La valenza filosofica dello sport
Come tutti i fenomeni sociali anche lo sport, nelle sue molteplici manifestazioni, merita di essere approfondito e di divenire oggetto di riflessione filosofica. Non sempre e non tutti, però, l’hanno pensata in questo modo. Come ha magistralmente mostrato John Hoberman,1 il numero dei filosofi che nel corso del ’900 ha svilito o stigmatizzato l’imporsi su scala mondiale di tale fenomeno è ampio e include non solo il fronte di un pensiero di ispirazione marxista, come Theodor Wiesengrund Adorno e la Scuola di Francoforte in generale, ma anche autori di tutt’altro orientamento, come Martin Heidegger e Karl Jaspers.2 Per lungo tempo il calcio, e lo sport in generale, sono stati associati a una forma di vita inautentica, strettamente connessa all’imporsi di una società industrializzata, burocratizzate e di massa;3 una forma di divertissement, in grado di alleviare le sofferenze di un individuo omologato, ma capace, per mezzo dello sport, di recuperare un ruolo e un protagonismo. È vero che molti degli approfondimenti relativi al gioco e al calcio non provengono da filosofi in senso stretto, pensiamo a Johan Huizinga,4 storico e teorico delle idee, a Norbert Elias ed Eric Dunning, sociologi, a Roger Caillos,5 antropologo e critico letterario; anche Helmuth Plessner,6 filosofo a tutti gli effetti, se ne occupa però quando diventa titolare della cattedra di sociologia all’università di Göttingen e poi di New York. Inoltre, come egli ricorda, anche i filosofi che se ne occupano – pochi e in modo distratto – lo fanno soprattutto mettendone in evidenza più che altro i risvolti medici, e psicologici.7 Più di recente lo sport è divenuto oggetti di riflessione, soprattutto da parte dell’etica e dell’etica applicata in particolare.8 Dopo gli anni ’70 il tema del doping e del potenziamento fisico, genetico, morale è diventato di estrema attualità, inserendosi a pieno titolo nel dibattito sul posthuman.9 Del calcio e dello sport si occupa, quindi, la filosofia morale in primis. Tuttavia, lo stretto nesso che lega lo sport al gioco, alle regole del gioco, all’agonismo, ha condotto più di un filosofo a interpretare lo sport come un fenomeno dalla valenza metafisica o addirittura religiosa: vedi Eugen Fink10 o Bernhard Welte.
Il successo planetario del calcio e la sua radice antropologica
Partiamo dall’assunto che nel corso del ’900 lo sport in generale diventa un fenomeno di massa; da espressione di una élite politica e culturale – come avviene agli albori con la nascita del tennis, del rugby o del football – diventa strumento di emancipazione, luogo nel quale intere fasce di società, tradizionalmente ai margini della vita sociale, partecipano attivamente alla vita pubblica.11 Si pensi al lungo dibattito tra calcio aristocratico e calcio plebeo, che spesso conduce alla nascita di squadre antagoniste e dei derby cittadini. Lo stesso uso ideologico che dello sport fanno i totalitarismi di segno opposto, quali il fascismo e il comunismo sovietico,12 indica l’appropriazione da parte della politica di un fenomeno, quello sportivo, che viene immediatamente percepito nella sua potenza dirompente, nella sua capacità di mobilitare le masse. All’interno di questo generale processo di promozione, il calcio occupa un posto di primo piano e per certi versi unico. La diffusione a livello planetario avvenuta nel corso dei decenni testimonia la capacità di fare presa sui pubblici di tutto il mondo. Per quale motivo il calcio fa breccia nel cuore delle tifoserie? qual è la radice di tale successo? Secondo l’antropologo Desmond Morris, autore di un famoso libro dal titolo La tribù del calcio,13 questo sport, più degli altri, avrebbe il merito di attivare una serie di attitudini e competenze che in passato l’uomo esercitava nel corso delle battute di caccia. Nel calcio l’uomo, come in passato i suoi antenati cacciatori, ha modo di perpetrare quel tipo di attività originaria legata alla sopravvivenza, che richiedeva velocità, mira, resistenza, coordinamento di gruppo, gioco di squadra, astuzia, agilità, potenza… doti e abilità richieste parzialmente anche dagli altri sport, ma non tutte insieme e non con la medesima intensità.14 La consuetudine e il piacere unanime nei confronti di tale sport sarebbero legati, dunque, al percorso evolutivo dell’uomo cacciatore e alla divisione dei ruoli, rispetto alle raccoglitrici.
Secondo Bernhard Welte, invece, questo successo avrebbe radici più profonde.15 Esso nascerebbe dal fatto che nel calcio troverebbe piena espressione un archetipo del comportamento umano, una disposizione fondamentale dell’uomo in campi di battaglia, in gare di rivalità con avversari a cui contendere una vittoria; ma allo stesso tempo una predisposizione della natura umana alla ricerca dell’ordine continuamente desiderato e richiesto. Nel calcio, più che altrove, impulso agonistico e rituale agonistico16 – la regolamentazione a cui il combattimento sottostà – trovano un pieno equilibrio e una piena possibilità di manifestazione.
Una possibile radice escatologica
Ovviamente, interpretare il calcio in termini escatologici è una possibilità tutt’altro che scontata, per certi versi inattesa, e tuttavia è proprio quella che Bernhard Welte predilige. Filosofo della religione tra i più eminenti del ’900, amico e concittadino di Martin Heidegger,17 maestro di Bernhard Casper,18 professore per decenni presso la cattedra di Christliche Religionsphilosophie della Ludwig Universität di Freiburg in Bresgovia. Welte guarda al gioco come simbolo dell’esistenza e allo sport del calcio come emblema di una irrinunciabile tensione dell’uomo verso una società e un mondo più ordinati e pacificati. L’impulso agonistico pone sin da subito l’uomo all’interno di una partita, di un campo di scontro nel quale esercitare questa sua innata propensione alla contesa; contesa che, nonostante i singoli scontri e le singole battaglie, continua a riproporsi incessantemente, partita dopo partita, quasi a dimostrazione di una sua radice mitica. La gara di rivalità tra avversari,19 tuttavia, è sempre pronta a trasformarsi in uno scontro di ostilità fra nemici, il cui esito è incerto fino alla conclusione. Il fatto, tuttavia, che esistono regolamenti e arbitri che presiedono all’applicazione dei regolamenti, serve nel gioco e nel calcio a impedire che avvenga questo travalicamento. Il gioco sportivo è una sorta di anticipazione del principio speranza di Ernst Bloch,20 la testimonianza che una forma di convivenza pacifica e pacificata, ordinata è possibile. La testimonianza di un confronto-scontro civile, di vivaci conflitti, che indicano un perfetto equilibrio tra la vitalità dell’esistenza e l’ordine: «Il gioco è quindi un’espressione del principio speranza – che già prima di Ernst Bloch era valido come principio cristiano escatologicamente orientato, e che continua ad esserlo; è l’anticipazione di una forma di vita sperata, desiderata sia perché piena di vita, sia perché pacifica».21
Tuttavia, come evidenzia Welte in Storicità e rivelazione, non si può assimilare del tutto l’impulso teologico che agisce nello sport e più in generale nel corso della storia dell’uomo, con il principio speranza di Bloch:
Siamo di fronte al principio speranza nel senso di Ernst Bloch? Sì e no. Sì, in quanto noi, come Bloch, abbiamo motivo di dire che l’intera storia accade nella forza e nell’impulso della speranza. No, in quanto, come diviene evidente, la speranza ontologica, costitutiva per l’accadere della storia, non può in nessun modo venire intesa come una grandezza storico-immanente, capace di scaturire dalle potenze evolutive della storia. Esso, invece, travalica l’immanenza della storia, è il trascendere della storia oltre se stessa e oltre i confini della sua finitezza.22
In termini teologici, quindi, giocare a calcio, contenere i conflitti all’interno di un rituale prelude a una forma di convivenza perfetta, a una forma di vita irrealizzabile nella storia, e che dunque trova un suo pieno corrispettivo in ciò che nella Bibbia viene definito il Regno di Dio. L’agonismo sportivo, nella sua capacità di consentire una tensione pacifica, è un’anticipazione del Regno di Dio.23
La funzione del gioco e in particolare del gioco agonistico
Come ci insegna l’antropologo Roger Caillois ne I giochi e gli uomini, esistono molti tipi di gioco, ma in fondo riducibili a quattro prototipi fondamentali: i giochi di fortuna, i giochi di finzione, i giochi di vertigine e quelli propriamente agonistici;24 quindi, per esemplificare, i giochi dei dadi, quelli in maschera, quelli della trottola e quelli sportivi. Ora, sin dalle origini, l’agone, la competizione sportiva, erano in stretto collegamento con la battaglia vera e propria, con lo scontro bellico, di cui spesso erano una preparazione. Pensiamo che agli esordi delle Olimpiadi greche, le gare di corsa venivano gareggiate indossando le armature militari.25 Lo scontro regolamentato sin dall’inizio appare in stretto collegamento con lo scontro vero e proprio, di cui rappresenta tanto una propedeutica quanto un’attenuazione. Secondo Welte, tale orizzonte di rivalità e di scontro è proprio della natura umana, né è pensabile che possa essere rimosso; tanto che sin da bambini26 e a prescindere dai condizionamenti culturali ci si muove all’interno di questa modalità di azione. Il rischio intrinseco a tale modalità, tuttavia, è, come dicevamo, la caduta in una ostilità indomabile, nella quale l’impulso agonistico diventi senza freno e potenzialmente distruttivo e insensato. Nella partita, invece, l’impulso agonistico e il rituale agonistico vanno di pari passo, cosicché quella potenza che nella storia è continuamente pronta a tracimare, nell’agonismo si «mantiene nei binari di un gioco sensato».27 Per certi versi questo sforzo di contenimento tenta di farsi strada anche nella realtà effettuale; i tentativi di ricondurre la sfrenatezza dell’ostilità nell’alveo di una leale rivalità possono essere rintracciati nell’istituzione medievale della Pace di Dio, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo, nell’istituzione della Croce Rossa:28 tutti sforzi di rendere l’inimicizia un gioco umano. Tuttavia, l’esito è sempre incerto, incompleto e mai duraturo.
La vita, pertanto, appare come un gioco con la sorte, buona o cattiva, che noi, direbbe Machiavelli, possiamo controllare solo per la metà che ci riguarda, come possiamo fare la nostra parte rincorrendo una palla che tuttavia sceglie le sue traiettorie,29 benevole o malevole – e sappiamo cosa voglia dire vedere rimbalzare una sfera nella parte interna o esterna di un palo. La vita viene giocata con le carte di cui disponiamo, facendo i conti con l’imprevedibile che sfugge al nostro controllo, contendendo spesso ad altri concorrenti il risultato finale. Questo scenario, direbbe Welte, vede l’uomo agire in un campo di contese – la concorrenza nel libero mercato potrebbe esserne un esempio – che rischia continuamente di trasformarsi in un campo di battaglia,30 se non intervengono regolamenti, leggi, norme a contenere tale rischio; nella vita spesso inutilmente, nel gioco e nello sport quasi sempre con successo.31 La progressiva ’sportivizzazione‘ della vita, così come viene definita da Elias e come viene paventata da Helmuth Plessner, potrebbe trovare in questo il suo fondamento. Lì dove la società post-moderna, fluida, perde la convinzione di fondamenti etico-religiosi comuni, universalizzabili all’interno di un contesto globale caratterizzato dalla pluralità dei costumi e delle tradizioni morali; lì dove, per utilizzare un’espressione di Engelhardt, ci muoviamo come “stranieri morali”,32 e di fede, che condividono al massimo codici della strada o norme di comportamento civili, le regole dello sport, il fairplay agonistico, i codici deontologici propriamente sportivi assumono una valenza improvvisamente nuova. Nelle società del “pluralismo”, agire con fair play, cioè rispettare l’avversario e le regole del gioco, i limiti del campo, saper perdere, saper fare lavoro di squadra ecc., sono tra le poche norme facilmente universalizzabili. Un’etica sportiva, o come la definisce anche Plessner “del disimpegno”,33 consente a una società di conservare un profilo di moralità, anche lì dove non sembrano esserci più azioni condivise. Una società aperta e globale:
non ha altra scelta che ritirarsi su valori funzionali neutro-formali di prestazioni pulite, la coltivazione del fair play e di tutte le altre virtù che anche lo sport coltiva. Si fa quindi del lavoro e della professione uno sport. Questo fatto non influisce sull’atteggiamento e sulla fede personale dell’individuo. Il singolo sportivo può essere un devoto cattolico, un protestante, un maomettano, un marxista, ma la totalità lo tocca e lo rafforza nella sua volontà di prestazione, nella sua ricerca del record, nella sua sopravvalutazione della funzione, nel suo indifferentismo verso gli obiettivi, il suo disprezzo per tutto ciò che non si rivela nella prestazione e non può essere misurato in termini di performance.34
Una cultura priva di scopo non può che rifugiarsi nel valore funzionale della prestazione. Il prezzo da pagare, tuttavia, è alto, tra i quali la rinuncia a una dimensione escatologica. L’indifferentismo agli scopi circoscrive l’etica a un’etica procedurale, che rischia di fare della «ricerca del record»35 e della «prestazione» fine a se stessa la stella polare dell’agire, pubblico e privato. Anche in quest’ottica, dunque, e non solo in quella economica, finanziaria e di mercato, è possibile leggere la “sportivizzazione” in atto della società e l’imporsi del suo ethos, come ethos potenzialmente universale e civilizzatore, in un’epoca, altrimenti, priva di principi universali condivisi.
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J.M. Hoberman, Sport and Political Ideology, University of Texas Press, Austin 1984; tr. it. di M. Felice, Politica e sport. Il corpo nelle ideologie politiche dell’800 e del 900, il Mulino, Bologna 1988. ↩︎
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Ivi, pp. 15, 51, 163, 169, 201ss, 328ss. L’elenco dei filosofi critici verso una lettura positiva del fenomeno “sport” sarebbe lungo e decisamente più ampio di quello dei sostenitori. Gran parte della tradizione che proviene da Marx, Engels, Lenin, è sulla linea che demarca l’attività lavorativa ed emancipativa da quella del tempo libero e del puro svago, funzionali all’assopimento delle coscienze. Anche nella tradizione più conservatrice e liberale, tuttavia, sono presenti autori tendenzialmente avversi, come Scheler, Jaspers e Heidegger. Cfr. K. Jaspers, Die geistige Situation der Zeit, De Gruyter, Berlin 1931; tr. it. a cura di A. Rigobello, La situazione spirituale del tempo, Jouvence, Roma 1982. Per quanto riguarda Heidegger, secondo Hobermann egli assimila lo sport, come fenomeno pubblico, al regno dell’inautenticità, alla decadenza spirituale della terra, allo “sprofondamento nell’idiozia”: «Russia e America rappresentano entrambe, da un punto di vista metafisico, la stessa cosa: la medesima desolante frenesia della tecnica scatenata dall’organizzazione senza radici dell’uomo massificato» (M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik, Tübingen, Max Niemeyer 1966, tr. it. Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1972, p. 48). ↩︎
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R.D. Mandell, La storia culturale dello sport, Laterza, Bari 1989; H. Plessner, Die Funktion des Sports in der industriellen Gesellschaft, in Gesammelte Schriften X, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1985, pp. 147-166. ↩︎
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J. Huizinga, Homo ludens. Vom Ursprung der Kultur im Spiel, Rowohlt, Hamburg 1956; tr. it. di C.v. Schendel, introduzione di U. Eco, Homo ludens, Einaudi, Torino 1973. ↩︎
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N. Elias, E. Dunning, Quest for Excitement. Sport and Leisure in the Civilizing Process, Basil Blackwell Ltd., Oxford 1986; tr. it. di V. Camporesi, Sport e aggressività, il Mulino, Bologna 1989; R. Caillois, Les Jeux et les hommes: le masque et le vertige, Gallimard, Paris 1967; tr. it. di G. Dossena, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano 2007. ↩︎
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H. Plessner, Die Funktion des Sports in der industriellen Gesellschaft, cit.; Id., Der Mensch im Spiel, in Gesammelte Schriften VIII, cit., 2003, pp. 307-313. Cfr. V. Schürmann, ”Der Geist geht zu Fuß”. Helmuth Plessner zur Funktion des Sports, in «Sport und Gesellschaft» 17/1 (2020), pp. 97-104; O. Tolone, Sport and performance ethics in Helmuth Plessner, in «Thaumazein» 1 (2022). ↩︎
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H. Plessner, Die Funktion des Sports in der industriellen Gesellschaft, cit., p. 187. ↩︎
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Cfr. L. Grion, Le virtù dello sport, in Id. (a cura di), L’arte dell’equilibrista. La pratica sportiva come allenamento del corpo e formazione del carattere, Edizioni Meudon, Trieste 2015; M. Balistreri, Questioni etiche riguardanti l’uso di sostanze dopanti nello sport, in M. Vincenti (a cura di), Sport e doping. Riflessioni, Priuli & Verlucca, Scarmagno 2009; E. Isidori, H.L. Reid, Filosofia dello sport, Mondadori, Milano 2011. ↩︎
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Cfr. P. Grüneberg (a cura di), Das modellierte Individuum. Biologische Modelle und ihre ethischen Implikationen, Transcript Verlag, Bielefeld 2012; R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Bologna 2002. ↩︎
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E. Fink, Spiel als Weltsymbol, Kohlhammer, Stuttgart 1960; tr. it. di N. Antuono, Il gioco come simbolo del mondo, Hopeful Monster, Firenze 1991. ↩︎
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Cfr. A. Wahl, La balle au pied. Histoire du football, Gallimard, Paris 1990-1993; tr. it. di C. Montresor, Il calcio. Una storia mondiale, Electa-Gallimard, Paris 1994; N. Porro, Sociologia del calcio, Carocci, Roma 2008; A. Ghirelli, Storia del calcio in Italia, Einaudi, Torino 1990; S. Pivato, L’era dello sport, Giunti, Firenze 1994. Cfr. G. Vinai, Il calcio come ideologia. Sport e alienazione nel mondo capitalista, Guaraldi, Rimini 2009. ↩︎
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J.M. Hoberman, Sport and Political Ideology, cit.; tr. it. cit., pp. 231-280. ↩︎
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Cfr. D. Morris, The soccer tribe, Jonathan Cape, London 1981; tr. it. di O. Del Buono, La tribù del calcio, Arnoldo Mondadori, Milano 1982. ↩︎
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Ivi, pp. 15-20. ↩︎
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B. Welte, Kampfspiel als Lebenssymbol. Philosophisch-theologische Gedanken ü̈ber das Fußballspiel, prima apparso in «Herderkorrespondenz» 32(1978), pp. 252-256, e ora in Gesammelte Schriften. I/1. Person, Herder, Freiburg-Basel-Wien 2006, pp. 265-273; B. Welte, Dasein als Symbol des Spiels, inizialmente apparso in Zwischen Zeit und Ewigkeit. Abhandlungen und Versuche, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1982, pp. 96-108, e ora in Gesammelte Schriften. I/1. Person, cit., pp. 252-264; tr. it. di O. Tolone, Filosofia del calcio, Morcelliana, Brescia 20212. ↩︎
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Ivi, pp. 36-38. ↩︎
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Cfr. M. Heidegger, B. Welte, Briefe und Begegnungen, con una prefazione di Bernhard Casper, Klett-Cotta, Stuttgart 2003. ↩︎
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Cfr. B. Casper, Das dialogische Denken. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner und Martin Buber, Alber, Freiburg i.B. 2002; tr. it. di R. Nanini, Il pensiero dialogico. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner e Martin Buber, Morcelliana, Brescia 2009. ↩︎
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B. Welte, Kampfspiel als Lebenssymbol, cit.; tr. it. cit., p. 38. ↩︎
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Ivi, p. 42. ↩︎
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Ivi, p. 42. ↩︎
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B. Welte, Geschichtlichkeit und Offenbarung, Knecht Verlag, Frankfurt a.M. 1993; tr. it. di O. Tolone, Storicità e rivelazione, Milella, Lecce 1997, p. 75. ↩︎
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B. Welte, Kampfspiel als Lebenssymbol, cit.; tr. it. cit., p. 27. ↩︎
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R. Caillois, Les Jeux et les hommes: le masque et le vertige, cit.; tr. it. cit., pp. 27-55. In base al prevalere della turbolenza (paidia) o della regola (ludus), Caillois distingue tra agon (competizione), alea (fortuna), mimicry (simulacro) e ilinx (vertigine) (ivi, p. 55). ↩︎
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F. Ravaglioli, Filosofia dello sport, Armando, Roma 1990; cfr. anche F. Ricci, L’etica agonale nel mondo greco. Il corpo a corpo dell’esistenza, in G. Sorgi (a cura di), Ripensare lo sport. Per una filosofia del fenomeno sportivo, Guaraldi, Rimini 2010, pp. 169-206. ↩︎
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B. Welte, Kampfspiel als Lebenssymbol, cit.; tr. it. p. 45: «Il gioco sembra insegnare che c’è un orizzonte di conflitti legittimi. Lo testimonia il fatto che proprio tra bambini si generano scontri di rivalità continui, soprattutto tra fratelli ed amici. Il che fa pensare che questa produzione di conflitti di rivalità provenga dalla natura della convivenza umana e possa quindi essere relativamente indipendente dalla sua causa». ↩︎
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Ivi, p. 56. ↩︎
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Ivi, p. 40. ↩︎
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Già Nicola Cusano, nel De ludo globi, riconosceva che la difficoltà del gioco consiste proprio nel seguire la via “retta” di Cristo, pur avendo sempre a che fare con sfere, palle “curve” e “asimmetriche”: «il ludus globi ci mostra come dobbiamo condurre il gioco della nostra vita in modo da poter indirizzare il corso irregolare della “palla” di cui ciascuno di noi dispone, vero il “bersaglio”, verso quel “centro” cui tutti, in modi diversi, tendiamo» (E. Peroli, Niccolò Cusano. La vita, l’opera, il pensiero, Carocci, Roma 2022, pp. 420 ss.). L’idea del giocatore, che allo stesso tempo gioca e viene giocato dalla palla, dal gioco stesso, è presente già nel Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, a cui si rifà Plessner all’interno del saggio dal titolo Lachen und Weinen. Eine Untersuchung der Grenzen menschlichen Verhaltens, in H. Plessner, Gesammelte Schriften VII; tr. it. di V. Rasini, Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del comportamento umano, Bompiani, Milano 2000. Cfr. A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, IV, 67 e le appendici al libro primo. ↩︎
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Cfr. A. Dal Lago, Descrizione di una battaglia, il Mulino, Bologna 1990, pp. 19-24. ↩︎
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Cfr. G. Franchi, Wittgenstein e le filosofie novecentesche del gioco e dello sport, in G. Sorgi, Ripensare lo sport, cit., pp. 33-50. ↩︎
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H.T. Engelhardt, Manuale di bioetica, il Saggiatore, Milano 1999, pp. 39-40. ↩︎
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H. Plessner, Die Funktion des Sports in der industriellen Gesellschaft, cit., p. 164. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Cfr. M.J. Sandel, The case against perfection. Ethics in the age of genetic engineering, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge M.-London 2007; tr. it. S. Galli, Contro la perfezione. L’etica nell’età dell’ingegneria genetica, Vita e Pensiero, Milano 2016. ↩︎