La mia vita è stata plasmata da un rapporto d’amore con la Ragione. Da bambina, quando mi sentivo strana o messa da parte, o assalita da fantasie lussuriose e pensieri invidiosi, mi attaccavo alla Ragione in modo quasi ossessivo, determinata a mantenermi fedele e leale nonostante sentimenti “selvaggi” e spiacevoli. E la Ragione mi ricompensava, promettendomi che, se mi fossi rifugiata nei libri e attenuta al Razionale, sarei riuscita, un giorno, a controllare i desideri sregolati, “irrazionali”, o per lo meno, a ridimensionarli.1
1. La formazione intellettuale di Sara Ruddick
L’opera della filosofa americana Sara Ruddick2 si situa alla confluenza tra la second wave del pensiero femminista americano3 che pone in luce il valore della differenza,4 con l’etica della cura. Questo paradigma di riflessione morale si afferma negli Stati Uniti sul finire degli anni Settanta del Novecento.
Insieme a Carol Gilligan, Nel Noddings, Joan C. Tronto, Virginia Held e Eva Feder Kittay, Sara Ruddick ha offerto un rilevante contributo alla care ethics, soprattutto con il libro Maternal Thinking, la cui edizione italiana — Il pensiero materno — è stata pubblicata già nel 1993. Analogamente a Virginia Held, Sara Ruddick pone in luce i valori morali insiti nella relazione di cura. Come le altre autrici di questa corrente di pensiero, e segnatamente Joan Tronto ed Eva Feder Kittay, la filosofa attribuisce inoltre all’etica della cura una rilevanza che oltrepassa la sfera privata. Sara Ruddick ritiene che la nuova etica — e segnatamente il pensiero materno che ella promuove al suo interno — possa ispirare una nuova visione dei rapporti sociali e una politica volta alla difesa dell’ambiente e, soprattutto, alla promozione della pace.
Per la filosofa, il maternal thinking è la riflessione che scaturisce dalla prassi (practice) materna. È, questa, una cura che non può essere assimilata ad alcun’altra, per l’incomparabile coinvolgimento emotivo, la responsabilità che comporta e la continua sollecitazione a pensare tempestivamente il modo di risolvere i più svariati problemi che si impongono nel quotidiano all’attenzione di una madre. È, pertanto, un pensiero estremamente concreto, sempre in situazione. Esso deve operare tenendo conto di un insieme confuso di affetti e di emozioni che nella madre si rende sempre più complesso, come è vieppiù complesso il mondo interiore dei figli che vanno crescendo. È un pensiero che pertanto fa i conti con «il guazzabuglio del cuore umano», direbbe Alessandro Manzoni. E non vi è guazzabuglio più inestricabile di quello che si agita nel cuore di una madre.
Nel porre in rilievo l’importanza della riflessione sull’esperienza del mothering, ovvero della cura materna, Sara Ruddick non relega ai margini dell’attenzione tutto ciò che in questa esperienza è ripetitivo, logorante, conflittuale, fonte di frustrazione. Proprio con riguardo alla descrizione degli aspetti più prosaici della cura e del lavoro materni, la sua opera più nota è talora accostata al celebre libro Of Woman Born della saggista e potessa Adrienne Rich,5 la quale è comunque ancora più esplicita su questi temi. Nell’avvalersi di uno stile incalzante e personalissimo, che riesce quasi a trasmettere al lettore la sua tensione emotiva di madre, Rich, che è anche poetessa, rievoca nel libro la rabbia, la frustrazione e la spossatezza che le continue richieste dei figli le arrecavano. Si ritrovava ogni sera ad aspettare con ansia il marito, che le avrebbe «dato il cambio» occupandosi dei piccoli e le avrebbe consentito così di tirare un sospiro di sollievo.
Per Sara Ruddick il pensiero materno è una risorsa ampiamente condivisibile e offre alle donne che vi si accostano la possibilità di vivere in modo più adeguato e sereno gli aspetti più ardui della maternità, nonché di denunciare i caratteri intollerabili insiti nell’“istituzione” materna, costrutto socio-culturale fortemente criticato ancora da Adrienne Rich, che ravvisa in essa il retaggio di una mentalità patriarcale dura a morire.
Come l’autrice ricorda nell’incipit di Maternal Thinking, da adolescente aveva vissuto una «storia d’amore»6 con la Ragione, che ella tendeva a ipostatizzare come gli Illuministi francesi. Al tempo, leggeva Bertrand Russell, gli autori del pragmatismo americano, ma anche Platone, Cartesio e Spinoza. Le davano da pensare pure lo Habermas di Erkenntnis und Interesse, il Jean-Paul Sartre di L’Être et le Néant, il Wittgenstein delle Philosophische Untersuchungen e il pensiero del suo discepolo inglese Peter Guy Winch. Quest’ultimo si è avvalso degli strumenti teorici che Wittgenstein gli offriva per affrontare problemi sociologici, etici e religiosi.7 La giovane Sara richiamava alla mente gli aforismi dell’Ethica di Spinoza per affrontare le contrarietà quotidiane con il distacco che per lei era prerogativa del cultore “disinteressato” della Ragione. In seguito avrebbe letto, e citato, anche Simone Weil e le scrittrici americane che contestavano l’ideologia militarista del suo paese. Avrebbe studiato inoltre l’opera di una delle promotrici del movimento suffragista inglese, Emmeline Pankhurst. Avrebbe letto i libri di Virginia Woolf, citati con significata frequenza nei suoi scritti. Come l’autrice inglese, Sara Ruddick si sarebbe convinta che la donna può condividere con il suo compagno l’amore per la propria nazione, pur considerando il mondo intero come la propria vera patria e condannando gli ideali militaristi dai quali quegli è spesso affascinato.
La filosofa avrebbe letto pure una miriade di racconti e di romanzi la cui protagonista era per lo più una donna che, in condizioni di precarietà e solitudine, lottava per «tirare su» i figli, combattendo contro la povertà, le discriminazioni razziali e i pregiudizi delle upper classes. I racconti prediletti erano quelli di Grace Goodside Paley,8 una delle attiviste più coraggiose nella lotta contro la politica militarista statunitense. Paley aveva sposato un soldato e conosceva bene la mentalità dei militari. Sapeva che troppo spesso la moglie di un soldato rimaneva vedova in giovane età. Come è stato autorevolmente detto, il suo femminismo era intriso di amore e di rabbia.
Si comprende che Grace Paley sia una delle autrici più citate da Sara Ruddick. Entrambe denunciano il carattere imperialista della politica posta in atto dal loro paese che, dopo l’11 settembre 2001, raggiunge il culmine con le campagne militari in Iraq e Afghanistan. L’atteggiamento antimilitarista di Ruddick, nonché la sua fede nel pluralismo culturale e il rispetto delle altre culture e religioni, traggono origine anche, per sua stessa ammissione, dal protestantesimo “ecumenico”9 che ha caratterizzato la sua educazione.
2. Un difficile rapporto con la Ragione: nec tecum nec sine te vivere possum
Negli anni del liceo, Sara era convinta che proprio la Ragione avesse il potere di governare il tumulto delle sue passioni di adolescente, e progettava di scrivere prestigiose opere di filosofia. La Ragione le avrebbe consentito di affermarsi nella vita, evitando il grigiore dell’esperienza di tante moglie e madri che conosceva. Al tempo, non si avvedeva che nell’ideale di Ragione da lei costruito con tanto fervore vi erano dei elementi costitutivi che avrebbero potuto ostacolare l’affermazione della sua fiera identità di donna e di intellettuale. Se ne sarebbe accorta qualche anno più tardi, durante gli studi universitari e il dottorato di ricerca. Il principio di realtà si imponeva alla sua mente piuttosto tardi, ma in modo dirompente, rendendo oltremodo problematico il suo rapporto con una Ragione che le appariva sempre meno degna dell’iniziale maiuscola. Non si era ancora affrancata dalla dipendenza nei suoi confronti, ma il rapporto con essa si faceva sempre più difficile.
Quella Ragione si mostrava ora nei suoi tratti più detestabili dinanzi ai suoi occhi. La filosofia era stata prerogativa quasi esclusiva degli uomini ormai da duemila e cinquecento anni, e si trattava spesso di uomini pervicacemente convinti della fragilità intellettuale delle donne, tra i quali Aristotele, Schopenhauer e Nietzsche. Inoltre, in quanto donna, all’interno dell’università Sara avvertiva talora le forme subdole del dileggio di alcuni studenti e professori nei suoi confronti. Eppure, ella era già una intellettuale che aveva tutti i requisiti per farsi strada nel mondo accademico. Del resto, anche una scienziata di rango e molto stimata da lei, Evelyn Fox Keller, rievocava nei suoi scritti le analoghe difficoltà sperimentate, in quello stesso periodo, nelle relazioni professionali con i colleghi, restii a riconoscere il valore di una ricerca svolta da una donna.10
Allorché Sara Ruddick iniziava a insegnare — negli anni Sessanta — tante idee considerate incrollabili sino allora venivano spazzate dal vento della contestazione studentesca. In realtà, la discriminazione nei confronti delle donne intellettuali era in qualche modo ancora presente, almeno nei colleges universitari un po’ tradizionalisti della East Coast.
La misoginia, da lei ormai accertata, della ragione occidentale induceva l’autrice a cercare altre “ragioni” per vivere. Aveva sognato di schivare il destino di moglie e madre, e ora si innamorava di un uomo, si sposava e metteva al mondo due figli. Ricorda:
Come innamorata, madre, cittadina la Ragione mi stava abbandonando. Nel modo in cui era stata idealizzata dalla filosofia occidentale, la Ragione doveva necessariamente essere distaccata e impersonale, del tutto estranea ad affetti o lealtà particolari. Io, invece, avevo bisogno di agire in base alla passione e di rispondere all’amore. Idealmente, la Ragione giustificava il predominio e, allo stesso tempo, trascendeva gli usi politici verso i quali veniva indirizzata; avevo bisogno di affrontare l’aspetto politico, sessuale e sociale della Ragione, per poter parlare ai miei figli con dignità e rispetto di me stessa.11
Tuttavia, per alcuni anni la filosofa continuò a tenere nettamente separata l’attività intellettuale dall’esperienza di madre, nella quale da adolescente aveva visto solo l’origine di un coacervo di passioni “irrazionali”. Con il passare del tempo, e in virtù dell’esperienza personale, la maternità cominciava ad apparirle in modo più realistico. Ormai era in grado di percepire la complessità di una condizione che generava non solo passioni, ma anche «affetti e lealtà» che arricchivano il suo mondo interiore ed erano fonte di un impegno ineludibile. L’affrancamento dall’odiosamata Ragione astratta, l’inizio di una nuova storia d’amore con un’altra ragione, che si sarebbe rivelata la sua migliore alleata, e la serena accettazione della condizione di madre esigevano un radicale ripensamento del suo rapporto con la filosofia e, d’altra parte, una rivalutazione della sua esperienza quotidiana. La giovane disponeva degli strumenti concettuali nonché della consapevolezza delle responsabilità familiari che le occorrevano per intraprendere quel ripensamento e quella rivalutazione.
Gli strumenti concettuali per riflettere sul compito e i limiti della ragione le erano offerti soprattutto dal pragmatismo12 di area anglosassone che aveva esercitato un influsso preminente sulla sua formazione filosofica. Per il pragmatismo, ogni forma di pensiero scaturisce da una prassi, ovvero da un agire qualificato, sul piano strumentale o morale, in quanto volto alla realizzazione di interessi o valori riconosciuti socialmente.
In conformità ai principi teorici di tale filosofia, l’autrice afferma che in ogni tipologia di prassi la forma di pensiero ad essa correlata rinviene proprio nella prassi i problemi da elaborare teoricamente, il proprio campo di applicazione e la propria convalida. Da prassi diverse sorgono pertanto problemi, metodi di conoscenza e criteri di verità differenti.13 Ancora, poiché la teoria dipende dalla practice, ogni forma di pensiero è intrinsecamente sociale, come la prassi stessa: i concetti che adopera, i suoi metodi e i fini sono socialmente condivisibili. Pure il linguaggio in cui il pensiero si esprime si sottopone a regole condivise socialmente se intende assumere un senso e veicolare così una verità che possa essere passata al vaglio della prassi. È appena il caso di aggiungere che un pensiero così connotato è sempre consapevole dei suoi presupposti nonché dell’ambito circoscritto della sua validità, e aspira a conseguire la massima concretezza. Il maternal thinking di Sara Ruddick rivendica tale carattere. Si tratta di una rivendicazione legittima, in quanto esso sorge dall’attenzione al concretissimum che è la vita stessa, e in particolare la vita infantile nel suo rapporto con il mondo degli adulti. Il pensiero materno si interroga su mille problemi, e proprio il loro carattere cogente, incalzante, non le permette di dubitare che il suo continuo interrogarsi abbia un senso. È appena il caso di dire che una sana scepsi va invece posta in atto con riguardo alla congruenza delle diverse modalità con le quali quei problemi vanno risolti.
Così, dinanzi a un bambino preoccupato, triste o in preda alla paura, una madre può cercare di rasserenarlo, senza bisogno di pensarvi molto, facendo ciò che le detta «l’istinto materno». Allora lo prende in braccio, gli parla, oppure trova un altro modo per calmarlo. Tuttavia, se il piccolo prova quei sentimenti con una frequenza ben maggiore rispetto ai coetanei, la stessa madre deve riflettere per individuare il disagio all’origine di quegli stati d’animo, e il modo in cui tentare di aiutarlo a superarlo. Questa riflessione è già pensiero materno. In effetti, essa sorge all’interno alla prassi costituita da una forma di cura, è suscitata da un sentimento negativo (la preoccupazione dì una donna dinanzi a un disagio del figlio) il quale è indice di un problema che «dà a pensare». Dalla riflessione può emergere un’ipotesi di soluzione che viene posta in atto rimodulando la prassi materna. Se così il piccolo supera il suo disagio, l’ipotesi era valida, altrimenti bisognerà pensare un’altra forma di intervento, sperando che si riveli efficace. Il pensiero materno, a partire da un problema sorto da una prassi, elabora una ipotesi risolutiva e la mette alla prova in quella stessa prassi. Sul piano epistemologico, si può affermare quindi che esso adotti il principio di verificazione.
Il pensiero materno non si chiede quale senso o scopo abbia l’infanzia per la vita umana. A giudizio di Sara Ruddick, «semplicemente, lo scopo, l’essenza dell’infanzia si esprime dentro di essa, non fuori di essa».14 Qui l’autrice richiama alla mente del lettore un’affermazione di Benedetto Croce, la quale si riferisce comunque non all’infanzia ma alla vita umana nel suo complesso. Per il filosofo, non si può cercare il senso della vita al di là di essa: per lui, «il senso della vita è la vita stessa».
Nell’ampia sezione finale del libro, l’autrice si avvale di diverse argomentazioni per porre in luce la rilevanza del pensiero materno nella sfera pubblica, in quanto esso può valere da istanza di promozione della pace tra i popoli. Il pensiero materno serve la vita, e la vita può prosperare solo allorché è accolta e protetta in un mondo pacificato. Ogni donna spera che il figlio possa vivere in un paese ove la guerra è un lontano ricordo e che non sia mai chiamato alle armi.
La promozione della pace esige una continua lotta volta a riformare le istituzioni politiche, nazionali e sovranazionali, nonché le strategie di politica internazionale. Il pensiero materno deve innanzitutto prendere atto che gran parte delle donne ha poco potere al di fuori della cerchia familiare, ed intende ispirare una prassi il cui fine sia il riconoscimento di un loro maggiore potere nella sfera pubblica. Gruppi sempre più ampi di madri che svolgono funzioni importanti in tale sfera possono contribuire a riformare le istituzioni per renderle idonee a rispondere alle esigenze vitali delle donne e dei loro figli. Quei gruppi possono anche suscitare nell’opinione pubblica un crescente interesse riguardo all’esigenza di prevenire le guerre ricorrendo ad altre modalità di superamento dei conflitti tra le nazioni. La posta in gioco è la qualità della vita, soprattutto quella delle persone più fragili, come i bambini. Si tratta della vita che la madre protegge.
Se si considera il pensiero materno in quanto riflessione sui problemi attinenti alla cura parentale, esso sembra uno spin-off dell’etica della cura e del pensiero femminista. Allorché si prende in esame la riflessione che esso svolge su temi di rilevanza pubblica tale pensiero appare tributario non solo del movimento femminista ma anche di varie declinazioni del pensiero non violento, le quali elaborano strategie, come la resistenza non violenta all’oppressione, le campagne volte a sensibilizzare l’opinione pubblica su temi attinenti alla pace, il boicottaggio. In effetti, le diverse argomentazioni di cui si avvale Sara Ruddick per evidenziare la possibile rilevanza politica del maternal thinking sono attinte per lo più dal pensiero femminista e dallo studio dei metodi di resistenza non violenta adottati da Gandhi e da Martin Luther King. Qui non intendo prendere in considerazione questo aspetto del pensiero materno, sebbene sia estremamente importante nelle intenzioni dell’autrice e appaia anche allo scrivente di grande interesse. Esso può peraltro costituire l’oggetto di un altro studio, così come la seconda sezione del libro, intitolata “Il lavoro di cura”. Qui prendo in esame quasi esclusivamente la prima sezione del libro, dal titolo “Riflessioni sul pensiero delle madri”.15
3. La cura materna
Sara Ruddick osserva che le «passioni della maternità»16 sono talora così intense e pervasive da precludere a molte donne ogni forma di riflessione e quindi l’accesso al pensiero materno. Quando l’autrice comincia a disporre di più tempo per riflettere sulla sua stessa cura di madre, poiché i figli sono cresciuti e le esigenze di quella cura si rendono meno cogenti, ha la possibilità di pensare a fondo i problemi attinenti ad essa e di parlare con altre donne del senso della sua esperienza. Osserva anche il comportamento di altre madri, ed è convinta di potere intuire ciò che lo ispira. Ella si considera pertanto «un’osservatrice-partecipante del pensiero materno»,17 la cui elaborazione deve molto anche allo studio del movimento femminista.
L’autrice raggiunge la maturità umana e intellettuale allorché comprende che la cura materna è, in senso pieno, una prassi, ed è peraltro molto più importante di altre, poiché è al centro della vita della donna e la sua qualità segna la vita di ogni figlio. Questa attività di cura, come ogni altra, costituisce quindi legittimamente l’origine di una forma di pensiero. Del resto, lo aveva letto nei testi dei maestri del pragmatismo e, in un linguaggio diverso, lo riscontra pure negli scritti di Wittgenstein e di Habermas («Tutto il pensiero, mi sembrava che fosse stato il loro insegnamento, nasce e viene plasmato dalle attività nelle quali le persone sono impegnate»).18
La practice materna, che ricorre al pensiero per risolvere i più svariati problemi manifestatisi nel suo svolgersi, per Sara Ruddick affina anche la capacità di addurre valide argomentazioni a ciò che la donna afferma anche all’interno dell’attività professionale. Questa pratica «inizia come risposta alla realtà di un figlio biologico in un particolare contesto sociale. Essere “madre” significa assumere su di sé la responsabilità della protezione e della cura di un figlio, facendo di tale ‘lavoro’ una parte regolare e considerevole della propria vita».19 Il riferimento al «figlio biologico» va interpretato alla luce della riflessione dell’autrice considerata nel suo complesso. Ella ritiene che la maternità biologica sia solo uno dei possibili punti di avvio della prassi materna, ancorché sia il più frequente. Ha la stessa dignità quale fonte di pensiero materno anche la prassi della madre adottiva, del padre che si prende cura del bambino in maniera continuativa, e persino di qualsivoglia persona — uomo o donna — che presti con costanza cure amorevoli a un bimbo non suo.
L’autrice precisa che, sebbene in ogni società esistano figli, non si può dire che si affermi dappertutto un’autentica cura materna. D’altronde, secondo autorevoli studiosi, in alcune società del passato era ritenuto normale che i genitori si limitassero a provvedere alla sopravvivenza dei figli che, inoltre, talora erano maltrattati e sfruttati. Se tali società sono esistite, è plausibile ritenere che siano state tra le più violente della storia. E, ancora nel Novecento, l’antropologia culturale ha rilevato che presso alcune popolazioni non sono gli adulti ad accudire bambini, i quali vengono affidati invece a ragazzi o adolescenti. Per lo più, costoro non rinunciano ai divertimenti propri della loro età per prendersi cura dei piccoli — né avrebbero la maturità per farlo — e spesso li maltrattano e li scherniscono. Non vi è alcuna difficoltà a credere che presso tali popolazioni la conflittualità tra gli adulti sia molto elevata.
Dopo la conversione dal culto di una Ragione ipostatizzata all’esercizio di un pensare che conosce «le ragioni del cuore», l’autrice è convinta che ogni argomentazione la quale non faccia appello all’amore è «peggiore dell’assenza di qualsiasi argomentazione».20 È altrettanto convinta che nessuno le potrà sottrarre il piacere insito in un pensare che si rinnova ogni giorno, che pertanto è un thinking piuttosto che un thought. Ora ella deve onorare la ragione un modo tutt’altro che “distaccato”, nello scoprire il valore prioritario che essa può realizzare: la difesa e la promozione della vita umana, soprattutto della più vulnerabile. La parola “vulnerabilità” ricorre con significativa frequenza nelle pagine di Sara Ruddick, come nelle opere delle altre promotrici dell’etica della cura e di Martha Nussbaum.
Con il trascorrere degli anni, la militanza intellettuale dell’autrice è sempre più fortemente animata dall’intento di rendere consapevoli le donne — e anche gli uomini impegnati in relazioni di cura — che il pensiero materno fa già parte della loro vita, oppure può farne parte e così trasformarla nel profondo. Coerente sostenitrice del pluralismo, la filosofa sollecita ogni persona che la legge o l’ascolta ed è impegnata nella cura parentale a elaborare il proprio pensiero materno, che saprà promuovere a suo modo la vita umana nei più svariati contesti culturali. Ella ritiene che, in virtù della confluenza di svariati contributi, il pensiero materno possa anche assurgere ad autonoma «disciplina filosofica».
Il lettore può legittimamente chiedersi se il pensiero materno, oltre al libro di Sara Ruddìck, abbia già ispirato opere filosofiche di rilievo. A giudizio dello scrivente, tra le autrici che, consapevolmente o no, hanno apportato un importante contributo ad esso vanno senz’altro menzionate Adrienne Rich ed Eva Feder Kittay.21 Rich pubblica Of Woman Born tredici anni prima che Ruddick consegni alle stampe il suo libro più noto. La sua riflessione è intrisa di amore e di rabbia, come l’opera di Grace Paley. Si può dire che Adrienne Rich contribuisca ante litteram al pensiero materno con un lavoro preparatorio, nel denunciare le condizioni oppressive nelle quali si svolge la cura materna, che si deve ancora conformare alle esigenze della “istituzione” che la cultura patriarcale denomina “maternità”. Tali condizioni possono precludere alla madre l’esercizio di una serena vita intellettuale e pertanto l’elaborazione di un pensiero che prenda avvio dalla sua esperienza e possa avere una sua dignità teoretica. Il superamento dell’istituzione materna di impronta patriarcale è quindi per l’autrice precondizione dell’affermarsi di un pensiero che presenti tali caratteri.
Da parte sua, Eva Feder Kittay, allorché scrive il libro Love’s Labor conosce da tempo il maternal thinking e ritiene di contribuirvi in modo significativo. In quanto madre di una bambina disabile, il suo pensiero presenta caratteri peculiari. Esso scaturisce da una esperienza difficilmente concettualizzabile e che non può essere integralmente ricondotta alla cura materna rivolta a un figlio sano.
Analogamente a Eva Feder Kittay, Sara Ruddick riconosce pure che la cura materna — analogamente a molte altre — comporta gli aspetti propri di un labor (o labour). Questa parola ha un campo semantico alquanto vasto, in quanto può significare lavoro, ma più spesso fatica, sforzo, pena. E può anche significare cura, intesa non solo quale sollecitudine ma anche come preoccupazione. Opportunamente, il titolo del libro di Kittay Love’s Labor è stato tradotto La cura dell’amore. Sebbene in inglese il diastema semantico tra practice e labor sia più ampio di quello che riscontriamo tra prassi e lavoro, la care comprende al suo interno sia una practice sia un labor.
Si è detto che labor è anche fatica e sforzo. È evidente che l’una e l’altro sono presenti nella cura materna. Si pensi agli aspetti più “materiali”, ripetitivi, logoranti, e apparentemente non molto significativi sul piano morale, dei compiti svolti da una madre: cucinare, pulire, riordinare ciò che altri scompigliano in modo mirabile ad ogni gesto che compiono. Non si tratta solo di «faccende domestiche» ma di compiti ascrivibili alla cura materna: sono svolti con l’intento di rendere la casa il luogo più ospitale del mondo per tutta la famiglia. Molti di questi compiti si possono compendiare nel lemma “rigovernare”, una parola che rende ragione della loro importanza.22 Procedendo oltre il detto delle autrici appena menzionate, e ridestato grazie a loro da un «sonno dogmatico» durato troppo a lungo, il lettore è indotto a chiedersi: «Perché a una persona capace di rigovernare con tale sapienza e naturalezza, “riorganizzando” in modo decoroso lo spazio domestico, è ancora così spesso preclusa la possibilità di rigovernare e governare lo spazio pubblico? ». In questo, ancora più che tra le mura domestiche, si avverte drammaticamente il bisogno di menti e di mani che sappiano, prima ancora che governare, “rigovernare” uno spazio oltremodo dis-ordinato da scelte amministrative e politiche dissennate, sinora compiute quasi sempre dagli uomini, ovvero da quella parte dell’umanità che si rivela sempre meno capace di governare e rigovernare lo spazio in cui tutti, uomini e donne, vivono.
Anche Sara Ruddick adopera talora l’espressione «lavoro materno». Si è detto che pure i compiti più modesti compresi in tale lavoro sono riconducibili alla cura. Pertanto, a quanto osserva l’autrice si può aggiungere che i problemi legati al loro svolgimento possono promuovere una forma “minore” del pensiero materno, non fosse altro che per conseguire i loro umili obiettivi con il minore dispendio di energia fisica e di risorse economiche. Si tratterebbe in tale caso di un pensiero calcolante, eminentemente ergonomico.23
È evidente che il pensiero materno nella sua accezione più elevata riflette su problemi molto più seri di quelli appena richiamati, e che sorgono soprattutto nel rapporto con i figli. Una madre deve continuamente decidere se accondiscendere o no alle loro più diverse richieste. Sara Ruddick ritiene che una madre responsabile deve comunque corrispondere a tre richieste fondamentali: la protezione dei figli (quella preminente e più agevolmente riconosciuta),24 la loro crescita, ovvero la promozione del processo che li condurrà alla maturità biologica, e l’educazione. Quest’ultima è volta a rendere i figli persone in grado di comportarsi adeguatamente all’interno della società e quindi di esservi accettati.25 La madre dovrà lottare, con se stessa, i suoi figli, gli altri esseri umani e le istituzioni, per realizzare il suo triplice compito di cura. Questo non è eroismo: «È semplicemente essere madre».26
4. L’amore protettivo nella cura materna
La cura materna, e segnatamente la protezione che vi è insita, implica il riconoscimento della vulnerabilità del figlio, ma esso non basta affinché la madre se ne prenda cura. A tale fine, è necessario che la madre riconosca la vulnerabilità come qualcosa di «socialmente significativo e come richiesta di cure»27 rivolta a lei, e ponga la scelta di proteggere un essere così vulnerabile al centro della propria vita morale.
La protezione del figlio assume una preminenza ancora più netta sugli altri compiti della cura materna se quegli è affetto da una malattia grave e permanente. Lo sa per esperienza Eva Feder Kittay, madre di un bambina cerebrolesa, Sesha, che ella ha accolto con amore. Lettrice di Ruddick, Kittay afferma che la sua esperienza è all’origine di «pensiero materno con una differenza»,28 quella significativa differenza che sorge dal di più di amore e di cura che un bambino disabile richiede ai genitori.
Per ogni madre, all’efficacia dell’amore protettivo concorrono il «sentimento vagliato dal pensiero, il pensiero animato dalla passione e le azioni protettive» stesse».29 Per ricorrere a delle espressioni care a María Zambrano — che pure non ha vissuto l’esperienza della maternità — si può affermare che proprio nella madre è sempre all’opera una «ragione appassionata», mentre il sentimento chiede al pensiero di essere rischiarato, affinché possa essere vinto «l’ermetismo della vita profonda»30 che, a suo giudizio, segna la vita di tanti esseri umani, soprattutto nel Novecento. La madre che fa di tutto per proteggere il figlio, se è lasciata sola dai familiari e deve risolvere senza indugio un problema che minaccia la salute del piccolo, può convincersi di essere incapace a corrispondere a tale responsabilità, e può concepire, almeno per un attimo, sentimenti fortemente aggressivi nei suoi confronti, che talora pone in atto.31 Può persino sentirsi “assalita” dall’idea di ucciderlo. L’autrice rievoca l’esperienza di una madre che ha vissuto questa esperienza, ma ha trovato in se stessa la forza di reagire e salvato la sua bambina. L’ha, anzi, protetta con la massima attenzione. Quella madre deve vincere i sensi di colpa: ciò che conta è quanto ha compiuto per proteggere la bimba, non l’idea che ha concepito in un momento di angoscia.
Inoltre, la consapevolezza di non potere mai porre al riparo il suo piccolo da ogni rischio può suscitare nella madre l’umiltà che Sara Ruddick, richiamandosi alla filosofa irlandese Jean Iris Murdoch, considera «una sorta di atteggiamento metafisico».32 Sorprende che l’autrice per qualificare l’umiltà ricorra all’aggettivo “metafisico”. In realtà, la sua familiarità con Spinoza vale a contrastare in lei lo scetticismo verso la metafisica ascrivibile alla sua formazione filosofica segnata dal pragmatismo. In un altro passo, la filosofa parla comunque dell’umiltà anche come virtù particolarmente ardua, e che nelle madri può degenerare in passività. Cita ancora Iris Murdoch allorché scrive che l’umiltà è «il rispetto altruistico della realtà»,33 proprio di chi cerca di conseguire il controllo della realtà necessario per proteggere la vita vulnerabile, nella consapevolezza di agire in un mondo che resiste comunque al tentativo di dominio da parte dell’essere umano. La protezione e il sostegno offerti dalla madre alle forme di vita più vulnerabili sono sollecitati in lei dall’esercizio della protezione parentale e vengono compendiati dall’autrice nella parola contenimento34. La sfera della protezione si amplia, dalla tutela del figlio a quella di ogni vita vulnerabile e del mondo stesso, ai nostri giorni quanto mai vulnerabile. Nelle parole di Adrienne Rich, richiamate da Ruddick, tale protezione aspira così a «rappezzare il mondo».35
Se l’umiltà propria del contenimento in parola è una virtù, la serenità è un’altra virtù, nonché una condizione dell’anima alla quale può aspirare la madre intenta a proteggere i figli. L’autrice osserva con ammirazione che talora, nelle situazioni più difficili, le madri dimostrano «il coraggio della serenità» che è «un atto straordinario ed eccezionale»,36 mentre al di fuori di tali situazioni la serenità non rivela nulla di straordinario, ma è una forza calma che può diventare un habitus il quale, per Spinoza, «Aumenta e rinforza il potere dell’azione».37
Nello svolgimento del compito di protezione, la madre è indotta anche a riflettere sul concetto di natura e naturale. Deve proteggere nella sua integrità la natura del figlio che si manifesta in quei caratteri somatici come in quei tratti psichici che non appaiono riconducibili ai condizionamenti ambientali. Sara Ruddick osserva: «Nell’amore protettivo, naturale è ciò che è, al di là e prima di qualsiasi giudizio morale, ciò che è dato»,38 come il corpo stesso del figlio. Talvolta la madre comprende che deve «lasciare fare la natura». Ciò vale, ad esempio, se il bambino la impegna con la sua spiccata vivacità: se questa non conduce a situazioni di rischio ella deve astenersi da ogni intervento invasivo che reprima quella vivacità. In sintesi, si può affermare «che le madri “patteggino” con la natura nell’interesse dell’amore».39 .
“Naturale” non significa immodificabile, e il pensiero materno può escogitare delle strategie per indirizzarne l’evoluzione nella direzione più desiderabile. Ad esempio, se della natura del bambino fa parte un assetto neuroendocrino tale da indurre una marcata tendenza al sovrappeso, nulla esclude che la madre, educandolo a una alimentazione equilibrata ed esortandolo a una congrua attività fisica, possa riuscire ad approssimare alla norma il suo peso. In sintesi, si può affermare che il rapporto del pensiero materno con la natura è ambivalente: talvolta questa va assecondata, talaltra bisogna lottare con essa.40 Come era lecito attendersi, l’autrice precisa che l’intensità peculiare del rapporto della donna con la natura non può indurre a ritenere che, rispetto all’uomo, ella sia più vicina alla natura e più lontana dalla cultura.41 Anche la gravidanza è un processo naturale, ma il modo in cui la vivono le donne è fortemente condizionato dalla cultura di appartenenza.
Il lettore si può chiedere se per Sara Ruddick la cura parentale, oltre a connotare in modo peculiare la nozione di natura, possa indurre la madre a concepire una realtà oltre la natura. Al riguardo, l’autrice non risponde in modo chiaro. In effetti, ella afferma che il vivere accanto al proprio bambino, il percepire il suo incantato stupore dinanzi ai fenomeni naturali, può indurre nella madre «un sentimento molto simile a un rispetto religioso per la natura».42 Non si coglie neppure qui il rimando a una «sovranatura», semmai la plausibilità di un sentimento che, in fondo, esprime il rapporto inscindibile dell’essere umano con la natura tutta, la religatio nei suoi confronti, se è lecito ricorrere a una parola propria del pensiero maturo di Xavier Zubiri. Non va sottaciuto, comunque, che per il filosofo spagnolo la religatio designa il rapporto dell’uomo non con la natura, ma con il potere di quella realtà prima e ultima che è e “oltre” l’essere e la natura.
Sempre l’amore protettivo nei confronti dei figli potenzia le facoltà cognitive della donna, nella quale si afferma «l’abilità di discernere i problemi più vicini pensando contemporaneamente ai quelli più lontani».43 Si tratta di una facoltà che al lettore appare simile a quella che è denominata dagli psicoanalisti «attenzione fluttuante». La madre può dunque pensare ai problemi più lontani anche quando pensa ad organizzare la festa per il compleanno del bambino. Anche qui sembra profilarsi l’ampliamento del pensiero materno che lo può indurre ad assumere una rilevanza politica. Se si aggiunge che la madre “discerne” i problemi più vicini non per amore della speculazione pura, ma in vista dell’agire che li possa risolvere, e pensa al contempo ai problemi lontani, l’affermazione dell’autrice richiama alla mente la nota espressione «pensare globalmente, agire localmente». Questa può fungere da ideale regolativo di molte azioni significative sul piano etico, sebbene sia ormai logorata dal suo onnipervasivo impiego quale motto programmatico di una miriade di istituzioni, iniziative umanitarie, movimenti politici e associazioni di volontariato. È quasi superfluo dire la capacità riconosciuta da Sara Ruddick alle madri — e che, a dire il vero, si riscontra talora anche nelle nullipare — le espone al rischio di assumere un carico di impegni molto gravoso, che a lungo andare può comportare rischi per la salute. Le neuroscienze, nel porre in rilievo che i pattern di attivazione del cervello femminile attestano la capacità di svolgere più compiti allo stesso tempo che è propria di un essere multitasking, confermano un truismo che troppo spesso ha reso la donna particolarmente esposta al rischio di essere sfruttata in ambito lavorativo, domestico e professionale.
Per quanto attiene al secondo compito della cura, ovvero alla crescita, l’autrice osserva che presso alcune culture si ritiene che essa sia un processo che «va da sé» allorché la cura parentale assicuri al bambino un’adeguata protezione dai pericoli. In realtà, per tutti i bambini e all’interno di tutte le culture, la crescita è un processo complesso, tale da costituire un compito estremamente arduo per il pensiero materno. Se è vero che molteplici figure significative contribuiscono alla crescita stessa, proprio la madre ne è ritenuta generalmente la principale responsabile. Quanto al terzo compito, ovvero all’educazione, esso si può avvalere di molteplici strategie, «persuasive, manipolative, formative, costrittive, lusingatrici o basate sul rispetto, e di solito avviene che siano un misto di tutto questo».44 È appena il caso di dire che le varie culture ascrivono i fini più diversi all’educazione.45
Allorché le madri parlano animatamente tra loro, spesso discutono proprio delle strategie educative adottate nei confronti dei figli, e ognuna cerca nell’altra una conferma o la proposta di un correttivo alla propria strategia. Anche questo fa parte del carattere sociale della prassi e del pensiero materni. Ogni madre esprime in tale contesto i suoi dubbi circa la sua eccessiva o scarsa protezione, la validità educativa della sua accondiscendenza o della sua fermezza, la sua fiducia che tutto vada per il meglio senza il suo intervento oppure la convinzione che un intervento sia necessario sempre e comunque. Tranne qualche caso raro, e inquietante, le madri di questo mondo riflettono — qui il riflettere è come un «flettere lo sguardo all’indietro» — su quanto hanno compiuto oppure omesso, e avvertono allora di non di avere fatto sempre ciò che rispondeva meglio al bene dei figli. Spesso l’esperienza e il dialogo con altre madri le induce a ripensare il concetto stesso di successo e di fallimento, a metabolizzare nel modo più proficuo e meno angosciante la consapevolezza di un fallimento che fa parte dei rischi insiti nel loro compito oppure a ridimensionare l’entusiasmo di un successo: probabilmente anche un’altra madre lo avrebbe conseguito, e forse anche in modo più convincente. Il pensiero materno procede, come tante faccende umane, for trials and errors. Solo la persona che è partecipe di tale pensiero può legittimamente valutare la prassi materna di un’altra. Essa, come ogni altra prassi, non può essere giudicata dalla visuale propria di un homo spectator. Alla luce di quanto si è detto, si comprende come qui anche la critica non sia solo un’espressione verbale ma pure una forma dell’agire. Sara Ruddick osserva:
Questa valutazione ha un fondamento morale. Chi non si è mai impegnato in una determinata pratica, o non è mai stato veramente vicino a qualcuno che la svolga, non ha alcun diritto alla critica: sebbene questa affermazione possa essere rivendicata rispetto a qualsiasi disciplina, è particolarmente appropriata a chi mette in pratica il pensiero materno […] Le madri dotate di mente speculativa sono solo all’inizio dell’impresa di definizione dei precetti di un pensiero la cui esistenza non è ancora pienamente riconosciuta dagli altri filosofi.46
Il pensiero materno, misconosciuto da tali filosofi, «non è affatto una rarità: è lo stesso lavoro materno che impone alle madri di pensare»,47 di confrontare metodi e scelte, di valutare successi e fallimenti, di rimodulare obiettivi congrui alle capacità, vieppiù complesse e meno perspicue, dei figli. Come ogni pensiero, esso segue un metodo, fa esperienza dei propri errori e può intraprendere nuovi percorsi. La donna non è solo madre, ma anche moglie, professionista, componente attiva della vita sociale. Ognuna di queste condizioni promuove l’affermarsi di una peculiare forma di pensiero ed è possibile che attitudini e metodi maturati all’interno di una di esse possono rivelarsi proficui per le altre. Forse proprio dalle correlazioni che si istaurano tra ognuna di queste forme di pensiero emerge la vita della mente.
5. I drammi della madre «abbastanza buona»
Sara Ruddick non intende idealizzare le madri, né i loro compiti, sebbene talora le intellettuali femministe glielo rimproverino. La sua attenzione, come quella del pediatra e psicoanalista inglese Donald Woods Winnicott, si rivolge soprattutto alla good enough mother. A differenza di tanti psicoanalisti, critici più o meno implacabili delle madri, lo scienziato inglese ha una grande stima per ogni donna che accoglie con gioia il suo bambino. A suo giudizio, costei ha ben poco bisogno dei consigli del pediatra riguardo al modo di soddisfare le esigenze del piccolo. A tale fine, spesso basta che ella lo sappia tenere amorevolmente nelle proprie braccia, impari il giusto modo di “tenerlo” e “contenerlo”, ovvero la capacità che lo stesso Winnicott denomina holding. Forse in tale modo, il clinico inglese lancia qualche strale ironico nei confronti della tendenza di tante madri, così spiccata nel mondo anglosassone, a prestare la più grande fiducia anche ai più irrilevanti consigli dei pediatri e dei manuali di puericultura.
Tuttavia, la madre «abbastanza buona», per lo più non conosce Winnicott e non può quindi essere confortata dalla stima che egli ripone nei suoi confronti. È indotta quotidianamente a riflettere sulla sua identità e, sul suo effettivo potere, dalle difficoltà che incontra nello svolgimento della sua cura infungibile. Esercita legittimamente un potere nei confronti dei suoi piccoli, eppure, come si è accennato, non ha quasi alcun potere nella sfera pubblica («La madre è una donna senza potere alla quale, però, è riconosciuto un potere, spesso esagerato almeno quanto temuto»).48 Forse il potere che la società le riconosce nei confronti dei figli è il massimo che essa sia stata disposta sinora a concederle. E non si tratta di una concessione gratis et amore Dei: questo potere ha un prezzo molto caro.
Talvolta, la madre sente di approssimarsi pericolosamente a una incarnazione dell’ideale negativo costituito dalla Cattiva Madre, la “Mammina” (Mom) ,49 sulla quale convergono gli strali sarcastici di molti educatori e psichiatri statunitensi. È, questa, la madre iperprotettiva, ben presente in ogni paese occidentale, e segnatamente nella cultura mediterranea. Se il soldato americano arruolato nella Seconda Guerra Mondiale si dimostra incapace di combattere, nessuno dubita che la sua vigliaccheria sia tutta colpa di Mom. E meno di tutti ne dubita il prestigioso psichiatra militare Edward Adam Strecker. Trascorrono alcuni anni, quella guerra è ormai alle spalle, la guerra del Vietnam è di là da venire, e nessuno si ricorda più di Strecker. Entra in scena il dottor Benjamin Spock, il quale diventa il più potente opinion maker di milioni di mamme americane. Se costoro seguono i suoi consigli e si dimostrano alquanto permissive nei confronti dei loro figli, ancora loro, forse ancor più del dottor Spock, saranno ritenute le colpevoli dell’indisciplina dei loro pargoli.
Agli occhi dei bambini più piccoli la madre è una persona dai poteri straordinari, talora più del padre, con buona pace di Freud. Si tratta comunque di un potere che va gradualmente erodendosi con la crescita dei figli. D’altra parte, ella sperimenta troppo spesso la sua mancanza di effettivo potere nei confronti di educatori, insegnanti e medici, i quali spesso credono di sapere meglio di lei qual è il bene di suo figlio. Allorché i familiari e i conoscenti — non meno di molti psicoanalisti — le addossano la responsabilità dei difetti caratteriali del figlio «il lavoro materno diviene una identità che consuma».50 Si tratta di un labor, in tale caso di una pena, che talora prevale su ogni aspetto meno ingrato della cura. In tutte le difficoltà, comunque a sostenere la madre è un «amore fiero e appassionato, non sminuito dall’ambivalenza e dalla collera spesso presenti». L’autrice aggiunge che la competenza fondamentale della madre è «potere e volere […] amare e prendersi cura dei propri figli».51
La filosofa parla di «amore materno» soprattutto quando riflette sulla cura volta alla protezione dei figli. Si può legittimamente ritenere che non tutte le sue lettrici femministe abbiano apprezzato questa terminologia. All’interno di una parte non trascurabile della cultura femminista egemone al tempo in cui scrive Sara Ruddick, si ritiene che l’amore materno abbia un fragile fondamento psicobiologico e sia in gran parte un «costrutto culturale» dalle forme estremamente mutevoli. Questa tesi è proposta nella sua forma più radicale dalla francese Élizabeth Badinter,52 che la filosofa stima e cita nel suo libro, pur non condividendo integralmente le sue affermazioni.
L’amore materno si manifesta comunque — sia a coloro che lo ritengono radicato nella biologia sia a quanti vi ravvisano un prodotto della cultura — tutt’altro che scevro di ambiguità. La «coscienza amorosa»53 della madre è un immane “contenitore” che nei diversi momenti della giornata accoglie un’amplissima gamma di sentimenti contrastanti, dalla gioia sino all’“odio” nei confronti dei figli,54 allorché le loro continue richieste le sottraggono le migliori energie. Una parte importante del pensiero materno è la riflessione su tali sentimenti, che pertanto sono per esso «strumenti di lavoro».55 Al riguardo, ascoltare le conversazioni tra le madri è altrettanto istruttivo della lettura di un libro come Of Woman Born di Adrienne Rich. E anche quando non conversa con altre donne, nell’esercizio della sua cura, la madre si sente sorretta dalla comunità di coloro che, come lei, sperimentano «l’infelicità nella vita comune, e quindi comunemente felice, degli essere umani».56
Sebbene la madre sia messa sotto accusa per ogni mancanza dei suoi piccoli, la complessità del suo compito non gode neppure di una grande considerazione da parte di molti. Secondo un sondaggio che l’autrice riporta (come altre filosofe della ethics of care), gli statunitensi ritengono che i compiti della madre adottiva richiedano poche competenze e abilità specifiche, persino minori di quelle che bastano al «raccoglitore e inscatolatore di frattaglie di pollo».57 Eppure, una certa abilità dovrebbe essere riconosciute alle madri, se è vero che esse svolgono compiti che le conducono dappertutto («Le madri sono ovunque, e quasi dappertutto esse vengono a conoscere quel disprezzo di cui parla Louise Kapp Howe, e i limiti della propria autorità sui figli»).58 Nella loro cura, peraltro, rientra l’arduo compito di fungere da «mediatrice della realtà» nei confronti dei bambini: è la madre a qualificare dinanzi a loro ogni evento, in quanto gioioso, fausto, sorprendente oppure angosciante, tormentoso. I bambini imparano anche così dare il nome giusto a ogni sentimento che provano, acquisiscono una capacità che è precondizione di quella futura «competenza emotiva» che sarà comunque preziosa per loro, anche se da grandi trascorreranno gran parte della giornata a raccogliere e inscatolare frattaglie di pollo.
6. Lavoro procreativo e cura materna: le ragioni di una distinzione
Si è detto della coesistenza di potere e impotenza nella vita della madre. Il potere più esclusivo della donna è quella di procreare. Anche al riguardo, tuttavia, l’autrice rileva la dialettica tra il potere e il non potere della donna. Inoltre, la gestante vive una condizione che la rende alquanto vulnerabile, esposta a diversi rischi e spesso bisognosa di cure. In quanto capace di procreare, ella è soggetta al controllo e al potere maschile, resi ancora più invasivi dal progresso medico.
Almeno per quanto riguarda il concepimento e la gestazione «l’anatomia è destino», come già scriveva Freud: qui il corpo femminile è infungibile. Sara Ruddick dedica alcune pagine di Maternal Thinking alla gestazione, ma a suo giudizio — forse non ben meditato — essa non comporta una vera cura materna e pertanto non è fonte di elaborazione di un pensiero materno. In tale prospettiva, la gestazione è, al più, un «lavoro materno». Esso è legato al sesso femminile, come la nascita e l’allattamento,59 mentre la cura materna, come si è detto, per l’autrice non è lo, in quanto può essere svolta anche da un uomo. Secondo la filosofa, questi prova una segreta invidia per il «lavoro procreativo»60 che gli è precluso.
Sara Ruddick precisa che, in virtù della distinzione tra cura materna e lavoro procreativo, ogni madre è madre “adottiva”. La cura non scaturisce da una coercizione né da una pulsione biologica. Non è scontato pertanto che la madre si prenda cura del neonato, sebbene nella stragrande maggioranza dei casi lo faccia. Allorché accoglie con gioia il figlio nelle sue braccia ella lo “adotta” e si impegna a svolgere i compiti compresi nella cura materna.
Tra la gestazione e la cura materna si situa la nascita, che per l’autrice non è il felice esito di un mero atto riproduttivo. Di per sé, la parola “riproduzione” svilisce un evento importante e originale come la nascita. Osserva l’autrice:
Un bambino nasce in un contesto sociale, e dunque in un passato: ma è anche un inizio, un principio. Come può un concetto di «pratica materna» che trascenda il sesso essere riconciliato col rispetto della fertilità femminile? […] Come possiamo esaltare l’atto creativo della procreazione senza ricominciare a romanticizzare un legame istintivo, negando quindi le risposte ambivalenti di molte procreatrici verso i loro bambini […]? Rivolgere queste domande separando concettualmente il «lavoro procreativo» dalla pratica materna ho lo scopo di rendere onore a entrambi, e di fornire allo stesso tempo uno spazio concettuale ed emozionale per sollevare domande sulle loro interrelazioni.61
Tuttavia, la filosofa — almeno in Maternal Thinking — non sembrerebbe prestare sempre abbastanza “onore” e attenzione alla procreazione e alla gestazione.62 A suo giudizio, la gestante non presterebbe molte cure al feto,63 poiché le sue attenzioni, come l’acquisto di vestitini o di altro, sarebbero rivolte piuttosto al bambino che nascerà. Eppure, si può legittimamente ritenere che tali attenzioni configurino una “cura” e pertanto il sorgere di un pensiero materno. Nel curare in modo quanto mai metodico la sua salute, nel sottoporsi a procedure mediche non sempre piacevoli, come prelievi, accertamenti ed ecografie, la gestante si prende cura del feto che considera già «il suo bambino». Quando parla con le sue amiche delle speranze e dei timori legati alla sua condizione, molto di rado questa donna denomina “feto” l’essere che porta in grembo. Ne parla, piuttosto, come del suo bambino, quand’anche fosse docente di embriologia nella più prestigiosa università americana.
Certo, la gestazione è pure lavoro, come sottolinea l’autrice. Qui labor implica soprattutto fatica, sforzo, sacrificio, pena. Ogni minimo malessere della gestante può fare pensare al peggio. Il lavoro in parola coinvolge la complessione psicofisica della donna: la gestazione è un labor che impegna e appesantisce tutte le funzioni vitali. A quanto osserva la filosofa, si può aggiungere che le prime “richieste” rivolta dal nuovo essere alla gestante sono quelle che più ne aggrediscono il corpo con conseguenze irreversibili: il feto assume dalla madre tutte le sostanze che servono per la sua crescita. La donna perde quindi calcio, si possono manifestare in lei i primi segni di osteopenia o di osteoporosi, si può presentare o aggravare una carie dentale, le difficoltà del deflusso venoso possonofare apparire le prime inquietanti varici alle gambe, etc. Forse l’amore più “difficile” della madre comincia qui, nell’accettare il lavoro — che, come si è detto, si potrebbe considerare anche come cura — insito nella gestazione e l’aggressione al suo fisico da parte di un esserino così vorace. Non è ancora nato, eppure il piccolo ha già qualcosa da farsi perdonare dalla madre.64 .
D’altra parte, la donna può anche non avvertire la vocazione di madre, oppure decidere autonomamente quando è tempo di avere un figlio. Può rifiutarsi di procreare, e ai nostri giorni questo vale quanto mai prima grazie ai più diversi mezzi di contraccezione. Il potere della medicina moderna per quanto attiene alla facoltà di procreare è ancipite: può aiutare le coppie ipofertili a concepire un figlio e accondiscendere alle richieste di quelle fertili che non vogliono avere figli. Inoltre, la disparità di condizioni economiche sancisce un forte potere di disporre della propria capacità procreativa per le donne abbienti e, di converso, la soggezione al potere altrui della possibilità di procreare per quelle povere o portatrici di disagi psichici, le quali in alcuni paesi corrono il rischio di essere sottoposte alla sterilizzazione.
Il pensiero materno ha dinanzi a sé, tra l’altro, il compito di riflettere sulle motivazioni profonde del rapporto ambivalente della donna nei confronti del potere di procreare e di crescere i figli nel modo più adeguato nonché, in una prospettiva più ampia, di qualsivoglia altro potere. Si comprende che la madre aspiri a un maggiore potere nella sfera pubblica al fine di promuovere istituzioni sanitarie ed educative sempre più efficienti e concepite per rispondere ai problemi e alle esigenze proprie e dei bambini. Tuttavia, l’autrice ravvisa con disappunto nelle donne stesse, al contempo, una ritrosia, molto meno comprensibile, che le induce ad essere «spaventate dal potere»,65 sino a negare di desiderarlo.
Dentro le mura domestiche, è segnatamente il rapporto con una figlia ad evidenziare i limiti del potere della donna. La figlia instaura spesso un rapporto ambivalente con lei, non di rado conflittuale o competitivo. Ella deve quindi “imparare” ad essere realmente figlia, ovvero una persona che rispetta colei che l’ha messa al mondo e apprezza il pensiero materno, alla cui elaborazione anch’ella ha contribuito, con il suo stesso nascere e crescere. «Siamo tutti figli», ama dire Eva Feder Kittay, ma non tutti ne abbiamo una consapevolezza adeguata. Solo una figlia che provi rispetto per la madre potrà essere una madre «abbastanza buona».
7. Le nuove frontiere dell’esperienza parentale. La «cura paterna»
Si è detto che per Sara Ruddick anche un uomo può essere “madre”: può svolgere la cura materna e pertanto concorrere all’arricchimento del pensiero materno.66 Il suo stesso consorte ha svolto questo compito ed è pertanto considerato da lei quale co-madre.67 L’autrice non riferisce nulla riguardo al modo in cui il marito William ha elaborato questa esperienza, ovvero se si è sentito realmente co-madre.68 Forse, egli l’ha vissuta non attribuendosi questa identità “sopravvenuta”, ma da padre particolarmente responsabile, il quale non ha voluto accondiscendere agli stereotipi culturali che limitano la cura paterna dei bambini. Non è stato obbligato a farlo: i coniugi Ruddick erano entrambi docenti universitari e avrebbero potuto assumere le migliori nurses per i loro bambini.
William Ruddick ha così sperimentato gioie e difficoltà ancora poco note a tanti padri, meno fortunati perché lontani dalla famiglia per ragioni di lavoro o più insipienti in quanto ancora irretiti in quegli stereotipi, o semplicemente più pigri. A mio parere, nell’attribuire un carattere materno al padre che si prende cura dei figli, l’autrice formula una delle tesi più discutibili del libro. In fondo, perché non è plausibile pensare che un padre che curi costantemente i figli lo possa fare proprio in quanto padre? Perché assimilare la sua esperienza a quella materna? William Ruddick ha svolto i compiti che per lo più impegnano una madre, e forse lo ha potuto fare anche abbastanza bene, con altrettanto amore, ma con un timbro maschile irrefragabile, anche nelle espressioni di tenerezza nei confronti dei figli.
Ai giorni nostri, talora un uomo attento agli aspetti più minuti della cura dei figli viene designato ironicamente con il nomignolo “mammo”, ma qui l’ironia non riesce a dissimulare l’apprezzamento sociale sempre maggiore nei confronti di questo tipo “emergente” di padre. È appena il caso di dire che rispetto al tempo in cui l’autrice scrive, la cultura parentale è cambiata notevolmente in Italia come, e forse più, che in America. Oggi, anche all’interno della cultura latina, è sempre più frequente che il padre curi i suoi bambini per quanto attiene a tutte le loro esigenze, talvolta in modo paritario rispetto alla madre, e non di rado anche da solo.69
Forse le ragioni delle femministe — o, meglio, di tutte le donne — troveranno pieno riconoscimento sociale allorché i padri comprenderanno che fa parte della responsabilità che li riguarda ratione muneris occuparsi realmente della cura dei figli, e non solo se le mogli svolgono una professione extradomestica. Nell’ascrivere ai padri più responsabili la cura e il pensiero “materno”, forse Sara Ruddick non si avvede che tende a legittimare e perpetuare un uso linguistico legato agli stessi triti schemi mentali, così oppressivi per le donne, che una intellettuale femminista del suo rango non si stanca, a buon diritto, di stigmatizzare. In altri termini, se la cura parentale — la «cura materna», per la filosofa — è spesso ancora prerogativa della donna, nel migliore dei mondi possibili essa, in quanto equamente condivisa tra i genitori, non dovrebbe essere più qualificata esclusivamente “materna”. In un mondo siffatto troverebbero spazio sia la cura materna sia la paterna.
In effetti, i modelli di vita sempre più diffusi nel mondo occidentale favoriscono l’affermazione di una «genitorialità condivisa» nella cura. All’autrice, questa espressione non piace, perché può occultare — come talora, del resto, avviene pure ai nostri giorni — una ripartizione dei compiti tra i coniugi ancora iniqua per ciò che attiene alla cura dei figli.
Quanto al padre, per Sara Ruddick egli è spesso irretito da un mito della Paternità in virtù del quale egli sostiene economicamente la famiglia, le conferisce un determinato rango nella società e rappresenta il “mondo” all’interno delle mura domestiche. Si tratta di compiti che sono ancora in prevalenza attribuiti al padre, anche se la Paternità è stata demitizzata da tempo, e forse più di quanto ritenga l’autrice. Tali compiti non risultano sminuiti ma, di converso, attingono una motivazione ancora più forte allorché il padre si prende cura anche delle esigenze più elementari dei figli. E non è necessario essere osservatori particolarmente attenti della società odierna per constatare come sempre più spesso il padre assuma le gioie e le difficoltà di questa cura, talora per libera scelta talaltra perché vi è indotto dalle tormentate vicissitudini dell’istituto familiare, sempre più minato da separazioni e divorzi. Probabilmente questo padre può constatare un cambiamento del proprio modo di pensare in seguito all’esperienza della cura parentale. Se quando è diventato padre ha sperimentato il decentramento da sé che ogni genitore «abbastanza buono» avverte, quando comincia a prendersi costantemente cura dei figli questo decentramento si rivela ancora più significativo per la sua vita.
Molto più di prima, l’uomo che si prende realmente cura dei figli è in grado di intuire le esigenze non solo dei suoi bambini, ma anche dei congiunti, dei colleghi, degli amici e degli altri esseri umani che incontra nel lavoro professionale o di cura. Si arricchisce la sua capacità di ascolto e di empatia. Si va smorzando in lui l’egocentrismo che ha salde radici nella mente e nel cuore maschili, e che spesso la stessa cultura di appartenenza contribuisce ad accentuare, anche esaltando il mito della «virilità astratta», ovvero dell’uomo volto soprattutto al dominio, alla carriera e all’affermazione di sé, un mito che è fondatamente criticato dall’autrice di Maternal Thinking. Si potrebbe aggiungere che la virilità di questo padre, anzi, si rende finalmente “concreta”: non vi è nulla di altrettanto concreto del rispondere alle esigenze quotidiane, materiali e morali, di un figlio che cresce. E, pur immerso in questa concretezza, quest’uomo impara a considerare sub specie aeternitatis il valore di ciò che compie, oppure omette, per il figlio: all’interno del rapporto con lui, le conseguenze dei suoi atti e delle sue omissioni possono essere permanenti. La stessa Sara Ruddick nei momenti di difficoltà richiama alla mente quell’espressione di Spinoza più spesso delle affermazioni di Pierce o di Dewey, e fin da giovane sa bene che bisogna esaminare proprio sub specie aeternitatis le situazioni in cui si vive e i comportamenti da adottare. Dopo la scoperta del pensiero materno, questa convinzione non può che rinsaldarsi in lei.
In sintesi, la cura dei figli costituisce un arricchimento incomparabile del mondo interiore della madre e del padre. Nell’assumerla, probabilmente questi non diventa co-madre, come ritiene Sara Ruddick, ma eleva il valore etico della sua stessa paternità. In ogni caso, egli compie ciò per la filosofa americana molti padri potrebbero e dovrebbero compiere. Si può affermare che l’esercizio della cura parentale sia per la maturazione etica dell’uomo ancora più importante che per la donna. Forse per la sua complessione psicobiologica, o forse in conformità a un condizionamento culturale,70 la donna impara a porre in atto il decentramento da sé, che è precondizione della maturità etica, ancora prima di essere moglie e madre. Non è Sara Ruddick l’autrice di questa affermazione. È plausibile pensare, comunque, che la promotrice del pensiero materno non avrebbe manifestato alcuna difficoltà a sottoscriverla.
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S. Ruddick, Il pensiero materno. Pacifismo, antimilitarismo nonviolenza: il pensiero della differenza per una nuova politica, red, Como 1993, p. 13 (Maternal Thinking. Towards a Politics of Peace, Ballantine Books, New York 1989). ↩︎
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Dopo avere studiato all’Università di Harvard, Sara Elizabeth Loop Ruddick (1935-2011) insegnò per molti anni discipline filosofiche presso la New School of Social Research di New York, e per la sua attività didattica e di ricerca ottenne prestigiosi riconoscimenti da parte del mondo accademico. Nella foto in quarta di copertina de Il pensiero materno il suo volto appare dai tratti forti, tali da indurre a pensare che ella avesse un carattere particolarmente determinato. Al contempo il suo sguardo, pur particolarmente vivace, sembra guardare lontano, come il pensiero che l’autrice ha formulato. Sono consapevole del carattere meramente congetturale di queste osservazioni, né voglio abbozzare con esse un tentativo di indagine fisiognomica che, in quanto basata su una semplice fotografia, risulterebbe comunque di infimo tenore. ↩︎
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L’autrice riconosce di avere attinto importanti elementi di riflessione, confluiti nel pensiero materno, dal confronto con il gruppo di intellettuali denominato Womens’ Ways of Knowing («femministe che partono dal lavoro e dalle esperienze delle donne per formulare idee alternative in campo epistemologico e morale»: S. Ruddick, Il pensiero materno, p. 88, n. 2, capitolo “Il pensiero materno”). Il pensiero di queste autrici è compendiato nel volume di M. Belenky, B. Clichy, N. Goldgerber, J. Tarule, Womenx’ Way of Thinking, Basic Books, New Tork 1987. Nella stessa nota, Sara Ruddick manifesta anche vivo apprezzamento per le promotrici dell’etica della cura, e segnatamente per Carol Gilligan, Virginia Held, Eva Feder Kittay e Nel Noddings, Insieme a un’altra promotrice della care ethics, Joan Tronto, e ad altre intellettuali, Ruddick collabora al libro Mother Time. Women, Aging and Ethics, Rowman & Littlefield, Lanham 2013. Tra gli altri volumi collettanei ai quali l’autrice ha collaborato, menziono: Between Women: Biographers, Novelists, Critics, Teachers and Artists Write About Their Work on Women. Beacon Press, Boston 1984; Mother Troubles. Rethinking Contemporary Maternal Dilemmas, Beacon Press, Boston 1999. ↩︎
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«Gran parte delle opere femministe che concernono la storia e l’estetica letteraria contribuisce alla teoria della differenza. Non mi è possibile qui fare un elenco completo di tutte le numerose donne il cui lavoro sulla differenza ha influito sul mio[…]»:S. Ruddick, Il pensiero materno, p. 88. ↩︎
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A. Rich, Of Woman Born. Motherhood as Experience and Institution, Norton, New York 1976; Nato di donna, Garzanti, Milano 1996. ↩︎
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S. Ruddick, Il pensiero materno, p. 13. ↩︎
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Ivi, p. 41, nota 1 (capitolo “Il pensiero materno”). Qui l’autrice riconosce il suo debito intellettuale anche nei confronti di Richard Bernstein, autore di studi «sulla costruzione sociale della conoscenza» (per lei, anche il pensiero materno è una «costruzione sociale»), di Richard Rorty a di Jean-François Lyotard. ↩︎
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Tra le opere tradotte in italiano, segnalo G. Paley, Piccoli contrattempi del vivere. Tutti i racconti, Einaudi, Torino 2002 (The Collected Stories, Farrar. Straus and Giroux, New York 1994). Cfr. A. Accardo, L’arte di ascoltare. Parole e scrittura in Grace Paley, Donzelli, Roma 2012. ↩︎
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S. Ruddick, Il pensiero materno, p. 73. ↩︎
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Vedi E. Fox Keller, The Anomaly of a Woman in Physics, in Working It Out. S. Ruddick and P. Daniels edd., Pantheon, New York 1977. Ruddick assume comunque una distanza critica rispetto alla scienziata allorché scrive: «Evelyn Fox Keller afferma che non esiste una base sufficiente per identificare una precisa prospettiva filosofica delle donne» (S. Ruddick, Il pensiero materno, p. 25, nota 9 del capitolo “Le ragioni di un amore”). Cfr. E. Fox Keller, Reflections on Gender and Science, Yale University Press, New Haven 1985. ↩︎
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S. Ruddick, Il pensiero materno, p. 18 ↩︎
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Preferisco qui ricorrere al termine “pragmatismo”, anziché a «filosofia della prassi» per designare l’orizzonte filosofico nel quale si inscrive l’opera di Sara Ruddick. Mi discosto al riguardo dalla traduttrice di Maternal Thinking, Tiziana Valpiana, nella consapevolezza che il sintagma «filosofia della prassi» è tutt’altro che univoco e spesso designa indirizzi di pensiero ben diversi dal pragmatismo, per quanto attiene alla matrice geografica e alla prospettiva teorica. ↩︎
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«Le teorie nascono e sono sottoposte a verifica dalle prassi, attività collettive umane distinte in base agli scopi che le identificano, e a seconda delle richieste cui è sottoposto chi, adottandole, vi si dedica. Le mete e gli obiettivi che definiscono una prassi sono così centrali ed “essenziali” che senza di loro essa non potrebbe nemmeno esistere. È proprio questa dipendenza intrinseca che voglio mettere in rilievo quando affermo che impegnarsi in un certo tipo di pratica significa dedicarsi a soddisfarne le richieste. Perseguendo determinati obiettivi e dando senso al loro conseguimento si creano più o meno consciamente delle prassi. La consapevolezza dà forma più completa all’obiettivo, così come il conseguimento pratico del fine dà forma alla consapevolezza»: S. Ruddick, Il pensiero materno, p. 26. ↩︎
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Ivi, p. 103. ↩︎
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Dopo avere letto Il pensiero materno, avevo progettato un articolo che lo prendesse in considerazione nella sua interezza. Nel lavoro di scrittura, mi sono reso conto, come non mi era mai successo nello studio di altri autori, che mi riusciva particolarmente difficile proporre, nei limiti di ampiezza di un articolo, una sintesi delle tesi principali dell’opera. Mi sono pertanto limitato a esaminare i temi presentati nella prima parte del volume. La riflessione di Sara Ruddick è molto articolata, e ogni sintesi, in qualche modo, “disarticola” il testo studiato. Inoltre, le argomentazioni addotte dall’autrice a sostegno della rilevanza politica del pensiero materno, qui solo accennate, meritano un esame analitico che ne ponga in luce i punti di forza come le affermazioni più discutibili. Ancora, la lettura di questo libro — a quanto mi sembra, più di altri testi filosofici - induce lo studioso non solo a criticarne le tesi, ma a tentare di integrarne le argomentazioni con riflessioni personali. Preciso che ho scritto queste pagine «con timore e timore», nella consapevolezza di non essere genitore, e pertanto ben poco qualificato a occuparmi del maternal thinking. Se l’autrice, in quanto madre, crede fondatamente di intuire le ragioni che sostengono la cura delle altre madri (ivi, p. 85), lo scrivente può solo inferire tali ragioni, e in modo molto precario, dall’osservazione del comportamento dei genitori che gli sono più vicini. Pur essendo così poco qualificato, mi è si rivelato più agevole e “naturale” che negli studi precedenti proporre qui delle considerazioni personali. Confido che in queste vi possa essere del vero, poiché, sebbene io non sia padre, sono figlio, e ogni figlio dotato di una normale attitudine all’empatia comprende, almeno da adulto, molte delle ragioni che hanno indotto i genitori a determinati comportamenti nei suoi confronti. Può così risalire ai principi ispiratori del pensiero materno (e paterno) che lo riguarda più da vicino. Anche il figlio è più di un mero osservatore del pensiero materno, che peraltro non avrebbe alcuna ragion d’essere se egli non fosse venuto al mondo. ↩︎
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Ivi, p. 21. ↩︎
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Ivi, p. 86. ↩︎
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Ivi, p. 20. ↩︎
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Ivi, p. 29. ↩︎
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Ivi, p. 19. ↩︎
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Vedi E. F. Kittay, Love’s Labor. Essays on Women, Equality and Dependency, Routledge, New York 1999: La cura dell’amore. Donne, uguaglianza, dipendenza, Vita e Pensiero, Milano 2010. ↩︎
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Queste considerazioni richiamano alla mente un episodio di un celebre film americano, nel quale Doris Day interpreta Calamity Jane. Costei vive da sola e ha adottato uno stile di vita maschile, sa cavalcare, usare la pistola e fare le mille altre cose che servono a sopravvivere in un modesto villaggio del West. La sua casa è trasandata e disordinatissima: non si è mai curata di “rigovernarla”. Un giorno vi ospita una signora molto fine che proviene da una grande città. Forse per la prima volta nella sua vita, Calamity si accorge che la sua casa è in disordine e prova un certo disagio. La sua ospite la rassicura. La casa potrà essere “rigovernata” e lei l’aiuterà proprio in questo. La signora è di parola, e in breve tempo aiuta Calamity a trasformare la sua catapecchia in una casetta linda e graziosa. Per compiere l’impresa basta «la mano di una donna» (A Woman’s Touch, è il titolo della canzoncina che le due donne cantano mentre trasformano la casa da cima a fondo). ↩︎
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Nel mondo occidentale, proprio questa forma più modesta del pensiero materno può agevolmente essere condizionata dagli spot pubblicitari, come quelli sul detersivo più economico o sull’ammorbidente più efficace. ↩︎
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24«Considero la richiesta di protezione una richiesta universale dei figli rivolta al mondo, un diritto intrinseco alla nascita che, in tutto il mondo, madri di diverse culture cercano di soddisfare»: ivi, p. 73. Il riconoscimento di tale richiesta del bambino da parte della madre costituisce la fonte dell’ulteriore richiesta di riconoscimento della identità e della cura materne, che la madre rivolge alla società e alla politica. Si colgono qui dei cenni alla rilevanza politica di tale cura, ampiamente tematizzata in altre pagine del libro. In estrema sintesi, e in una forma non del tutto perspicua, l’autrice scrive: «[…] con una certa provocazione, mi riferisco a una “identità materna”» alla quale mi appello in nome di una politica di pace. Affermare l’identità materna non significa fare una generalizzazione empirica, ma impegnarsi in un atto politico» (ibidem). Se, come riconosce la stessa filosofa, persino la pratica materna è soggetta talora a mentalità tribali o razziste, è anche vero che essa può costituire per la donna la più cogente motivazione a lottare affinché tutti i bambini godano della protezione necessaria e vivano in una nazione in pace con le altre. Ogni lesione al diritto a tale protezione fa violenza alla “promessa” di cura che la madre compie, non con le parole ma per fatti concludenti, allorché accoglie con gioia la nascita del suo bambino. La terza sezione del libro di Ruddick vale a chiarire il senso di queste affermazioni. ↩︎
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«Le madri vogliono che i propri figli diventino persone che loro stesse e chi è più vicino a loro possano felicemente apprezzare: e questa esigenza conferisce all’esistenza quotidiana di una madre una sollecitazione e un’urgenza che a volte risultano stimolanti, altre volte dolorose o spiacevoli» : ivi, p. 34. ↩︎
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Ivi, p. 75. Qui l’autrice apprezza il pensiero e l’opera di Bernice Reagon, femminista e musicista di colore. ↩︎
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Ivi, pp. 31-32. ↩︎
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Vedi E. F. Kittay, La cura dell’amore, cit., pp. 293-327.. ↩︎
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S. Ruddick, Il pensiero materno, p. 94. ↩︎
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M. Zambrano, Para una historia de la Piedad, “Lyceum”, La Habana, n. 17, 1949; Per una storia della pietà, “aut aut”, n. 279, 1997, p. 65. ↩︎
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Forse la madre prova delle pulsioni aggressive nei confronti del suo bambino altrettanto frequentemente del padre. Tuttavia, a quanto riportano le cronache, è quest’ultimo a compiere meno di rado gesti violenti sul figlio. Al riguardo, i biografi di padre Pio di Pietrelcina riportano un episodio inquietante, per fortuna senza conseguenze permanenti. Pare che il piccolo Pio piangesse a lungo quasi ogni notte, tanto che il padre riusciva a dormire solo per pochissime ore. Una notte, al culmine dell’esasperazione, l’uomo prese il bimbo dalla culla e lo scaraventò per terra. Il bambino non riportò alcun danno. I biografi aggiungono che da allora in poi il piccolo dormi placidamente ogni notte. ↩︎
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S. Ruddick, Il pensiero materno, p. 97. Vedi I. Murdock, Sovereignty of Good, Schocken, New York 1971. Per la filosofa irlandese l’umiltà sorge dalla consapevolezza di non potere dominare il mondo. Segnalo l’edizione italiana dell’opera, La sovranità del bene, Carabba, Lanciano-Ch 2005. ↩︎
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I. Murdoch, Sovereignity of Good, cit., p. 95, rip. in S. Ruddick, Il pensiero materno, p. 98. ↩︎
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S. Ruddick, Il pensiero materno, p. 103. ↩︎
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«[ Il contenimento è] l’inclinazione stimolata dal lavoro di «protezione, conservazione, rappezzamento del mondo […]», ibidem. L’espressione qui riportata è tratta dal saggio di Adrienne Rich, Conditions for Work: The Common of Women, in Id., Lies, Secrets and Silence, Norton, New York 1979, p. 205 (ed. it.: Segreti, silenzi, bugie, La Tartaruga, Milano 1982). L’espressione «rappezzamento del mondo» richiama alla mente il sintagma «riparare il mondo», traduzione dell’ebraica tiqqun ‘olam. Come ha scritto lo studioso del pensiero ebraico Massimo Giuliani, all’interno di tale pensiero quest’ultima designa un attitudine fondamentale ispirata, più che dalla fede in Dio, dalla fiducia nell’uomo, al quale è affidata la cura del mondo. Proprio Tiqqun. Riparare il mondo è il titolo dell’edizione italiana di un libro di Emil Fackenheim, pubblicata presso Medusa, Milano 2010 (To Mend the World. Foundations of Future Jewish Thought, Schocken Books, New York 1982). ↩︎
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Ivi, p. 34. ↩︎
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L’espressione, che si legge nella parte quarta dell’Ethica di Spinoza, è riportata in S. Ruddick, Il pensiero materno, p. 99. ↩︎
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Ivi, p. 100. ↩︎
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Ivi, p. 101. ↩︎
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Per l’autrice, la madre «quando combatte [la natura] è come una nonviolenta gandhiana che si rifiuta di separarsi dall’avversario con cui dovrà vivere e lavorare una volta terminata la lotta»: ivi, p. 102. ↩︎
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Vedi ivi, pp. 106-107 (nota 9 del capitolo “L’amore protettivo”). ↩︎
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Ivi, p. 102. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 99. ↩︎
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Al riguardo, l’autrice considera particolarmente significativa l’opera della filosofa femminista francese Élisabeth Badinter Mother Love. Myth & Reality, Macmillan, New York 1981. Ed. originale: L’Amour en plus histoire de l’amour maternel. XVIIe- XXe siècle, Flammarion, Paris 1980; ed. it.: L’amore in più. Storia dell’amore materno. Secoli XVII-XX, Fandango Libri, Roma 2012. Per Badinter, l’«amore in più» costituito dal cosiddetto sentimento materno non ha un solido fondamento biologico, ma è soprattutto un costrutto culturale, ed è pertanto soggetto a continue evoluzioni. Si comprende agevolmente come la tesi centrale del libro abbia potuto suscitare un vivace dibattito nella cultura del tempo. ↩︎
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S. Ruddick, Il pensiero materno, pp. 39-40. ↩︎
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Ivi, p. 37. ↩︎
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Ivi, p. 51. ↩︎
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Vedi ivi, p. 47. ↩︎
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Ivi, p. 44. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Vedi É. Badinter, L’Amour en plus, cit. ↩︎
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Tale sintagma si riscontra con significativa frequenza nel libro del fenomenologo catalano J. Xirau, L’amor i la percepció dels valors, Faxultat de Filosofia i Lletres i Pedagogia, Universitat de Barcelona, Barcelona 1936,ora in Obras Completas I, Caja Madrid-Madrid y Anthropos-Barcelona 1998; ed. it.: L’amore e la percezione dei valori, Morcelliana, Brescia 2013. ↩︎
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«Ciò che ci compiacciamo di chiamare “amore materno” è qualcosa in cui si mescolano anche sentimenti come odio, dolore, impazienza, risentimento e disperazione: questa ambivalenza è proprio il segno distintivo della pratica materna»: ivi, p. 92. Qui l’autrice si approssima al linguaggio di Adrienne Rich in Of Woman Born. ↩︎
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Ivi, p. 94. La filosofa aggiunge: «Invece di separare la ragione dai sentimenti, la pratica materna rende la riflessione sui sentimenti una delle conquiste più difficili della ragione; i sentimenti richiedono riflessione, che a sua volta viene verificata dall’azione, che infine torna a essere verificata dai sentimenti che determina» . Si rinviene anche qui il rapporto reciproco, transazionale, tra prassi e teoria posto in rilievo proprio del pragmatismo dell’autrice. Sembra che i sentimenti valgano a catalizzare tale rapporto: dalle difficoltà della prassi sorgono i più diversi sentimenti spiacevoli che fanno appello alla ragione, affinché ne chiarisca la natura e l’origine, ed elabori una nuova modalità di prassi; questa sarà giudicata più adeguata della precedente se i risultati saranno soddisfacenti e in grado di suscitare sentimenti positivi. ↩︎
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Ivi, p. 46. ↩︎
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Ivi, p. 48. ↩︎
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Ivi, p. 50. Louise Kapp Howe è stata una studiosa di scienze sociali nonché autrice del libro, citato da Sara Ruddick, Pink Collar Workers: Inside the World of. Women’s Work, Avon Books, New York 1977. L’espressione «colletti rosa», ormai desueta, era riferita alle donne che svolgevano un lavoro tradizionalmente ritenuto “femminile”. ↩︎
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In realtà, l’allattamento è quasi sempre legato al sesso femminile. La letteratura medica riferisce diversi casi di padri che hanno allattato. Nell’uomo, la lattazione può essere indotta non solo dalla somministrazione di estrogeni, ma anche di farmaci che agiscono sul metabolismo di un neurotrasmettitore, la dopamina. Si tratta di farmaci tra i cui effetti collaterali figura un abnorme incremento del tasso ematico di prolattina; essi sono prescritti per la terapia della psicosi, di alcuni disturbi dell’umore (la “distimia”, ad esempio) nonché di disturbi psicosomatici che interessano i più svariati organi e apparati. ↩︎
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Al riguardo, Sara Ruddick menziona il saggio di Eva Feder Kittay, Womb Envy: An Explanatory Concept, in Mothering: Essays in Feminist Theory, Joyce Trebilcot, Roman and Allenheld edd., Totowa, New Jersey 1984. ↩︎
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S. Ruddick, Il pensiero materno, cit., p. 67. ↩︎
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È significativo che la stessa autrice ammetta: «Non mi sono riproposta di scrivere a proposito della procreazione, ma di minimizzare la sua importanza in rapporto alla pratica materna. Solo ora sto cominciando a ripensare alle implicazioni che la procreazione determina per tutte le donne in generale»: ivi, p. 79, nota 23 del capitolo “’ La Madre’ ”. ↩︎
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«I neonati non potrebbero sopravvivere se ricevessero dalle loro madri così poca attenzione come quella che la maggior parte delle gravide dà al feto che ha in grembo»: ivi, p. 68. ↩︎
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Per sovrappiù — horribile visu - dopo il parto possono apparire le prime smagliature all’addome. ↩︎
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Ivi, p. 53. ↩︎
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L’autrice apprezza l’attenzione prestata da Nel Noddings a questo tema e scrive: «Nel Noddings ci offre una delle più profonde dissertazioni che abbia mai letto sul problema del rapporto dei padri (o come io direi piuttosto, delle madri maschi) con il pensiero materno. N. Noddings è particolarmente interessata alla possibilità che gli uomini sappiano offrire versioni particolari del pensiero parentale non materne. Sono d’accordo sul fatto che il pensiero materno cambierà quando gli uomini vi saranno pienamente coinvolti, e anche sul fatto che le femministe dovrebbero mantenere un atteggiamento agnostico circa i possibili effetti delle diversità fisiologiche in un mondo totalmente egualitario»: ivi, p. 78, nota 18 del capitolo “ ‘La ‘Madre’”. Qui l’autrice menziona il saggio di Noddings Shaping an Acceptable Child, in Learning for a Lifetime: Moral Education in Perspective and Practice, A. Garrod ed, University Press of New England, Hanover, New Hampshire 1989. Ruddick afferma di essere d’accordo con Noddings, sebbene scriva che per la collega i padri impegnati nella cura possono «offrire versioni particolari del pensiero parentale non materne». Il lettore rileva che in realtà non vi è un pieno accordo tra le due autrici, perché solo Noddings — a mio giudizio, realisticamente — attribuisce ai padri la possibilità di elaborare un loro, originale, pensiero della cura, ovvero un «pensiero parentale non materno». ↩︎
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Vedi S. Ruddick, Il pensiero materno, p. 71. ↩︎
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L’autrice, comunque, cita talora i saggi del marito, ora professore emerito di filosofia e bioetica presso la New York University e apprezza le riflessioni del consorte sugli aspetti più rilevanti dell’esperienza vissuta dalla gestante (W. Ruddick, Are Fetuses Becoming Children? In Biomedical Ethics and Fetal Therapy. C. Nimrod and G. Griener edd., Calgary Institute for the Humanities, Wilfred Laurier University Press, Calgary 1988). ↩︎
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Non va dimenticato che sino alcuni decenni or sono, nella gran parte delle famiglie contadine del nostro paese il padre non si occupava quasi mai degli aspetti più concreti della cura quotidiana dei figli, e tanto meno della cura della casa. D’altronde, nei casi estremi, per soddisfare le sue esigenze più banali il capofamiglia era del tutto dipendente dalla moglie: talvolta non era neppure capace di prepararsi un caffè. Al tempo, lo studio delle dinamiche relazionali tra tali coniugi poteva quindi indurre a riflettere sulle vicissitudini della dialettica servo-padrone quasi come la lettura delle più celebri pagine della Fenomenologia dello spirito di Hegel. ↩︎
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Se è vero che, soltanto dopo oltre tre secoli di tentativi, l’ultimo teorema (o “congettura”) di Fermat è stato dimostrato dal matematico Andrew Wiles, non è dato sapere quanti secoli trascorreranno prima che al problema costituito dal rapporto natura-cultura nell’essere e nella vita della donna (e dell’uomo) si trovi una risposta che soddisfi tutta la comunità scientifica. In verità, tale risposta non sarà mai trovata, poiché si tratta di un mistero piuttosto che di un problema. È appena il caso di dire che per Sara Ruddick, la realtà della donna — da considerare sempre in rapporto alla cultura di appartenenza, come donna statunitense, francese, inglese, etc. — è costituita, più che da fattori psicobiologici, dai processi storico-sociali. Con riguardo all’estrema difficoltà di universalizzare la nozione di “donna”, e alla possibilità di avvalersi nella cultura femminista della «categoria politica “donne”» (S. Ruddick, p. 79, nota 24, cap. «La Madre») l’autrice rimanda al libro della filosofa Elizabeth Spelman Inessential Woman: Problems of Exclusion in Feminist Thought, Beacon Press, Boston 1988. ↩︎