzione «l’eterno» dovrebbe, all’avviso di Rosenzweig, esprimere questa esperienza originaria del Dio che è presente in ogni tempo accanto all’uomo, e dunque della sua esistenza perenne e necessaria. Qui, tuttavia, si darebbe un passaggio filosofico che coniugherebbe la tradizione ebraica con un’istanza più razionalistica- classicistica, che risente dell’influenza di Maimonide. Un passaggio problematico, che sottende ancora un’accezione metafisica con la quale Mendelssohn si accosta alla tradizione midrashica. In effetti, sottolinea Rosenzweig riprendendo una citazione di Mendelssohn da Giobbe:

In un Midrash si dice: «Il Santo, benedetto sia, disse a Mosè. Di’ loro: “Io sono colui che era e ora sono il medesimo, e sarò il medesimo nel futuro!”».

E inoltre i nostri maestri, la loro memoria sia benedizione, dicono: «Io sarò con loro in questa afflizione, poiché io sarò con loro nella schiavitù anche sotto tutti gli altri regni». Con ciò intendono dire quanto segue: «Poiché nel creatore il tempo passato e quello futuro sono del tutto un presente, poiché presso di Lui non esiste alcun mutamento o dipendenza e dei suoi giorni non vi è trascorrere, perciò in Lui tutti i tempi vengono chiamati con un nome che comprende il passato, il presente e il futuro. Mediante questo nome accenna alla necessità dell’esistenza e nel contempo alla provvidenza che dura ininterrottamente».33

È evidente qui un’interpretazione di tipo ontologico, da cui procede una sorta di conseguenza filosofica che soggiace alla rivelazione del Nome, la quale si pone, da questo punto di vista, sotto il segno della necessità dell’esistenza come fondamento del mondo.

Questa opzione deriverebbe dall’esigenza di coniugare l’istanza del Dio sempre presente accanto a, con quella della necessità dell’esistenza; ma essa si rivela così come altamente ambigua. Sembra quasi che vi si voglia ravvisare una sorta di prova ontologica, facendo venir meno quella differenza da Rosenzweig indicata come assolutamente essenziale, fra l’indogermanico Sein e l’ebraico hayah.

Riteniamo opportuno, quindi, ricorrere nuovamente ad un passaggio particolarmente pregnante del nostro, che, dopo aver preso in esame un altro commentario, in cui non è estranea l’influenza della Guida degli smarriti di Maimonide, e che spiega la rivelazione del Nome di Es. 3, 14, asserisce:

Da questo commentario scaturisce innanzi tutto il fatto sorprendente che questa decisione a favore del nome di Dio astratto, «filosofico», che è stata così gravida di conseguenze per l’ebraismo moderno, sia stata in Mendelssohn spesso appesa ad un filo. L’Essere «eternamente necessario» e «L’Essere provvidente», entrambi sentiti nel nome, il primo dai filosofi della religione classici, il secondo dalla tradizione autenticamente popolare -Onkelos, Talmud, Raschi- presi in se stessi hanno per lui il medesimo valore, l’uno e l’altro sono significati pensati dal testo. Nella sua decisione è incluso un frammento di quella fede del diciottesimo secolo, per noi ormai non più praticabile (dopo lo «spaccatutto», come proprio Mendelssohn ha definito Kant), nella possibilità di una teologia razionale, per la quale — in flagrante contraddizione con l’esperienza della storia della filosofia — «dall’Essere necessariamente esistente» deriverebbe per deduttività logica il «provvidente».34

Questo passaggio ci appare molto importante, in quanto mette in luce quale forzatura ermeneutica deriverebbe dal ravvisare nella pericope di Es. 3, 14 un’istanza di teologia razionale, che legittimerebbe una deduzione razionalistica di Dio, dando come necessaria la connessione fra provvidente ed esistente, e racchiudendo nella fissità dell’essere l’istanza di una presenza, quella divina appunto, che implica al contrario il divenire e la relazione dialogica, il percorso storico e la temporalità, e si presenta all’uomo in quanto Alterità loquente e libertà del comandamento.

Ci sembra inoltre significativa la presa di distanza rosenzweighiana da questo tipo di interpretazione; una presa di distanza che non può non implicare una rilettura kantiana ed un punto di contatto con la critica ontoteologica. Ritorna infatti, qui, l’istanza secondo la quale la tradizione ed il retaggio dell’ebraismo contribuiscono ad illuminare criticamente la filosofia, apportandovi significativi sviluppi. L’unità fra essere eterno ed essere necessario, che risente del retaggio aristotelico e razionalista, non dice della vera essenza dell’ebraismo che si riconosce nella Bibbia, e che è costituita dalla Rivelazione del Nome e dal significato che questo nome assume.

Alla luce di ciò comprendiamo per quale motivo il verbo hayah si discosti da ogni ist-frage, attestandosi al contrario sulla linea di un evento dell’Altro, invocato al vocativo, nel dialogo e nella preghiera che celebra la memoria rinnovata del suo rivelarsi, narrato nella terza persona, nel racconto della creazione, e riconosciuto nel passaggio dal Tu all’Egli nella sua identità di Dio creatore e Dio presente a me. Sulla base di ciò potremo certamente concludere che si tratta non tanto di sostantivo secondo il genere e la specie, ma di un’alterità agente, rivelata già ab initio come relazione. Da questo punto di vista, ascoltiamo ancora una volta Franz Rosenzweig:

E proprio questo farsi tutt’uno è ciò che, con il levarsi della sua fiamma dal roveto ardente a partire dall’annuncio IO SONO QUI, forgia mediante il nome di Dio, l’intera Bibbia in un’unica unità, compiendo ovunque l’identificazione del Dio della creazione con il Dio presente a me, a te, a ognuno. Identificazione questa il cui fuoco arde più che mai acceso nei passi in cui il nome di Dio e la parola Dio cozzano l’uno contro l’altra come nel capitolo del paradiso in Genesi, oppure nella proclamazione dell’unità delloshema’ Israel.35

Il nominar-si di Dio in un movimento che, dal vocativo tende all’accusativo di un’azione relazionale originaria, intesa nel senso di fatto dell’amore, esclude ogni forma di oggettivismo che possa, in ultima analisi convergere in una teologia del Summum Ens; al contrario essa sottende una sorta di theo-logica basata sul dono della parola come dono di senso e vocazione in virtù dell’apertura in-fondata ed autofondantesi della rilevazione, tale che si configuri in essa l’ordine e l’orientamento della realtà.

Dunque la rivelazione è la struttura trascendentale a partire da cui l’essere accade come Erhellung, chiarificazione di senso, avente un’incidenza esistenziale nell’esser-ci umano ed esigente altresì un inveramento fattuale nell’ordine della relazione che configura l’ad-venire costante della redenzione. La Seinsfrage, ovvero quella che abbiamo posto come questione dell’essere, in Rosenzweig si connette col termine entro cui la stessa linguisticità assurge a Begegnung, incontro, nonché allo stesso metodo della filosofia rosenzweighiana.

4. L’altrimenti essere e l’escatologia sempre realizzata

La ricognizione della Seinsfrage nell’opera di Rosenzweig ci ha condotti a comprendere l’importanza delle categorie del tempo e della storicità nella formulazione di una nuova riflessione filosofica che vede nell’esperire e nell’accadere l’istanza di un pensiero ins Leben, orientato e centrato sulla vita. D’altro canto, in quanto luogo dialogico del riconoscimento dell’eventuarsi della Rivelazione come interpellazione dell’altro, il pensiero stesso si attesta non solo sull’esperire e sull’accadere, quanto anche sull’orizzonte del supplicare, riconoscendo, così, come la Rivelazione richiami la redenzione, e come — in ultima analisi — questa sia essenzialmente un dono dell’altro con cui l’uomo può e deve cooperare, nella libertà e nel dovere della supplica. Possiamo così comprendere perché il senso multiforme dell’essere si attesti sull’azione e su di un tempo che accade in modo diacronico.

Porre l’attenzione su questa sorta di diacronia ci sembra necessario per meglio individuare quella correlazione fra temporalità ed essere, rintracciabile nella Stella.

Concetto cardine per questo rischiaramento del senso è proprio quello della creaturalità, per cui la fatticità dell’uomo invera un evento che si rinnova nell’attimo sempre compiuto della decisione per il comandamento e nel volgersi al prossimo, nonché nel costituirsi del noi della comunità orante, ove si attesta la radice dell’eternità piantata da Dio in mezzo al Suo popolo.

L’eternità dell’uomo è piantata nel terreno della creazione. La creazione sarebbe l’“e” tra i due istanti della vita dell’uomo separati davanti a Dio e tuttavia nell’uomo riuniti: quello dell’essere amato e quello dell’amare. Il primo, che gli viene da Dio, il secondo, che si rivolge al mondo, come potrebbero valere per lui come un solo amore, come potrebbe essere consapevole di amare Dio amando il prossimo, se non perché egli nel più profondo e fin dal principio sa che il prossimo è creatura di Dio e il suo amore del prossimo è amore per le creature?36

Dio e prossimo, nonché Dio e mondo fondano l’esperienza della creaturalità intesa come evento dell’Amore che accade nell’istante in cui Dio e uomo si riconoscono come l’Io ed il Tu del dialogo, ma necessita di inverarsi nel riconoscimento del Noi e del mondo, sottratto dal pervicace silenzio dell’illud, proprio dal noi comunitario. Se fra Dio e l’uomo, o meglio fra Dio e l’anima amante /amata si dà il tempo eterno di un dialogo che si rinnova, fra l’uomo, il prossimo ed il mondo si esplica questa stessa eternità, in virtù della quale Dio si fa presente come memoria e promessa.

L’esser-ci della creatura ed il suo aprirsi nel linguaggio al tempo del mondo e del prossimo anticipa l’eternità attuata di Dio e la redenzione come pienezza di essere totalmente realizzato.

Temporalità ed escatologia non si fronteggiano od oppongono: si danno accadendo nel kairos del linguaggio, si danno, soprattutto, come chiavi di comprensione dell’essere nella centralità dell’esser-ci, inteso non come mera gettatezza quanto invece come testimonianza e risposta ad un dono dell’altro. In questo senso ci sembrano preziose le osservazioni di Franz Rosenzweig nella Cellula originaria de la Stella della Redenzione:

L’Altissimo invece di esigere la nostra donazione totale, si dà Egli stesso a noi; invece di innalzarci alla sua altezza discende fino a noi, e, ancora, invece di prometterci come ricompensa il nostro sé (“diventa ciò che sei”) ci promette profeticamente l’esodo dal sè (Entselbstigung), prossimità di Dio come beatitudine. Dunque l’uomo cui Dio si affida, verso cui Egli, che è nobile e umile insieme, si china, mentre fa spazio a Dio dentro di sé riceve tutto ciò che si è donato totalmente a Dio e anche se stesso, l’uomo. Nel mondo ogni dono di sé culmina in Dio in quanto Egli è idea delle idee, e Dio, donandosi ora a sua volta all’uomo nella rivelazione, gli porta come dote tutta la dedizione del mondo.37

L’interpellazione e l’appello dell’alterità divina si fanno evento della stessa deposizione di Dio nel suo dono all’uomo e permettono all’uomo di spogliarsi del suo sé nella dedizione al mondo che- anticipando la redenzione- attesta l’eternità piantata come seme al centro della creatura. Dunque l’opera dell’uomo nel mondo e l’amore del prossimo sottendono, nella testimonianza sempre nuova della rivelazione, l’anticipazione dell’eschaton, già presente nello stesso rivelarsi di Dio come esser-ci accanto all’uomo. È importante, tuttavia, sostare sul senso della deposizione di Dio che è specularmene connesso alla dedizione dell’uomo, dopo il suo esodo da sé. Nell’esodo duplice di Dio e dell’uomo, che segna l’evento della rivelazione, e che sancisce il kairós della redenzione, è possibile cogliere il senso dell’accadere dell’essere nel tempo dell’esserci come prossimità all’appello dell’altro, per mezzo di cui si rinnova il potere della dedizione al mondo. Si darebbe, altresì una sorta di deontologizzazione del linguaggio, che recupera non solo la dimensione speculativa, nel senso humboldtiano ed espressivistico,38 ma traccia anche l’orizzonte di una nuova ermeneutica dell’essere, finalmente liberato dalle catture di una comprensione meramente fenomenico-coscienziale.39 Una tale ermeneutica permetterebbe davvero di ripensare l’essenza dell’essere a partire dalla categoria della donazione che emerge chiaramente nel testo rosenzweighiano. Ben lo evidenzia anche Bernhard Casper, nel momento in cui osserva:

L’essenza dell’essere nella tradizione del pensiero occidentale è stata compresa, sempre come essere vero, ossia illuminato per la ragione ordinatrice del mondo e come esser- buono, da affermare, per la volontà di dominio del mondo. Ma la radice del senso della realtà non si trova, ancor prima che questa si mostri nella correlazione fra ragione e volontà, nel fatto che l’essere si esplica come dono?40

Il rapporto fra essere e dono lascia aperto un orizzonte altro, che — a partire dall’evento biblico della Rivelazione del nome di Dio — permette di riformulare la questione in termini di un pensiero della gratuità. L’esplicarsi dell’essere come dono risulta una chiave ermeneutica del tutto inedita per affrontare il testo di Rosenzweig. Esso emerge con chiarezza a partire dall’evento della rivelazione che implica ad un tempo il dono del linguaggio in quanto evento che accade tra me e l’altro, e la possibilità del mondo redento, già donata nello stesso discendere di Dio.

La stessa comprensione biblica dell’essere lascia intravedere la possibilità di formulare un’ontologia dell’evento, che costituisce per altro l’assoluta novità nell’ambito della stessa ontologia contemporanea. A tale proposito, l’intepretazione casperiana merita una particolare attenzione. Se è vero che, da un lato egli legge Rosenzweig ben consapevole dei contributi heideggeriani sia di Essere e tempo che di Tempo ed essere, egli però sottolinea come la comprensione biblica della rivelazione possa rendere ragione di un’esperienza più originaria di quella dell’essere in quanto presenza, essa concerne appunto il pensiero dell’essere in quanto evento accaduto sulla scorta di cui interpretare la realtà. L’evento accaduto è la rivelazione biblica, ma questa istanza fondamentale permette una trascrizione filosofica del senso dell’essere come dono e gli conferisce le coordinate ermeneutiche: quelle del tempo e quelle del linguaggio. Esse non si riducono mai a mero dominio di chi parla, né suo mero strumento, rinviano bensì ad una verità che esige inveramento, che è azione di Dio e dell’uomo nella dedizione al mondo.

In quanto l’essere, nel suo senso biblico, sottende l’evento accaduto che ha avuto origine nella rivelazione, esso fonda una comprensione più originaria rispetto a quella della semplice presenza. In base ad essa si può parlare autenticamente di Dio. Tale presupposto implica, però, che l’essere si attesti nuovamente come evento, non più solo accaduto, ma in grado di accadere sempre nuovamente nella relazione con l’altro. Nello zwischen di questa relazione si ridisegna però anche la figura di un tempo diacronico, nel quale è anticipata l’irruzione dell’eschaton come dono dell’essere sempre indisponibile, il cui accesso è aperto solo mediante l’uomo di cui ne va dell’essere.41

Ancora una volta, dunque, è la rivelazione, con la sua capacità di origine a determinare la possibilità di un pensiero filosofico nel quale, grazie all’apporto critico della teologia, l’essere possa attestarsi, ben oltre la condizione di gettatezza, come futuro aperto e inveramento della verità.

5. Conclusione

Io credo nella missione dello scrittore. La riceve dal verbo che gli trasmette la sua sofferenza e la sua speranza. Interroga le parole che lo interrogano, accompagna le parole che lo accompagnano. L’iniziativa è comune e quasi spontanea. Servendo le parole — servendosene — dà un senso profondo alla sua vita e alla loro, da cui essa è scaturita.

(E. Jabes, Le livre des Questions, Editions Gallimard, Paris 1963, trad. it. di C. Rebellato, Il libro delle interrogazioni, Marietti. Genova 1985)

Rosenzweig ha certamente anticipato istanze della riflessione filosofica contemporanea: il debito che questa contrae verso il nuovo pensiero è indubbio; basti pensare alla comprensione del tempo come accadimento dell’essere e come farsi del linguaggio nell’orizzonte di un evento rivelativo. La stessa esigenza rosenzweighiana di voler tradurre ins Leben, e perciò al centro dell’irripetibile singolarità dell’uomo, i problemi filosofici, ci sembra possa connettersi in modo inequivocabile a quella ermeneutica della fatticità di heideggeriana memoria entro cui la riflessione sull’essere si intreccia alla fenomenologia, facendo dell’esser-ci il termine della comprensione in quanto Grundstimmung dell’uomo nel suo commercio con il mondo.

Certamente, però, il tributo più importante che il filosofo di Kassel ha dato alla filosofia contemporanea è quello del recupero di un’istanza linguistica e dialogica che ne dice la portata rivelativa, quasi si trattasse di un’ontofania, salvando la distanza fra essere e pensiero, che si era andata via via cancellando nel paradigma della tradizione dalla Jonia a Jena, e demistificando la tentazione autofondativa della filosofia stessa, tanto da anticipare la critica levinasiana alla medesimezza. Da ultimo, ma questa non è certo cosa trascurabile, Rosenzweig ha gettato le basi per una sfida filosofica ancor oggi non del tutto colta: quella di pensare ebraicamente, che è — a nostro avviso — anche quella di attraversare la filosofia per ripensarne l’altro inizio.

L’esergo tratto da Jabes circa la missione dello scrittore, sintetizza molto bene, in questo senso, il singolarissimo rapporto filosofico di Rosenzweig con la Parola nella dialettica di Wort- Antwort, che rimanda alla centralità della Rivelazione, sottende il carattere di memoria ed anticipazione, di comandamento che rende proletticamente vicino il Regno, e di invocazione perché questo venga. Fenomeno insieme temporale e relazionale, la parola è termine dell’erfahrende Philosophie, e dunque di quell’accadimento che interrompe l’identità chiusa dell’io convocandola all’agire responsabile, come evento del comandamento realizzato dell’amore; ma essa è anche il Fatto compiuto (Dabar), che — dall’iniziale paganesimo delle forme plastiche — lascia essere la creazione come un primordiale rivelarsi di Dio.

Servirsi della parola diviene dunque un servire la Parola, quasi ermeneutica di una rivelazione che accade in modo kairologico e che istituisce lo spazio di una nuova correlazione fra gli elementi del reale. Essa scandisce altresì il passaggio da una totalità monologica, ottenuta per deduzione, alla redenzione, intesa come dono dell’evento accaduto, in virtù del quale, certo, Dio sarà tutto in tutti, ma non senza la necessità della relazione fra gli uomini, fra l’uomo e il mondo, non senza quindi il differire dialogico che preserva la distanza originaria fra Dio e mondo, dicendone ad un tempo la prossimità. Nella tensione dialettica fra Scrittura e Parola si situa e si istituisce l’orizzonte di senso in cui trovano traduzione incessante il pensiero e la vita. I problemi umani e quelli teologici, inoltre, si connettono, in modo che la comprensione dell’essere si faccia essenzialmente logon didonai e si commisuri alla testimonianza, come sempre nuovo esser parlato del Libro, secondo la stessa tradizione talmudica.

Dunque la riscoperta della grammatica come istanza teoretica si declina nel caso di Rosenzweig in un’ermeneutica narrativa ante litteram, grazie alla quale la realtà viene dischiusa in quanto mondo nuovo. Narrare è rendere conto di com’è andata, ma sottende anche la possibilità di rifare il mondo, rinnovandolo nell’accadere del reale. Questa capacità del linguaggio risulta tanto più fondamentale, quanto più il linguaggio è di per sé necessariamente relazionale, e si esplica come il novum che accade tra me e l’altro. Tuttavia, tale novum conduce il pensiero ad un’interpretazione della realtà a partire da un evento accaduto, quello della rivelazione biblica, conferendogli così un carattere essenzialmente linguistico, sotteso fra il riconoscimento di tale presupposto originario che acquisisce la forma del racconto e l’impegno all’inveramento della sua verità, sia nell’accadere dialogico con l’altro, sia nell’invocazione comunitaria e liturgica. In questo senso, la realtà si istituisce nello spazio della Parola ed i pronomi personali, egli, io, tu, noi declinano non solo il soggetto d’imputazione dell’azione, quanto anche la linguisticità dell’esperienza del reale, tale che si può certamente asserire, anche nel caso di Rosenzweig, che chi ha linguaggio ha mondo. Non solo; il mondo che sorge dal e nel linguaggio, in ultima analisi dalla rivelazione, è riempito di anima ed idoneo, in virtù della relazione etica propria dell’uomo e istituita sulla base dell’originario rivelarsi dell’amore come comandamento, ad essere soggetto della redenzione. Il pensiero grammaticale assume una portata certamente gnoseologica, tanto è vero che può connettersi a quell’istanza empirica di una verità vissuta (erlebt) e perciò stesso da inverare nella parola cor-risposta e nella testimonianza comunitaria a favore di un’escatologia realizzata.

La struttura filosofica del pensiero di Rosenzweig assume, allora, una chiarezza sempre maggiore, rendendo ragione di come egli intendesse fare un sistema, secondo la dichiarazione esplicita contenuta nello Stern, ma certamente un sistema non totalitario. La ragione di ciò sta per l’appunto nella connessione fra il declinarsi del tempo e del linguaggio come orizzonte di quella che abbiamo chiamato riproposizione della questione dell’essere.

Il tempo è lo sfondo vitale entro cui l’uomo si comprende come creatura e si orienta nel mondo. Dato nell’evento indisponibile della rivelazione, il tempo è lo stesso accadere del linguaggio come relazione con l’altro. È nella dimensione della temporalità che il dialogo del presente storico (l’io-tu dell’uomo con il suo prossimo) invera il presupposto del passato della creazione (l’uscita di Dio dalla sua essenza oscura come primo inizio della Parola) e lo connota in un’apertura al futuro escatologico della Redenzione. Quest’ultima è per altro già presente nello shabbat storico che rappresenta, da un lato, la soglia della promessa messianica, ma contrassegna dall’altro, la discontinuità dello scorrere cronologico, che indica l’essere altrimenti dell’eschaton. In questo senso, ci sembra importante evidenziare la linguisticità del tempo, il suo attestarsi sui tre verbi dell’erkennen, erleben, erbeten, che interrompono il paradigma della semplice presenza, anticipando in tal senso la tematica heideggeriana delle tre estasi temporali. Proprio su questa base, dunque, è possibile — a nostro avviso- lo snodarsi di un nuovo percorso teoretico che riformuli ex novo il pensiero dell’essere, in sintonia con il pensiero biblico. Come ben osserva Bernhard Casper, cui più volte abbiamo fatto ricorso per questo tema:

Questa comprensione trascendentale della realtà quale storia aperta dell’essere che accade- certo nello schiudersi delle cose — tra gli uomini e a essi stessi è molto più prossima alla comprensione biblica della realtà che non una comprensione non storica, chiusa, onto-teologica, e quindi metafisica. L’essere, che per Rosenzweig nel suo accadere, nel suo farsi evento si porta alla luce di un futuro aperto, appare come quell’essere in cui è in gioco non solo la correttezza ma la «comprova della verità».42

La temporalità sottende una comprensione storica dell’essere in quanto evento che accade tra me e l’altro; proprio per questo motivo tale accadere si attesta come futuro aperto, ma anche come condizione di inveramento della verità. La relazione tra me e l’altro sottende tuttavia una storicità di tipo diacronico, in virtù della quale si dà lo stesso carattere storico della rivelazione. In ogni caso, questo è possibile grazie al suo carattere linguistico. L’essere come linguaggio declinato nei tre tempi è a un tempo l’essere della rivelazione, e l’essere per la rivelazione. Proprio su questo orizzonte esso pone le basi per una diversa comprensione della verità. Essa si dona nella rivelazione divina, ma necessita di una testimonianza umana nella storia, capace di anticipare, in una sorta di analogia temporum, il contenuto escatologico della redenzione.

Se Heidegger proponeva l’attraversamento-superamento della metafisica, potremo certamente mettere in evidenza come anche Rosenzweig elabori nel suo Neues Denken un percorso post-metafisico, forse non ancora del tutto scoperto e valutato, riportando al centro della riflessione filosofica il retaggio dell’ebraismo e della rivelazione biblica come possibilità di un pensiero altro in cui convergano, in una singolare posizione dialogica, filosofia e teologia, tale che la seconda funga da limite-confine critico rispetto alle pretese totalitarie della prima.

Avendo presente tale orizzonte dialogico è necessario chiedersi quale pensiero dell’essere possa emergere e se sia lecito parlare di ontologia nell’ebraismo. Fermo restando che l’uso del termine ontologia non può venire impiegato in riferimento alla tradizione ebraica, crediamo comunque che la questione dell’essere possa risultare in modo del tutto singolare e pregnante come termine di confronto fra due tradizioni. La tradizione ebraica può, infatti, interrompere quella sorta di totalità finita dell’ontologia che si declina nel paradigma egologico e che si esplica come assoggettamento dell’altro.43 Ci sembra, in ogni caso, che lo stesso versante ermeneutico della filosofia che si attesta sulle coordinate di storicità e linguisticità entro cui pensare da un lato un’ontologia dell’evento, dall’altro la possibilità di una dimensione acroamatica della riflessione ontologica, possa nutrire e sostenere tale comparazione.

Serbando l’altro nella sua alterità essa ne dice altresì la capacità di relazione, ma anche la differenza, così lo sottrae dalle spire di un Tutto quale fondamento immutabile come lo vuole l’antico pensiero. Imperniato sull’esperienza fondamentale della creaturalità, in cui accade la rivelazione come evento prolettico della redenzione e come memoria inverata della creazione, il pensiero di Rosenzweig si attesta su un Tutto relazionale, che non si offre alla vista contemplativa come eidos, ma si dona nell’inveramento di una Verità che parla il linguaggio del comandamento dell’amore e che, come tale, lo presuppone. L’essere non può, da tale punto di vista, che comprendersi sullo sfondo di questo dono ove è rimesso in discussione ogni necessità immutabile.

Per questo stesso motivo la tradizione biblica diviene la terra dell’altro inizio da cui, più o meno consapevolmente, è fiorito il pensiero dell’essere come evento, ed anche, più profondamente il pensiero della parola. In tal senso anche il linguaggio della rivelazione rosenzweighiano è un essere altrimenti; in effetti, esso sottende il primato della parola sull’essente, e fa di essa lo spazio di un’etica che nella libertà del comandamento apre un orizzonte di senso sempre nuovo, ma anche lo spazio di un’invocazione in cui l’alterità si fa presente ed istituisce, per l’efficacia performativa del linguaggio, il novum dell’evento che il pensiero può pensare nella gratitudine, testimoniandolo nell’impegno etico.

Se dunque è qui che si gioca la portata ontologica del linguaggio, ovvero la possibilità di relazione con il prossimo sancita dal comandamento e sempre rinviante al principio di ogni dialogia, ci sembra che il retaggio di Rosenzweig assuma una notevole attualità: quella di istituire la rivelazione in quanto traccia e sentiero dell’essere che si lascia pensare ad un tempo come dono e interrogazione di senso; un’ontologia, potremmo dire, in cui, secondo Rosenzweig, sia respinta per l’ultima volta la bestemmia filosofica44 secondo la quale noi troviamo la verità, quanto invece è nella verità che troviamo noi stessi. Ma se coniughiamo verità e dono di senso nel paradigma della Rivelazione, non può che aprirsi alla riflessione filosofica la sua altra radice, quella biblica. Forse è proprio in questo pensare la Bibbia che si gioca la possibilità di un rinnovarsi del linguaggio filosofico, nel senso di un autentico pensiero della parola.


  1. Rinviamo su questo, in modo particolare a M. Zarader, La dette impensée, Heidegger et l’heritage hébraïque, Du Seuil, Paris 1990, nonché D. Banon, La lecture infinie. Les voies de l’interprétation midrachique, Du Seuil, Paris 1987, l’analisi dei quali riteniamo preziosa per lo sviluppo della nostra tematica. ↩︎

  2. M. Zarader, op. cit., p. 143. Qui di seguito il testo francese: «Si l’être “est” autre que ce qu’en avait compris l’ontologie, c’est parce que celui-ci avait habité une terre différente». ↩︎

  3. Su questo rinviamo a K. Löwith, M. Heidegger und F. Rosenzweig, trad. it. cit., p. 84. Questo saggio ci sembra prezioso per poter comprendere il contatto-contrasto dei due pensatori riguardo all’elaborazione dell’esserci per la morte, intesa da Heidegger come possibilità autentica anticipata nella decisione e nel carattere ek-statico dell’esistenza, concepita al contrario da Rosenzweig come apertura alla Rivelazione sempre rinnovantesi e anticipazione escatologica nell’adesione al comandamento. ↩︎

  4. M. Zarader, op. cit., p. 129. ↩︎

  5. Si veda a questo proposito l’interessante articolo di Casper, La sfida di Rosenzweig al pensiero cristiano, in «Filosofia e Teologia», 2000, n. 2, p. 147. ↩︎

  6. Ibidem↩︎

  7. Ivi, p. 248. ↩︎

  8. G. Bensussan, Parole, langage et temporalités: la Bible dans l’Étoile de la Redemption, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 2000, n. 4, p. 477. ↩︎

  9. Si veda per questo la bella analisi fatta da M. Buber, Der Glaube der Propheten, trad. it. di A. Poma, La fede dei profeti, Marietti, Genova 1985. ↩︎

  10. Rinviamo a A. Neher, Chiavi per l’ebraismo, Marietti, Genova 1988, p. 50. ↩︎

  11. Su questo rimandiamo anche a C. Di Sante, Lo straniero nella Bibbia. Saggio sull’ospitalità, Città Aperta, Troina 2002, p. 84. ↩︎

  12. Rinviamo in particolare a M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer Verlag, Tübingen 1927, p. 7, trad. it. di P. Chiodi, Essere e Tempo, UTET, Torino 1969, 2a ed. 1986, p. 59, e soprattutto Zeit und Sein, trad. it. di E. Mazzarella, Guida Editori, Napoli 1980, p. 101, in particolare nota 5. ↩︎

  13. Su questo rinviamo senza dubbio a B. Casper, Das dialogische…, cit., nonché M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache, Neske, Pfullingen 1959, trad. it. di A. Caracciolo, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1988. Per ciò che concerne lo sviluppo di una teoria dialogica della verità e dell’essere si veda R. Mancini, L’ascolto come radice, Edizioni Scientifiche italiane, Napoli 1985. ↩︎

  14. Cfr. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, Nijhoff, Den Haag 1976, trad. it. a cura di G. Bonola, La Stella della Redenzione, Marietti, Casale Monferrato 1985, pp. 133-134. 128. D’ora in poi SR. Nelle citazioni della Stella della Redenzione il primo numero dopo la sigla si riferisce alla pagina dell’edizione tedesca qui citata, mentre il secondo dopo il punto e virgola alle pagine della trad. it. indicata. I corsivi introdotti nella traduzione italiana saranno indicati con l’abbreviazione C. n. Verranno di volta in volta specificate le eventuali modifiche alla trad. it. che riterremo opportuno apportare. ↩︎

  15. SR 134, 128-129. ↩︎

  16. Rimandiamo a A. E. Bauer, Rosenzweigs Sprachdenken in Der Stern der Erlösung und in seiner Korrespondenz mit M. Buber zur Verdeutschung der Schrift, Peter Lang, Frankfurt a. M., Berlin, New York, Paris, Wien, 1992, p. 34 Questa opera, che è una tesi dottorale discussa all’Università di Freiburg i. B., ci sembra preziosa non solo ai fini della comprensione del pensiero linguistico rosenzweighiano, ma anche per poter attuare un confronto con la tradizione ermeneutica contemporanea. Qui di seguito il testo tedesco: «Es gibt verschiedenen Arten von Sein: das zeitlose Sein (wie in den 3 letzten unhintergehbaren Horizonten, Gott und Welt, und Mensch vorliegt), und das geschehende Sein in den sich ereignenden Brücken schlägen von Schöpfung, Offenbarung, und Erlösung. Sein darf dabei nicht als der die drei Horizonten, Gott, Welt, Mensch umfassende Begriff verstanden werden, sondern schlicht als das Da-sein, So-sein, Gegebenheit, entweder in die Zeitlichkeit der Zeitlosigkeit, was die geschehende Wirklichkeit zwar fundiert, […] oder in der Zeitlichkeit des Geschehens, die sich in Gegenwart, Vergangenheit und Zukunft als drei Formen der Beziehung auseinanderlegt». ↩︎

  17. Per questo rimandiamo sia all’opera già citata di Zarader. ↩︎

  18. M. Zarader, op. cit., p. 145. ↩︎

  19. Rimandiamo su questo al bello studio di D. Banon, La lecture infinie. Les voies de l’interprétation midrachique, Du Seuil, Paris 1987. ↩︎

  20. A. Safran, La Cabale, Payot, Paris 1972, in M. Zarader, op. cit., pp. 145-146. Il testo francese recita come segue: «L’Aïn est le tout, et pourtant il est inabordable. Il est present et pourtant introuvable. Il est proche et pourtant lointain. Loin d’être negation de l’existence, le neant est l’essence de l’être». ↩︎

  21. A. Neher, op. cit. p. 51. ↩︎

  22. M. Idel, Franz Rosenzweig e la Kabbalah, in «Filosofia e Teologia», cit., p. 263. ↩︎

  23. SR 434; 417, C. n. ↩︎

  24. Rosenzweig, GS, I/2, p. 1161. C. n. Il testo tedesco recita come segue: «Das hebräische “hyh” ist ja nicht wie das indogermanische “sein” seinem Wesen nach Kopula, also statisch, sondern ein Wort des Werdens, Eintretens, Geschehens…». ↩︎

  25. SR 424; 408. ↩︎

  26. Dobbiamo questa interessante osservazione filologico-ermeneutica al prof. Carmine Di Sante, teologo ed esperto di ebraismo, cui esprimiamo i nostri ringraziamenti. ↩︎

  27. A. La Coque, P. Ricœur, Penser la Bible, Du Seuil, Paris 1998, p. 313. Quest’opera ci sembra preziosa per comprendere i rapporti fra mondo ebraico-biblico e riflessione filosofica. ↩︎

  28. Rimandiamo su questo al prezioso studio di M. Buber, La fede dei profeti, cit., p. 134. ↩︎

  29. Rosenzweig, GSI/2, p. 1161. Il testo tedesco recita come segue: «Nur weil dieser dir gegenwärtig Werdende dir immer gegenwärtig, wenn du ihn brauchst und rufst- ich werde dasein-, nur deshalb ist es dann unserm Nachdenken, Nachdenken, freilich auch der Immerseiende, der Absolute, der Ewige, losgehst dann von meiner Bedürftigkeit und meinem Augenblick, aber doch nur loszulösen, weil jeder zukünftige Augenblick eines jeden an der Stelle dieses meines jetzigen stehen könnte». ↩︎

  30. A. La Coque, P. Ricœur, Penser…, cit. p. 315. ↩︎

  31. Ivi, p. 314. ↩︎

  32. Rosenzweig, Die Schrift…, trad. it. cit, La Scrittura, p. 101. ↩︎

  33. Ivi, p. 102. ↩︎

  34. Ivi, p. 103. ↩︎

  35. Ivi, p. 109. ↩︎

  36. SR, 288-289; 278. ↩︎

  37. Rosenzweig, Urzelle…, trad. it. di G. Bonola, Cellula originaria…, cit. p. 251. ↩︎

  38. Per questo rimandiamo all’opera d’A. E. Bauer, cit. ↩︎

  39. Su questi temi, rispettivamente del linguaggio, dell’essere, del tempo e del soggetto decentrato sarebbe interessante fare un confronto con Levinas, cosa che non è possibile in questa sede ↩︎

  40. Casper, Das Ereignis des Betens, Alber, Freiburg 1998, p. 27. Il testo tedesco recita come segue: «Das Wesen von Sein ist in der Überlieferung des abendländischen Denkens durchgängig als Wahr-sein, Gelichtetsein für die weltordnende Vernunft und als Gut-sein, Bejahbarsein für den weltbewältigenden Willen verstanden worden. Aber liegt die Wurzel des Sinnes der Wirklichkeit, noch bevor diese sich in der Korrelation zu Vernunft und Willen zeigt, nicht darin, daß Sein sich als Gabe erschließt?». ↩︎

  41. Casper, La sfida di Rosenzweig…, in «Filosofia e Teologia», cit., p. 248. ↩︎

  42. Casper, La sfida di Franz Rosenzweig al pensiero cristiano in «Filosofia e Teologia» cit., p. 249. Rimandiamo in ogni modo all’intero numero della rivista, dal titolo Franz Rosenzweig, pensare ebraicamente, per una più ampia comprensione dell’incidenza rosenzweighiana sul pensiero filosofico contemporaneo. ↩︎

  43. Cfr. U. Perone, Metafisica e violenza, in AA, Vv., Pensare l’essere. Percorsi di una nuova razionalità, a cura di V. Melchiorre, Marietti, Genova 1989, p. 109. ↩︎

  44. Rosenzweig, SR 436; 420. ↩︎